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Autore: MadAka    03/10/2014    1 recensioni
[Kodaline]"Appena fu fuori strinse un po’ gli occhi, per proteggerli dalla troppa luce improvvisa. Il sole era alto nel cielo svizzero di Berna, ma l’aria era mite e incredibilmente piacevole per essere luglio. Mark percorse a grandi passi parte del parcheggio dei tourbus, nell’area backstage del Gurten Festival, in cerca di qualcuno."
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bruciava. Non così tanto da essere insopportabile, ma abbastanza da risultare fastidioso.

Mark Prendergast rimase fermo a osservare il sangue che continuava ad affiorare dal taglio che si era appena fatto al polpastrello dell’indice sinistro; un taglio piuttosto profondo, che si sarebbe sicuramente rivelato una noia per il concerto che doveva tenere a breve.

Si mise il dito in bocca con una smorfia. Non gli era mai piaciuto il sapore del sangue, lo trovava troppo strano. Cominciò a cercare fra i meandri del tourbus una confezione di cerotti, o un pezzo di garza, qualcosa di simile doveva esserci per forza. Tuttavia non trovò niente del genere. Il sangue continuava a uscire dal taglio, lo sentiva. Capì che l’emorragia non si sarebbe fermata tanto facilmente, gli serviva qualcosa con cui medicarsi.

Decise di uscire, provando ad andare a chiedere a qualcuna delle altre band presenti se, per caso, erano più previdenti dei quattro Kodaline messi insieme. Si premette un fazzoletto di carta sulla ferita per arrestare il sangue, poi si avviò. Appena fu fuori strinse un po’ gli occhi, per proteggerli dalla troppa luce improvvisa. Il sole era alto nel cielo svizzero di Berna, ma l’aria era mite e incredibilmente piacevole per essere luglio. Mark percorse a grandi passi parte del parcheggio dei tourbus, nell’area backstage del Gurten Festival, in cerca di qualcuno. Era preparato solo per metà al concerto: sugli stretti pantaloni a sigaretta neri portava ancora la t-shirt che indossava per comodità. Si guardò intorno, molti bus avevano entrambe le porte chiuse, era il chiaro segnale che sopra non vi era nessuno, oppure che, se c’era, non voleva essere disturbato. Per sua fortuna poco più avanti trovò un pullman la cui porta anteriore era aperta. Si avvicinò, un po’ titubante, e lesse il nome della band che era stampato su un foglio A4 applicato al vetro: Engage. Fece mente locale. Li conosceva, anche se solo di nome, ma non aveva mai avuto modo di suonare con loro, né tantomeno di stringervi legami. Le sue conoscenze sul gruppo si limitavano al nome, alla consapevolezza che la cantante fosse una donna e al genere musicale, indie folk.

Deglutì e si decise a muoversi: se l’idea di presentarsi a una band estranea per chiedere loro un cerotto lo faceva sentire stupido, il fatto di rimanere imbambolato davanti alla scritta Engage gliene dava tutte le sembianze.

Mise appena la testa dentro il tourbus, dando una fugace occhiata. Notò immediatamente la ragazza seduta a gambe incrociate sul divanetto, intenta a far scorrere una penna su di un block notes; improvvisamente increspò le labbra e scarabocchiò quanto aveva appena segnato. I lunghi capelli rossi, lisci, le ricadevano delicati sulla schiena, la testa era incorniciata da due sottili trecce che si ricongiungevano in una coda sulla nuca; indossava una camicia bianca, lunga e leggera, e le gambe nude, per via dei corti jeans che portava, lasciavano percepire perfettamente il chiarore della carnagione. Mark la trovò davvero graziosa. Rimase incantato su quella figura per più tempo del previsto, poi si ricompose e aprì bocca:

«Hey, emh, scusami…» il suo tono non era molto convinto, ma sortì ugualmente l’effetto desiderato.

Lei, infatti, sollevò lo sguardo sul punto in cui si trovava Mark e, dopo averlo osservato attentamente per un attimo, gli sorrise.

«Ciao!»

Lo salutò allegramente, come se fosse davvero felice di averlo lì, davanti a sé. L’uomo, di risposta, sollevò la mano sana in un cenno di saluto, pensando al modo migliore per giustificare la sua presenza in quel posto. Prima che riuscisse a formulare una frase di senso compiuto, la cantante si alzò e lo raggiunse sulla soglia del bus.

«Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese.

Lui annuì:

«Sì. Mi… mi dispiace averti disturbato, è solo che…» sollevò la mano sinistra, mostrando il fazzoletto ancora premuto sull’indice, macchiato di rosso in alcuni punti: «Prima, sul tourbus mi sono tagliato e… beh, non abbiamo cerotti o niente di simile. Volevo chiederti se, gentilmente, ne avevi uno da darmi».

Lei sollevò le sopracciglia, assumendo quasi l’espressione di una bambina, poi sorrise:

«Ma certo, entra».

Gli diede le spalle, introducendo l’uomo nel tourbus, che Mark trovò simile a quello dei Kodaline. Si abbassò leggermente per evitare di battere la testa mentre entrava, poi si fermò. Gli sembrava di aver violato uno degli spazi più intimi di quella ragazza e si sentiva vagamente a disagio per quello. In verità si rese conto che lo preoccupava maggiormente il fatto di non sapere quasi niente di lei, nemmeno il suo nome. Le diede un’altra occhiata, sperando di ricordarsi di averla già vista da qualche parte, ma non gli venne in mente niente. Lei era ancora girata, aveva portato una mano sulla testa, come se quel gesto potesse aiutarla a fare mente locale su qualcosa. I capelli le arrivavano fino a metà schiena, lisci e leggerissimi, proprio come erano apparsi fin da subito agli occhi dell’uomo. Era una ragazza minuta, magra e sicuramente poco più alta di un metro e sessanta, ma davvero graziosa. Il fatto che fosse scalza piacque all’uomo e gli permise di notare l’ancora che aveva tatuata all’interno della caviglia.

All’improvviso lei si voltò, prendendo Mark alla sprovvista:

«Hai disinfettato il taglio?» gli chiese.

Lui scosse la testa.

«Allora è meglio farlo. Arrivo subito, aspettami qui» concluse lei, avviandosi poi sul fondo del tourbus.

Mark cercò di raggiungerla con la voce:

«Non serve, non ti preoccupare. Non voglio crearti disturbo».

«Nessun disturbo» gli arrivò di rimando.

Lui sospirò appena, tolse il fazzoletto dal dito e guardò il taglio. Era più profondo di quanto si fosse aspettato, forse per quel motivo gli aveva bruciato tanto. Tuttavia, anche se aveva smesso di sanguinare, qualcosa per coprire quella ferita andava messo, altrimenti si sarebbe sicuramente riaperta non appena avesse appoggiato le dita sulla sua sei corde.

«Oh cavolo».

L’uomo sentì a stento quelle parole, la ragazza le aveva pronunciate sicuramente per se stessa. Ricomparve subito dopo:

«Questo è veramente imbarazzante» iniziò, Mark rimase in ascolto: «Temo siano gli unici cerotti che abbiamo» concluse lei.

Sollevò la scatola davanti a sé, dandogli il tempo di osservarla.

«Dinosauri?» fece lui, guardando la confezione.

Lei si strinse nelle spalle: «È colpa di quei deficienti!» sentenziò, scoppiando a ridere subito dopo.

«Parli di quelli con cui suoni?» le chiese Mark.

Annuì: «I ragazzi si divertono a fare a gara a chi è più scemo. Questi devono essere opera di Steve» disse, mentre continuava a rigirarsi fra le mani la scatola di cerotti per bambini.

Lesse un paio di righe sul retro della confezione: «Almeno sono super imbottiti, c’è scritto qui» indicò un punto con l’indice e regalò un sorriso a Mark, che lui trovò particolarmente bello.

«Ma se t’imbarazzano posso capirlo» concluse.

Mark scosse la testa: «Vanno benissimo. Ci manca solo che mi metta a fare il pignolo».

La ragazza sorrise nuovamente, dopodiché fece segno all’uomo di accomodarsi: «Siediti pure».

