Riassunto delle puntate precedenti: Jude ha parlato con Delia
di Dan e si è fatta raccontare cos’è successo in
passato tra loro e perché lui la odia tanto. Daniel le ha sentite e si è
arrabbiato, soprattutto con Jude di cui è un po’
“geloso” per via del rapporto che lei ha con sua madre.
Jude gli ha chiesto scusa nel capitolo scorso, gli ha
detto che non voleva farsi gli affari suoi e che non lo
compatisce affatto. E gli ha svelato che sua madre se n’è andata di casa
quando lei era piccola e che non la ricorda. Lui accetta le scuse e fine. (come sono brava a fare i riassunti, eh? :P)
Perdonate il titolo pessimo,
ma capirete il perché e da dove viene quando arriverete in fondo al capitolo.
Buona lettura!
Capitolo 7: “Adesso però mi piace”
Un grazie particolare a Bea per il dettagliato betaggio e per avermi sopportata come
sempre.
A Clara per avermi ‘stressata’ per scrivere questo
benedetto capitolo e per la ‘consulenza’ sulla scena finale.
E a chiunque sia qui a leggere ancora, dopo tutto
questo tempo :)
La notte, si sapeva, portava
sempre consiglio, e a Jude rigirarsi tra le coperte
era decisamente servito.
Era piuttosto di buon umore
la mattina seguente, benché ci fosse poco di cui rallegrarsi: non c’erano stati
miglioramenti con Daniel, aveva dormito poco e, come se non bastasse, aveva
promesso a Jason che sarebbe andata alla festa di Seline
Evans quella sera. A conti fatti sarebbe stata una giornata tremenda, eppure,
nonostante tutto, non riusciva a smettere di sorridere.
Versò il suo tè caldo nella
tazza, canticchiando come la sciocca protagonista di un film Disney.
“Ti si è paralizzata la
faccia?”
Spostò lo sguardo sul ragazzo
seduto di fronte a lei ed incontrò i suoi occhi
castani. La scrutava con prudenza, con un sopracciglio inarcato e la schiena
appoggiata alla sedia, quasi si aspettasse che lei potesse tramutarsi in un
mostro carnivoro a sei teste.
Niente da fare, nemmeno
quella domanda pronunciata in tono indisponente e strascicato ebbe il potere di
riportare al loro posto gli angoli delle sue labbra.
“Probabile” Rispose portando
la tazza al viso e ridacchiando.
Se possibile Daniel la
osservò ancora più stranito e circospetto, ma lei non vi badò troppo. Poggiò la
tazza sul tavolo e fece scivolare i palmi delle mani
sulla superficie liscia davanti a sé, come a volerla pulire da una polvere
inesistente. “Oh, prima che mi dimentichi…” Iniziò, alzandosi in piedi e
prendendo una penna e i post-it dal cassetto. “Ti ricordi, no, che questa sera
non ci sono?”
Non aspettò una sua risposta.
Non che se la aspettasse davvero, Daniel il più delle volte sembrava trovare
superfluo il degnarla di tanta cortesia.
Posò il blocchetto sul tavolo
di fronte a lui e continuò, “Avrei bisogno del tuo numero di telefono”.
Nonostante si fosse preparata il discorso nella sua testa la sera prima, dirlo
ad alta voce fu ugualmente imbarazzante, specie per il modo in cui lui la
guardò. Dapprima sgranò appena gli occhi sorpreso, poi
tornò alla diffidenza di sempre. Assottigliò lo sguardo e aggrottò la fronte sospettoso. “A che ti serve?”
Jude arrossì e si odiò per
quel fastidioso calore sulle guance e sul collo. “Non farti strane idee,
Playboy” Disse con scherno – o almeno ci provò. “Mi piace avere tutto sotto
controllo e, dal momento che stasera tua madre e mio
padre usciranno, vorrei assicurarmi che sia tutto a posto, visto che rimarrai
da solo in casa”.
Non le sembrò particolarmente
convinto di quella risposta, ma poco importava. Doveva avere quel dannato
numero. Delia le aveva detto di non avere il numero di telefono di suo figlio e
lei glielo avrebbe procurato, a qualunque costo. Inoltre voleva davvero
assicurarsi che quel presuntuoso non desse fuoco alla
casa in sua assenza.
“Gentile da parte tua, ma so
badare a me stesso”. Replicò sarcastico, facendo un mezzo sorriso tutt’altro
che spontaneo.
Scosse la testa e sospirò.
“Credo di essermi spiegata male”. Le sembrò di essere una maestra alle prese
con un bambino poco intelligente, “Non è di te che mi importa,
ma della casa. Potrebbero anche rapirti e gettare il tuo
cadavere in un fosso, per quanto mi riguarda”. Sfoderò un mega
sorrisone, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Non era stata
molto carina con quella frase, ma doveva preservare un minimo di facciata. Il
giorno prima si era scusata con lui ed era stata fin
troppo gentile, doveva rimediare.
Daniel fece una smorfia e
girò la pagina del quotidiano che aveva in mano, continuando ad
ignorare il blocchetto e la penna. “Sei proprio la meravigliosa ragazza che
descrive mia madre” Considerò sarcastico, alzando gli occhi al soffitto.
“Vero? Lo penso anche io.” Tamburellò impaziente con le dita sui post-it, “Allora? Non
ho tutto il giorno, sono in ritardo.” Sperò di non risultare
troppo disperata, non stava morendo dalla voglia di avere il suo cavolo di
numero. Cioè, sì, ma solo per aiutare Delia.
Lui occhieggiò la penna da
sopra il giornale, poi sospirò con rassegnazione e lo ripiegò per riporlo sul
tavolo.
La ragazza si sforzò di non
mostrare alcun tipo di entusiasmo quando lo vide scribacchiare distrattamente
dei numeri sul piccolo foglio quadrato. Sperava solo che fosse davvero il suo
numero e che non le stesse facendo qualche stupido
scherzo.
“Perfetto, grazie!” Lo staccò
dal resto del blocchetto e lo infilò in tasca, appuntandosi mentalmente di
salvarlo in rubrica una volta arrivata a scuola. Avrebbe potuto farlo anche
subito e davanti a lui, ma non voleva dargli tanta importanza.
“Delia e mio padre torneranno
abbastanza presto, ma ti chiamerò comunque verso le undici e mezza
per sapere se è tutto a posto”. Stava per voltarsi ed
uscire, ma all’ultimo cambiò idea.
“Per qualsiasi cosa ti lascio
il mio, nel caso avessi bisogno.” S’inchinò in avanti sul tavolo e stappò di
nuovo la penna per scrivere il suo recapito sul post-it successivo.
Non si aspettava che la
chiamasse, sapeva che non l’avrebbe mai fatto. In realtà non sapeva nemmeno
perché glielo stesse lasciando, era inutile. Di certo non si sarebbe rivolto a
lei, neanche se avesse avuto bisogno di qualcosa.
“In tal caso credo preferirei
lasciare che buttassero il mio cadavere in un fosso” Replicò lui indisponente, ad un soffio dal suo orecchio.
Appunto. Simpatico quanto le
spine di un cactus negli occhi. E a proposito di occhi, si ritrovò i suoi
eccessivamente vicini quando rialzò la testa. Di un marrone mischiato a delle
quasi invisibili pagliuzze verdognole… le ricordavano l’autunno, le ricordavano il colore delle foglie degli alberi in quella
particolare stagione.
Non riuscì a capire se
l’accenno di profumo del suo dopobarba la infastidì o inebriò, seppe solo che,
quando le arrivò alle narici, si risvegliò da quei pensieri come se qualcuno le
avesse dato un pizzicotto. Era decisamente troppo
vicina a lui. Si schiarì la gola a disagio e si allontanò in fretta con un
piccolo saltello all’indietro, sperando che il suo nervosismo non trapelasse
troppo dai suoi gesti.
Lui non aveva fatto una
piega, notò Jude, la sua vicinanza non sembrava averlo minimamente turbato. Aveva
la stessa espressione irriverente di poco prima sul volto, niente lasciava
pensare che si fosse accorto del cambiamento di lei.
Grazie al cielo, considerò rassicurata. Non sapeva che diavolo le fosse preso, doveva ricordarsi di mantenere almeno un
metro di distanza da lui, un’ordinanza restrittiva emessa dal suo stesso
cervello per il suo bene.
“Bene,
allora posso andare. Buona
giornata.” La sua voce, purtroppo, aveva completamente
perso la sicurezza e spavalderia di poco prima.
Porca miseria.
Lui alzò la mano e la salutò
con un gesto derisorio e sbrigativo, tornando subito dopo al suo giornale. Lo
osservò imbambolata per una manciata di secondi; i
capelli castani spettinati, gli occhi assonnati e socchiusi posati sulle pagine
del quotidiano, la maglietta scura che gli fasciava perfettamente il busto, le
braccia scoperte e muscolose al punto giusto, i polsi… aveva dei bei polsi,
pensò stupidamente. Perché quel maledetto doveva essere bello? Non poteva
essere un secchione mingherlino e sfigato? O un
tritarifiuti di centottanta chili?
