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Autore: charliesstrawberry    02/10/2014    2 recensioni
Harry, per esempio, ci crede sul serio. Non è il tipo di ragazzo che frequenterebbe lo studio di uno psicologo, ha pensato Richard la prima volta che l'ha visto entrare nel suo ufficio, con quell'aria da cattivo ragazzo e quel cappellino di lana da quattro soldi a coprirgli la testa; e a dire il vero l'ha pensato pure Harry mentre varcava la sua soglia, le nocche violacee per i pugni dati ed il cuore esausto per i troppi colpi ricevuti.
missing moment di Non Dimenticare
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: questo missing moment di Non Dimenticare è ambientato tra il capitolo 5 ed il capitolo 6, ma a causa dei numerosi spoiler, consiglio di andare avanti con la lettura solo dopo aver letto il capitolo 21


How on earth can I complain,
how in hell can I be safe
this sudden fear is strange
this sudden fear of change


Richard Wilson aveva otto anni l'ultima volta che pianse. Non ricorda esattamente il motivo: forse l'oggetto della contesa era una macchina giocattolo o la sorpresa dentro ad un uovo di Pasqua, ma lui e quel rompiscatole di suo cugino Jonathan avevano ruzzolato giù per due piani di scale a furia di pugni e di calci pur di non mollare la presa delle piccole dita esili e sottili dal fantomatico giocattolo.
Atterrato sul tappeto persiano del soggiorno di casa degli zii, al piano terra, aveva avvertito il male ovunque: sulle braccia, sulle ginocchia, sulle costole, sulla schiena, perfino su una guancia che, nella fatidica caduta, aveva malamente urtato contro il corrimano delle scale.
Richard era furioso: non già perché avvertisse un dolore lancinante in tutti i posti che possono far male, quanto più perché aveva perso il suo nuovo oggetto preferito, che giaceva tra le mani trionfanti di Jonathan, il quale aveva un brutto livido sulla fronte e i pantaloni strappati.
A quel punto Richard aveva pianto: non prima, per la presunzione di ottenere qualcosa senza lottare e con il solo uso dell'arma della lagna (come aveva fatto suo cugino Jonathan); non dopo, quando il padre gli aveva mollato un ceffone talmente forte che, dalle dinamiche, ci si sarebbe tranquillamente aspettati di vedere la testa del bambino ruotare tre o quattro volte su se stessa. Richard aveva pianto nell'esatto istate in cui aveva realizzato che quel gioco – purtroppo ormai sfocato dai suoi ricordi, troppo remoti – stava nelle mani del suo avversario; che lui aveva perso, e che non c'erano lagne o scalpiti che tenessero.
Aveva pianto gloriosamente, il piccolo Richard: col nasino rosso e un bernoccolo sulla testa che faceva un male cane, si era dignitosamente arreso di fronte ad una battaglia che aveva già un vincitore. Non aveva mollato per sportività: a soli otto anni aveva già una consapevolezza di se stesso fin troppo sviluppata per macchiarsi di una mancanza come quella della codardia. Si era soltanto lasciato andare ad un pianto solenne, come quello del re Priamo che piange sul corpo del figlio Ettore, e aveva accettato la sconfitta – promettendo a se stesso, però, che questa sarebbe stata l'ultima volta.
A cinquantaquattro anni compiuti, il dottor Richard Wilson continua a mantenere la sua promessa, anche quando sente le ruote del trolley che escono dall'appartamento, consapevole che non lo varcheranno mai più.
Cosa c'è da disperarsi?, si dice. Metà dell'armadio adesso è vuota e ci sono più cassetti liberi per le sue mutande. Non dovrà preoccuparsi del disordine che c'è in casa né di spiegarlo – «Faccio lo psicologo: l'ordine fisico manda in confusione il mio cervello» – non dovrà abbassare il volume della TV e poi un letto a due piazze è molto più comodo se si è da soli. E, diciamocelo, chi ha bisogno di una moglie? Specie se pretende di comandare in casa tua e ti tradisce alle spalle con quel cassiere biondo del supermercato che potrebbe essere suo figlio.
A pensarci bene, si dice Richard, mentre firma deciso i documenti che l'avvocato gli ha inviato per fax, non potrebbe, considerato che figli non può proprio averne. Non che lui le abbia mai portato rancore durante il matrimonio: in una coppia si condividono gioie ma anche dolori e, certo, a Richard avrebbe potuto interessare diventare padre, ma l'impossibilità di generare prole non è mai stata da parte sua motivo di accusa o rincrescimento.
D'altra parte, però, adesso che conserva la fede nuziale in un cassetto e sfoglia distrattamente le carte per il divorzio, la sua mente non può fare a meno di ritornarci, forse finalmente libera di esprimere un giudizio sincero.