Lui eseguì, sempre silenzioso e sempre leggermente a disagio. Lei gli si sedette accanto, bagnò del cotone con l’acqua ossigenata che aveva precedentemente preso, e aspettò che lui le allungasse la mano. Quando lo fece lei usò la sua mano sinistra per tenere ferma quella dell’uomo, mentre, con l’altra, cominciò a tamponare delicatamente il punto in cui si trovava il taglio. Mark rimase a osservarla, cercando qualcosa da dire. Le mani della ragazza erano aggraziate, dalle dita esili ma dal tocco sicuro. Si riusciva a capire perfettamente che suonava la chitarra, lo si capiva proprio da quel tocco.

«Mi dispiace davvero farti perdere tempo così» esordì lui dopo poco.

Lei rispose senza smettere di fare ciò che stava facendo:

«Nessun problema, non stare a preoccuparti. Almeno così potrò dire di aver medicato Mark Prendergast dei Kodaline».

L’altro sorrise, poi si strinse appena nelle spalle, assumendo un’espressione colpevole che la ragazza non vide. L’idea di essere lì, a farsi aiutare da una persona che lo conosceva ma di cui lui non sapeva niente, lo metteva veramente a disagio. Tuttavia decise di non nasconderglielo; fingere di conoscerla perfettamente gli si sarebbe certamente ritorto contro e non valeva la pena rischiare.

«Buono a sapersi» cominciò: «Però, sarò sincero… io non vi conosco molto bene»

Irrigidì appena il corpo, come per prepararsi a una qualche aggressione di tipo fisico da parte della sua interlocutrice. Lei si limitò ad alzare lo sguardo, smettendo di tamponare la ferita di Mark.

Questi riprese parola, cercando di dare un quadro meno confuso di quanto aveva appena detto:

«Voglio dire, non personalmente. Di nome vi conosco e so il vostro genere musicale, anche» si bloccò, non sapendo come continuare, la mano sinistra ancora sollevata con il palmo rivolto all’insù.

Lei gli sorrise: «Oh, beh, non si può sapere tutto di tutti, no?» gettò via il pezzo di cotone: «Oltretutto non abbiamo mai avuto l’occasione di incontrarci con voi Kodaline, di suonare insieme o di collaborare».

Mark si sentì incredibilmente sollevato da quelle parole, ma la situazione lo imbarazzava ancora, il suo comportamento lo imbarazzava.

La ragazza riprese parola, risvegliando l’uomo dai suoi pensieri:

«Possiamo conoscerci adesso. Io sono Rebecca McAnaway, degli Engage».

Gli stava tendendo la mano destra e gli sorrideva, un sorriso incantevole, notò lui.

«Mark» rispose, stringendo la mano di quella ragazza cui poteva finalmente dare un nome.

«Mettiamo il cerotto?» gli chiese lei subito dopo.

Il chitarrista annuì, Rebecca afferrò la scatola dei cerotti per bambini e diede un’occhiata al contenuto:

«Allora» cominciò, allungando la prima a della parola: «Li preferisci con i dinosauri rossi o con quelli gialli?» chiese, estraendo un cerotto per colore.

«Cosa cambia?» Mark cominciò ad osservarla incuriosito.

Rebecca rigirò i due cerotti fra le mani:

«Direi che quelli rossi hanno i t-rex e quelli gialli… i brachiosauri. Sì, sono brachiosauri» puntò lo sguardo sull’altro, aspettando una risposta.

Lui la guardò, sorrise, poi disse: «Scegli tu».

Anche la ragazza sorrise: «Beh, tu sei alto quindi io direi quelli con i brachiosauri. Poi il giallo mi piace come colore».

«Vada per i brachiosauri allora».

«Vista da fuori questa conversazione deve apparire davvero ridicola» fece lei, posando il cerotto scartato.

«Anche secondo me» Mark decise di approfittare del momento di concentrazione della ragazza per prendere nuovamente parola: «Oggi suonate prima di noi, giusto?»

«Esatto. Infatti dopo mi conviene finire di prepararmi se voglio evitare di far arrabbiare i ragazzi».

«Com’è essere l’unica donna?» la risposta lo incuriosiva.

«Divertente. A volte strano ma neanche tanto spesso. In verità mi viziano parecchio, sono protettivi nei miei confronti. Come dei fratelli maggiori» rispose sorridendo.

Terminò di applicare accuratamente il cerotto al dito di Mark, poi sollevò i suoi occhi nocciola su di lui.

«È da molto che suonate insieme?»

