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Autore: RedDisposition    02/10/2014    0 recensioni
Era una fredda giornata di settembre nella mia città, una tranquilla cittadina alla periferia di New York, Weehawkeen era la classica periferia, tutti conoscevano tutti e non c’erano mai casi strani come omicidi o scomparse, era un semplice paese lontano dalle luci offuscate di New York, e io ci vivevo bene. Camminavo come al solito fra i corridoi del Weehawkeen High School, fra una lezione e l’altra non mi capitava mai di parlare con qualcuno, tutte le mie amiche occasionali avevano le proprie migliori amiche, erano fatte così, venivano da me quando l’altra non c’era, ero la ruota di scorta insomma. Arrivai al mio armadietto con ancora gli auricolari nelle orecchie, non mi interessava se la preside mi avrebbe visto, in quei due anni ci ero stata tante di quelle volte nel suo ufficio che ci avevo fatto l’abitudine, mi chiamava ribelle, ma io mi limitavo semplicemente ad essere me stessa e a far capire alle persone quando una cosa mi piaceva o no –Janet!- sentii il mio nome urlato da qualcuno e mi guardai intorno, quasi dimenticavo, mi chiamo Janet, ma tutti mi chiamano J oppure Jane.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                                                               For my Best Friend 

Ero quel tipo di ragazza che sorride ogni volta che vede qualcuno, che abbraccia tutti. Ero la classica ancora di tutti ma mare di nessuno. Ascoltavo tutti, ma nessuno ascoltava me. Andavo al secondo anno di liceo della mia città in quel periodo, quando arrivò una ragazza nuova, aveva il mio stesso nome, stessi capelli ricci ribelli e stesse labbra carnose, anche se a lei erano molto più grandi, la cosa che ci differenziava di più erano gli occhi. I miei erano sempre stati neri, neri come la pece, come un pozzo o una miniera di carbone, i suoi erano cioccolato, di un cioccolato caldo e accogliente, quando il sole li colpiva diventavano più chiari e accesi, notavo spesso che come me aveva una piccolo cerchio all’estremità dell’iride che era più scuro e a differenza del resto rimaneva scuro anche sotto la luce forte del sole. Non so perché conoscevo così bene i suoi occhi, ma la prima cosa che feci quando la incontrai fu quella, guardarla negli occhi, ognuno di noi ha una capacita, c’è chi è bravo in matematica o chi inventa barzellette divertenti, io ad esempio ero in grado di capire le persone dagli occhi, sapevo se stavano bene o se stavano male, mi bastava un cenno e capivo cosa succedeva. Quando incontrai la ragazza nuova mi successe la stessa cosa.
 