“Ah e ricordati che chiamerò
per controllare che sia tutto a posto alle…”
“Cristo santo!” Lui fece
roteare lo sguardo per la stanza scocciato. “Sei peggio
di mia madre. Alle undici e mezza, ho capito, farò in
modo che gli alcolici e le prostitute spariscano prima del tuo controllo del
cazzo, okay?”
Jude calò di poco le palpebre, la mascella contratta e i
pugni serrati. “Davvero simpatico. Sono seria, dimentica il ‘fai
come se fossi a casa tua di mio padre’, questa non è casa tua. Vedi di comportarti bene.”
Lui corrugò le sopracciglia infastidito. “Sei davvero sicura di avere
diciotto anni e non sessanta? Immagino che sarai l’anima della festa stasera,
giocherai a scarabeo per caso?”
Oh-oh, al moccioso si era
sciolta la lingua, riusciva anche a comporre frasi più lunghe di due parole, era sconvolgente!
“Trivial
pursuit, in realtà.” Replicò con un sorriso, decisa a
non dargli altre soddisfazioni. “Tu fai il bravo e non andare a letto troppo
tardi.” Sbatté le ciglia con fare canzonatorio, per poi voltarsi ed uscire finalmente da quella casa.
Piccolo appunto mentale: non
avvicinarsi più a Daniel King. Ed evitare di
incantarsi troppo a guardarlo.
****
…6945…
“Buongiorno splendore!”
Jude sussultò sul posto, il
dito fermo sul tasto cinque del cellulare mentre salvava il numero di quel
cretino del suo non-fratellastro.
“Come va oggi?”
“Una merda” Rispose atona,
senza staccare gli occhi dal telefono.
Come sempre, Edward non si
lasciò scoraggiare. “Sono
sicuro che tra poco migliorerà. Curiosa di sentire la
canzone che ho scelto per te – che dico, per noi – oggi?” Le chiese con un sorrisone sulle labbra.
“Neanche un po’” Borbottò,
ficcandosi in tasca il post-it colorato e scrivendo velocemente il nome di
Daniel. “E non esiste nessun ‘noi’ Ed”. Alzò gli occhi
al cielo scocciata, ritornando al display subito dopo.
Ma perché Edward Russo non poteva essere un ragazzo
normale? Perché capitavano tutti a lei i tipi strani ed
inquietanti?
Lui la ignorò e, portandosi
la mano chiusa a pugno sulla bocca, tossì per darsi un tono, prima di iniziare
a cantare.
“Every night in my dreams I see you, I feel you”.
Oh no. Santo
cielo, no. Odiava quella canzone, era stata felice di sentirla solo durante i
titoli di coda del film Titanic, dopo aver goduto per la morte di quel faccia-da-bimbo di Leonardo di Caprio. Tra lui e labbra-a-canotto-Winslet non sapeva chi era peggio e chi
avesse detestato di più da bambina.
“Che diamine di sonniferi prendi
la sera?” Sbuffò lei irritata, rispondendo alle parole della canzone e rabbrividendo
per il disgusto.
I suoi tentativi di imitare
la voce di Celine Dion erano imbarazzanti e ben presto in molti si girarono a
guardarli. Grandioso.
Edward aveva un’autentica
espressione di dolore in volto, una partecipazione commovente.
La mano aperta sul cuore e il modo in cui faceva ondeggiare piano la testa davano un tocco in più al tutto.
“Edward o la pianti o ti
prendo a calci”. Incrociò le braccia al petto a disagio, lanciando occhiatacce
ai compagni di scuola che si fermavano ad osservarli.
“Near, far, wherever you aaaare, I believe that the heart does go on!” Continuò imperterrito lui, incurante delle sue minacce
e del suo imbarazzo.
“Mi fa piacere saperlo, ma io
me ne vado”. Fece per girarsi, ma lui le
diede un colpetto impaziente sul braccio, interrompendosi, “No, aspetta, ora
arriva la parte migliore!”
“Non stento a crederlo, ma
sta per iniziare la prima ora, quindi…”
Lui riprese a cantare e Jude
decise di averne avuto abbastanza di quella performance. Se anche se ne fosse
andata, lui l’avrebbe seguita e non voleva di certo avere quell’mp3 vivente –
stonato – e in vivavoce alle calcagna.
Allungò la mano e gli afferrò
i capelli, tirandoli con forza verso di sé. Quello servì a farlo smettere.
“Ahia! Ahia! Non ti è piaciuta?” Chiese
lui innocentemente, massaggiandosi la testa quando lo lasciò andare.
“Secondo te?” Chiese
retoricamente, aggrottando le sopracciglia in modo eloquente.
Edward chinò il capo
dispiaciuto e storse la bocca, “Per domani troverò qualcosa di meglio”.
“Preferirei di no.”
“Magari qualcosa di Cheryl
Cole.”
“O anche no.”
“O di Robbie Williams.”
“Hai già provato con ‘She’s the one’
e non era andata bene” Gli ricordò lei, accennando al suo piede con il mento.
Era ruzzolato giù dalle scale mentre gliela stava cantando e facendo gli
scalini di spalle per guardarla in faccia.
Edward annuì in silenzio,
grattandosi il mento pensieroso come un vecchio saggio. Gli mancava solo la
barba bianca.
Fu Jason a salvarla proprio
quando Ed stava per proporre un’altra terribile canzone.
“Ehi, Juju,
per stasera allora ti vengo a prendere io alle otto?” Le circondò le spalle con
un braccio, per la non-gioia di Edward, che s’incupì.
“Se proprio devi”. Il
buonumore di quella mattina era sparito velocemente. Prima la canzone di Edward
e poi il ricordo della serata che l’attendeva, di male
in peggio, dalla padella alla brace.
“Oh, dai, non fare storie, ci
divertiremo a quella festa!” Ridacchiò lui, facendo un cenno all’altro ragazzo.
“Ciao Edward”.
“Fray”
Ribatté l’altro imbronciato. Poi sfoderò nuovamente il suo solito sorriso e si
voltò verso di lei. “Allora ci vediamo lì questa sera, meraviglia”. Le fece
l’occhiolino.
“Un motivo in più per non
andarci, insomma” Replicò stancamente, senza preoccuparsi di non farsi sentire.
A Edward tutto quello che diceva sembrava rimbalzare o
scivolare addosso, doveva essere fatto di viscida gelatina.
Come volevasi dimostrare nemmeno
quella frase lo mise di cattivo umore, anzi, lo fece ridere. Era idiota, non
c’era altra spiegazione.
Judith sospirò e diede un
pugnetto sul braccio dell’amico. “Alle otto quindi?”
Jason, che aveva assistito
allo scambio di battute tra lei e Edward, scrollò le spalle divertito e annuì.
“Alle otto. Dovrò cercare di non bere per riaccompagnare a casa te e Meg dopo.”
Pensare ad
un Jason astemio era come pensare a Bugs Bunny senza carota: impossibile. Non
che fosse un alcolizzato, ma quando c’era da bere e divertirsi Jay era sempre
in prima fila. Se lei e Meg avessero avuto la patente
non si sarebbero mai affidate a lui per un passaggio, era un buon amico, ma
tremendamente inaffidabile.
Inarcò un
sopracciglio scettica. “Andiamo bene”.
*****
Dopo una giornata di merda al
lavoro, Daniel pregustava di trascorrere una serata in pieno relax,
contava di non vedere anima viva almeno fino all’una del mattino.
Quella stronza di Becky lo aveva fatto sgobbare per tutto il giorno,
facendogli fare ben più di quanto gli spettasse e approfittando del fatto che, in quanto ultimo arrivato, non avrebbe potuto far poi molto
per opporsi. Pulire i servizi non era compito suo, ma dal
momento che Rita, la donna delle pulizie, si era dovuta assentare quel
giorno, era toccato a lui occuparsene.
Si era incazzato,
naturalmente, ma quando Trevor era intervenuto chiedendo se c’era forse qualche
problema, aveva dovuto mandar giù una sequela di insulti
e una sfuriata piuttosto infantile per far finta di nulla.
Non poteva permettersi di
mettere a rischio il suo lavoro per una sciocchezza, quei soldi gli servivano
per avere una minima indipendenza economica lì dentro, non aveva alcuna
intenzione di passare le giornate in casa di Richard Parker a rigirarsi i
pollici. E a proposito di Richard Parker… aveva avuto un moto di rabbia e
disgusto quando l’uomo si era seduto accanto a lui sul divano, poco prima di
cena.
“Tua madre ti ha lasciato
qualcosa nel forno.” Aveva esordito così, in tono amichevole,
ma prudente, quasi stesse sondando il terreno con lui. Sembrava un padre
in procinto di fare un discorso serio al figlio, solo che Daniel non aveva
nessun legame di parentela con lui e non era tenuto a starlo ad ascoltare.
Alzò lo sguardo dal suo
cellulare per riservargli un veloce e forzato sorriso di ringraziamento,
sperando invano che la conversazione morisse lì.
“Se vuoi venire con noi…”
“No” Si affrettò a
rispondere, nauseato al solo pensiero di passare una serata a reggere il
moccolo a quell’uomo e sua madre.