Lei annuì: «Abbastanza. Il nostro disco d’esordio è uscito l’anno scorso, ma noi suoniamo insieme da quando abbiamo sedici anni»

«So del vostro disco. È una delle poche cose che conosco su di voi, lo ammetto. So anche che è stato valutato bene dalla critica».

«Già. Scoprirlo è stato stupendo».

«Di dove siete esattamente?»

«Belfast».

Mark si dimostrò sicuramente più sorpreso del previsto. Rebecca e gli Engage erano irlandesi, in un certo senso, ma non come lui e i Kodaline. Gli Engage avevano la sterlina, i Kodaline l’euro, i primi tifavano Ulster, i secondi Leinster. Decise di farglielo notare:

«Tifate Ulster, eh

Lei scoppiò a ridere: «Esatto. Fino alla fine.»

Anche Mark si mise a ridere, diede un’occhiata al suo dito incerottato e riprese parola:

«Ti ringrazio. Mi dispiace essere piombato qui senza preavviso e averti fatto perdere tempo» si alzò: «Mi dispiace molto anche per la figuraccia che ho fatto. Mi riferisco al fatto di non sapere quasi nulla di voi».

Anche Rebecca si alzò in piedi, nonostante tutto, però, continuava ad essere decisamente più bassa del chitarrista.

«Posso chiederti io una cosa, ora?»

Lui annuì e la ragazza scomparve nel fondo del tourbus. Ne ricomparve con qualcosa di celeste e quadrato in mano; lo allungò al chitarrista e lui poté così riconoscere In a Perfect World.

«Me lo potresti autografare? Sai, sono una fan dei Kodaline».

Mark le sorrise, afferrò il pennarello che Rebecca gli stava porgendo e lasciò una breve dedica seguita dalla sua firma. Lei lesse ciò che lui aveva scritto e sorrise, incantando l’uomo.

«Grazie» gli disse.

«Grazie a te» rispose Mark, si spettinò i capelli e continuò: «È meglio che vada, così puoi anche finire di prepararti».

«Ok».

«Se mai ci vediamo in giro nel backstage dopo il concerto».

Lei annuì: «Lo spero. A più tardi allora».

Lui la salutò e si avviò fuori dal bus. Si diresse rapidamente verso il tourbus dei Kodaline deciso a cambiarsi la t-shirt per poi andare ad assistere all’esibizione degli Engage. Era quasi arrivato quando, dietro di sé, la famigliare voce del suo cantante lo fermò:

«Mark» .

Lui si girò di scatto, trovandosi Steve proprio davanti:

«Hey» lo salutò, allungando le vocali e facendo uno sbrigativo cenno con la mano destra.

Si sentì colto in flagrante, anche se non aveva idea per cosa.

«Tutto a posto?» gli chiese il biondo.

L’altro esitò un momento: «Direi di sì, certo».

«Dove stavi andando?»

«Volevo finire di vestirmi, poi vado al palco».

Il cantante annuì. Mark notò, da dietro la spalla dell’amico, uscire Rebecca dal suo bus e congiungersi con tre ragazzi, sicuramente i suoi compagni di band. Lei lo vide e lo salutò con grande sorriso, alzando per bene il braccio. Lui rispose con un cenno della mano sinistra e, quando tornò a concentrarsi su Steve, si accorse della sua espressione perplessa, perfettamente decifrabile anche dietro le lenti scure dei suoi occhiali da sole. Steve si voltò per vedere chi aveva salutato l’amico, seguì per un breve tratto gli Engage con lo sguardo, infine tornò a rivolgersi a Mark.

«Che hai fatto alla mano?»

Il chitarrista alzò le spalle:

«Prima, sul bus, mi sono tagliato».

«E perché hai un cerotto con dei dinosauri?»

«Sono brachiosauri».

Se possibile, l’espressione di Steve divenne ancora più perplessa:

«D’accordo, ma questo non cambia la questione».

«Te l’ho detto, mi sono tagliato. Ho cercato dei cerotti ma non ne abbiamo. Considerando che la ferita era più profonda del previsto sono andato da qualcuno a chiedere se potevano aiutarmi e gli Engage avevano solo questi».

«Ah».

«Già».

Steve parve riflettere un attimo, poi disse:

«Ma guarda che noi li abbiamo… sono nel cassetto di Jay».

«Ah, davvero?»

«Già» .