«Troia e pure sterile» si lascia scappare in quel suo tono burbero e incazzato che ha sempre con tutti, solo che stavolta è stanco: non sa esattamente di cosa, ma comincia a pensare che questa vita gli abbia dato da affrontare fin troppi ostacoli – forse non ha capito contro chi ce l'ha.
Ha gli occhi di fuoco, Richard Wilson, anche a cinquantaquattro anni compiuti e anche dietro quella scrivania di ciliegio che lo rende tanto pomposo, e quella targhetta placcata d'oro col suo nome alla porta, che sembra quasi una stonatura con tutto quello che è sempre stato. Ha gli occhi di chi ti sfida anche se non ce n'è bisogno, ma lo fa per gioco e perché gli piace. Perché cos'è la vita senza le sfide, i nemici, gli antagonisti?
È buffo, perché Richard ha scelto di essere l'antagonista e il mentore insieme, colui che ti scava nella mente, scopre i tuoi più intimi segreti e ti deride, ti offende malamente ma poi, alla fine, in qualche modo ti aiuta. Ti incoraggia a superare i tuoi limiti, ad abbandonare le paure e lo fa a furia di insulti e stroncamenti, che forse non rappresentano proprio il metodo più ortodosso per fare il suo mestiere, sempre così stereotipato nel cliché dell'uomo buono che sorride e che annuisce, ma che «funzionano meglio di qualunque falso complimento o ansiolitico», dice lui.
A questo pochi dei suoi pazienti sembrano credere, però restano seduti su quelle poltrone di un azzurro terso perché è l'unica scelta e perché sanno, nel profondo, che ha ragione.
Harry, per esempio, ci crede sul serio. Non è il tipo di ragazzo che frequenterebbe lo studio di uno psicologo, ha pensato Richard la prima volta che l'ha visto entrare nel suo ufficio, con quell'aria da cattivo ragazzo e quel cappellino di lana da quattro soldi a coprirgli la testa; e a dire il vero l'ha pensato pure Harry mentre varcava la sua soglia, le nocche violacee per i pugni dati ed il cuore esausto per i troppi colpi ricevuti.
A un certo punto, però, qualcosa è cambiato, le difese sono crollate ed il ragazzo dagli occhi verdi e ribelli – così simili a quelli di Richard quando aveva la sua età! – hanno cominciato a fidarsi, e a crederci.
Non è facile, e questo Harry l'ha capito all'istante, ma non è nemmeno stupido e sa perfettamente che non sarebbe certo più semplice dover affrontare tutto questo da solo. Se lo ricorda ogni volta, quando riceve una domanda che considera inopportuna o offensiva, che deve crederci. Crederci con tutto il cuore e l'anima e la testa, quella soprattutto. Ricordarsi le parole che fanno male ma anche quelle che fanno bene, tanto bene da curare lo spirito.
Perché a volte si cade e si scivola, senza controllo, si batte la testa forte e si fanno cazzate, di quelle con la C maiuscola, ma sul fondo si sta sempre inspiegabilmente soli. E allora forse una mano Harry la vuole, non per tirarsi su e riprendere a camminare, anche solo che lo sfiori... per sentire la vita.
Quando vuole sentire quella mano amica entra sbattendo le porte e se ne frega degli altri appuntamenti, e Richard non ha bisogno di chiedergli nulla perché capisce tutto al primo sguardo. Osserva il modo in cui spalanca la porta senza bussare e attraversa a grandi falcate lo spazio che li divide, per poi gettarsi pesantemente su una delle poltrone blu.
«Deduco, dal tuo comportamento, che tua madre non ha intenzione di darti quei soldi» esordisce Richard questo pomeriggio, mentre si accarezza la barba corta.
Il ragazzo si accomoda meglio sulla poltrona, la schiena alla spalliera e una caviglia appoggiata sul ginocchio dell'altra gamba.
«E io deduco dal suo sguardo che sono arrivate le carte per il divorzio» ribatte Harry con un mezzo sorriso, le pupille che con fare vago si posano sulla scrivania che ha di fronte, per poter confutare la propria ipotesi.
Richard alza gli occhi al cielo e non dice niente, perché anche lui ha imparato che ci sono pazienti che non possono essere domati.
«Sono sollevato» dice semplicemente, e sa che, anche se dagli occhi non farà trasparire alcuna emozione, questo ragazzo riesce a leggerlo in qualche altro modo.
«Vorrei ben dire – Harry fa per accendersi una sigaretta ma lo sguardo del suo psicologo, fin troppo eloquente, lo blocca improvvisamente – era una puttana, dopo tutto»
«Non si era detto di limitare gli insulti non necessari?»
