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Autore: Lisabeth_24    03/10/2014    1 recensioni
[Leonardo/NP]
Tratto dal prologo.
« Sono innocenti e voi ne avete fatto delle belve da macello, vittime sull’altare di un Libro perduto da secoli e secoli,» ringhiò sottovoce, per non destare sua figlia, quell’essere puro che non avrebbe mai dovuto conoscere il male. La profezia era chiara come la luce del Sole e terribile come l’antro oscuro che celava il labirinto. Avrebbe difeso Lisabetta con la sua vita se fosse stato necessario.
« Cosa t’è accaduto, Lupo?» domandò greve la donna, arrancando verso la figlia per poi stringerla al suo petto morbido, al seno gonfio di latte che l’avrebbe nutrita e amata. Lo guardava con odio e rancore, come un tempo aveva osservato il Minotauro, il demonio che aveva assassinato il suo stesso padre che strenuamente era rimasto fedele alla causa. Carlo de’ Medici aveva tradito e Lupo Mercuri era in procinto anch’egli di farlo, ma nessun odio lo spingeva, bensì l’amore per quella dolce creatura che il Fato aveva scelto per quella missione suicida. Compativa Caterina Yazici e il frutto del suo ventre che avrebbe sopportato un peso inadatto alle forze.
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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O dolore, o dolore, il Tempo mangia                                                                                    
la vita, ed il Nemico oscuro cresce                                                                                        
del sangue che perdiamo, e si rafforza;                                                                            
questo Nemico che ci rode il cuore!

 
Firenze, 21 Aprile 1478

La piazza del mercato era gremita sebbene la campana delle Laudi avesse rintoccato la propria tetra nenia soltanto poco tempo prima. Accenti diversi della medesima lingua risuonavano allegri e clamorosi dinanzi alla Basilica in costruzione e nei pressi del Palazzo della Signoria. I venditori avevano sistemato sulle panche di legno le loro mercanzie più pregiate per attirare lo sguardo delle nobili signore e dei loro avari consorti. Era un quadro variopinto e affascinante, caotico e assordante, il soggetto perfetto per le abili mani dell’eclettico Leonardo da Vinci, il venticinquenne e aitante artista che era appena stato ammesso al circolo privato del Magnifico. 
L’uomo, dai profondi occhi di giada e il volto coperto da un lieve strato di peluria bruna come i capelli, sedeva sulle scale di un edificio, il carboncino tra l’indice e il pollice della mancina, il quaderno dalla dura copertina nera saldamente tenuto sopra il ginocchio destro, lo sguardo perso nel panorama che si spiegava dinanzi a lui, un lieve sorriso sulle labbra esangui. 
« Maestro, ho comprato ciò che avete richiesto,» esclamò un giovane dai capelli biondi come il grano e dai timidi occhi azzurri, avanzando verso l’uomo, mostrandogli il sacco di tela marrone che conteneva polvere di lapislazzuli, d’oro e di rubino per i colori e delle pergamene piuttosto ampie per un progetto in scala meno ideale possibile.  
« Portalo alla bottega, per favore,» mormorò l’artista distratto, perdurando ad osservar Monna Lucrezia Donati al banco dei fiori. Ogni mattina comprava un mazzo di narcisi dorati. Moglie del mercante di stoffe Niccolò Ardighelli, ella era ritenuta a buon ragione la più avvenente gentildonna fiorentina. Immerso com’era nella contemplazione dell’alta figura avvolta da una veste ametista, dagli occhi celesti come il cielo di Giugno e i capelli d’ebano, lasciati morbidi e mossi sulle spalle, Leonardo non s’era neanche accorto del cenno d’assenso e del mite sorriso del suo apprendista che s’era congedato celere. 