Il chitarrista fece spallucce: «Beh, ormai non importa, tengo questo».

Il cantante annuì con la testa e l’altro riprese parola: «Comunque te l’ho detto, io mi cambio e vado a sentire il concerto. Tu vieni?»

«Devo fare una telefonata, poi vi raggiungo. Ci sono Jason e Etáoin là».

«Ok».

I due si salutarono brevemente. Mark salì sul tourbus, s’infilò la camicia nera che aveva preparato e, dopo aver inforcato gli occhiali da sole, attraversò il backstage, raggiungendo il retro del palcoscenico.

Vide immediatamente Jason insieme alla sua ragazza, con loro c’era anche Neale, il roadie. Andò a salutarli nel momento esatto in cui gli Engage comparvero sul palco accolti dalle grida del pubblico.

«Come va?» chiese Mark quando fu loro vicino.

«Tutto bene» rispose Jason, a nome di tutti.

«Ascoltate gli Engage?» riprese il chitarrista dopo un breve momento di silenzio, disturbato solo dal suono di una chitarra acustica. Rebecca, infatti, l’aveva impugnata e si stava avvicinando a passi sicuri verso il microfono, sotto lo sguardo vigile e affettuoso dei suoi compagni.

Jay annuì: «Siamo qui per questo, Etáoin li adora».

«Sul serio?»

Lei annuì: «Sì, mi piacciono molto».

Mark fece schioccare la lingua: «Non lo sapevo. In verità non so molto di loro. Ho conosciuto la cantante prima, nel backstage».

«L’hai conosciuta sul serio?» gli chiese Etáoin, voltandosi a guardarlo: «Com’è di persona?»

«È simpatica, molto».

«Beh, allora lei l’hai già inquadrata almeno un po’. Gli altri sono Andrew che è il barbone alla chitarra. Il bassista si chiama Steven e il batterista, Robert».

«Sono tutti davvero giovani» osservò Mark: «Sai quanti anni hanno?»

«Sono coetanei, tutti ventitreenni».

Lui sollevò le sopracciglia: «Però, complimenti» concluse.

Anche se era più grande di soli due anni rimaneva sempre colpito quando si imbatteva in persone più giovani di lui che condividevano lo stesso palco.

Notò quasi immediatamente Jason che continuava a osservare attentamente la sua mano. Il bassista, infatti, prese parola subito:

«Cos’hai al dito?»

Mark sollevò l’indice sinistro, mostrandolo all’altro. Jason si dimostrò perplesso, esattamente come Steve poco prima:

«Dinosauri?»

«Brachiosauri» precisò Mark. Etáoin scoppiò subito a ridere.

«Perché?» domandò lei.

«Mi sono tagliato, prima, e non ho trovato i cerotti di Jay».

Quest’ultimo prese parola:

«E quelli dove li hai presi, scusa?»

Mark indicò verso la band sul palco:

«Me lo ha dato Rebecca».

Dopodiché nessuno disse più niente.

Rimasero in silenzio ad ascoltare il concerto degli Engage, tutti e quattro. Di tanto in tanto qualcuno si limitava a qualche breve osservazione sul suono di uno strumento o sul passaggio di una melodia. Mark rimase veramente colpito dall’esibizione del gruppo. I loro suoni erano puliti, gli strumenti si mescolavano insieme in qualcosa di orecchiabile e meraviglioso, i cui testi parlavano dritto al cuore. Le loro canzoni raccontavano di viaggi, sogni, amicizie; per farlo si servivano solo di una batteria, due chitarre, un basso e, a volte, di un banjo. La voce di Rebecca era incredibile, Mark non si era mai imbattuto in una voce femminile come la sua; era delicata, soave, ma al tempo stesso perfettamente chiara e sicura: sembrava fatta esclusivamente per il canto. L’uomo si ritrovò a chiedersi per quale motivo non avesse mai ascoltato quella band prima d’allora e se lo chiese proprio mentre la cantante annunciava al pubblico che il prossimo sarebbe stato l’ultimo pezzo.

Una mano si posò sulla spalla di Mark, riportandolo alla realtà, era Neale:

«C’è da finire di preparare le ultime cose, siete i prossimi».

Il chitarrista lo guardò:

«Arrivo».