Era una fredda giornata di settembre nella mia città, una tranquilla cittadina alla periferia di New York, Weehawkeen  era la classica periferia, tutti conoscevano tutti e non c’erano mai casi strani come omicidi o scomparse, era un semplice paese lontano dalle luci offuscate di New York, e io ci vivevo bene. Camminavo come al solito fra i corridoi del Weehawkeen High School, fra una lezione e l’altra non mi capitava mai di parlare con qualcuno, tutte le mie amiche occasionali avevano le proprie migliori amiche, erano fatte così, venivano da me quando l’altra non  c’era, ero la ruota di scorta insomma. Arrivai al mio armadietto con ancora gli auricolari nelle orecchie, non mi interessava se la preside mi avrebbe visto, in quei due anni ci ero stata tante di quelle volte nel suo ufficio che ci avevo fatto l’abitudine, mi chiamava ribelle, ma io mi limitavo semplicemente ad essere me stessa e a far capire alle persone quando una cosa mi piaceva o no –Janet!- sentii il mio nome urlato da qualcuno e mi guardai intorno, quasi dimenticavo, mi chiamo Janet, ma tutti mi chiamano J oppure Jane. Vidi una ragazza avvicinarsi pericolosamente a me, non l’avevo mai vista, iniziai a chiedermi cosa volesse, aprii l’armadietto nell’attesa del suo arrivo e mi caddero dei libri, mi chinai per prenderli e vidi la ragazza sorpassarmi, la guardai cercando di capire se la conoscevo, aveva i capelli lunghi biondi, delle lentiggini evidenti sulla pelle candida e degli occhi azzurri pieni di stupore, la vidi avvicinarsi ad una ragazza e  mi resi conto che fosse una mia omonima. Posai di nuovo i libri nell’armadietto e con il mio Iphone nuovo di zecca continuai ad ascoltare Partition di Beyoncè, non ero il tipo di ragazza che si vantava di avere oggetti costosi, non lo volevo neanche l’Iphone, ma mia madre aveva insistito così tanto  che non potei rifiutare, mia madre era il mio effetto contrario.
-Non puoi sentire la musica a scuola Jane- il quarterback della squadra di football mollò un ceffone sul mio cellulare facendolo cadere, alzai gli occhi al cielo e lo raccolsi –sparisci scimmione- il ragazzo mi sorrise divertito e se ne andò, non era un atto di bullismo, io e quel tizio eravamo stati amici al tempo delle medie e ora si divertiva a farmi scherzi, ma non aveva mai provato a farmi del male, in quella scuola io ero la ragazza strana, quella che i tuoi non vogliono farti frequentare, ecco perché mi stupii quando qualcuno mi toccò una spalla –tutto bene?- la ragazza nuova mi sorrideva e con una mano si era tirata su un paio di occhiali che le scivolavano dal naso, notai il neo che aveva come quello di Marylin e sotto quella coltre folta di capelli intravidi un sorriso splendente –si è tutto ok- risposi fredda avviandomi –hei aspetta- la ragazza mi corse dietro facendomi sbuffare –io sono Janet- mi sorrise allungandomi una mano, fissai lo sguardo sulla mano tesa e rimasi a pensare se stringerla o no, era il mio comandamento rimanere fredda e acida per tutto il tempo, indossavo quella corazza da anni, per farmi rispettare, il nostro istituto era il classico liceo americano dove si è suddivisi in caste, al primo posto le cheerleader e i giocatori di football e all’ultimo i nerd sfigati, io non facevo parte di nessuna delle cerchie, nonché la mia famiglia si battè molto per convincermi ad entrare nelle cheerleader, ero quella che viene definita una Bad Girl, musona e silenziosa.
Tornai a guardare il viso della ragazza che vedendomi titubante si spense un po’ –Janet- le strinsi la mano sorprendendola –abbiamo lo stesso nome!- urlò esaltata, alzai un sopracciglio e sorrisi falsamente –che sorpresa- mi limitai ad accennare.
 
-Janet svegliati!- mi arrivò una cuscinata dall’altra parte della stanza che mi fece sobbalzare –cosa vuoi? Lasciami dormire- richiusi gli occhi cercando di addormentarmi –andiamo lo sai che giorno è oggi?- Janet si mise davanti al mio letto con la testa di lato, nel suo pigiama a cuori –è domenica e domani è lunedì e si torna a scuola, lasciami dormire in santa pace- sentii uno sbuffo ed aprii un occhio, sorrisi vedendo il suo viso imbronciato, quel pigiama che avevo trovato fra le cose di mia sorella era l’unico che le stava, aveva il fisico molto più slanciato del mio, e in più non aveva quelle enormi spalle da nuotatrice che mi ritrovavo io –va bene, sono sveglia- mi misi a sedere sbadigliando, avevo i capelli che andavano di qua e di là, lo sapevo, mi svegliavo sempre in quel modo la mattina, soprattutto quando lei rimaneva a dormire da me, succedeva di solito ogni sabato sera, alternavamo la casa di una e dell’altra, era un anno che andavamo avanti il quel modo, non mi ritrovavo a camminare sola per i corridoi e soprattutto non ero la ruota di scorta di nessuno –non vuoi sapere che giorno è oggi?- Jane si apprestò ad aprire le tende per far entrare la luce nella mia stanza –lo so che giorno è oggi- sbadigliai –è il due ottobre- Jane saltellò e si catapultò ad abbracciarmi –buon mesiversario, cioè anniversario- sghignazzò vicino al mio orecchio mentre mi ritrovavo ad alzare gli occhi al cielo, odiavo quando riusciva a rompere la mia corazza –non devi ricordarli tutti, siamo migliori amiche non fidanzate- Janet scoppiò a ridere allontanandosi dalla mia spalla –andiamo a fare colazione da Starbucks?-  mi alzai e stiracchiandomi mi avviai in cucina –ti rendi conto che il più vicino si trova a Madison Square?- Janet annuì –sono andata a lavoro, ho lasciato le chiavi della macchina in caso vorreste uscire- mi lesse il biglietto ad alta voce lasciatomi  da mia madre sul frigorifero –andiamo ci ha lasciato anche le chiavi della macchina- Janet me le mostrò, la guardai un attimo e avviandomi verso  il bagno per farmi una doccia le feci gesto di seguirmi –come ci arriviamo a Madison Square? Stiamo dall’altra parte della città- mi fece un gesto con la mano sbuffando –hai la patente J., sedici anni compiuti quattro mesi fa- sbuffai e dopo poco annuii –va  bene, basta che farai scegliere me che canzone mettere- sentii un urletto di  consenso e mi feci una doccia.
 