Il ragazzo sembra rifletterci qualche istante, poi fa un cenno con la testa. «È una puttana, credo sia necessario dirlo. Si portava a letto il fratello di Niall, che ha qualche anno in più di me. Andiamo, dottor Wilson, a me può dirlo che ne pensa».
«Perché invece non parliamo di te? – lo interrompe l'uomo, le mani intrecciate sulla scrivania e l'aria improvvisamente professionale – Cosa ti affligge stavolta?»
Harry sbuffa, e si rigira la sigaretta spenta tra le mani. «La stessa cosa della volta scorsa, e di quella prima; e di tutte quelle precedenti».
«Rachel»
Il riccio annuisce, stancamente. All'improvviso i suoi occhi sono più spenti e il mezzo sorriso che prima aleggiava sul suo volto è scomparso. «L'ho sognata di nuovo».
Richard mostra un cenno d'assenso, e appare quasi comprensivo.
«È normale che capiti. Sei evidentemente scioccato e gli avvenimenti dell'anno scorso ti affliggono ancora...»
«La sogno ogni notte – Harry sostiene la testa con le proprie mani, la voce sottile di chi ha paura di essere sentito da qualche terzo incomodo – è estenuante, sempre lo stesso sogno».
«Vuoi dire quello in cui tu-»
«Quello in cui sono io a ucciderla, sì. La picchio forte, fino a farla svenire dal dolore, e poi l'accoltello allo stomaco». Lo sguardo del moro, adesso, è schifato: è fisso in un punto, in cui rivede l'orrido sogno che lo tormenta e lo umilia, che si mischia ai ricordi, e che lo rende sempre più vulnerabile.
«Beh, chiaramente questo sogno deve voler dire che il tuo senso di colpa è ancora vivo. Se vogliamo interpretare-»
«Basta interpretare – lo interrompe il ragazzo, la voce roca e i pugni stretti sui braccioli della poltrona – sono stufo delle sue congetture e delle cose campate in aria. Voglio risposte, perché la sento ancora così vicina, che grida e che chiede aiuto e non mi lascia mai in pace. Ho la sua voce nella testa. La faccia smettere, capito? La faccia smettere, porca puttana!»
Richard guarda quegli occhi infuocati e ci si ritrova perfettamente dentro, vede le narici dilatate del ragazzo cercare aria affannosamente, e quasi si dispiace. «Se avessi saputo come, ahimé, ti avrei aiutato già da tempo – ammette, con una scrollata di spalle. Poi si fa più serio e lo guarda negli occhi – Lo sai che la colpa di tutto questo non è tua, vero, Harry? Quella ragazza è morta per mano di due veri assassini. Devi smettere di autocommiserarti e di darti la colpa per qualcosa che non ti riguarda! Ti fai solo del male inutilmente... e rompi le scatole a me, di conseguenza».
Harry scuote la testa, piano. In fondo, lo sa che non è colpa sua. Gliel'hanno detto tutte le persone e in tutte le salse, pure i giudici del processo l'hanno dichiarato innocente, sarebbe uno stupido a credersi un assassino dopo tutto ciò. Eppure c'è qualcosa, in lui, di assolutamente irrazionale e incontrollabile, che lo spinge a fare certi sogni, a bloccarsi e ad avere attacchi di panico; a credere di essere lui, l'assassino.
«Li ho rivisti sabato – esordisce ad un tratto, lo sguardo basso e vago – ho guidato fino a Manchester di nascosto con la macchina di mia madre»
«E come stanno?»
«Come sempre. Ho portato loro delle sigarette alla menta, perché a stento gli fanno fumare quelle normali. Di canne, poi, non se ne parla; me l'hanno chiesto ma non me la sento di portare dell'erba dentro a un carcere... non si sa mai»
Richard sospira, lo sguardo ancora fermo sul ragazzo. «Harry... sai che dovresti smettere di vederli»
«Matt e Louis sono miei amici» replica quest'ultimo duramente, l'istante successivo.
«Amici che per poco non ti hanno rovinato la vita; amici che hanno ucciso una persona!»
«È stato un incidente, okay?»
Scuote la testa, incredulo. È perfettamente consapevole di quanto ragionare con Harry sia impossibile, in certi momenti, per cui eviterà di fare scenate. «È buffo – dice, il tono più leggero, quasi di scherno – vedere quante accuse tiri addosso su di te e di come ti crogioli nei sensi di colpa, senza poi riconoscere chi siano i veri responsabili di tutto questo. Un incidente, dici? Te lo ricorderò anch'io, allora, durante il prossimo attacco di panico; che è stato solo un incidente».