Lanciò un’ultima occhiata al palco e seguì Neale appena fuori dallo stage, rimanendo comunque in ascolto degli ultimi minuti di live degli Engage.

 

 

 

Il sole stava lentamente cominciando a tramontare, sembrava non avere fretta di farlo quel giorno. Nell’area backstage, vicino ai tourbus, i quattro di Swords stavano parlando con i quattro di Belfast: gli Engage. I Kodaline erano scesi dal palco da quasi un’ora; il loro live era andato piuttosto bene e, dopo essersi rilassati un po’, Mark ed Etáoin avevano spronato gli altri tre a fare amicizia con i giovani nordirlandesi. Dopo i primi minuti di convenevoli e i reciproci complimenti, le varie conversazioni si erano sviluppate sui discorsi più disparati. Chi parlava di strumenti musicali, chi di tour, Vinny e Robert addirittura di rugby. Mark era rimasto un momento in disparte, stava finendo di rispondere al messaggio di un suo amico, quando qualcuno gli si avvicinò:

«Hey».

Alzò lo sguardo dal telefonino, notando Rebecca davanti a sé.

«Hey» rispose, infilando in tasca lo smartphone.

«Direi proprio che ti devo ringraziare» fece lei.

«Ah sì? E per cosa?»

La ragazza gli allungò la sua copia di In a Perfect World e Mark poté notare nuovamente la sua dedica con firma e l’autografo dei suoi tre compagni.

«Ora ho anche io il mio cd autografato con dedica» disse lei, sorridendo.

Mark fece lo stesso e in quel momento si rese conto che quella ragazza gli piaceva. Non solo era davvero bella, non solo era un’ottima artista – e lui ne aveva avuto la conferma quella sera – ma sembrava dannatamente felice di stare al mondo. Mark sentiva che la sua compagnia non lo avrebbe mai potuto stancare, esattamente come il suo sorriso. Dal momento che era riuscito ad incontrarla non voleva più lasciarla andare senza prima aver trovato una scusa per risentirla. Infilò una mano in tasca mentre con l’altra prese a scompigliarsi i capelli:

«Senti, ma… ti andrebbe di andare a prendere una birra?» le chiese.

Rebecca non ebbe la minima esitazione: «Certo! Vado a dirlo ai ragazzi».

Gli diede le spalle prima che Mark potesse aggiungere altro. Lui rimase a guardarla mentre, uno a uno, diceva qualcosa ai suoi amici; gesticolava con le sue mani così sottili, i capelli rossi raccolti in una treccia. Infine tornò da Mark, sola:

«Possiamo andare».

L’uomo rimase interdetto per un momento. Il suo invito era rivolto solo alla donna, ma si era convinto che lei lo avesse frainteso, espandendolo al resto della band, invece no. Sarebbero stati solo loro due.

«Ah, ehm, sì, andiamo».

Le fece strada, lei lo seguì, entrambi diretti verso il bar provvisorio dell’area backstage del Gurten Festival.

 

*

 

Un rombo riempì la stanza, svegliandolo. Si stropicciò un momento gli occhi, tentando di decifrare accuratamente ogni suono che aveva intorno.

Pioveva. L’acqua scendeva forte dal cielo notturno, picchiava contro le finestre e s’infrangeva sulle strade. Qualcosa cadde in giardino per colpa del vento, un lampo illuminò la stanza per un istante, seguito da un nuovo tuono.

Mark era sdraiato a pancia in su, nella stessa posizione in cui si era addormentato, il braccio sinistro dietro la schiena della ragazza, la mano leggermente adagiata sulla sua vita. La sentì avvicinarsi ancora quando un altro tuono irruppe nella stanza. Lei serrò la presa della mano che teneva sul petto dell’uomo, tirando la t-shirt che lui indossava.

Non le erano mai piaciuti i temporali, Mark lo sapeva. Fin da bambina l’avevano sempre spaventata, la facevano sentire impotente, vulnerabile. Loro due avevano affrontato l’argomento una sera in cui si erano ritrovati a casa di lei in piena tempesta. Lui l’aveva trovata irrequieta, lei si era stretta nelle spalle e, imbarazzata, gli aveva detto la verità.

Il chitarrista la strinse a sé, la sentì rilassarsi, allentare la presa dalla maglietta.

