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Autore: _Bec_    05/10/2014    12 recensioni
Daniel King, diciannove anni, viene costretto dal padre e dai suoi stessi sentimenti contrastanti verso la madre malata a vivere con quest'ultima e la sua nuova famiglia, composta da Richard e Jude, marito e figlia diciottenne "perfetti".
Non sarà semplice per Dan adattarsi ad una famiglia tanto diversa da lui, ma soprattutto, sarà difficile andare d'accordo con una madre che ha sempre odiato, a cui però potrebbero restare soltanto pochi mesi di vita.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Riassunto delle puntate precedenti: Jude ha parlato con Delia di Dan e si è fatta raccontare cos’è successo in passato tra loro e perché lui la odia tanto. Daniel le ha sentite e si è arrabbiato, soprattutto con Jude di cui è un po’ “geloso” per via del rapporto che lei ha con sua madre.

Jude gli ha chiesto scusa nel capitolo scorso, gli ha detto che non voleva farsi gli affari suoi e che non lo compatisce affatto. E gli ha svelato che sua madre se n’è andata di casa quando lei era piccola e che non la ricorda. Lui accetta le scuse e fine. (come sono brava a fare i riassunti, eh? :P)

Perdonate il titolo pessimo, ma capirete il perché e da dove viene quando arriverete in fondo al capitolo. Buona lettura!





Time is running out

 

 

 

Capitolo 7: “Adesso però mi piace”

 

 

Un grazie particolare a Bea per il dettagliato betaggio e per avermi sopportata come sempre.

A Clara per avermi ‘stressata’ per scrivere questo benedetto capitolo e per la ‘consulenza’ sulla scena finale.

E a chiunque sia qui a leggere ancora, dopo tutto questo tempo :)

 

 

La notte, si sapeva, portava sempre consiglio, e a Jude rigirarsi tra le coperte era decisamente servito.

Era piuttosto di buon umore la mattina seguente, benché ci fosse poco di cui rallegrarsi: non c’erano stati miglioramenti con Daniel, aveva dormito poco e, come se non bastasse, aveva promesso a Jason che sarebbe andata alla festa di Seline Evans quella sera. A conti fatti sarebbe stata una giornata tremenda, eppure, nonostante tutto, non riusciva a smettere di sorridere.

Versò il suo tè caldo nella tazza, canticchiando come la sciocca protagonista di un film Disney.

“Ti si è paralizzata la faccia?”

Spostò lo sguardo sul ragazzo seduto di fronte a lei ed incontrò i suoi occhi castani. La scrutava con prudenza, con un sopracciglio inarcato e la schiena appoggiata alla sedia, quasi si aspettasse che lei potesse tramutarsi in un mostro carnivoro a sei teste.

Niente da fare, nemmeno quella domanda pronunciata in tono indisponente e strascicato ebbe il potere di riportare al loro posto gli angoli delle sue labbra.

“Probabile” Rispose portando la tazza al viso e ridacchiando.

Se possibile Daniel la osservò ancora più stranito e circospetto, ma lei non vi badò troppo. Poggiò la tazza sul tavolo e fece scivolare i palmi delle mani sulla superficie liscia davanti a sé, come a volerla pulire da una polvere inesistente. “Oh, prima che mi dimentichi…” Iniziò, alzandosi in piedi e prendendo una penna e i post-it dal cassetto. “Ti ricordi, no, che questa sera non ci sono?”

Non aspettò una sua risposta. Non che se la aspettasse davvero, Daniel il più delle volte sembrava trovare superfluo il degnarla di tanta cortesia.

Posò il blocchetto sul tavolo di fronte a lui e continuò, “Avrei bisogno del tuo numero di telefono”. Nonostante si fosse preparata il discorso nella sua testa la sera prima, dirlo ad alta voce fu ugualmente imbarazzante, specie per il modo in cui lui la guardò. Dapprima sgranò appena gli occhi sorpreso, poi tornò alla diffidenza di sempre. Assottigliò lo sguardo e aggrottò la fronte sospettoso. “A che ti serve?”

Jude arrossì e si odiò per quel fastidioso calore sulle guance e sul collo. “Non farti strane idee, Playboy” Disse con scherno – o almeno ci provò. “Mi piace avere tutto sotto controllo e, dal momento che stasera tua madre e mio padre usciranno, vorrei assicurarmi che sia tutto a posto, visto che rimarrai da solo in casa”.

Non le sembrò particolarmente convinto di quella risposta, ma poco importava. Doveva avere quel dannato numero. Delia le aveva detto di non avere il numero di telefono di suo figlio e lei glielo avrebbe procurato, a qualunque costo. Inoltre voleva davvero assicurarsi che quel presuntuoso non desse fuoco alla casa in sua assenza.

“Gentile da parte tua, ma so badare a me stesso”. Replicò sarcastico, facendo un mezzo sorriso tutt’altro che spontaneo.

Scosse la testa e sospirò. “Credo di essermi spiegata male”. Le sembrò di essere una maestra alle prese con un bambino poco intelligente, “Non è di te che mi importa, ma della casa. Potrebbero anche rapirti e gettare il tuo cadavere in un fosso, per quanto mi riguarda”. Sfoderò un mega sorrisone, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Non era stata molto carina con quella frase, ma doveva preservare un minimo di facciata. Il giorno prima si era scusata con lui ed era stata fin troppo gentile, doveva rimediare.

Daniel fece una smorfia e girò la pagina del quotidiano che aveva in mano, continuando ad ignorare il blocchetto e la penna. “Sei proprio la meravigliosa ragazza che descrive mia madre” Considerò sarcastico, alzando gli occhi al soffitto.

“Vero? Lo penso anche io.” Tamburellò impaziente con le dita sui post-it, “Allora? Non ho tutto il giorno, sono in ritardo.” Sperò di non risultare troppo disperata, non stava morendo dalla voglia di avere il suo cavolo di numero. Cioè, sì, ma solo per aiutare Delia.

Lui occhieggiò la penna da sopra il giornale, poi sospirò con rassegnazione e lo ripiegò per riporlo sul tavolo.

La ragazza si sforzò di non mostrare alcun tipo di entusiasmo quando lo vide scribacchiare distrattamente dei numeri sul piccolo foglio quadrato. Sperava solo che fosse davvero il suo numero e che non le stesse facendo qualche stupido scherzo.

“Perfetto, grazie!” Lo staccò dal resto del blocchetto e lo infilò in tasca, appuntandosi mentalmente di salvarlo in rubrica una volta arrivata a scuola. Avrebbe potuto farlo anche subito e davanti a lui, ma non voleva dargli tanta importanza.

“Delia e mio padre torneranno abbastanza presto, ma ti chiamerò comunque verso le undici e mezza per sapere se è tutto a posto”. Stava per voltarsi ed uscire, ma all’ultimo cambiò idea.

“Per qualsiasi cosa ti lascio il mio, nel caso avessi bisogno.” S’inchinò in avanti sul tavolo e stappò di nuovo la penna per scrivere il suo recapito sul post-it successivo.

Non si aspettava che la chiamasse, sapeva che non l’avrebbe mai fatto. In realtà non sapeva nemmeno perché glielo stesse lasciando, era inutile. Di certo non si sarebbe rivolto a lei, neanche se avesse avuto bisogno di qualcosa.

“In tal caso credo preferirei lasciare che buttassero il mio cadavere in un fosso” Replicò lui indisponente, ad un soffio dal suo orecchio.

Appunto. Simpatico quanto le spine di un cactus negli occhi. E a proposito di occhi, si ritrovò i suoi eccessivamente vicini quando rialzò la testa. Di un marrone mischiato a delle quasi invisibili pagliuzze verdognole… le ricordavano l’autunno, le ricordavano il colore delle foglie degli alberi in quella particolare stagione.

Non riuscì a capire se l’accenno di profumo del suo dopobarba la infastidì o inebriò, seppe solo che, quando le arrivò alle narici, si risvegliò da quei pensieri come se qualcuno le avesse dato un pizzicotto. Era decisamente troppo vicina a lui. Si schiarì la gola a disagio e si allontanò in fretta con un piccolo saltello all’indietro, sperando che il suo nervosismo non trapelasse troppo dai suoi gesti.

Lui non aveva fatto una piega, notò Jude, la sua vicinanza non sembrava averlo minimamente turbato. Aveva la stessa espressione irriverente di poco prima sul volto, niente lasciava pensare che si fosse accorto del cambiamento di lei. Grazie al cielo, considerò rassicurata. Non sapeva che diavolo le fosse preso, doveva ricordarsi di mantenere almeno un metro di distanza da lui, un’ordinanza restrittiva emessa dal suo stesso cervello per il suo bene.

“Bene, allora posso andare. Buona giornata.” La sua voce, purtroppo, aveva completamente perso la sicurezza e spavalderia di poco prima. Porca miseria.