« Tu sfrutti troppo quel ragazzo,» affermò l’uomo dai tratti moreschi al suo fianco, quasi disteso sulle scale, il gomito sinistro a sorreggere il corpo, mescolando le carte che aveva tra le mani, la sua nuova scoperta. I due si conoscevano dai tempi della gioventù, da quando Leonardo era divenuto allievo del Verrocchio undici anni prima, abbandonata Vinci e la sua tediosa quotidianità. Zoroastro, invece, proveniva da Peretola, un sobborgo nei pressi della Repubblica, giunto a Firenze per praticare le sue attività di truffatore. 
« Lo pago,» si difese Leonardo sollevando le spalle larghe mentre con il carboncino dava vita al volto della bella amante del Magnifico con veloci e studiati gesti. Zoroastro sbuffò e scosse il capo, un impercettibile sorriso sulle labbra piene. 
« Nico è il tuo apprendista. Non lo paghi,» replicò l’amico più divertito che polemico. Leonardo scosse la mano destra nell’aria, un pigro gesto per interrompere quell’inconcludente discussione. Lucrezia s’era oramai allontanata con la sua serva, scomparendo tra i viandanti ai banchi del mercato. 
L’artista sospirò voltando una pagina del quaderno incominciando a disegnare qualcosa che aveva sognato la notte prima, un’arma che avrebbe potuto presentare a Lorenzo de’ Medici oltre al moschetto a cui stava lavorando. Si trattava di una struttura simile al melograno con all’interno ordigni esplosivi di minuscole dimensioni. La sua geometria era talmente complessa da fargli dubitare potesse davvero essere messa in pratica. Sbuffò frustrato dall’ennesimo insuccesso e stracciò il foglietto. Era un progetto ambizioso, forse il più improbabile che avesse mai ideato, ma non per questo si sarebbe arreso. Tutto ciò che poteva essere immaginato, poteva esistere e di ciò era convito.
Quando sollevò lo sguardo per cercare l’ispirazione per un nuovo tentativo, si accorse di una donna ove prima v’era Lucrezia, dall’ampia veste scura e lo sguardo puntato verso dei gigli candidi come la neve. Non era nobile, quello era evidente dal modo in cui erano acconciati i capelli color mogano. Le ciocche erano strette in una treccia per impedire che ricadessero sul volto lievemente appuntito, dagli zigomi alti e dalle gote scarne. Non aveva la pelle lattea com’era consuetudine tra le Madonne, bensì era dorata, baciata dal Sole, orientale ed esotica come quella del Turco. 
« Io conosco quella fanciulla,» mormorò assorto nella contemplazione delle mani che sfioravano con gentilezza i petali. Leonardo sapeva di averla già incontrata, ma non rammentava né il luogo né la circostanza. Era una figura familiare e perduta. D’istinto desiderò incrociare lo sguardo con quella misteriosa donna. Ella, come accortasi d’essere osservata, si volse e a Leonardo per un attimo mancò il fiato. Erano occhi furbi, divertiti, consapevoli di qualcosa all’artista ancora sconosciuto. La giovane gli rivolse un breve cenno del capo verso sinistra, verso la Basilica per poi posare il giglio e congedarsi dal commerciante. 
« Rettifico per te. Ti piacerebbe conoscerla,» sogghignò Zoroastro riponendo le carte nella giacca rosso scuro osservandolo con il consueto sorriso storto che preannunciava una conquista. 
« Ci vediamo questa sera al Cane che abbaia,» salutò chiudendo il quaderno degli schizzi e affrettandosi per non perdere di vista la giovane. Doveva seguirla, comprendere la sua identità. Si issò in piedi in un balzo felino e avanzò celere verso l’ingresso laterale di Santa Maria del Fiore. 
« Lorenzo il Magnifico ti ha convocato tra un’ora, Leo. Finirai ucciso, idiota d’un artista,» esclamò esasperato il suo più caro amico, ma Leonardo non l’udì, talmente catturato dal percorso della sua mente. Quando ella l’aveva guardato, s’era ritrovato in un sogno di gioventù, quando la frenesia e l’irruenza di un fanciullo decenne l’avevano condotto in quella grotta.