Lei sollevò lo sguardo, incrociando gli occhi azzurri dell’uomo:

«Scusa» mormorò.

«Per cosa?»

«Quando ci sono i temporali regredisco. Mi sento davvero una bambina. Avere paura dei tuoni a venticinque anni suonati…» si mise a ridere, ma poi si strinse nuovamente a Mark quando un altro tuono proruppe nella camera.

Lui le sorrise:

«Ginger, guarda che lo so che non ti piacciono i temporali, non stare a preoccuparti. E poi il fatto di doverti rassicurare quando ci sono mi fa sentire importante» s’impettì, almeno di quel poco che gli permetteva la posizione distesa in cui si trovava.

La ragazza gli diede dell’idiota, ma poi rimase a guardarlo. Le piaceva quando la chiamava Ginger. Andrew, Robert e Steve l’avevano sempre chiamata così, per via del suo colore di capelli. Tuttavia lei adorava sentire la voce di Mark pronunciare quella parola, preferiva milioni di volte essere chiamata Ginger anziché Rebecca da lui.

«Non ti ho svegliato, vero?» gli chiese dopo alcuni secondi di silenzio, interrotti solo dal continuo scroscio dell’acqua.

L’uomo scosse la testa:

«No. Stavo pensando».

«A cosa?»

«Te li ricordi quei cerotti con i dinosauri?»

Rebecca si mise a ridere, sollevò la testa e permise a Mark di far scorrere la mano fra i suoi capelli rossi.

«Sì che me li ricordo, dovremmo averli ancora da qualche parte».

«Sul serio?»

Lei annuì:

«I ragazzi si vergognavano ad usarli, li incollavano in giro per i festival piuttosto. Secondo me l’unico usato veramente è quello che ti sei beccato tu».

«Perciò mi stai dicendo che io sono l’unico demente che si è portato un cerotto per bambini su di un palcoscenico?»

«A quanto pare…»

«Ottimo, davvero. Aspetta che becchi i tuoi soci e gliela faccio pagare».

La ragazza rise nuovamente:

«Però se non fosse stato per quei cerotti non ci saremmo mai incontrati».

«Questo è vero. Ma in verità quei dinosauri mi piacevano».

Lei tornò a posare la testa sul cuscino, accanto a Mark:

«Lo sapevo» disse. Cercò di non pensare ai tuoni e si concentrò solo sul respiro dell’uomo che le stava vicino. Lui la strinse a sé e chiuse gli occhi.

Era la loro ultima notte insieme sotto il cielo di Belfast, che quel giorno aveva regalato solo pioggia. Ma ai due non era importato più di tanto; dal momento in cui avevano bevuto la loro prima birra insieme a quello in cui avevano deciso di provarci, di unire le loro due Irlande, ciò che li circondava non influiva minimamente sul loro rapporto. Neanche la consapevolezza che il giorno dopo i Kodaline sarebbero dovuti partire per gli States e gli Engage per l’Europa li turbava in quel momento; per loro erano solo chilometri su di una cartina.

Dopo poco presero sonno entrambi, proprio mentre il temporale cominciava ad allontanarsi e il silenzio a scendere delicato sulla città. Il buio si riappropriò timidamente della stanza, di ogni suo angolo, compreso il mobile accanto alla porta su cui Rebecca teneva, da sempre, i cd musicali più importanti della sua vita. Fra quelli, con la sua custodia di plastica leggermente rovinata, c’era anche la copia di In a Perfect World che Mark e gli altri le avevano autografato al Gurten Festival, il giorno in cui si erano conosciuti. A distanza di quasi tre anni la dedica che il chitarrista le aveva lasciato era ancora lì, indelebile. Quando Rebecca sentiva la mancanza dell’uomo apriva il suo cd e le bastava leggere quelle parole per sorridere, sempre.

 

Grazie per i brachiosauri.

 

 

 

 

 

Salve a tutti.

Sarò breve e sintetica. Vi ringrazio per aver letto fino a qui, davvero. Se siete fan dei Kodaline sappiate subito che sono contenta di sapere di non essere l’unica.

In verità questo commento finale lo scrivo solo per ringraziare voi e ringraziare una mia amica, Rigmarole – Federica – per aver trovato il tempo, fra il lavoro e la sua vita, di sistemare questa mia os.

 

MadAka

  
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