Lui alzò la mano e la salutò con un gesto derisorio e sbrigativo, tornando subito dopo al suo giornale. Lo osservò imbambolata per una manciata di secondi; i capelli castani spettinati, gli occhi assonnati e socchiusi posati sulle pagine del quotidiano, la maglietta scura che gli fasciava perfettamente il busto, le braccia scoperte e muscolose al punto giusto, i polsi… aveva dei bei polsi, pensò stupidamente. Perché quel maledetto doveva essere bello? Non poteva essere un secchione mingherlino e sfigato? O un tritarifiuti di centottanta chili?

“Ah e ricordati che chiamerò per controllare che sia tutto a posto alle…

“Cristo santo!” Lui fece roteare lo sguardo per la stanza scocciato. “Sei peggio di mia madre. Alle undici e mezza, ho capito, farò in modo che gli alcolici e le prostitute spariscano prima del tuo controllo del cazzo, okay?”

Jude calò di poco le palpebre, la mascella contratta e i pugni serrati. “Davvero simpatico. Sono seria, dimentica ilfai come se fossi a casa tua di mio padre’, questa non è casa tua. Vedi di comportarti bene.”

Lui corrugò le sopracciglia infastidito. “Sei davvero sicura di avere diciotto anni e non sessanta? Immagino che sarai l’anima della festa stasera, giocherai a scarabeo per caso?

Oh-oh, al moccioso si era sciolta la lingua, riusciva anche a comporre frasi più lunghe di due parole, era sconvolgente!

Trivial pursuit, in realtà.” Replicò con un sorriso, decisa a non dargli altre soddisfazioni. “Tu fai il bravo e non andare a letto troppo tardi.” Sbatté le ciglia con fare canzonatorio, per poi voltarsi ed uscire finalmente da quella casa.

Piccolo appunto mentale: non avvicinarsi più a Daniel King. Ed evitare di incantarsi troppo a guardarlo.

 

 

****

 

…6945…

 

“Buongiorno splendore!”

Jude sussultò sul posto, il dito fermo sul tasto cinque del cellulare mentre salvava il numero di quel cretino del suo non-fratellastro.

“Come va oggi?”

“Una merda” Rispose atona, senza staccare gli occhi dal telefono.

Come sempre, Edward non si lasciò scoraggiare. “Sono sicuro che tra poco migliorerà. Curiosa di sentire la canzone che ho scelto per te – che dico, per noi – oggi?” Le chiese con un sorrisone sulle labbra.

“Neanche un po’” Borbottò, ficcandosi in tasca il post-it colorato e scrivendo velocemente il nome di Daniel. “E non esiste nessunnoi’ Ed”. Alzò gli occhi al cielo scocciata, ritornando al display subito dopo.

Ma perché Edward Russo non poteva essere un ragazzo normale? Perché capitavano tutti a lei i tipi strani ed inquietanti?

Lui la ignorò e, portandosi la mano chiusa a pugno sulla bocca, tossì per darsi un tono, prima di iniziare a cantare.

Every night in my dreams I see you, I feel you”.

Oh no. Santo cielo, no. Odiava quella canzone, era stata felice di sentirla solo durante i titoli di coda del film Titanic, dopo aver goduto per la morte di quel faccia-da-bimbo di Leonardo di Caprio. Tra lui e labbra-a-canotto-Winslet non sapeva chi era peggio e chi avesse detestato di più da bambina.

“Che diamine di sonniferi prendi la sera?” Sbuffò lei irritata, rispondendo alle parole della canzone e rabbrividendo per il disgusto.

I suoi tentativi di imitare la voce di Celine Dion erano imbarazzanti e ben presto in molti si girarono a guardarli. Grandioso.

Edward aveva un’autentica espressione di dolore in volto, una partecipazione commovente. La mano aperta sul cuore e il modo in cui faceva ondeggiare piano la testa davano un tocco in più al tutto.

“Edward o la pianti o ti prendo a calci”. Incrociò le braccia al petto a disagio, lanciando occhiatacce ai compagni di scuola che si fermavano ad osservarli.

Near, far, wherever you aaaare, I believe that the heart does go on!Continuò imperterrito lui, incurante delle sue minacce e del suo imbarazzo.

“Mi fa piacere saperlo, ma io me ne vado”. Fece per girarsi, ma lui le diede un colpetto impaziente sul braccio, interrompendosi, “No, aspetta, ora arriva la parte migliore!”

“Non stento a crederlo, ma sta per iniziare la prima ora, quindi…

Lui riprese a cantare e Jude decise di averne avuto abbastanza di quella performance. Se anche se ne fosse andata, lui l’avrebbe seguita e non voleva di certo avere quell’mp3 vivente – stonato – e in vivavoce alle calcagna.

Allungò la mano e gli afferrò i capelli, tirandoli con forza verso di sé. Quello servì a farlo smettere.

“Ahia! Ahia! Non ti è piaciuta?” Chiese lui innocentemente, massaggiandosi la testa quando lo lasciò andare.

“Secondo te?” Chiese retoricamente, aggrottando le sopracciglia in modo eloquente.

Edward chinò il capo dispiaciuto e storse la bocca, “Per domani troverò qualcosa di meglio”.

“Preferirei di no.”

“Magari qualcosa di Cheryl Cole.”

“O anche no.”

“O di Robbie Williams.”

“Hai già provato conShe’s the one’ e non era andata bene” Gli ricordò lei, accennando al suo piede con il mento. Era ruzzolato giù dalle scale mentre gliela stava cantando e facendo gli scalini di spalle per guardarla in faccia.

Edward annuì in silenzio, grattandosi il mento pensieroso come un vecchio saggio. Gli mancava solo la barba bianca.

Fu Jason a salvarla proprio quando Ed stava per proporre un’altra terribile canzone.

“Ehi, Juju, per stasera allora ti vengo a prendere io alle otto?” Le circondò le spalle con un braccio, per la non-gioia di Edward, che s’incupì.

“Se proprio devi”. Il buonumore di quella mattina era sparito velocemente. Prima la canzone di Edward e poi il ricordo della serata che l’attendeva, di male in peggio, dalla padella alla brace.

“Oh, dai, non fare storie, ci divertiremo a quella festa!” Ridacchiò lui, facendo un cenno all’altro ragazzo. “Ciao Edward”.

Fray” Ribatté l’altro imbronciato. Poi sfoderò nuovamente il suo solito sorriso e si voltò verso di lei. “Allora ci vediamo lì questa sera, meraviglia”. Le fece l’occhiolino.

“Un motivo in più per non andarci, insomma” Replicò stancamente, senza preoccuparsi di non farsi sentire. A Edward tutto quello che diceva sembrava rimbalzare o scivolare addosso, doveva essere fatto di viscida gelatina.

Come volevasi dimostrare nemmeno quella frase lo mise di cattivo umore, anzi, lo fece ridere. Era idiota, non c’era altra spiegazione.

Judith sospirò e diede un pugnetto sul braccio dell’amico. “Alle otto quindi?”

Jason, che aveva assistito allo scambio di battute tra lei e Edward, scrollò le spalle divertito e annuì. “Alle otto. Dovrò cercare di non bere per riaccompagnare a casa te e Meg dopo.”

Pensare ad un Jason astemio era come pensare a Bugs Bunny senza carota: impossibile. Non che fosse un alcolizzato, ma quando c’era da bere e divertirsi Jay era sempre in prima fila. Se lei e Meg avessero avuto la patente non si sarebbero mai affidate a lui per un passaggio, era un buon amico, ma tremendamente inaffidabile.

Inarcò un sopracciglio scettica. “Andiamo bene”.

 

 

*****

 

Dopo una giornata di merda al lavoro, Daniel pregustava di trascorrere una serata in pieno relax, contava di non vedere anima viva almeno fino all’una del mattino.

Quella stronza di Becky lo aveva fatto sgobbare per tutto il giorno, facendogli fare ben più di quanto gli spettasse e approfittando del fatto che, in quanto ultimo arrivato, non avrebbe potuto far poi molto per opporsi. Pulire i servizi non era compito suo, ma dal momento che Rita, la donna delle pulizie, si era dovuta assentare quel giorno, era toccato a lui occuparsene.

Si era incazzato, naturalmente, ma quando Trevor era intervenuto chiedendo se c’era forse qualche problema, aveva dovuto mandar giù una sequela di insulti e una sfuriata piuttosto infantile per far finta di nulla.

Non poteva permettersi di mettere a rischio il suo lavoro per una sciocchezza, quei soldi gli servivano per avere una minima indipendenza economica lì dentro, non aveva alcuna intenzione di passare le giornate in casa di Richard Parker a rigirarsi i pollici. E a proposito di Richard Parker… aveva avuto un moto di rabbia e disgusto quando l’uomo si era seduto accanto a lui sul divano, poco prima di cena.

“Tua madre ti ha lasciato qualcosa nel forno.” Aveva esordito così, in tono amichevole, ma prudente, quasi stesse sondando il terreno con lui. Sembrava un padre in procinto di fare un discorso serio al figlio, solo che Daniel non aveva nessun legame di parentela con lui e non era tenuto a starlo ad ascoltare.