Sbuffai chiudendo di botto il libro di storia Americana, mi massaggiai le tempie e guardai per la millesima volta la buca delle lettere –Hei J- mi girai e dall’altro lato della strada spuntò la mia migliore amica, aveva appena chiuso lo sportello di una grande Mercedes –che ci fai con quell’auto?- Jane corse verso di me e mi mostrò la patente – ti presento la Janet neopatentata- le sorrisi e la strinsi facendola entrare, mi risedetti al tavolo della mia cucina e continuai a sottolineare il paragrafo che parlava della rivoluzione americana – stai studiando?- annuii leggermente alzando lo sguardo su di lei, era cresciuta davvero tanto rispetto a quando l’avevo incontrata, aveva solo quattordici anni e io quindici, e ora ne aveva sedici e io ovviamente diciassette, ricordo quanto amasse indossare quei vestiti a fiori semplici da ragazza sempre sorridente e felice, ora quei vestitini si erano trasformati in jeans attillati e felpe con tigri e diverse scritte sul petto, aveva tolto gli occhiali iniziando ad indossare le lenti a contatto, le labbra erano cresciute con lei e quel neo alla Merylin stava ancora al suo posto, ero cambiata anche io, me ne ero accorta, ai miei jeans strappati, alle mie camice a quadroni e alle mie scarpe di ginnastica si erano opposti i vestiti attillati e i tacchi, mia madre diceva che ero cresciuta, dovevo considerarmi una donna, ed iniziai a farlo, non perdendo mai il mio stile, non vestivo sempre in quel modo, ovvio, spesso, quando mia madre non poteva vedermi, mi permettevo il lusso di indossare una camicia di Jeans con sotto una canotta, non avevo più l’aria da ribelle, i miei capelli castani ricci erano stati domati, mi avevano sempre cercato di convincere a farli lisci con una stiratura ma io avevo sempre scelto di averli ricci. Jane invece ai suoi capelli si era aggiunta una rasatura sulla nuca, che io non approvavo per niente –molla tutto ed usciamo, ti farà bene- disse dopo qualche secondo di silenzio che avevo passato a leggere a bassa voce –devo studiare e sto aspettando che arrivi la lettera della Brown- la Brown, il college di famiglia, tranne che di mio padre che aveva frequentato Harvard, io li odiavo entrambi, ma non volevo che mia madre lo sapesse, così, proprio come fece mia sorella mi limitai ad accettare la domanda per entrarci –ma se neanche ci vuoi andare- la fulminai con lo sguardo –non posso deludere mia madre- Janet scosse la testa –deludi te stessa però- sbuffai e decisi che ormai non aveva senso continuare a studiare –sarà meglio parlarne fuori, guido io- le presi le chiavi dalle mani e ci avviammo all’auto.
-perché non fai guidare me?- la guardai un attimo e tornai a posare lo sguardo sulla strada –hai appena preso la patente- Janet annuì e si slacciò la cintura per potersi girare contro di me –allora, vuoi andare alla Brown perché non vuoi deludere tua madre oppure perché hai troppa paura di seguire i tuoi sogni?- sussultai a quelle parole e la guardai un attimo, come faceva ad aver capito tutto –la Brown non è il tuo sogno J. Tu non vuoi passare la vita a fare la moglie di qualche ricco imprenditore di Manhattan- la guardai un attimo e sorrisi debolmente –è quello che vuole la mia famiglia da me- Janet scosse la testa –tu devi andare a Yale- la guardai perplessa –non voglio fare l’avvocato- lei scosse la testa e continuò –a Yale ci sono buoni corsi di scrittura- mi girai di scatto verso di lei, come faceva  a sapere che il mio sogno era di essere una scrittrice? Non ne parlavo mai con nessuno, era il mio piccolo grande segreto –come fai a saperlo?- le chiesi in un sussurro –quando scrivi anche un misero messaggio ti estranei dal mondo- le sorrisi debolmente e da lì a quando non fermai la macchina ci fu silenzio –dove siamo?- si guardò intorno –vado a prendere il modulo per la domanda a Yale- Janet mi sorrise e rimase ad aspettare in auto.
 