Harry respira velocemente. Tenta di calmarsi perché le parole di Wilson le capisce e le condivide ma non le apprezza; perché si sente scoperto e senza difese, e forse a questo non esistono ripari. «Non sei un assassino, Harry – ripete l'uomo, e Harry capisce che quello sguardo stanco e annoiato è il più profondo e sincero che mai riceverà dal suo psicologo – ed è giunto il momento di lasciarsi il passato alle spalle. Ti sei fatto nuovi amici, no? E poi che ne pensi dei ragazzi del gruppo? Potresti stringere amicizia con loro».
«Certo. Non vedo l'ora di giocare con le bambole insieme a quel frocetto o alla balena bianca. Per non parlare di quel bambino cinese, che divertimento».
Richard ride, e scuote la testa. «Sei troppo categorico; e comunque Yurim è sud coreano».
«Perché non mi ha detto che ci sarebbe stato anche Adam, al gruppo? Avrei evitato di omaggiarvi con la mia presenza».
«Appunto. Sapevo che non saresti venuto, se te l'avessi detto – replica l'uomo, sfilandosi gli occhiali da vista – ma credo che questo ti farà bene. Hai bisogno di rapportarti con gli altri e-»
«Di certo non ho bisogno di rapportarmi con quella testa di cazzo. E, se dovesse succedere, non sarebbe esattamente una cosa pacifica».
Richard sbuffa. Sa che è impossibile provare a convincerlo di qualcosa che non lo convince, ma anche lui è testardo per cui le sedute si trasformano in una lotta all'ultima resistenza. «E che mi dici di Lena, invece?» domanda, anche se effettivamente si aspetta ben poco.
Harry indugia, abbassando lo sguardo. Ed è qui che Richard intuisce.
«A scuola dicono che abbia una malattia mentale».
«Ah, davvero?» è la risposta sorpresa di Richard. Lena non gliel'ha mai raccontato... ma, d'altra parte, esiste qualcosa che quella ragazzina gli racconti di sua spontanea volontà?
«Lei non ha mai smentito niente» continua Harry, quasi fosse una constatazione sicura.
Richard annuisce piano. «Magari non le interessa quello che dicono gli altri».
Il moro aggrotta le sopracciglia, gli occhi persi da qualche altra parte. «O magari è la verità» dice alla fine.
«Cosa cambierebbe, in quel caso?»
«Niente – esordisce il ragazzo deciso, e scuote prontamente la testa – assolutamente niente. Ma...»
Richard ride, prima di parlare. «Io non ti dirò niente».
«Si tratta di una pura curiosità» chiede il primo, quasi in un gesto implorante.
«Si tratta anche di un segreto professionale».
Il ragazzo, l'ombra di una smorfia delusa ed infastidita sulle labbra, sbuffa. «Uffa» si lamenta, tirando leggermente la testa all'indietro.
«Se sei così interessato nel sapere quale sia il problema di Lena, perché non glielo chiedi tu stesso?»
Harry tentenna. «Non la trovo, ecco... simpatica – esordisce, ma di fronte allo sguardo indagatore del suo psicologo è costretto a spiegarsi meglio – è che... ha gli occhi così simili a quelli di Rachel. Capisce?».
«Tu odi Rachel» asserisce lo psicologo.
«Appunto! Non sopporto quando mi guarda, è estenuante».
Richard annuisce, cercando di ricostruire nella sua mente gli ultimi incontri. Ha fatto caso più di una volta al gioco di sguardi tra i due, ed è più che curioso di scoprire gli sviluppi di questo rapporto – forse può già azzardare a qualche scommessa sul futuro.
«Strano – esordisce, una mano che accarezza il mento e lo sguardo un po' per aria, riflessivo – perché sono più che sicuro di averti visto un paio di volte posare il tuo sguardo su di lei. Ero convinto, per lo meno, che la sua vista ti aggradasse almeno un po'».
Harry sta in silenzio per qualche istante, o, meglio, cerca di biascicare qualcosa in risposta ma si ritrova a sorridere per l'imbarazzo e arrossire lievemente – Richard aggrotta le sopracciglia e aguzza lo sguardo, perché non è sicuro di averlo mai visto arrossire.
«Vecchia canaglia» dice infine, un sorriso breve d'imbarazzo sulle labbra.

Note
Ehm, sì, sono io. So di non essere stata per nulla presente come avevo detto ultimamente, e francamente non ho neanche intenzione di provare a discolparmi, semplicemente chiedo scusa.
So che a questo punto non ci sarà più nessuno a seguire questa storia - né tanto meno a leggere uno stupido missing moment! - ma per i pochi superstiti (<3333) mi preme dire: questa os ha luogo tra il terzo ed il quarto capitolo.
In più, mi sto mettendo all'opera per postare al più presto il nuovo capitolo di Non dimenticare.
Grazie a tutti voi per la pazienza.
Un bacio,
Carla
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