Alzò lo sguardo dal suo cellulare per riservargli un veloce e forzato sorriso di ringraziamento, sperando invano che la conversazione morisse lì.

“Se vuoi venire con noi…”

“No” Si affrettò a rispondere, nauseato al solo pensiero di passare una serata a reggere il moccolo a quell’uomo e sua madre.

Richard si schiarì la voce e annuì piano, congiungendo le mani davanti a sé e meditando in silenzio per qualche secondo. Non prometteva nulla di buono.

Nei secondi che seguirono, la sua irritazione e il suo disagio crebbero e Daniel avvertì l’impellente bisogno di andarsene.

“Posso solo immaginare come tu stia.” L’uomo si voltò a guardarlo di sbieco, lievemente agitato. “Anzi, non credo che il tuo dolore possa essere minimamente paragonabile al mio. Tu sei suo figlio e io…”

Aveva ascoltato già troppo. “Non mi va di parlarne”. Si alzò di scatto, le mani chiuse a pugno ed il battito accelerato del cuore nelle orecchie.

“Aspetta.” Richard allungò una mano per toccarlo, poi all’ultimo sembrò ripensarci e la ritrasse. Saggia mossa. “Dammi la possibilità di parlare, ti prego. Questa situazione non è facile per nessuno.

Per nessuno? Richard Parker non era di certo in una casa con dei perfetti estranei che lo odiavano, aveva la sua bella famigliola di cui lui non faceva parte.

“Io non so cosa sia successo tra te e tua madre e non voglio saperlo, non voglio intromettermi.”

Basta.

Merda, non voleva ascoltare, non voleva parlare di quello che era successo con sua madre, non voleva proprio parlare di lei, tantomeno con quell’uomo.

Gli veniva da vomitare. Strinse i denti e si costrinse a non replicare sgarbatamente.

“So solo che per lei sei importante e, di conseguenza, lo sei anche per me. So che hai un padre e non cercherei mai di prendere il suo posto, voglio solo che tu sappia che qui sei uno di famiglia, che se hai bisogno di qualsiasi cosa chiunque in questa casa sarà pronto ad ascoltarti e ad aiutarti.”

Meno male che si era premurato di dirglielo, non sapeva come avrebbe fatto a vivere altrimenti, pensò sarcastico.

Vide il tavolino in vetro di fronte a sé oscillare leggermente e gli occorse qualche secondo per realizzare che era lui a tremare. Si passò una mano sugli occhi e fece un respiro profondo per scacciare la nausea. Belle parole, davvero. Forse erano anche sincere, peccato che non lo facessero star meglio neanche un po’.

Perché nessuno in quella casa capiva come si sentiva? Non voleva stare lì, non voleva vedere sua madre felice con quegli estranei, una parte di lui non voleva proprio più vederla visto il male che gli aveva fatto. Voleva poter tornare a casa e riprendere la sua vita di sempre, far finta che niente di tutto quello fosse successo, ma con sua madre in quelle condizioni la sua stessa coscienza glielo impediva.

Compresa mia figlia, anche se non sembra”.

Si lasciò sfuggire uno sbuffo molto più simile a una risata amara mal trattenuta. Judith Parker era l’ultima persona al mondo che lo avrebbe ascoltato e aiutato, avrebbe preferito amputarsi un braccio piuttosto.

“Non è semplice per lei averti in casa, è stato difficile accettare anche Delia all’inizio.”

Voltò di poco la testa, giusto quanto bastava per osservarlo in volto. Aveva i lineamenti tesi in un’espressione seriamente amareggiata e Daniel provò quasi compassione per lui.

“Si è sempre presa cura di me da quando la mia ex moglie se n’è andata e ha trovato a fatica un equilibrio senza di lei” Spiegò a bassa voce, sfregandosi nervosamente le mani. “Si abituerà alla tua presenza, è una brava ragazza ed è intelligente. Sono sicuro che riuscirete persino ad andare d’accordo”.

Certo, ad andare d’accordo, come no. Cosa stava cercando di dirgli? Perché quel discorso, cosa voleva da lui?

“Ti chiedo di avere un po’ di pazienza con lei, cercherò di parlarle di nuovo.”

Daniel scosse lentamente la testa e respirò profondamente. “Non serve.” Ci mancava solo che Judith ricominciasse a parlargli con quel sorriso condiscendente che avrebbe potuto rivolgere solo ad un povero idiota.

Si morse l’interno della guancia e rilassò i muscoli delle braccia, mostrandosi più tranquillo e indifferente di quanto fosse. “Apprezzo il discorso, comunque, anche se non era necessario”.

Tutti in quella casa sembravano trovare inconcepibile l’idea che lui non volesse essere coinvolto nel loro “meraviglioso mondo fiabesco”, voleva solo essere invisibile. Cercava di stare fuori e di lavorare il più possibile per evitarli, non era abbastanza evidente?

Lo era” Sostenne risoluto l’uomo. “Non voglio davvero che tu ti senta di troppo qui o non voluto, questa è casa tua quanto mia e hai tutto il diritto di starci”.

Bene, bello. Buono a sapersi, ora poteva ufficialmente unirsi a loro per la partita a carte del giovedì sera, il sogno di una vita. Chissà se lo avrebbe anche incluso in un eventuale testamento, visto che quella che, almeno a parole, era anche casa sua sembrava valere un bel po’.

Dio, ma come era finito in quel discorso cuore-a-cuore con Richard Parker? Che diavolo aveva fatto di male per meritarselo?

Mandò giù una sgarbata risposta che avrebbe rivelato fin troppo la sofferenza che tutta quella situazione gli causava e sorrise forzatamente. “Lo terrò a mente, grazie”.

Gli sarebbe piaciuto, tutto sommato, potersi davvero sentire come a casa sua, come uno di famiglia. Lo infastidiva il pensiero, ma non era contento nemmeno lui di sentirsi un completo estraneo in quel posto. Se le cose con sua madre fossero andate diversamente, se lei non lo avesse abbandonato senza dire una parola per trovarsi un’altra famiglia, forse avrebbe potuto persino apprezzare Richard, avrebbe potuto cercare di conoscerlo e di essere simpatico. Lo avrebbe fatto principalmente per sua madre, per renderla felice. Ma lei se n’era andata, lo aveva lasciato solo quando aveva avuto più bisogno di lei, era sparita e non era più tornata. E ora, ora, dopo anni di assenza, gli mostrava quanto era contenta con la sua nuova e meravigliosa famiglia, senza di lui. Si era costruita una nuova vita senza di lui, una vita in cui non c’era evidentemente posto per lui. Non le doveva nulla.

Fu una liberazione vedere uscire di casa tutta quella sottospecie di famigliola felice e restare da solo per la prima volta. Gli sembrò di tornare, chiudendo gli occhi, ad una delle numerose serate trascorse da solo nell’appartamento di suo padre a New York. Thomas King non era quasi mai a casa e, le poche volte che lo era, aveva bevuto troppo o non era dell’umore adatto per scambiare con lui vere e proprie frasi che non fossero grugniti o monosillabi. A Daniel andava bene così, gli era sempre andato bene così. Non riusciva a pensare ad un padre diverso da lui; sebbene non ci fosse dialogo tra di loro, sapeva che, se avesse avuto bisogno di qualcosa, suo padre sarebbe stato il primo ad occuparsene, anche se a modo suo e con scarsi risultati probabilmente. Era rimasto completamente solo in una casa di merda che non aveva mai voluto e che aveva accettato di affittare solo per rendere felice sua moglie, a crescere un figlio adolescente che non avrebbe potuto che dargli problemi in un’età così delicata e senza una madre. Non lo aveva mai abbandonato, a differenza di sua madre, e Daniel, solo per quello, sentiva di provare stima e affetto nei suoi confronti, nonostante i momenti di bassi superassero di gran lunga quelli di alti nella loro quotidiana routine.

Sospirò e si abbandonò sullo schienale del divano, accendendo la televisione più per abitudine che per guardarla davvero. A casa non la guardava quasi mai, per risparmiare sulle bollette, ma da quando era la accendeva spesso. Una piccola ed infantile ripicca, dal momento che non era lui a doversi occupare delle spese in quella casa, ma Richard.

Gli sarebbe piaciuto aver lì con sé i suoi amici; Sketch lo avrebbe irritato con la sua continua e fastidiosa risata da iena, quella pazza di Des avrebbe già riempito la casa di chewing gum incollati ovunque e avrebbe già rovinato il divano poggiandoci gli anfibi sopra e ReedReed se ne sarebbe uscito con qualche merdata di frase sul senso della vita dopo essersi fumato in completo silenzio un paio di canne.

Ancora ricordava l’uscita sui viaggi in nave che aveva fatto la sera prima che partisse da New York per venire dalla madre.

“Ci pensate”, aveva detto con aria assorta e dal nulla, dopo esser stato zitto per almeno due ore, “a come era una volta viaggiare? In nave, con il mare mosso… con le scarse condizioni igieniche, le malattie, il cibo che andava a male dopo giorni, mesi passati in mezzo al nulla? Des, tu saresti morta in un giorno, visto quanto soffri il mal di mare”.