Richard si schiarì la voce e
annuì piano, congiungendo le mani davanti a sé e meditando in silenzio per
qualche secondo. Non prometteva nulla di buono.
Nei secondi che seguirono, la
sua irritazione e il suo disagio crebbero e Daniel avvertì l’impellente bisogno
di andarsene.
“Posso solo immaginare come
tu stia.” L’uomo si voltò a guardarlo di sbieco, lievemente agitato. “Anzi, non
credo che il tuo dolore possa essere minimamente paragonabile al mio. Tu sei
suo figlio e io…”
Aveva ascoltato già troppo.
“Non mi va di parlarne”. Si alzò di scatto, le mani
chiuse a pugno ed il battito accelerato del cuore nelle orecchie.
“Aspetta.” Richard allungò
una mano per toccarlo, poi all’ultimo sembrò ripensarci e la ritrasse. Saggia
mossa. “Dammi la possibilità di parlare, ti prego. Questa situazione non è
facile per nessuno.”
Per nessuno? Richard Parker
non era di certo in una casa con dei perfetti estranei che lo odiavano, aveva
la sua bella famigliola di cui lui non faceva parte.
“Io non so cosa sia successo
tra te e tua madre e non voglio saperlo, non voglio
intromettermi.”
Basta.
Merda, non voleva ascoltare,
non voleva parlare di quello che era successo con sua
madre, non voleva proprio parlare di lei, tantomeno con quell’uomo.
Gli veniva da vomitare.
Strinse i denti e si costrinse a non replicare sgarbatamente.
“So solo che per lei sei
importante e, di conseguenza, lo sei anche per me. So che hai un padre e non
cercherei mai di prendere il suo posto, voglio solo
che tu sappia che qui sei uno di famiglia, che se hai bisogno di qualsiasi cosa
chiunque in questa casa sarà pronto ad ascoltarti e ad aiutarti.”
Meno male che si era
premurato di dirglielo, non sapeva come avrebbe fatto a vivere altrimenti,
pensò sarcastico.
Vide il tavolino in vetro di
fronte a sé oscillare leggermente e gli occorse
qualche secondo per realizzare che era lui a tremare. Si passò una mano sugli
occhi e fece un respiro profondo per scacciare la nausea. Belle parole,
davvero. Forse erano anche sincere, peccato che non lo facessero star meglio neanche un po’.
Perché nessuno in quella casa
capiva come si sentiva? Non voleva stare lì, non voleva vedere sua madre felice
con quegli estranei, una parte di lui non voleva
proprio più vederla visto il male che gli aveva fatto. Voleva poter tornare a
casa e riprendere la sua vita di sempre, far finta che niente di tutto quello
fosse successo, ma con sua madre in quelle condizioni la sua stessa coscienza
glielo impediva.
“Compresa
mia figlia, anche se non sembra”.
Si lasciò sfuggire uno sbuffo molto più simile a una risata amara mal
trattenuta. Judith Parker era l’ultima persona al mondo che lo avrebbe
ascoltato e aiutato, avrebbe preferito amputarsi un braccio piuttosto.
“Non è semplice per lei averti in casa, è stato difficile accettare anche Delia
all’inizio.”
Voltò di poco la testa,
giusto quanto bastava per osservarlo in volto. Aveva i lineamenti tesi in
un’espressione seriamente amareggiata e Daniel provò quasi compassione per lui.
“Si è sempre presa cura di me
da quando la mia ex moglie se n’è andata e ha trovato a fatica un equilibrio
senza di lei” Spiegò a bassa voce, sfregandosi nervosamente le mani. “Si
abituerà alla tua presenza, è una brava ragazza ed è intelligente. Sono sicuro che riuscirete persino ad andare d’accordo”.
Certo, ad andare d’accordo,
come no. Cosa stava cercando di dirgli? Perché quel
discorso, cosa voleva da lui?
“Ti chiedo di avere un po’ di
pazienza con lei, cercherò di parlarle di nuovo.”
Daniel
scosse lentamente la testa e respirò profondamente. “Non serve.” Ci mancava solo che Judith ricominciasse
a parlargli con quel sorriso condiscendente che avrebbe potuto rivolgere solo ad un povero idiota.
Si morse l’interno della
guancia e rilassò i muscoli delle braccia, mostrandosi
più tranquillo e indifferente di quanto fosse. “Apprezzo il discorso, comunque,
anche se non era necessario”.
Tutti in quella casa
sembravano trovare inconcepibile l’idea che lui non volesse essere coinvolto
nel loro “meraviglioso mondo fiabesco”, voleva solo essere invisibile. Cercava
di stare fuori e di lavorare il più possibile per evitarli, non era abbastanza
evidente?
“Lo era”
Sostenne risoluto l’uomo. “Non voglio davvero che tu ti senta di troppo qui o
non voluto, questa è casa tua quanto mia e hai tutto il diritto di starci”.
Bene, bello. Buono a sapersi,
ora poteva ufficialmente unirsi a loro per la partita a carte del giovedì sera,
il sogno di una vita. Chissà se lo avrebbe anche incluso in un eventuale
testamento, visto che quella che, almeno a parole, era
anche casa sua sembrava valere un bel po’.
Dio, ma come
era finito in quel discorso cuore-a-cuore con Richard Parker? Che
diavolo aveva fatto di male per meritarselo?
Mandò giù una sgarbata risposta
che avrebbe rivelato fin troppo la sofferenza che tutta quella situazione gli
causava e sorrise forzatamente. “Lo terrò a mente, grazie”.
Gli sarebbe piaciuto, tutto sommato, potersi davvero sentire come a casa sua, come
uno di famiglia. Lo infastidiva il pensiero, ma non era contento nemmeno lui di
sentirsi un completo estraneo in quel posto. Se le cose con sua madre fossero
andate diversamente, se lei non lo avesse abbandonato senza dire una parola per
trovarsi un’altra famiglia, forse avrebbe potuto persino apprezzare Richard,
avrebbe potuto cercare
di conoscerlo e di essere simpatico. Lo avrebbe fatto principalmente per
sua madre, per renderla felice. Ma lei se n’era
andata, lo aveva lasciato solo quando aveva avuto più bisogno di lei, era
sparita e non era più tornata. E ora, ora,
dopo anni di assenza, gli mostrava quanto era contenta con la sua nuova e
meravigliosa famiglia, senza di lui. Si era costruita una nuova vita senza di
lui, una vita in cui non c’era evidentemente posto per
lui. Non le doveva nulla.
Fu una liberazione vedere uscire
di casa tutta quella sottospecie di famigliola felice
e restare da solo per la prima volta. Gli sembrò di tornare, chiudendo gli
occhi, ad una delle numerose serate trascorse da solo
nell’appartamento di suo padre a New York. Thomas King non era quasi mai a casa
e, le poche volte che lo era, aveva bevuto troppo o
non era dell’umore adatto per scambiare con lui vere e proprie frasi che non
fossero grugniti o monosillabi. A Daniel andava bene così, gli era sempre andato bene così. Non riusciva a pensare ad
un padre diverso da lui; sebbene non ci fosse dialogo tra di loro, sapeva che,
se avesse avuto bisogno di qualcosa, suo padre sarebbe stato il primo ad
occuparsene, anche se a modo suo e con scarsi risultati probabilmente. Era
rimasto completamente solo in una casa di merda che non aveva mai voluto e che
aveva accettato di affittare solo per rendere felice sua moglie, a crescere un
figlio adolescente che non avrebbe potuto che dargli problemi in un’età così
delicata e senza una madre. Non lo aveva mai abbandonato, a differenza di sua
madre, e Daniel, solo per quello, sentiva di provare stima e affetto nei suoi
confronti, nonostante i momenti di bassi superassero di gran
lunga quelli di alti nella loro quotidiana routine.
Sospirò e si abbandonò sullo
schienale del divano, accendendo la televisione più per abitudine che per
guardarla davvero. A casa non la guardava quasi mai, per risparmiare sulle
bollette, ma da quando era lì la accendeva spesso. Una
piccola ed infantile ripicca, dal momento che non era
lui a doversi occupare delle spese in quella casa, ma Richard.
Gli sarebbe piaciuto aver lì
con sé i suoi amici; Sketch lo avrebbe irritato con la sua continua e
fastidiosa risata da iena, quella pazza di Des avrebbe già riempito la casa di chewing gum incollati ovunque e
avrebbe già rovinato il divano poggiandoci gli anfibi sopra e Reed… Reed se ne sarebbe uscito
con qualche merdata di frase sul senso della vita dopo essersi fumato in
completo silenzio un paio di canne.
Ancora ricordava l’uscita sui
viaggi in nave che aveva fatto la sera prima che partisse da New York per
venire dalla madre.
“Ci pensate”, aveva detto con
aria assorta e dal nulla, dopo esser stato zitto per almeno due ore, “a come era una volta viaggiare? In nave, con il mare mosso…
con le scarse condizioni igieniche, le malattie, il cibo che andava a male dopo
giorni, mesi passati in mezzo al nulla? Des, tu saresti morta
in un giorno, visto quanto soffri il mal di mare”.