La donna era lì, perfetta e irraggiungibile, ancora bambina, ancora innocente, la mano tesa verso di lui. Piangeva disperata come qualcuno che aveva appena perduto la sua unica ragione di vita e Leonardo avrebbe desiderato prenderla tra le sue braccia, portarla in salvo, al sicuro, sotto la luce del Sole. Più s’avvicinava, però, e più l’Appeso urlava, il sangue che invadeva il suo campo visivo, quel liquido vermiglio, la vita che fluiva dal suo corpo giovane. L’Appeso era Leonardo stesso.  
Scosse il capo, allontanando quella visione improvvisa e indesiderata, e seguì la donna all’interno della chiesa, al buio delle candele, ben lontano dalle vetrate ampie e decorate da mosaici d’oro ritraenti le storie sacre alla Cristianità. 
« Signora.»
La sua voce riecheggiò roca e imponente tra le volte a crociera e le alte colonne sormontate dalla cupola del Brunelleschi. La donna s’era fermata dinanzi alle candele accese per i defunti e le loro anime in Purgatorio. Da quella breve distanza notò che la piaga sulla mancina, un pentacolo inscritto in un cerchio perfetto che sembrava essere stato marchiato a fuoco sulla pelle olivastra. Era un simbolo magico, un talismano che Leonardo sapeva essere di protezione. 
« Sono la Figlia della Terra e del Cielo stellato. Di sete son arsa. Per favore, datemi da bere dalla Fonte della Memoria,» recitò la fanciulla con voce soave e gentile, osservandolo con curiosa attrazione. Leonardo sollevò lo sguardo, non sorpreso da quella rivelazione, e avanzò d’un passo ad un soffio da quella figura splendida. Era indubbiamente una delle fanciulle più avvenenti che avesse mai incontrato. 
« Figli di Mitra. Siete più numerosi di quanto ritenessi,» soggiunse caustico attento a non farsi udire dai pochi fedeli giunti per potersi confessare. Si domandò perché l’avesse condotto proprio in quella zona della Basilica, ma non esplicò il dubbio attendendo che la donna discorresse. 
« Aslan si è rivelato? Non mi stupisce. Il tuo ruolo nella ricerca del Libro è di vitale importanza,» mormorò sfiorandogli la mancina dove i segni delle percosse che aveva subito pochi giorni prima dalle guardie notturne e da suo padre, Piero da Vinci, il segretario personale dei Medici. Quell’ennesima umiliazione non bruciava come le precedenti, tanto abituato al disprezzo del genitore. Le mani della donna erano gentili e lo accarezzavano con tale delicatezza da attenuare il dolore alle nocche arrossate.
« Noi due ci siamo già incontrati, nevvero?» domandò curioso tentando di scrutare l’espressione del suo sguardo, celato da lunghe ciglia nere e dalla pudicizia che le faceva chinare il capo. Le scostò una ciocca disciolta dalla treccia allontanandola dalla gota. Bloccò poi le dita stupito da quel gesto improvviso, intimo e completamente inadeguato. La donna non diede cenno di turbamento e i suoi rimasero due perle nere e preziose, incomprensibili, completamente inattaccabili. 
« Il tempo è un fiume, Leonardo,» replicò divertita distendendo le labbra, rammentandogli le parole del Turco e dell’Ebreo. Quasi sbuffò esasperato dai dogmi di quella congregazione che da tempo occupava gran parte dei suoi pensieri. 
« Potrei perlomeno apprendere la tua identità senza metafore illuminate?» 