Des aveva disteso le gambe e incrociato le caviglie, lanciandogli un’occhiata scocciata di sottecchi. “Ci risiamo. Reed si è svegliato, bentornato tesoro”. Poi, dopo essersi stiracchiata con le braccia, aveva tirato su i piedi e si era rannicchiata sul posto: “Comunque io in quanto donna sarei rimasta a casa a cucinare, pulire e sputare fuori bambini dalla vagina. A crepare ci sareste andati voi e io ci avrei goduto come una vacca.”

Daniel sorrise ripensando all’espressione ebete con cui l’aveva guardata Reed. Des aveva sempre uscite abbastanza spiazzanti, non si faceva problemi a dire quello che le passava per la testa, senza alcun filtro. Nulla a che vedere con Judith Parker e il suo mondo rosa, in altre parole.

Abbassò lo sguardo sul suo cellulare e passò distrattamente il dito sullo schermo. Si trattava solo di qualche mese, poi sarebbe finito tutto. Avrebbe voluto avere una macchina del tempo per saltare quel supplizio e arrivare direttamente a quel giorno, per vedere come sarebbero andate le cose, se l’inizio della terapia di sua madre sarebbe servito a qualcosa o... Scosse la testa e si concentrò sulla televisione. Tanto valeva guardarsi un film per distrarsi.

Notò di sfuggita l’orologio e aggrottò la fronte stranito. Barbie Principessa si era dimenticata della sua telefonata rompicoglioni di controllo a quanto pareva, considerato che era mezzanotte e non si era ancora fatta sentire. Meglio così, non ne sentiva di certo la mancanza.

 

***

 

Quando riaprì gli occhi si ritrovò completamente immerso nel buio del soggiorno, fatta eccezione per un chiaro bagliore sul soffitto.

Qualcosa sembrava ronzare vicino a lui, ma non ci fece subito caso, stanco e stordito dal sonno com’era. Sbatté le palpebre confuso e si guardò intorno, cercando di ricordare cosa ci facesse lì. Doveva essersi addormentato.

Si sfregò le palpebre con le dita e si mise a sedere. Non aveva la minima idea di che ore fossero, si era addormentato prima che tornassero a casa sua madre e Richard, con la televisione accesa e il cellulare in mano.

Si voltò verso lo schermo spento della TV e tastò il divano in cerca del suo telefono.

Quando lo trovò, lo sentì vibrare sotto la sua mano e comprese da dove provenivano quel ronzio e quella luce. Strizzò gli occhi infastidito nel momento in cui li puntò sul display fin troppo luminoso; qualche deficiente – ignoto dal momento che non riconosceva il numero – lo stava chiamando alle due del mattino.

Chi diavolo poteva essere? Probabilmente qualche amico scemo da New York. Al suo amico Sketch bastava bere un po’ per andare fuori di testa, forse credeva di star chiamando qualche strafiga che aveva conosciuto in discoteca. Questo non spiegava comunque il numero sconosciuto.

“Pronto?” Aveva una voce talmente roca da far invidia a un serial killer. Se la schiarì appena e attese impaziente una risposta che non tardò ad arrivare.

“Sì, uhm, Daniel?”

Una ragazza. Merda. Avrebbe dovuto ricordarsela? A quante ragazze di cui non aveva memoria aveva dato il suo numero?

L’ipotesi dello scherzo di un amico gli sembrava sempre più valida.

“Sì?”

“Ciao, scusami se ti disturbo, sono Meg”.

Merda. Meg. Setacciò la sua mente in cerca di un ricordo o di un volto. Zero. Chi cazzo era Meg? Ci era andato a letto insieme? A New York gli era capitato di ubriacarsi a tal punto di non ricordare nomi o volti di ragazze con cui era stato, ma non credeva di essere stato tanto stupido da lasciare il suo numero a qualcuna.

Il suo silenzio dovette parlare per lui, perché la ragazza si affrettò a specificare, un po’ a disagio: “L’amica di Jude”.

Visualizzò la ragazza dai capelli rossi e si massaggiò la fronte, improvvisamente consapevole di chi ci fosse dall’altra parte. Di Jude ne conosceva solo una, grazie al cielo, non c’era possibilità di fraintendere.

“Ah, sì. Ciao”. Ciao? In realtà avrebbe voluto incazzarsi per l’orario e chiederle perché mai avesse il suo numero, ma era un tantino disorientato al momento.

“Scusami se ti chiamo a quest’ora, è una specie di emergenza” spiegò lei, talmente in fretta che Daniel fece fatica a starle dietro.

Gli sembrò piuttosto agitata e non gli parve il caso di infierire, così decise di rimandare il momento dell’incazzatura.

“Che succede?” Chiese istintivamente, un po’ più vigile.

Prima che la rossa potesse rispondergli, una seconda voce femminile s’intromise nella conversazione, più lontana rispetto alla prima.

“Metti giù Meg, giuro che ti ammazzo!” Borbottò in tono lamentoso quella che riconobbe come Judith.

Aveva a che fare con due psicopatiche, non c’erano dubbi. Diede dei colpetti con le dita sullo schienale del divano, irritato ed impaziente di sapere che diavolo volessero da lui.

“Sarei tentato di farlo io, a questo punto” Commentò in tono neutro. “Intendo mettere giù, non ammazzarti” Precisò lievemente sarcastico. Non era ancora arrivato al punto di voler ammazzare la rossa, dopotutto non era colpa sua se Judith Parker gli causava un tale fastidio.

“No! Aspetta, ti prego” Fece Meg allarmata. “Siamo a una festa di una nostra compagna di scuola e Jude ha bevuto troppo, così come l’amico che doveva riaccompagnarci a casa in macchina. Non sappiamo come tornare e io non so cosa fare e…” Meg fece un respiro profondo e la sua voce si affievolì.

Nel silenzio del salotto, Daniel inarcò lentamente un sopracciglio. Fissava torvo l’orologio luminoso del lettore dvd, che gli ricordava in modo beffardo l’ora in cui stava accadendo tutto quello. Erano le due del mattino, era sveglio dalle sei del giorno prima, aveva lavorato dodici fottute ore e ora Meg-lamica-di-Jude lo chiamava per metterlo al corrente di un problema che non lo riguardava. Che diavolo voleva da lui?

“Vuoi che svegli suo padre e gli dica di venirvi a prendere?” Azzardò, con voce più calma di quanto volesse. Si ricordò che quella ragazza era forse una delle poche persone ad averlo trattato con sincera e amichevole gentilezza e non come se fosse un povero deficiente bisognoso di attenzioni e compassione.

“Oddio no, suo padre la ammazzerebbe se la vedesse in questo stato”.

In quale stato? Come si era ridotta la Perfetta Judith Parker?, si chiese Daniel vagamente divertito e incuriosito.

Stentava comunque a credere che Richard Parker avrebbe ammazzato sua figlia per una simile sciocchezza, sembrava adorarla talmente tanto che probabilmente le avrebbe fatto passare liscia qualsiasi cosa. Non riusciva a credere che si sarebbe arrabbiato se anche avesse scoperto che sua figlia era stata talmente idiota da ubriacarsi e da non saper come tornare a casa da una festa.

“Uhm, quindi?” Chiese dopo un po’, non sentendo più nulla dall’altro capo.

“Potresti… potresti venire a prenderci?” La sua voce tremò appena, come la fiammella di una candela in procinto di spegnersi.

Una risata nacque spontanea nel suo petto e Dan ci mise un po’ a tornare serio. “Che cosa? Io?” Doveva per forza essere uno scherzo, lo stavano prendendo in giro quelle due.

Meg non parve essersela presa, né, purtroppo per lui, confermò la sua ipotesi. “Oh sì, ti prego. Non sappiamo come tornare e non possiamo restare qui a dormire!” Piagnucolò ad alta voce, direttamente nel suo orecchio, rischiando quasi di farlo diventare sordo. “Puoi usare la macchina di suo padre, Jude dice che le chiavi le mette sempre nella ciotola sul mobile all’ingresso”.

Cristo Santo, non stava scherzando, era seria. Diede una rapida occhiata all’ingresso buio alle sue spalle e scosse la testa incredulo. “Non ho intenzione di prendere la sua macchina senza chiedergli il permesso. Non ho proprio intenzione di prenderla”.

Non erano sue amiche, lui non doveva loro alcun favore. Erano finite in quel casino? Bene, cavoli loro, se ne sarebbero tirate fuori da sole. Perché mai avrebbe dovuto prendere una macchina non sua e uscire di notte per andarle a prendere? Dopo come si era comportata Judith con lui poi, dopo come lo aveva sempre trattato… assolutamente no!

“Ti prego! Saremo in debito con te, faremo tutto quello che vorrai, aiutaci! Se i miei scoprono che ho bevuto e che non sono ancora tornata a casa manderanno una pattuglia a cercarmi, e non scherzo!