Des aveva disteso le gambe e incrociato
le caviglie, lanciandogli un’occhiata scocciata di sottecchi. “Ci risiamo. Reed si è svegliato, bentornato
tesoro”. Poi, dopo essersi stiracchiata con le braccia, aveva tirato su i piedi
e si era rannicchiata sul posto: “Comunque io in quanto
donna sarei rimasta a casa a cucinare, pulire e sputare fuori bambini dalla
vagina. A crepare ci sareste andati voi e io ci avrei
goduto come una vacca.”
Daniel sorrise ripensando
all’espressione ebete con cui l’aveva guardata Reed.
Des aveva sempre uscite abbastanza spiazzanti, non si faceva
problemi a dire quello che le passava per la testa, senza alcun filtro. Nulla a che vedere con Judith Parker e il suo mondo rosa, in altre
parole.
Abbassò lo sguardo sul suo
cellulare e passò distrattamente il dito sullo schermo. Si trattava solo di
qualche mese, poi sarebbe finito tutto. Avrebbe voluto avere
una macchina del tempo per saltare quel supplizio e arrivare direttamente a
quel giorno, per vedere come sarebbero andate le cose, se l’inizio della
terapia di sua madre sarebbe servito a qualcosa o... Scosse la testa e si
concentrò sulla televisione. Tanto valeva guardarsi un film per distrarsi.
Notò di sfuggita l’orologio e
aggrottò la fronte stranito. Barbie Principessa si era
dimenticata della sua telefonata rompicoglioni di controllo a quanto pareva,
considerato che era mezzanotte e non si era ancora fatta sentire. Meglio così,
non ne sentiva di certo la mancanza.
***
Quando riaprì gli occhi si ritrovò completamente immerso nel buio del
soggiorno, fatta eccezione per un chiaro bagliore sul soffitto.
Qualcosa sembrava ronzare
vicino a lui, ma non ci fece subito caso, stanco e stordito dal sonno com’era. Sbatté
le palpebre confuso e si guardò intorno, cercando di
ricordare cosa ci facesse lì. Doveva essersi addormentato.
Si sfregò
le palpebre con le dita e si mise a sedere. Non aveva la minima idea di che ore
fossero, si era addormentato prima che tornassero a casa sua madre e Richard,
con la televisione accesa e il cellulare in mano.
Si voltò verso lo schermo
spento della TV e tastò il divano in cerca del suo telefono.
Quando lo trovò, lo sentì
vibrare sotto la sua mano e comprese da dove provenivano quel ronzio e quella
luce. Strizzò gli occhi infastidito nel momento in cui li puntò
sul display fin troppo luminoso; qualche deficiente – ignoto dal momento che
non riconosceva il numero – lo stava
chiamando alle due del mattino.
Chi diavolo poteva essere? Probabilmente qualche amico
scemo da New York. Al suo amico Sketch bastava bere un po’ per andare fuori di testa, forse credeva di star chiamando qualche
strafiga che aveva conosciuto in discoteca. Questo non spiegava comunque il
numero sconosciuto.
“Pronto?” Aveva una voce
talmente roca da far invidia a un serial killer. Se la schiarì
appena e attese impaziente una risposta che non tardò ad arrivare.
“Sì, uhm, Daniel?”
Una ragazza. Merda. Avrebbe
dovuto ricordarsela? A quante ragazze di cui non aveva memoria
aveva dato il suo numero?
L’ipotesi dello scherzo di un
amico gli sembrava sempre più valida.
“Sì?”
“Ciao, scusami se ti disturbo,
sono Meg”.
Merda. Meg. Setacciò la sua
mente in cerca di un ricordo o di un volto. Zero. Chi
cazzo era Meg? Ci era andato a letto insieme? A New York gli era capitato di
ubriacarsi a tal punto di non ricordare nomi o volti di ragazze con cui era
stato, ma non credeva di essere stato tanto stupido da lasciare il suo numero a
qualcuna.
Il suo silenzio dovette
parlare per lui, perché la ragazza si affrettò a specificare, un po’ a disagio:
“L’amica di Jude”.
Visualizzò la ragazza dai
capelli rossi e si massaggiò la fronte, improvvisamente consapevole di chi ci
fosse dall’altra parte. Di Jude ne conosceva solo una, grazie
al cielo, non c’era possibilità di fraintendere.
“Ah, sì. Ciao”. Ciao? In realtà avrebbe voluto incazzarsi per l’orario e chiederle perché mai
avesse il suo numero, ma era un tantino disorientato al momento.
“Scusami se ti chiamo a
quest’ora, è una specie di emergenza” spiegò lei, talmente in fretta che Daniel
fece fatica a starle dietro.
Gli sembrò piuttosto agitata
e non gli parve il caso di infierire, così decise di rimandare il momento
dell’incazzatura.
“Che succede?” Chiese
istintivamente, un po’ più vigile.
Prima che la rossa potesse
rispondergli, una seconda voce femminile s’intromise nella conversazione, più
lontana rispetto alla prima.
“Metti giù Meg, giuro che ti ammazzo!” Borbottò in tono lamentoso quella che riconobbe
come Judith.
Aveva a che fare con due
psicopatiche, non c’erano dubbi. Diede dei colpetti con le dita sullo schienale
del divano, irritato ed impaziente di sapere che
diavolo volessero da lui.
“Sarei tentato di farlo io, a
questo punto” Commentò in tono neutro. “Intendo mettere giù, non ammazzarti”
Precisò lievemente sarcastico. Non era ancora arrivato al punto di voler
ammazzare la rossa, dopotutto non era colpa sua se Judith Parker gli causava un
tale fastidio.
“No! Aspetta, ti prego” Fece Meg
allarmata. “Siamo a una festa di una nostra compagna
di scuola e Jude ha bevuto troppo, così come l’amico che doveva riaccompagnarci
a casa in macchina. Non sappiamo come tornare e
io non so cosa fare e…” Meg fece un respiro profondo e la sua voce si affievolì.
Nel silenzio del salotto, Daniel
inarcò lentamente un sopracciglio. Fissava torvo l’orologio luminoso del
lettore dvd, che gli ricordava in modo beffardo l’ora in cui stava accadendo
tutto quello. Erano le due del mattino, era sveglio dalle sei del giorno prima,
aveva lavorato dodici fottute ore e ora Meg-l’amica-di-Jude lo chiamava per metterlo al
corrente di un problema che non lo riguardava. Che diavolo voleva da
lui?
“Vuoi che svegli suo padre e
gli dica di venirvi a prendere?” Azzardò, con voce più calma di quanto volesse.
Si ricordò che quella ragazza era forse una delle poche persone ad averlo
trattato con sincera e amichevole gentilezza e non come se fosse un povero
deficiente bisognoso di attenzioni e compassione.
“Oddio no, suo padre la
ammazzerebbe se la vedesse in questo stato”.
In quale stato? Come si era
ridotta
Stentava comunque a credere
che Richard Parker avrebbe ammazzato sua figlia per una simile sciocchezza, sembrava
adorarla talmente tanto che probabilmente le avrebbe fatto passare liscia
qualsiasi cosa. Non riusciva a credere che si sarebbe arrabbiato se anche avesse
scoperto che sua figlia era stata talmente idiota da ubriacarsi e da non saper
come tornare a casa da una festa.
“Uhm,
quindi?” Chiese dopo un po’, non sentendo più nulla dall’altro capo.
“Potresti… potresti
venire a prenderci?” La sua voce tremò appena, come la fiammella di una candela
in procinto di spegnersi.
Una risata nacque spontanea
nel suo petto e Dan ci mise un po’ a tornare serio. “Che cosa?
Io?” Doveva per forza essere uno scherzo, lo stavano
prendendo in giro quelle due.
Meg non parve essersela
presa, né, purtroppo per lui, confermò la sua ipotesi. “Oh sì, ti prego. Non sappiamo come tornare e non possiamo restare qui a dormire!”
Piagnucolò ad alta voce, direttamente nel suo orecchio, rischiando quasi di
farlo diventare sordo. “Puoi usare la macchina di suo padre, Jude dice
che le chiavi le mette sempre nella ciotola sul mobile
all’ingresso”.
Cristo Santo, non stava
scherzando, era seria. Diede una rapida occhiata
all’ingresso buio alle sue spalle e scosse la testa incredulo.
“Non ho intenzione di prendere la sua macchina senza chiedergli il permesso. Non ho proprio intenzione di prenderla”.
Non erano sue amiche, lui non
doveva loro alcun favore. Erano finite in quel casino? Bene, cavoli
loro, se ne sarebbero tirate fuori da sole. Perché mai avrebbe dovuto
prendere una macchina non sua e uscire di notte per
andarle a prendere? Dopo come si era comportata Judith con lui poi, dopo come
lo aveva sempre trattato… assolutamente no!
“Ti prego! Saremo in debito
con te, faremo tutto quello che vorrai, aiutaci! Se i miei scoprono che ho
bevuto e che non sono ancora tornata a casa manderanno una pattuglia a cercarmi,
e non scherzo!”
Sospirò rumorosamente,
quella vocina stridula lo stava seriamente stancando. Non vedeva l’ora di
mettere giù e di andarsene a letto.