-ci vediamo domani Jane- salutai con il cenno della mano la mia compagna di corso e mi avviai all’entrata del campus per uscire a bere un caffè che non sia prodotto a Yale. Mi fermai ad una caffetteria non tanto lontana da casa, avevo un appartamento a New Haven, quando dichiarai alla mia famiglia di volere andare a Yale e non alla Brown o a Harvard non ne furono delusi, ma neanche tanto felici da fare i salti di gioia, quando fui accettata mia madre si assicurò che io avessi un appartamento tutto per me, non voleva che condividessi la stanza con qualcuno, credeva che abbandonassi lo studio per fare festini, quello che non sapeva era che ora che avevo un appartamento i festini li facevo anche di più, se lo sapesse mi avrebbe ucciso già da tempo. Appena entrai nella caffetteria mi tolsi il mio sciarpone e mi sedetti ad un tavolo prendendo il mio cellulare, guardai lo sfondo dove c’era impressa la foto di me e Janet e sorrisi, non ci vedevamo da qualche mese, e quel giorno era importante, nonostante tutti gli anni facessi finta di dimenticarlo –mi scusi questo posto era occupato- sentii una voce abbastanza squillante fare capolino dal mio tavolo –ma se non c’era n…- le parole mi morirono in gola appena alzai lo sguardo, la vidi e mi alzai per abbracciarla –che ci fai qui- Janet si staccò sorridendomi, aveva sempre quel sorriso splendente –è il due ottobre- io annuì e le sorrisi a mia volta, notai che sulle gengive degli incisivi centrali c’erano due palline di ferro –hai fatto un piercing?- quasi le urlai contro prendendola per il polso e portandola fuori, indossai la sciarpa e mi ci rintanai dentro –si perché?- mi passai una mano su un viso –come ti è venuto in mente? Jane toglilo subito!- scoppiò a ridere –sembri mia sorella maggiore- risi anche io avviandoci verso casa –è come se lo fossi, potevi avvisarmi se farlo- Janet alzò un sopracciglio –sbaglio o eri tu la ribelle?- Sbuffai mettendo le chiavi nella serratura –lo ero al liceo- Janet mi sorrise –e si vede- passò lo sguardo su tutta la mia figura e sulla casa, era un ambiente elegante e addosso avevo uno di quei vestiti che usavo per le lezioni, uno di quelli che mi aveva consigliato mia madre –sono cresciuta non potevo vestirmi con jeans strappati e felpe per sempre- Janet mi guardò e scoppiò a ridere –tua madre ti ha contagiata- le mollai uno spintone –credo invece che tu ti sia fatta contagiare dalla vecchia me- mi sorrise –allora perché sei qui?- Janet si affacciò alla finestra rimanendo per qualche secondo a fissare il campus che si estendeva a pochi isolati, anche io la prima volta rimasi a guardare la grandezza di Yale –ho fatto domanda per il college- mi guardò con gioia negli occhi –lo so, alla Columbia- Janet tornò a guardare la finestra –mi hanno presa a Yale- sbarrai la bocca e rimasi immobile sul divanetto del salone –vuol dire che verrai qui?- riuscii a biascicare parola dopo poco –si, ti dispiace?- scossi la testa e mi alzai per andare ad abbracciarla.
Quel giorno non potevo neanche immaginare cosa potesse aspettarmi ancora la vita, la stavo per passare con la mia migliore amica in giro per il mondo, con migliaia di copie dei miei libri da firmare, mentre lei mi faceva da manager.
Ero quel tipo di ragazza che sorride ogni volta che vede qualcuno, che abbraccia tutti. Ero la classica ancora di tutti ma mare di nessuno. Eppure in torno a me avevo l’oceano.


 
                              "Io e te siamo la dimostrazione che non tutti                                          i disastri sono irreparabili"
                      
  
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