Sospirò rumorosamente, quella vocina stridula lo stava seriamente stancando. Non vedeva l’ora di mettere giù e di andarsene a letto.

“Non sarebbe una cattiva idea” Fece ironico. “Almeno tornereste a casa”.

Cercò a tentoni il telecomando del televisore con la mano libera e lo individuò nella penombra sopra il bracciolo del divano. Dovevano averlo messo lì Richard e Delia dopo averlo spento.

Si alzò e, a fatica, nel buio della stanza, raggiunse l’ingresso senza rompersi l’osso del collo inciampando contro qualcosa.

“Abbiamo paura, sul serio. Qui è il delirio, sono tutti completamente fuori. Siamo chiuse in bagno e non sappiamo come uscirne”.

Tutti completamente fuori? In quel posto di merda cosa mai potevano essersi fumati, la carta del giornale? Avevano aspirato borotalco e bevuto succo di frutta?

Si proibì categoricamente di cedere o di preoccuparsi. Il ricordo del sorrisetto derisorio di Judith Parker lo aiutò nell’impresa.

Non aveva intenzione di correre a salvare la principessina prendendo di nascosto la macchina di suo padre per poi magari ricevere, in cambio, solo altre provocazioni e nemmeno un “grazie”. La cocca di papà avrebbe dovuto pensarci prima di bere qualcosa di diverso dal suo solito tè.

“Abbassando la maniglia della porta?” Propose con una punta di nervosismo. Gli dispiaceva per la rossa, tutto sommato, se si fosse trattato di aiutare solo lei non sarebbe stato così stronzo.

Si aspettava una risposta acida, un attacco di isteria tipico di una ragazza sull’orlo delle lacrime, invece arrivò una replica molto docile e arrendevole: “Non importa, come non detto. Aveva ragione Jude, lei aveva detto che non saresti venuto”.

Fletté le dita della mano libera ed affondò i polpastrelli nel palmo con forza, sibilando tra i denti come un serpente prima di mordere la sua preda. Si fermò al centro dell’ingresso, ad un passo dalle scale e ad un passo dalla ciotola con le chiavi della macchina.

Non seppe perché quella frase lo infastidì così tanto, forse perché il pensiero che Jude avesse ragione su qualcosa, specie su di lui, era insopportabile.

“Grazie lo stesso e scusami se ti ho disturbato”.

Si arruffò i capelli e sospirò, maledicendosi venti volte per quello che stava per dire.

“Dove siete?”

 

 

*****

 

Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui avesse fregato – preso in prestito era solo un modo carino di definire il tutto – la macchina di qualcuno senza il suo permesso. Forse due anni prima, a Capodanno, quando aveva dovuto guidare non completamente sobrio la macchina dell’ignaro zio del suo amico per le strade di Brooklyn.

Si chiese come avrebbe reagito Richard Parker se, svegliandosi nel cuore della notte, si fosse reso conto del fatto che la sua auto fosse sparita. Così come lui. E sua figlia. L’ospedale più vicino – probabilmente anche l’unico del posto – lo avrebbe ricoverato d’urgenza per un arresto cardiaco.

D’altra parte, non riusciva nemmeno a ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui avesse messo piede ad una festa di liceali.

Ricordava che, durante il suo primo anno delle superiori e insieme ai suoi amici, s’imbucava spesso a feste a cui non era stato invitato, solo per il gusto di far arrabbiare i ragazzi più grandi, litigare con loro e conoscere le cheerleader. Quando, al terzo anno, era entrato nella squadra di basket della scuola e nella cerchia dei ragazzi che Krystal Ferguson, la capo-cheerleader, definiva “appetibili”, aveva iniziato a ricevere fin troppi inviti per i suoi gusti. Andare ai party organizzati dai suoi compagni di scuola era diventato in fretta noioso, non lo divertiva essere “uno di loro”, non lo divertiva avere ragazze isteriche che prima gli si buttavano addosso, senza che lui avesse nemmeno il tempo di aprire bocca, e dopo finivano col chiudersi in bagno piangendo una perduta verginità che “quello stronzo insensibile di Daniel King” aveva tolto loro.

Aveva incominciato ad evitare quella gente come se, solo avvicinandosi, avesse potuto prendersi la sifilide e, tramite il cugino più grande di un suo amico, aveva iniziato a partecipare a feste nei locali, con gente più adulta e non poppanti che litigavano per contendersi l’ultima cassa di birra rimasta o la bionda senza cervello di turno. Trovarsi nella casa della famiglia Evans fu come tornare al suo anno da matricola delle superiori. Non dovette dir nulla di particolare per entrare, un ragazzo ubriaco gli aprì la porta e gli diede una pacca sulla spalla come se fossero amici da una vita.

Dubitava che ricordasse il suo stesso nome o cosa ci facesse lì, aveva l’aria di uno che avrebbe vomitato l’anima da un momento all’altro.

Daniel mosse lentamente i suoi primi passi nell’abitazione, guardandosi intorno con un misto strano di curiosità, divertimento e disgusto. La canzone All Night delle Icona Pop gli rimbombava nelle orecchie, il volume era così alto che dalle casse la musica usciva vagamente gracchiante.

Al naso gli arrivò un forte e riconoscibile odore di fumo, non solo di sigarette. Dappertutto vedeva adolescenti più svestiti che vestiti, appartati in un angolo o a ballare, gridare e saltare al centro delle stanze. La rossa non scherzava quando diceva che la situazione era fuori controllo.

Infilò le mani in tasca pensieroso e notò le scale che portavano al piano di sopra: Meg gli aveva detto di essere al secondo piano, nell’ultima stanza in fondo al corridoio sulla destra. Sperava di non beccare una camera da letto.

Non riuscì ad avanzare di molto, dal momento che una ragazza gli gettò le braccia al collo e si aggrappò a lui per non crollare a terra come un sacco di patate.

“Tu chi sei? Non ti ho mai visto qui” Fece lei, avvicinandosi alla sua faccia per farsi sentire e leccandosi le labbra con la punta della lingua.

Le passò una mano dietro la schiena per sostenerla e la squadrò per un paio di secondi: bionda, alta, gambe snelle e scoperte e un seno bello pieno. Sorrise a mezza bocca; di ragazze come quella New York era piena. “Tuo fratello” Replicò ironicamente.

Lei ridacchiò, segnò che la battuta era arrivata comunque al suo cervello poco lucido. Aveva l’alito che puzzava di birra e la bocca ancora impiastricciata di rossetto lievemente sbavato sul mento.

“Ho sempre trovato tremendamente eccitante l’incesto, sai?” Fece scivolare le sue mani sul suo petto e si sfregò contro il suo corpo come un gatto che faceva le fusa.

Suo malgrado, lui allargò il suo sorriso. Non gli dispiaceva il suo senso dell’umorismo. E non gli dispiaceva nemmeno quel seno premuto contro di lui.

“Che ne dici di andare di sopra, in una delle camere? In un letto comodo…” Chiese lei, ringalluzzita dalla sua risposta apparentemente positiva.

Daniel spostò lo sguardo sulle scale dietro di lei; in un’altra circostanza probabilmente avrebbe acconsentito. Da quando era arrivato non aveva avuto nemmeno il tempo di pensare di avere una vita sessuale e la cosa stava iniziando ad avere un certo peso. Sketch e Reed gli avrebbero chiesto se gli si fosse fottuto il cervello se avessero saputo che stava per sprecare un’occasione del genere. Pazienza, si sarebbe rifatto a New York.

“Non sono un amante della comodità”. Scrollò le spalle. “Starei cercando il bagno, c’è al piano di sopra?”

Lei aggrottò la fronte confusa, poi riacquistò subito la spavalderia di poco prima. “Sì, in fondo a destra. Ho capito, preferisci farlo sotto la doccia.

Daniel scosse la testa e le sorrise sardonico. “Nella vasca, in realtà. Ma ho una particolare adorazione per la lavatrice”.

Lei rise di nuovo ed iniziò a tracciare una scia di baci sul suo collo.

Un po’ restio, si costrinse a staccare le mani dall’invitante vita della ragazza e ad allontanarla da sé. Non era davvero cambiato nulla dalle feste che ricordava; quella doveva essere il classico tipo di ragazza che prima se lo sarebbe scopato senza battere ciglio e poi avrebbe finito con l’incolpare lui di quanto successo o il negare qualsiasi coinvolgimento per mantenere la facciata da brava ragazza.

“Hai una ragazza, vero?” Domandò lei con un tono di voce infantile, imbronciata e risentita per essere stata respinta.

“Già” Rispose senza troppa convinzione, sapendo che, se avesse risposto di no, quella avrebbe continuato l’interrogatorio. La successiva domanda sarebbe stata, al novantanove per cento, “Sei gay, vero?”. Le donne non erano proprio in grado di reggere un rifiuto.

“Cristo, lo sapevo!” La bionda barcollò all’indietro e si appoggiò al muro. “I migliori sono sempre già presi”. Corrugò le sopracciglia chiare e lo scrutò in volto improvvisamente più lucida. “La conosco? È a questa festa?”