“Non sarebbe una cattiva
idea” Fece ironico. “Almeno tornereste a casa”.
Cercò a tentoni
il telecomando del televisore con la mano libera e lo individuò nella penombra sopra
il bracciolo del divano. Dovevano averlo messo lì Richard e Delia dopo averlo
spento.
Si alzò e, a fatica, nel buio
della stanza, raggiunse l’ingresso senza rompersi l’osso del collo inciampando contro
qualcosa.
“Abbiamo paura, sul serio.
Qui è il delirio, sono tutti completamente fuori. Siamo
chiuse in bagno e non sappiamo come uscirne”.
Tutti completamente fuori? In
quel posto di merda cosa mai potevano essersi fumati, la carta del giornale? Avevano
aspirato borotalco e bevuto succo di frutta?
Si proibì categoricamente di
cedere o di preoccuparsi. Il ricordo del sorrisetto derisorio di Judith Parker lo
aiutò nell’impresa.
Non aveva intenzione di
correre a salvare la principessina prendendo di nascosto la macchina di suo
padre per poi magari ricevere, in cambio, solo altre
provocazioni e nemmeno un “grazie”. La cocca di papà avrebbe dovuto
pensarci prima di bere qualcosa di diverso dal suo solito tè.
“Abbassando la maniglia della
porta?” Propose con una punta di nervosismo. Gli dispiaceva per la rossa, tutto sommato, se si fosse trattato di aiutare solo lei non
sarebbe stato così stronzo.
Si aspettava una risposta
acida, un attacco di isteria tipico di una ragazza
sull’orlo delle lacrime, invece arrivò una replica molto docile e arrendevole:
“Non importa, come non detto. Aveva ragione Jude, lei aveva
detto che non saresti venuto”.
Fletté le dita della mano
libera ed affondò i polpastrelli nel palmo con forza,
sibilando tra i denti come un serpente prima di mordere la sua preda. Si fermò
al centro dell’ingresso, ad un passo dalle scale e ad un passo
dalla ciotola con le chiavi della macchina.
Non seppe perché quella frase
lo infastidì così tanto, forse perché il pensiero che
Jude avesse ragione su qualcosa, specie su di lui, era insopportabile.
“Grazie lo stesso e scusami se ti ho
disturbato”.
Si arruffò
i capelli e sospirò, maledicendosi venti volte per quello che stava per dire.
“Dove siete?”
*****
Non riusciva a ricordare
l’ultima volta in cui avesse fregato – preso in prestito
era solo un modo carino di definire il tutto – la macchina di qualcuno senza il
suo permesso. Forse due anni prima, a Capodanno, quando aveva dovuto guidare
non completamente sobrio la macchina dell’ignaro zio del suo amico per le
strade di Brooklyn.
Si chiese come avrebbe
reagito Richard Parker se, svegliandosi nel cuore della notte, si fosse reso
conto del fatto che la sua auto fosse sparita. Così come lui. E sua figlia.
L’ospedale più vicino – probabilmente anche l’unico del posto – lo avrebbe
ricoverato d’urgenza per un arresto cardiaco.
D’altra parte, non riusciva
nemmeno a ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui avesse messo piede
ad una festa di liceali.
Ricordava che, durante il suo
primo anno delle superiori e insieme ai suoi amici, s’imbucava spesso a feste a cui non era stato invitato, solo per il gusto di far
arrabbiare i ragazzi più grandi, litigare con loro e conoscere le cheerleader. Quando,
al terzo anno, era entrato nella squadra di basket della scuola e nella cerchia
dei ragazzi che Krystal Ferguson, la
capo-cheerleader, definiva “appetibili”, aveva iniziato a ricevere fin troppi
inviti per i suoi gusti. Andare ai party organizzati dai suoi compagni di
scuola era diventato in fretta noioso, non lo divertiva essere “uno di loro”,
non lo divertiva avere ragazze isteriche che prima gli si buttavano addosso,
senza che lui avesse nemmeno il tempo di aprire bocca, e dopo finivano col
chiudersi in bagno piangendo una perduta verginità che “quello stronzo
insensibile di Daniel King” aveva tolto loro.
Aveva incominciato ad evitare quella gente come se, solo avvicinandosi, avesse
potuto prendersi la sifilide e, tramite il cugino più grande di un suo amico,
aveva iniziato a partecipare a feste nei locali, con gente più adulta e non
poppanti che litigavano per contendersi l’ultima cassa di birra rimasta o la
bionda senza cervello di turno. Trovarsi nella casa della famiglia Evans fu
come tornare al suo anno da matricola delle superiori. Non dovette dir nulla di
particolare per entrare, un ragazzo ubriaco gli aprì la porta e gli diede una
pacca sulla spalla come se fossero amici da una vita.
Dubitava che ricordasse il
suo stesso nome o cosa ci facesse lì, aveva l’aria di uno che avrebbe vomitato
l’anima da un momento all’altro.
Daniel mosse lentamente i
suoi primi passi nell’abitazione, guardandosi intorno con un misto strano di
curiosità, divertimento e disgusto. La canzone All
Night delle Icona Pop gli rimbombava nelle orecchie, il volume era così alto
che dalle casse la musica usciva vagamente gracchiante.
Al naso gli arrivò un forte e
riconoscibile odore di fumo, non solo di sigarette. Dappertutto vedeva
adolescenti più svestiti che vestiti, appartati in un angolo o a ballare,
gridare e saltare al centro delle stanze. La rossa non scherzava quando diceva
che la situazione era fuori controllo.
Infilò le mani in tasca pensieroso e notò le scale che portavano al piano di
sopra: Meg gli aveva detto di essere al secondo piano, nell’ultima stanza in
fondo al corridoio sulla destra. Sperava di non beccare una camera
da letto.
Non riuscì ad avanzare di
molto, dal momento che una ragazza gli gettò le
braccia al collo e si aggrappò a lui per non crollare a terra come un sacco di
patate.
“Tu chi sei? Non ti ho mai visto qui” Fece lei,
avvicinandosi alla sua faccia per farsi sentire e leccandosi le labbra con la
punta della lingua.
Le passò una mano dietro la
schiena per sostenerla e la squadrò per un paio di secondi: bionda, alta, gambe snelle e scoperte e un seno bello pieno. Sorrise a
mezza bocca; di ragazze come quella New York era
piena. “Tuo fratello” Replicò ironicamente.
Lei ridacchiò, segnò che la
battuta era arrivata comunque al suo cervello poco lucido. Aveva l’alito che
puzzava di birra e la bocca ancora impiastricciata di rossetto lievemente
sbavato sul mento.
“Ho sempre trovato
tremendamente eccitante l’incesto, sai?” Fece
scivolare le sue mani sul suo petto e si sfregò contro il suo corpo come un
gatto che faceva le fusa.
Suo malgrado, lui allargò il
suo sorriso. Non gli dispiaceva il suo senso dell’umorismo. E non gli
dispiaceva nemmeno quel seno premuto contro di lui.
“Che ne
dici di andare di sopra, in una delle camere? In un letto comodo…” Chiese lei,
ringalluzzita dalla sua risposta apparentemente positiva.
Daniel spostò lo sguardo
sulle scale dietro di lei; in un’altra circostanza probabilmente avrebbe
acconsentito. Da quando era arrivato lì non aveva
avuto nemmeno il tempo di pensare di avere una vita sessuale e la cosa stava
iniziando ad avere un certo peso. Sketch e Reed gli
avrebbero chiesto se gli si fosse fottuto il cervello
se avessero saputo che stava per sprecare un’occasione del genere. Pazienza, si sarebbe rifatto a New York.
“Non sono un amante della
comodità”. Scrollò le spalle. “Starei cercando il bagno, c’è al piano di
sopra?”
Lei aggrottò la fronte
confusa, poi riacquistò subito la spavalderia di poco prima.
“Sì, in fondo a destra. Ho capito, preferisci farlo sotto la doccia.”
Daniel scosse la testa e le sorrise sardonico. “Nella vasca, in realtà. Ma ho una particolare adorazione per la lavatrice”.
Lei rise di nuovo ed iniziò a tracciare una scia di baci sul suo collo.
Un po’ restio, si costrinse a
staccare le mani dall’invitante vita della ragazza e ad allontanarla da sé. Non
era davvero cambiato nulla dalle feste che ricordava; quella doveva essere il
classico tipo di ragazza che prima se lo sarebbe scopato senza battere ciglio e
poi avrebbe finito con l’incolpare lui di quanto successo o il negare qualsiasi
coinvolgimento per mantenere la facciata da brava ragazza.
“Hai una ragazza, vero?” Domandò lei con un tono di voce infantile,
imbronciata e risentita per essere stata respinta.
“Già” Rispose senza troppa
convinzione, sapendo che, se avesse risposto di no, quella avrebbe continuato
l’interrogatorio. La successiva domanda sarebbe stata, al novantanove per
cento, “Sei gay, vero?”. Le donne non erano proprio in
grado di reggere un rifiuto.