« Lisabetta Todros,» svelò la bella fanciulla, intrecciando le dita tra le proprie in una carezza quasi infantile. Aveva un cognome giudeo che ben s’armonizzava con la pelle ambrata e i tratti del volto, « A lungo ho atteso di poterti incontrare, mio Sognatore,» continuò assorta sfiorandogli la gota destra con i polpastrelli, le labbra schiuse e velate da un sorriso dolce. Era un epiteto inconsueto e sembrava celare un segreto inviolabile, come quello di due amanti. Confuso, Leonardo s’avvicinò al suo volto, incapace di controllarsi. La donna rise leggera e scosse il capo in un cenno di diniego e di innocenza quando le labbra accennarono un contatto. Sciolse la presa e gli rivolse un ultimo sguardo, scaltro e indagatore, tanto dissimile dal suo atteggiamento composto e pudico, prima d’allontanarsi celere come il vento che l’aveva condotta a Firenze. 
Un battito di ciglia dopo Leonardo si ritrovò solo dinanzi alle candele, turbato da quell’incontro e dalle sensazioni che erano scaturite alla vista di quella donna misteriosa. Per un attimo era stato come sospeso, in una dimensione differente in cui nulla esisteva, né Firenze né Roma, né i suoi progetti né la sua genialità. Gli era sembrato d’esser tornato fanciullo, ingenuo e disilluso, dinanzi ad una grotta oscura. Rimase ad osservare il vuoto per qualche istante prima di scuotere il capo e passare le dita sugli occhi stanchi. Era atteso a corte ed era noto quanto il Magnifico fosse impaziente in quei giorni. 
Percorse celere le strade fiorentine verso Palazzo de’ Medici, la magnifica e ordinata costruzione progettata dal Michelozzo su ordine di Cosimo il Vecchio, scansando i vari compratori, la mente ancora immersa nella contemplazione degli occhi scuri di Lisabetta Todros. Le guardie gli permisero d’entrare non appena lo riconobbero indicandogli che Lorenzo era nel suo studio, intento a osservare il lavoro dei suoi banchieri. 
« Da Vinci, siete in ritardo,» lo accolse il Magnifico quando Leonardo bussò per rivelarsi, senza osservandolo, perdurando nei suoi conteggi. Gli fece cenno d’accomodarsi e chiudere la porta alle sue spalle. 
« Io… ho avuto un incontro particolare,» sviò l’artista avanzando per poi estrarre il quaderno degli schizzi. Piegata accuratamente tra un paesaggio campestre e un ritratto di Vanessa, v’era l’arma più innovativa che aveva mai ideato, seconda solo al melograno, « Ho sviluppato un progetto che credo possa interessarvi, Lorenzo. Si tratta di un moschetto a tre piani. Mentre uno spara l’altro si carica,» spiegò celere mostrando la pergamena, muovendo le dita nell’aria come se dinanzi a sé fosse apparsa davvero la suddetta arma. Lorenzo abbandonò i suoi conti e gli occhi chiari vagarono sul cannone, incuriositi dalla presentazione.
« Interessante,» commentò impressionato, portandosi la pergamena dinanzi agli occhi per poterla meglio osservare, « Realizzatene uno e mostratemelo, Maestro. Ora che le intenzioni di Sisto sono palesi, necessitiamo di ogni mezzo a nostra disposizione contro l’Urbe,» rimuginò tra sé issandosi in piedi e versando del vino in due calici. Leonardo accettò di buon grado il suo, sperando che rimuovesse la nebbia di pensieri sin troppo vorticosi. 
« Quindi la guerra colpirà anche la nostra Repubblica,» sospirò l’Artista prima di bere un generoso sorso del Frescobaldi. Riario era stato cristallino nelle intenzioni della Santa Sede. Non avrebbero onorato il debito, mancando rovinosamente di rispetto nei confronti di Firenze e dei Medici che l’avevano finanziata. Un’offesa del genere non poteva essere sopportata a cuor leggero dal Magnifico. Egli annuì grave, le labbra arricciate in un’espressione contrita. Lorenzo era un umanista. Aborriva la guerra, ma non si sarebbe sottratto allo scontro frontale.
« Vi concedo tre giorni per realizzare il vostro progetto.» 
   
 
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