“Probabilmente sì”. Meglio restare sul vago.

La sorpassò e alzò una mano a mo’ di saluto. “Ci vediamo in giro, eh.”

Lei lo indicò più volte con l’indice, la bocca e gli occhi di colpo spalancati.

“Aspetta, ma io ti conosco! Tu sei quello della tavola calda di Trevor, quello di New York!

Merda. Non pensava che lo avrebbe riconosciuto e non pensava nemmeno che il discorso con lei si sarebbe protratto così a lungo, sperava di liquidarla più velocemente.

“Sì. Scusami, vado di fretta”.

Fortunatamente non fece altre domande e lo lasciò libero di schivarla e salire al piano di sopra.

Individuò subito la porta del bagno; era l’unica porta in fondo sulla destra, non c’era possibilità di sbagliarsi. Ciononostante, quando l’aprì, lo fece con la massima lentezza per assicurarsi che fosse davvero quella la stanza che cercava.

Nel momento in cui una ragazza dai capelli rossi gli si avventò addosso non ebbe più dubbi.

“Oddio, grazie! Credevo non arrivassi più!”

Lo stava abbracciando come se le avesse salvato la vita, come se fosse stato sei mesi in guerra e fosse tornato vivo per miracolo, come se… Meg lo stava letteralmente stritolando.

“Ci ho messo dieci minuti” Le fece notare schiarendosi la voce e staccandola non troppo bruscamente da sé. Era abituato a ricevere abbracci da ben poche persone a cui voleva bene e quella sera ne aveva già ricevuti troppi per i suoi gusti, da perfette estranee oltretutto.

Meg parve un po’ imbarazzata e subito si scusò per lo slancio con cui aveva accolto il suo ingresso.

“Non ti preoccupare”. Non aveva ancora finito di dirlo, quando una terza voce, un mugugno piuttosto, s’intromise nel discorso.

Jude era seduta a terra; le ginocchia strette al petto, la testa appoggiata al muro dietro di sé e la pelle del volto bianca come un lenzuolo.

Nonostante tutto, nonostante le prese in giro, i litigi e il rapporto meraviglioso che lei aveva con sua madre, Daniel non riuscì a compiacersi di quella vista. Un po’ gli dispiacque vederla così pallida e debole.

La osservò mentre affondava i denti nel labbro inferiore e chiudeva gli occhi, le ciglia scure in completo contrasto con il pallore del viso. Doveva stare veramente male, non riusciva a credere che una ragazza orgogliosa e petulante come lei potesse fingere in quel modo. Stava per commettere l’errore di farsi intenerire dal suo aspetto, quando Judith alzò di colpo una mano per agitarla davanti a sé.

“Stai schiaffeggiando l’aria?” Le domandò di getto, incapace di contenere il sarcasmo.

Lei emise un verso molto simile ad un basso ringhio e continuò ad agitare il braccio con più foga. “Mandalo via, Meg!”

Debole un corno, pensò inevitabilmente divertito, quella riusciva a rispondere male e ad essere odiosa anche in quelle condizioni.

“Sì, se continui così sono sicuro che ce la farai” La provocò avvicinandosi, le mani in tasca e le labbra piegate in un mezzo sorriso. “Un po’ più a destra. No, più in alto.”

Jude lasciò ricadere sconfitta la mano sul ginocchio e diede un colpetto al muro dietro di sé con la testa. “Ti odio” Borbottò flebilmente.

Lui piegò le gambe e si accucciò di fronte a lei, le sopracciglia inarcate mentre la esaminava da più vicino. Doveva imprimere bene quell’immagine nella sua testa, non capitava tutti i giorni di vedere Judith Parker in quello stato.

“Non dovresti odiare il tuo salvatore” Ribatté serafico, più ilare di quanto avrebbe dovuto e voluto essere, contando che era stato svegliato di notte per andare a prendere quell’impiastro. Voltò la testa per guardare Meg di sfuggita. “Da quanto siete qui?”

La rossa fece un sospiro e si sedette sulla vasca, le mani strette tra le gambe. “Un’ora? Due? Non lo so, ho perso la cognizione del tempo. Ha vomitato l’anima e poi si è seduta lì e ha iniziato a piagnucolare che stava male” Meg la indicò col mento e un’ombra di pentimento e dispiacere aleggiò sul suo viso paffuto quando l’amica la fulminò con lo sguardo. “Volevo provare ad aiutarla a mettersi in piedi, ma ha iniziato a strillare come un’aquila e a dire di non toccarla quando mi sono avvicinata.”

Daniel riportò la sua attenzione su Jude prima della fine della spiegazione, gli occhi socchiusi e le labbra piegate in un’espressione pensierosa.

Interpretando bene il suo silenzio e il suo sguardo, la ragazza soffiò a bassa voce un “Non provare a toccarmi” che avrebbe spaventato il più intrepido degli eroi.

“Mi spiace principessa, ma non sono in grado di farti levitare” Considerò ironicamente, rialzandosi in piedi e porgendole le mani. “E che tu lo voglia o no ce ne dobbiamo andare di qui”.

Jude si ritrasse contro il muro e lo scansò quando tentò di afferrarla per un braccio. “Posso alzarmi da sola” Replicò asciutta ed orgogliosa, seppur con un filo di voce.

Daniel schioccò la lingua ed incrociò le braccia al petto, scrutandola sardonico. “Va bene, prego. Qualcosa mi dice che ricadresti in un attimo sul pavimento con cui hai fatto amicizia da più di un’ora”.

Lo odiava. Lo odiava con tutta stessa e soprattutto odiava quella faccia da schiaffi con cui la stava guardando, quell’espressione vittoriosa di chi aveva il coltello dalla parte del manico. Probabilmente si stava persino divertendo, non aveva fatto altro che prenderla in giro.

Se solo la stanza avesse smesso di girare in quel modo… se solo avesse avuto la certezza che le sue gambe l’avrebbero retta, si sarebbe alzata da sola, senza bisogno dell’aiuto di quell’insopportabile arrogante.

“Sono le tre del mattino, puzzi di vomito, questa festa fa schifo e ho preso la macchina di tuo padre senza il suo permesso. Credimi, preferirei fare altro in questo momento” Elencò lui improvvisamente serio, chinandosi di nuovo verso di lei. “Ad esempio dormire. Ma dato che la tua amica ci tiene abbastanza a te da chiamarmi e implorarmi di venire, potresti almeno farle il favore di farti aiutare.”

Stava ponderando bene le sue parole, questo doveva concederglielo. Aveva scelto di nominare l’unica cosa che l’avrebbe convinta a fare quello sforzo e lui lo sapeva. Bastardo. Jude non poteva fare quello a Meg, i suoi l’avrebbero uccisa se avesse passato la notte fuori casa, aveva il coprifuoco alle tre e mezza.

Sospirò ed annuì appena, un cenno talmente minuscolo da non essere quasi notato. Stava per dirgli che non ce l’avrebbe fatta a restare in piedi da sola, quando lui le circondò gli avambracci con le dita e la strattonò su con poca delicatezza, come se fosse stata una bambina piccola. Istintivamente, per assecondarlo e per non farsi staccare gli arti superiori, si diede uno slancio con le gambe, con il risultato che, una volta in piedi, crollò in avanti addosso a lui.

Ecco il motivo per cui non aveva voluto farsi aiutare da Meg: se l’amica avesse provato a sollevarla, Jude l’avrebbe travolta col suo peso e sarebbero entrambe rotolate a terra come due salami. Con Daniel non ci fu quel problema, lo comprese nel momento in cui affondò i polpastrelli nelle sue spalle. Daniel era… duro. Oddio, duro suonava malissimo nei suoi pensieri. Solido? Non era molto meglio. Era stabile. Sì, ecco, Daniel era stabile. Non cadde all’indietro all’impatto col suo corpo, si limitò a fare appena qualche passo verso il centro della stanza per riacquistare l’equilibrio, ma riuscì a sostenerla fermamente.

La stanza le girava velocemente intorno, l’unica cosa salda e a cui ormai si era aggrappata come una cozza allo scoglio era lui. Tutto sommato era piacevole. Molto piacevole. Le ritornò in mente l’aggettivo duro di poco prima e questa volta non poté scacciarlo via, perché era proprio così che sentiva il corpo del ragazzo contro il suo. Duro e al tempo stesso morbido. Santo cielo, che stava dicendo?

Percepì un senso crescente di nausea e calore. Un qualcosa di ancora più terribile le si smosse dentro quando Dan le circondò la schiena con un braccio per sorreggerla meglio; si sentì come un maledetto vulcano pronto ad eruttare. Merda, stava per vomitare?