“Cristo, lo sapevo!” La
bionda barcollò all’indietro e si appoggiò al muro. “I migliori sono sempre già
presi”. Corrugò le sopracciglia chiare e lo scrutò in volto
improvvisamente più lucida. “La conosco? È a questa
festa?”
“Probabilmente sì”. Meglio
restare sul vago.
La sorpassò e alzò una mano a
mo’ di saluto. “Ci vediamo in giro, eh.”
Lei lo indicò più volte con
l’indice, la bocca e gli occhi di colpo spalancati.
“Aspetta, ma io ti conosco!
Tu sei quello della tavola calda di Trevor, quello di New York!”
Merda. Non pensava che lo avrebbe
riconosciuto e non pensava nemmeno che il
discorso con lei si sarebbe protratto così a lungo, sperava di liquidarla più
velocemente.
“Sì. Scusami,
vado di fretta”.
Fortunatamente non fece altre
domande e lo lasciò libero di schivarla e salire al piano di sopra.
Individuò subito la porta del
bagno; era l’unica porta in fondo sulla destra, non
c’era possibilità di sbagliarsi. Ciononostante, quando l’aprì,
lo fece con la massima lentezza per assicurarsi che fosse davvero quella la
stanza che cercava.
Nel momento in cui una
ragazza dai capelli rossi gli si avventò addosso non
ebbe più dubbi.
“Oddio, grazie! Credevo non arrivassi più!”
Lo stava abbracciando come se
le avesse salvato la vita, come se fosse stato sei
mesi in guerra e fosse tornato vivo per miracolo, come se… Meg lo stava
letteralmente stritolando.
“Ci ho messo dieci minuti” Le
fece notare schiarendosi la voce e staccandola non troppo bruscamente da sé. Era
abituato a ricevere abbracci da ben poche persone a cui
voleva bene e quella sera ne aveva già ricevuti troppi per i suoi gusti, da
perfette estranee oltretutto.
Meg parve un po’ imbarazzata
e subito si scusò per lo slancio con cui aveva accolto il suo ingresso.
“Non ti preoccupare”. Non
aveva ancora finito di dirlo, quando una terza voce, un mugugno piuttosto,
s’intromise nel discorso.
Jude era seduta a terra; le
ginocchia strette al petto, la testa appoggiata al muro dietro di sé e la pelle
del volto bianca come un lenzuolo.
Nonostante tutto, nonostante
le prese in giro, i litigi e il rapporto meraviglioso
che lei aveva con sua madre, Daniel
non riuscì a compiacersi di quella vista. Un po’ gli dispiacque vederla così pallida
e debole.
La osservò mentre affondava i
denti nel labbro inferiore e chiudeva gli occhi, le ciglia scure in completo contrasto
con il pallore del viso. Doveva stare veramente male, non riusciva a credere
che una ragazza orgogliosa e petulante come lei potesse fingere in quel modo. Stava
per commettere l’errore di farsi intenerire dal suo aspetto, quando Judith alzò
di colpo una mano per agitarla davanti a sé.
“Stai schiaffeggiando
l’aria?” Le domandò di getto, incapace di contenere il sarcasmo.
Lei emise un verso molto
simile ad un basso ringhio e continuò ad agitare il
braccio con più foga. “Mandalo via, Meg!”
Debole un corno, pensò
inevitabilmente divertito, quella riusciva a rispondere male e ad essere odiosa anche in quelle condizioni.
“Sì, se continui così sono sicuro che ce la farai” La provocò avvicinandosi,
le mani in tasca e le labbra piegate in un mezzo sorriso. “Un po’ più a destra.
No, più in alto.”
Jude lasciò ricadere
sconfitta la mano sul ginocchio e diede un colpetto al muro dietro di sé con la
testa. “Ti odio” Borbottò flebilmente.
Lui piegò le gambe e si
accucciò di fronte a lei, le sopracciglia inarcate mentre la esaminava da più
vicino. Doveva imprimere bene quell’immagine nella sua testa, non capitava
tutti i giorni di vedere Judith Parker in quello stato.
“Non dovresti odiare il tuo
salvatore” Ribatté serafico, più ilare di quanto avrebbe dovuto e voluto
essere, contando che era stato svegliato di notte per andare a prendere
quell’impiastro. Voltò la testa per guardare Meg di sfuggita. “Da quanto siete
qui?”
La rossa fece un sospiro e si
sedette sulla vasca, le mani strette tra le gambe. “Un’ora? Due? Non lo so, ho
perso la cognizione del tempo. Ha vomitato l’anima e poi si è seduta lì e ha
iniziato a piagnucolare che stava male” Meg la indicò col mento e un’ombra di
pentimento e dispiacere aleggiò sul suo viso paffuto quando l’amica la fulminò
con lo sguardo. “Volevo provare ad aiutarla a mettersi in piedi, ma ha iniziato
a strillare come un’aquila e a dire di non toccarla quando mi sono avvicinata.”
Daniel riportò la sua
attenzione su Jude prima della fine della spiegazione, gli occhi socchiusi e le
labbra piegate in un’espressione pensierosa.
Interpretando bene il suo
silenzio e il suo sguardo, la ragazza soffiò a bassa voce un “Non provare a
toccarmi” che avrebbe spaventato il più intrepido degli eroi.
“Mi spiace principessa, ma
non sono in grado di farti levitare” Considerò
ironicamente, rialzandosi in piedi e porgendole le mani. “E che tu lo voglia o
no ce ne dobbiamo andare di qui”.
Jude si ritrasse contro il
muro e lo scansò quando tentò di afferrarla per un braccio. “Posso alzarmi da
sola” Replicò asciutta ed orgogliosa, seppur con un
filo di voce.
Daniel schioccò la lingua ed incrociò le braccia al petto, scrutandola sardonico. “Va
bene, prego. Qualcosa mi dice che ricadresti in un attimo sul
pavimento con cui hai fatto amicizia da più di un’ora”.
Lo odiava. Lo odiava con
tutta sé stessa e soprattutto odiava quella faccia da
schiaffi con cui la stava guardando, quell’espressione vittoriosa di chi aveva
il coltello dalla parte del manico. Probabilmente si stava persino divertendo,
non aveva fatto altro che prenderla in giro.
Se solo la stanza avesse
smesso di girare in quel modo… se solo avesse avuto la certezza che le sue
gambe l’avrebbero retta, si sarebbe alzata da sola, senza bisogno dell’aiuto di
quell’insopportabile arrogante.
“Sono le tre del mattino,
puzzi di vomito, questa festa fa schifo e ho preso la macchina di tuo padre
senza il suo permesso. Credimi, preferirei fare altro in
questo momento” Elencò lui improvvisamente serio, chinandosi di nuovo verso di
lei. “Ad esempio dormire. Ma dato che la tua
amica ci tiene abbastanza a te da chiamarmi e implorarmi di venire, potresti
almeno farle il favore di farti aiutare.”
Stava ponderando bene le sue
parole, questo doveva concederglielo. Aveva scelto di nominare l’unica cosa che
l’avrebbe convinta a fare quello sforzo e lui lo sapeva. Bastardo. Jude non
poteva fare quello a Meg, i suoi l’avrebbero uccisa se avesse passato la notte fuori casa, aveva il coprifuoco alle tre e mezza.
Sospirò ed
annuì appena, un cenno talmente minuscolo da non essere quasi notato. Stava per
dirgli che non ce l’avrebbe fatta a restare in piedi
da sola, quando lui le circondò gli avambracci con le dita e la strattonò su
con poca delicatezza, come se fosse stata una bambina piccola. Istintivamente,
per assecondarlo e per non farsi staccare gli arti superiori, si diede uno
slancio con le gambe, con il risultato che, una volta in piedi, crollò in
avanti addosso a lui.
Ecco il motivo per cui non
aveva voluto farsi aiutare da Meg: se l’amica avesse provato a sollevarla, Jude
l’avrebbe travolta col suo peso e sarebbero entrambe rotolate a terra come due
salami. Con Daniel non ci fu quel problema, lo comprese nel momento in cui
affondò i polpastrelli nelle sue spalle. Daniel era… duro. Oddio, duro suonava
malissimo nei suoi pensieri. Solido? Non era molto meglio.
Era stabile. Sì, ecco, Daniel era
stabile. Non cadde all’indietro all’impatto col suo corpo, si limitò a fare
appena qualche passo verso il centro della stanza per riacquistare
l’equilibrio, ma riuscì a sostenerla fermamente.
La stanza le girava
velocemente intorno, l’unica cosa salda e a cui ormai
si era aggrappata come una cozza allo scoglio era lui. Tutto
sommato era piacevole. Molto piacevole. Le ritornò in mente l’aggettivo duro di poco prima e
questa volta non poté scacciarlo via, perché era proprio così che
sentiva il corpo del ragazzo contro il suo. Duro e al tempo stesso morbido. Santo cielo, che stava dicendo?
Percepì un senso crescente di
nausea e calore. Un qualcosa di ancora più terribile le si
smosse dentro quando Dan le circondò la schiena con un braccio per
sorreggerla meglio; si sentì come un maledetto vulcano pronto ad eruttare. Merda, stava per vomitare?
Appoggiò la fronte sulla sua
spalla ed avvertì Daniel sussultare impercettibilmente
in risposta. Perché? Forse non doveva farlo. Fu decisamente
un errore, in effetti. Dalle labbra della ragazza, talmente vicine al tessuto
della maglietta da sfiorarlo e respirarci contro, uscì un basso, incontrollato ed imbarazzante mugolio. Daniel aveva un buon odore; odorava
di pulito, di bucato appena fatto, di bagnoschiuma
alla menta. Che bagnoschiuma usava? Doveva ricordarsi di chiederglielo. Era
buonissimo, un qualcosa che dava assuefazione. Oh Dio,
ci mancava solo quello. Perché non puzzava, accidenti?
“Non vomitarmi addosso, eh” La
sua voce le sembrò meno presuntuosa e più incerta del solito, ma non ci fece
troppo caso. Non rispose, non aprì proprio la bocca per paura di fare il
contrario di quanto le aveva detto. Ci mancava solo che lui la odiasse ancora
di più per quello, non osava immaginare come avrebbe reagito se gli avesse
rigurgitato sulla maglietta.
“Che vuoi fare?” Chiese terrorizzata quando lui si chinò per passarle un
braccio dietro le ginocchia. Irrigidì le gambe e cercò di ritrarsi per
impedirgli di fare ciò che per lei sarebbe stato tremendamente umiliante.
“Secondo te?” Sbuffò
irritato. “Non mi stai aiutando, la pianti di agitarti?”
“Posso camminare” Mentì
spudoratamente, mentre tutto intorno a lei continuava a girare beffandosi delle
sue stesse parole.
“Non credo proprio, perciò piantala di fare la bambina.” Non le diede il tempo di fare
o replicare altro perché, con la stessa delicatezza di poco prima, la sollevò
da terra ignorando le sue deboli proteste. L’ultima persona che l’aveva presa
in braccio era stato suo padre quando aveva appena
cinque anni. Dio, la serata più terribile della sua vita,
l’esperienza più imbarazzante della sua esistenza. Avrebbe voluto
cancellarla, cancellare tutto, ogni parola e ricordo
di quanto successo. Specie di quanto successo prima.
“Ci mancavi solo tu…” Disse
con voce stanca, intrecciando istintivamente le braccia dietro il suo collo. Sentiva
i suoi capelli solleticarle la pelle e, dopo aver chiuso gli occhi, sospirò
piano contro la spalla del ragazzo, desiderando di poter sparire in
quell’esatto momento. Perché lui doveva assistere a tutto quello? Perché
proprio lui, che non avrebbe perso occasione per schernirla?
Aveva voluto far qualcosa di sciocco,
autodistruggersi con le sue stesse mani per lenire la sofferenza che aveva
provato e, come ciliegina sulla torta, ora la sua stupidità aveva persino un
pubblico. Non si riconosceva più, avrebbe deluso suo padre se lo avesse saputo,
gli avrebbe dato un dispiacere, lo avrebbe fatto soffrire. Come aveva potuto
farlo?
“Non può farlo…” Non si rese
conto di averlo detto finché Daniel non le rispose con un
“Cosa?” piuttosto confuso.
Scosse la testa e si insultò per esserselo lasciato sfuggire. Stava malissimo,
non riusciva più a distinguere ciò che pensava da ciò che diceva ad alta voce.
“Sei qui
con la macchina di suo padre, vero?
Puoi accompagnare prima me, per favore?” La voce di Meg le
arrivò ovattata e dovette sforzarsi per comprendere la risposta di Daniel.
“Non può dormire da te? Come
la porto in camera dei genitori senza che se ne accorgano?”
Ma lei aveva la sua camera, no? No… giusto, dormiva
nella stanza dei suoi genitori. E sapeva di non poter dormire da Meg; i suoi genitori
si sarebbero accorti subito del fatto che avesse bevuto così
tanto e avrebbero avvisato immediatamente suo padre.
“Perché devono andare così le
cose?” Piagnucolò a bassa voce, mentre Meg e Daniel continuavano in sottofondo
a parlare. “Perché?” Disse di nuovo, a nessuno in particolare.
“Dovevi pensarci prima, mi
sa”.
Vai al diavolo, Daniel King. Fortunatamente doveva averlo solo pensato, perché questa
volta da lui non arrivò nessuna risposta. O magari prima non stava parlando con
lei, Jude non era più sicura di niente, nemmeno del
posto in cui si trovava.
Sentì la voce di una ragazza
accanto a lei, ma non distinse alcuna parola, le sembrò solo il biascicare
confuso di una persona ubriaca. Avvertì un leggero sobbalzo e poi il nulla, il
vuoto, il buio.
***
Non era esattamente sicuro di
cosa fare e soprattutto di come farlo. Lanciò un’occhiata a Judith Parker, la testa
appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi e un’aria sofferente sul volto. Ad
alcune persone l’alcol toglieva qualche freno inibitore, causava euforia,
risate incontrollate; evidentemente non a lei, restava pallosa e lagnosa pure
quando beveva. Non era nemmeno capace di divertirsi a dovere, una volta tanto
faceva qualcosa di quasi normale per una ragazza della sua età e finiva col
vomitare l’anima e piagnucolare neanche stesse per morire.
Sospirò e spense la macchina.
Aveva riaccompagnato a casa Meg una decina di minuti prima, dopo essersi
sorbito un centinaio di “grazie” e “scusa” da parte della ragazza. Era stato un
sollievo guardarla scendere, se avesse continuato a scusarsi e a ringraziarlo
ancora per un po’ non avrebbe resistito all’impulso di aprire la portiera e
cacciarla fuori.
Si passò una mano sul viso e
si lasciò ricadere sullo schienale; era distrutto, non riusciva a ricordare
l’ultima volta in cui avesse dormito otto
ore di fila.
Doveva pensare ad una sistemazione per la principessina, era ovvio che non
potesse portarla in camera dei suoi genitori senza farsi scoprire. Avrebbe
potuto mollarla sul divano, ma onestamente non se la sentiva di lasciarla da
sola dopo la sbronza che si era presa, sebbene lo meritasse.
Non restava che la sua camera
a quel punto: avrebbe ceduto il letto a quella lagna e
a lui sarebbe toccato stare sul pavimento. Sbuffò: quando mai aveva detto di sì
a tutto quello, avrebbe dovuto starsene a New York con
suo padre e fregarsene di sua madre e della sua nuova famigliola.
Scese dalla macchina e fece
il giro per aprire la portiera del passeggero. Jude
gli crollò addosso per la seconda volta quella sera, borbottando qualcosa di indefinito ed aggrottando la fronte infastidita per
l’interruzione del sonno.
“Hai pure il coraggio di
lamentarti…” Soffiò divertito e incredulo, passandosi un braccio della ragazza
intorno al collo per prenderla di nuovo in braccio.
Era più morbida di quanto
pensasse contro di lui. Fisicamente sembrava magra e, avrebbe immaginato,
spigolosa, eppure su di sé avvertiva ogni singolo centimetro di pelle, un corpo
caldo e piacevole. Merda. Deglutì a vuoto e cercò di concentrarsi su cose più
importanti e difficili da fare in quel momento, ad esempio riuscire ad entrare in casa con le mani occupate.
Si guardò istintivamente
intorno. Nel vialetto la strada era fredda e vuota come avrebbe dovuto essere
alle tre di notte, illuminata solo dai lampioni. Non osava immaginare che cosa
avrebbe potuto pensare un passante in quel momento se lo avesse visto, si
sentiva una sorta di maniaco approfittatore di ragazze ubriache.
Mentre chiudeva a fatica
l’auto e riattivava l’antifurto – come se fosse servito a qualcosa poi in quel
posto – Jude biascicò di nuovo qualcosa che non
comprese. Fantastico. Doveva parlare e rompere i coglioni pure da ubriaca, mai
un attimo di tregua con lei.
Dopo diversi tentativi riuscì
ad aprire la porta e a richiuderla con la gamba dietro di sé. Cazzo, si era
dimenticato di cambiarsi le scarpe con le ciabatte, il giorno dopo quella pazza che aveva in braccio si sarebbe lamentata dello
sporco sulla moquette.
“Si sposa.”
Sussultò nel buio
dell’ingresso, quasi come un ladro colto in flagrante. Jude
aveva parlato nitidamente questa volta, scandendo bene le parole.
Si sposa?Ma chi?
Si strinse di più a lui e
nascose il viso nella spalla, le dita artigliate alla sua maglietta. “Si sposa”
Ripeté. La voce mancò sulla nota finale, inghiottita da un singhiozzo.
Oh merda, no.
Non aveva alcuna intenzione di stare ad ascoltare le turbe adolescenziali di
una ragazza, né voleva avere a che fare le sue lacrime. Una Jude
incazzata era difficile da gestire, una Jude
piangente era l’Apocalisse.
“Auguri e figli maschi” Replicò ironicamente e a bassa voce, lo sguardo concentrato
sul pavimento mentre cercava di non ammazzarsi per arrivare al piano di sopra.
Fortunatamente la ragazza non
aggiunse altro, sembrò essersi assopita di nuovo, almeno finché non la adagiò
sul letto della sua stanza e le tolse le scarpe. A quel punto mugugnò
qualcos’altro e si rannicchiò sotto le coperte. “Perché non mi ama?”