Appoggiò la fronte sulla sua spalla ed avvertì Daniel sussultare impercettibilmente in risposta. Perché? Forse non doveva farlo. Fu decisamente un errore, in effetti. Dalle labbra della ragazza, talmente vicine al tessuto della maglietta da sfiorarlo e respirarci contro, uscì un basso, incontrollato ed imbarazzante mugolio. Daniel aveva un buon odore; odorava di pulito, di bucato appena fatto, di bagnoschiuma alla menta. Che bagnoschiuma usava? Doveva ricordarsi di chiederglielo. Era buonissimo, un qualcosa che dava assuefazione. Oh Dio, ci mancava solo quello. Perché non puzzava, accidenti?

“Non vomitarmi addosso, eh” La sua voce le sembrò meno presuntuosa e più incerta del solito, ma non ci fece troppo caso. Non rispose, non aprì proprio la bocca per paura di fare il contrario di quanto le aveva detto. Ci mancava solo che lui la odiasse ancora di più per quello, non osava immaginare come avrebbe reagito se gli avesse rigurgitato sulla maglietta.

“Che vuoi fare?” Chiese terrorizzata quando lui si chinò per passarle un braccio dietro le ginocchia. Irrigidì le gambe e cercò di ritrarsi per impedirgli di fare ciò che per lei sarebbe stato tremendamente umiliante.

“Secondo te?” Sbuffò irritato. “Non mi stai aiutando, la pianti di agitarti?”

“Posso camminare” Mentì spudoratamente, mentre tutto intorno a lei continuava a girare beffandosi delle sue stesse parole.

“Non credo proprio, perciò piantala di fare la bambina.” Non le diede il tempo di fare o replicare altro perché, con la stessa delicatezza di poco prima, la sollevò da terra ignorando le sue deboli proteste. L’ultima persona che l’aveva presa in braccio era stato suo padre quando aveva appena cinque anni. Dio, la serata più terribile della sua vita, l’esperienza più imbarazzante della sua esistenza. Avrebbe voluto cancellarla, cancellare tutto, ogni parola e ricordo di quanto successo. Specie di quanto successo prima.

“Ci mancavi solo tu…” Disse con voce stanca, intrecciando istintivamente le braccia dietro il suo collo. Sentiva i suoi capelli solleticarle la pelle e, dopo aver chiuso gli occhi, sospirò piano contro la spalla del ragazzo, desiderando di poter sparire in quell’esatto momento. Perché lui doveva assistere a tutto quello? Perché proprio lui, che non avrebbe perso occasione per schernirla?

Aveva voluto far qualcosa di sciocco, autodistruggersi con le sue stesse mani per lenire la sofferenza che aveva provato e, come ciliegina sulla torta, ora la sua stupidità aveva persino un pubblico. Non si riconosceva più, avrebbe deluso suo padre se lo avesse saputo, gli avrebbe dato un dispiacere, lo avrebbe fatto soffrire. Come aveva potuto farlo?

“Non può farlo…” Non si rese conto di averlo detto finché Daniel non le rispose con un “Cosa?” piuttosto confuso.

Scosse la testa e si insultò per esserselo lasciato sfuggire. Stava malissimo, non riusciva più a distinguere ciò che pensava da ciò che diceva ad alta voce.

“Sei qui con la macchina di suo padre, vero? Puoi accompagnare prima me, per favore?” La voce di Meg le arrivò ovattata e dovette sforzarsi per comprendere la risposta di Daniel.

“Non può dormire da te? Come la porto in camera dei genitori senza che se ne accorgano?

Ma lei aveva la sua camera, no? No… giusto, dormiva nella stanza dei suoi genitori. E sapeva di non poter dormire da Meg; i suoi genitori si sarebbero accorti subito del fatto che avesse bevuto così tanto e avrebbero avvisato immediatamente suo padre.

“Perché devono andare così le cose?” Piagnucolò a bassa voce, mentre Meg e Daniel continuavano in sottofondo a parlare. “Perché?” Disse di nuovo, a nessuno in particolare.

“Dovevi pensarci prima, mi sa”.

Vai al diavolo, Daniel King. Fortunatamente doveva averlo solo pensato, perché questa volta da lui non arrivò nessuna risposta. O magari prima non stava parlando con lei, Jude non era più sicura di niente, nemmeno del posto in cui si trovava.

Sentì la voce di una ragazza accanto a lei, ma non distinse alcuna parola, le sembrò solo il biascicare confuso di una persona ubriaca. Avvertì un leggero sobbalzo e poi il nulla, il vuoto, il buio.

 

***

 

 

Non era esattamente sicuro di cosa fare e soprattutto di come farlo. Lanciò un’occhiata a Judith Parker, la testa appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi e un’aria sofferente sul volto. Ad alcune persone l’alcol toglieva qualche freno inibitore, causava euforia, risate incontrollate; evidentemente non a lei, restava pallosa e lagnosa pure quando beveva. Non era nemmeno capace di divertirsi a dovere, una volta tanto faceva qualcosa di quasi normale per una ragazza della sua età e finiva col vomitare l’anima e piagnucolare neanche stesse per morire.

Sospirò e spense la macchina. Aveva riaccompagnato a casa Meg una decina di minuti prima, dopo essersi sorbito un centinaio di “grazie” e “scusa” da parte della ragazza. Era stato un sollievo guardarla scendere, se avesse continuato a scusarsi e a ringraziarlo ancora per un po’ non avrebbe resistito all’impulso di aprire la portiera e cacciarla fuori.

Si passò una mano sul viso e si lasciò ricadere sullo schienale; era distrutto, non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui avesse dormito otto ore di fila.

Doveva pensare ad una sistemazione per la principessina, era ovvio che non potesse portarla in camera dei suoi genitori senza farsi scoprire. Avrebbe potuto mollarla sul divano, ma onestamente non se la sentiva di lasciarla da sola dopo la sbronza che si era presa, sebbene lo meritasse.

Non restava che la sua camera a quel punto: avrebbe ceduto il letto a quella lagna e a lui sarebbe toccato stare sul pavimento. Sbuffò: quando mai aveva detto di sì a tutto quello, avrebbe dovuto starsene a New York con suo padre e fregarsene di sua madre e della sua nuova famigliola.

Scese dalla macchina e fece il giro per aprire la portiera del passeggero. Jude gli crollò addosso per la seconda volta quella sera, borbottando qualcosa di indefinito ed aggrottando la fronte infastidita per l’interruzione del sonno.

“Hai pure il coraggio di lamentarti…” Soffiò divertito e incredulo, passandosi un braccio della ragazza intorno al collo per prenderla di nuovo in braccio.

Era più morbida di quanto pensasse contro di lui. Fisicamente sembrava magra e, avrebbe immaginato, spigolosa, eppure su di sé avvertiva ogni singolo centimetro di pelle, un corpo caldo e piacevole. Merda. Deglutì a vuoto e cercò di concentrarsi su cose più importanti e difficili da fare in quel momento, ad esempio riuscire ad entrare in casa con le mani occupate.

Si guardò istintivamente intorno. Nel vialetto la strada era fredda e vuota come avrebbe dovuto essere alle tre di notte, illuminata solo dai lampioni. Non osava immaginare che cosa avrebbe potuto pensare un passante in quel momento se lo avesse visto, si sentiva una sorta di maniaco approfittatore di ragazze ubriache.

Mentre chiudeva a fatica l’auto e riattivava l’antifurto – come se fosse servito a qualcosa poi in quel posto – Jude biascicò di nuovo qualcosa che non comprese. Fantastico. Doveva parlare e rompere i coglioni pure da ubriaca, mai un attimo di tregua con lei.

Dopo diversi tentativi riuscì ad aprire la porta e a richiuderla con la gamba dietro di sé. Cazzo, si era dimenticato di cambiarsi le scarpe con le ciabatte, il giorno dopo quella pazza che aveva in braccio si sarebbe lamentata dello sporco sulla moquette.

“Si sposa.”

Sussultò nel buio dell’ingresso, quasi come un ladro colto in flagrante. Jude aveva parlato nitidamente questa volta, scandendo bene le parole.

Si sposa?Ma chi?

Si strinse di più a lui e nascose il viso nella spalla, le dita artigliate alla sua maglietta. “Si sposa” Ripeté. La voce mancò sulla nota finale, inghiottita da un singhiozzo.

Oh merda, no. Non aveva alcuna intenzione di stare ad ascoltare le turbe adolescenziali di una ragazza, né voleva avere a che fare le sue lacrime. Una Jude incazzata era difficile da gestire, una Jude piangente era l’Apocalisse.

“Auguri e figli maschi” Replicò ironicamente e a bassa voce, lo sguardo concentrato sul pavimento mentre cercava di non ammazzarsi per arrivare al piano di sopra.

Fortunatamente la ragazza non aggiunse altro, sembrò essersi assopita di nuovo, almeno finché non la adagiò sul letto della sua stanza e le tolse le scarpe. A quel punto mugugnò qualcos’altro e si rannicchiò sotto le coperte. “Perché non mi ama?”

Quelle parole ebbero su di lui l’effetto di una secchiata d’acqua su un gatto che odiava bagnarsi. Bene, quello era il segnale d’allarme, il segnale che lo invitava ad allontanarsi di lì in cerca di qualcosa da poter usare per creare un giaciglio sulla moquette.

“Daniel?”

Si bloccò sul posto pietrificato, ad un passo dalla fuga e dalla salvezza. Purtroppo per lui Jude era abbastanza cosciente da ricordarsi di lui, nonostante il delirio da teenager cretina di poco prima. Chissà se ne avrebbe avuto memoria il giorno dopo.

Sicuramente lui le avrebbe rinfacciato quella serata un’infinità di volte finché sarebbe stato in quella casa, era in debito con lui per i prossimi quindici anni come minimo.

Dopo un momento di esitazione – e qualche imprecazione, tornò silenziosamente indietro e si chinò verso di lei. “Sì?” Si costrinse a dire, sebbene l’idea di non rispondere e uscire dalla stanza gli avesse accarezzato la mente.

Ho freddo” Lo mormorò a voce così bassa che faticò a sentirla. Pure? Che diavolo, non era il suo dannato cameriere personale.
Sospirò, a metà fra il rassegnato e l’irritato. “Vado a prenderti un’altra coperta.” Cosa gli toccava fare, prendersi cura di una mocciosa alla sua prima e stupida sbronza. Non aveva di certo accettato di andare a vivere per alcuni mesi da sua madre per fare da babysitter a quella rompiscatole.
Fece per allontanarsi, quando qualcosa lo strattonò verso il basso. Aggrottò la fronte e puntò lo sguardo sulla piccola mano che si era aggrappata di nuovo alla sua maglietta.

“No… Resta qui.” Un altro sussurro. Una flebile preghiera.

“Cosa?” Sicuramente aveva capito male, non riusciva a pensare ad un solo motivo che potesse spingere la pazza a volerlo lì con lei. A meno che non lo stesse scambiando per qualcun altro, ipotesi che avrebbe anche potuto essere plausibile se non lo avesse chiamato col suo nome poco prima.

“Resta qui con me. Ho freddo.” Cercò di attirarlo di più a sé, stringendo con forza le dita sul tessuto dell’indumento ormai stropicciato.

Era forse posseduta? La sua testa avrebbe iniziato a girare a trecentosessanta gradi?

“Eh? Perché?” Non gli venne in mente una risposta più intelligente.
“Ti prego.” La presa sulla t-shirt era salda e decisa, in netto contrasto con la sua voce debole.

Ti prego?

Daniel non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nel suo stesso letto? Così nel momento in cui la solita ed incazzosa Jude sarebbe ricomparsa lui sarebbe morto soffocato nel sonno dal cuscino? No, grazie.

Portò la mano su quella della ragazza nel vano tentativo di liberarsi da quella stretta, ma come risultato ottenne solo altri piagnucolii rumorosi e infastiditi.

“Dai, non fare l’antipatico, per favore.” Slittò con il fianco in fondo al materasso per fargli spazio, tirandolo ancora una volta per invitarlo a sdraiarsi lì con lei. Tutto ciò era assurdo.

Fissò incerto il letto, meditando sul da farsi. In fondo avrebbe anche potuto fare quella pazzia e assecondarla, era stanco e non aveva nessuna voglia di dormire sul pavimento. Avrebbe puntato la sveglia sul telefono appena qualche ora dopo, prima che lei potesse svegliarsi, accorgersi della sua presenza ed impazzire. Inoltre stava iniziando a temere per la sorte della sua povera maglietta ad un passo dall’essere slargata.

Scostò le coperte e si stese titubante accanto a lei, pronto a sentirsi sbraitare contro un “che cazzo fai?”, che non arrivò. Strano. Ci doveva essere per forza piano subdolo dietro, trattandosi di Judith Parker non poteva essere altrimenti.

S’irrigidì quando lei si mosse per appoggiargli la guancia e le mani chiuse a pugno sul petto. Lo aveva forse preso per un cavolo di peluche da abbracciare e su cui strusciarsi? Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando riprese a parlare, diversi secondi dopo, con il fiato corto e spezzato. “Ma quanto cazzo hai bevuto?” Non osava spostarsi, non voleva sfiorarla accidentalmente con qualcosa che, se stimolato da un contatto con lei, avrebbe potuto dargli non pochi problemi in quel momento.

Jude non rispose alla sua domanda, si limitò ad inspirare profondamente e a sospirare. “Hai un buon odore. Perché hai un buon odore?”

Ma che razza di domanda era?

“Non lo so, perché mi sono fatto la doccia?” Propose in tono ovvio e sarcastico.

Quella era in assoluto la conversazione più demenziale che avesse mai sostenuto e, con amici come Sketch e Reed, di conversazioni idiote ne aveva avute.

Fu come se non avesse parlato, lei continuò spedita a fare considerazioni assurde per conto suo.

“E sei duro. Sì, sei duro.”

Ma che diavolo…? Quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Cristo Santo! Certo, gliel’avevano detto altre volte, ma in circostanze un po’ diverse e riferendosi ad altro.

Per un secondo si allarmò e temette che lei si stesse riferendo esattamente a quello, poi realizzò che non poteva essere possibile. Era abbastanza sicuro di non esserlo – non ancora – e, in ogni caso, lei non avrebbe potuto appurarlo personalmente visto che era stato attento a toccarla il meno possibile. Ma allora di che stava parlando?

Cercò di calmare i battiti e di regolarizzare il respiro, specie perché sentire le labbra della ragazza muoversi contro il suo petto per dirgli una frase del genere, con voce roca per giunta, stava avendo effetto proprio su quella parte. Rabbrividì e si diede mentalmente dell’idiota; doveva riprendersi, si rifiutava categoricamente di farsi venire un’erezione con la principessina nel letto. Era forse impazzita più del solito? Che cosa avrebbe dovuto essere quello, un complimento? Una constatazione? Decise saggiamente di non replicare.

La sentì mugolare ed accoccolarsi meglio contro di lui, le gambe – velate solo da un paio di collant – finirono con l’intrecciarsi alle sue e i capelli iniziarono a solleticargli il collo. Di male in peggio. Non era stata un’idea così geniale quella di sdraiarsi con lei, in effetti.

Tentò di allontanarsi e di guadagnare spazio vitale, ma era vicino al bordo e ad un passo dal rotolare giù. Non sarebbe stata una cattiva idea cadere.

Gli stavano passando troppe idee e pensieri strani in testa – come quello insensato di allungare un braccio per stringerla a sé ed essere più comodo, bloccato prima che potesse farlo davvero –, doveva alzarsi di lì il prima possibile. Avrebbe aspettato che si fosse addormentata, poi, in un modo o nell’altro, si sarebbe liberato di quella morsa assassina.

“Domani mi ucciderai” Disse a mezza voce, per cercare di distrarsi e di sdrammatizzare la situazione. Una situazione decisamente imbarazzante ed inaspettata.

Jude sorrise, sebbene lui non potesse vederla. “Forse” Mormorò piano. Fece una pausa, un silenzio spezzato solo dai loro respiri. “Adesso però mi piace”.

 

 

 

 

*Note dell’autrice*

Tengo molto a questo capitolo e sono un po’ nervosa al pensiero di pubblicarlo, spero vi sia piaciuto…

Avevo in mente la scena finale da secoli e non vedevo l’ora di scriverla, sebbene non sia uscita proprio come volevo. Ho un debole per le scene di questo genere, se avete letto “Tra l’odio e l’amore c’è la distanza di un bacio” lo sapete già :P

Ma Jude e Alice sono diverse, chiedono al ragazzo della situazione di restare per due motivi molto differenti.

Imparerete a conoscere meglio Jude nei prossimi capitoli, ma già suo padre ha accennato qualcosa in questo a Daniel. Lei si mostra sempre caratterialmente forte con tutti, lo è sempre stata e lo è tuttora, solo che ha anche lei dei momenti di “debolezza” come tutti e questo è stato uno di quelli. Daniel era lì in quel momento e lei si è “aggrappata” a lui.

Non so se avete capito chi si sposa, nel caso non fosse chiaro vi ricordo che Jude è sempre stata infatuata del fratello maggiore di Meg. In ogni caso nel prossimo capitolo verrà spiegato bene cos’è successo alla festa e perché Jude si è ubriacata.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi anticipo che nel prossimo i due si risveglieranno nello stesso letto ;) Come la prenderà la Jude sobria? Vedremo.

Mi scuso per l’attesa, so che in molte si sono lamentate per i tempi d’attesa e perché risulta difficile seguire e ricordarsi la storia dopo tutto questo tempo, ma non è semplice per me conciliare la vita vera con le tre (quattro se si considera il pov Lore) storie che ho in corso. Mi dispiace davvero, più di questo non posso dire o fare :( Posso solo garantire, come sempre, che ogni storia in corso verrà conclusa e nessuna abbandonata.

Vi ringrazio se, nonostante tutto, siete ancora qui a leggere.

Un bacione grande!

Bec

 

PS: ho pubblicato l’inizio del prossimo capitolo nel mio gruppo spoiler su facebook, nel caso in cui vogliate leggerlo :)

   
 
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