Quelle parole ebbero su di
lui l’effetto di una secchiata d’acqua su un gatto che odiava bagnarsi. Bene,
quello era il segnale d’allarme, il segnale che lo
invitava ad allontanarsi di lì in cerca di qualcosa da poter usare per creare
un giaciglio sulla moquette.
“Daniel?”
Si bloccò sul posto
pietrificato, ad un passo dalla fuga e dalla salvezza. Purtroppo per lui Jude era abbastanza cosciente da ricordarsi di lui,
nonostante il delirio da teenager cretina di poco prima.
Chissà se ne avrebbe avuto memoria il giorno dopo.
Sicuramente lui le avrebbe
rinfacciato quella serata un’infinità di volte finché sarebbe stato in quella
casa, era in debito con lui per i prossimi quindici
anni come minimo.
Dopo un momento di esitazione
– e qualche imprecazione, tornò silenziosamente indietro e si chinò verso di
lei. “Sì?” Si costrinse a dire, sebbene l’idea di non rispondere e uscire dalla
stanza gli avesse accarezzato la mente.
“Ho freddo” Lo
mormorò a voce così bassa che faticò a sentirla. Pure? Che diavolo, non era il
suo dannato cameriere personale.
Sospirò, a metà fra il rassegnato e l’irritato. “Vado
a prenderti un’altra coperta.” Cosa gli toccava fare, prendersi cura di una
mocciosa alla sua prima e stupida sbronza. Non aveva di certo accettato di
andare a vivere per alcuni mesi da sua madre per fare da babysitter a quella
rompiscatole.
Fece per allontanarsi, quando qualcosa lo
strattonò verso il basso. Aggrottò la fronte e puntò lo sguardo sulla piccola
mano che si era aggrappata di nuovo alla sua maglietta.
“No… Resta qui.” Un altro sussurro. Una flebile
preghiera.
“Cosa?” Sicuramente aveva capito male,
non riusciva a pensare ad un solo motivo che potesse
spingere la pazza a volerlo lì con lei. A meno che non
lo stesse scambiando per qualcun altro, ipotesi che avrebbe anche potuto essere
plausibile se non lo avesse chiamato col suo nome poco prima.
“Resta qui con me. Ho freddo.” Cercò
di attirarlo di più a sé, stringendo con forza le dita sul tessuto
dell’indumento ormai stropicciato.
Era forse posseduta? La sua testa avrebbe iniziato a girare a
trecentosessanta gradi?
“Eh? Perché?” Non gli venne in mente una risposta più intelligente.
“Ti prego.” La presa sulla t-shirt era salda e
decisa, in netto contrasto con la sua voce debole.
Ti prego?
Daniel non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nel suo
stesso letto? Così nel momento in cui la solita ed
incazzosa Jude sarebbe ricomparsa lui sarebbe morto
soffocato nel sonno dal cuscino? No, grazie.
Portò la mano su quella della ragazza nel vano tentativo di
liberarsi da quella stretta, ma come risultato ottenne solo altri piagnucolii rumorosi
e infastiditi.
“Dai, non fare l’antipatico, per favore.” Slittò con il
fianco in fondo al materasso per fargli spazio, tirandolo ancora una volta per
invitarlo a sdraiarsi lì con lei. Tutto ciò era assurdo.
Fissò incerto il letto, meditando sul da farsi. In fondo
avrebbe anche potuto fare quella pazzia e assecondarla, era stanco e non aveva
nessuna voglia di dormire sul pavimento. Avrebbe puntato la sveglia sul
telefono appena qualche ora dopo, prima che lei potesse svegliarsi, accorgersi
della sua presenza ed impazzire. Inoltre stava
iniziando a temere per la sorte della sua povera maglietta ad un passo
dall’essere slargata.
Scostò le coperte e si stese titubante accanto a lei, pronto
a sentirsi sbraitare contro un “che cazzo fai?”, che non arrivò. Strano. Ci
doveva essere per forza piano subdolo dietro, trattandosi di Judith Parker non
poteva essere altrimenti.
S’irrigidì
quando lei si mosse per appoggiargli la guancia e le mani chiuse a pugno sul
petto. Lo aveva forse preso per un cavolo di peluche da abbracciare e su cui
strusciarsi? Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando riprese a
parlare, diversi secondi dopo, con il fiato corto e spezzato. “Ma quanto cazzo hai bevuto?” Non osava spostarsi, non voleva
sfiorarla accidentalmente con qualcosa che, se stimolato da un
contatto con lei, avrebbe potuto dargli non pochi problemi in quel momento.
Jude non
rispose alla sua domanda, si limitò ad inspirare
profondamente e a sospirare. “Hai un buon odore. Perché hai
un buon odore?”
Ma che
razza di domanda era?
“Non lo so,
perché mi sono fatto la doccia?” Propose in tono ovvio e sarcastico.
Quella era
in assoluto la conversazione più demenziale che avesse mai sostenuto e, con
amici come Sketch e Reed, di conversazioni idiote ne
aveva avute.
Fu come se
non avesse parlato, lei continuò spedita a fare considerazioni assurde per
conto suo.
“E sei duro.
Sì, sei duro.”
Ma che
diavolo…? Quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Cristo Santo! Certo, gliel’avevano detto altre volte, ma in
circostanze un po’ diverse e riferendosi ad altro.
Per un
secondo si allarmò e temette che lei si stesse
riferendo esattamente a quello, poi
realizzò che non poteva essere possibile. Era abbastanza sicuro di non esserlo –
non ancora – e, in ogni caso, lei non avrebbe potuto appurarlo personalmente visto che era stato attento a toccarla il meno possibile. Ma allora di che stava parlando?
Cercò di
calmare i battiti e di regolarizzare il respiro,
specie perché sentire le labbra della ragazza muoversi contro il suo petto per
dirgli una frase del genere, con voce roca per giunta, stava avendo effetto
proprio su quella parte. Rabbrividì e si diede mentalmente dell’idiota; doveva
riprendersi, si rifiutava categoricamente di farsi venire un’erezione con la
principessina nel letto. Era forse impazzita più del solito? Che cosa avrebbe
dovuto essere quello, un complimento? Una constatazione? Decise saggiamente di
non replicare.
La sentì
mugolare ed accoccolarsi meglio contro di lui, le
gambe – velate solo da un paio di collant – finirono con l’intrecciarsi alle
sue e i capelli iniziarono a solleticargli il collo. Di male
in peggio. Non era stata un’idea così geniale quella di sdraiarsi con
lei, in effetti.
Tentò di
allontanarsi e di guadagnare spazio vitale, ma era vicino al bordo e ad un
passo dal rotolare giù. Non sarebbe stata una cattiva idea cadere.
Gli stavano
passando troppe idee e pensieri strani in testa – come quello insensato di
allungare un braccio per stringerla a sé ed essere più comodo, bloccato prima
che potesse farlo davvero –, doveva alzarsi di lì il
prima possibile. Avrebbe aspettato che si fosse addormentata, poi, in un modo o
nell’altro, si sarebbe liberato di quella morsa assassina.
“Domani mi
ucciderai” Disse a mezza voce, per cercare di distrarsi e di sdrammatizzare la
situazione. Una situazione decisamente imbarazzante ed
inaspettata.
Jude
sorrise, sebbene lui non potesse vederla. “Forse” Mormorò piano. Fece una
pausa, un silenzio spezzato solo dai loro respiri. “Adesso però mi piace”.
*Note dell’autrice*
Tengo molto a questo capitolo e sono
un po’ nervosa al pensiero di pubblicarlo, spero vi sia piaciuto…
Avevo in mente la scena finale da
secoli e non vedevo l’ora di scriverla, sebbene non sia uscita proprio come
volevo. Ho un debole per le scene di questo genere, se avete letto “Tra l’odio
e l’amore c’è la distanza di un bacio” lo sapete già :P
Ma Jude e Alice sono diverse, chiedono al
ragazzo della situazione di restare per due motivi molto differenti.
Imparerete a conoscere meglio Jude nei prossimi capitoli,
ma già suo padre ha accennato qualcosa in questo a Daniel. Lei si mostra sempre
caratterialmente forte con tutti, lo è sempre stata e lo è tuttora, solo che ha
anche lei dei momenti di “debolezza” come tutti e questo è stato uno di quelli.
Daniel era lì in quel momento e lei si è “aggrappata”
a lui.
Non so se avete capito chi si sposa, nel caso non fosse chiaro vi ricordo che Jude è
sempre stata infatuata del fratello maggiore di Meg. In ogni caso nel prossimo
capitolo verrà spiegato bene cos’è successo alla festa
e perché Jude si è ubriacata.
Spero che questo capitolo vi sia
piaciuto e vi anticipo che nel prossimo i due si risveglieranno nello stesso
letto ;) Come la prenderà
Mi scuso per l’attesa, so che in
molte si sono lamentate per i tempi d’attesa e perché risulta
difficile seguire e ricordarsi la storia dopo tutto questo tempo, ma non è
semplice per me conciliare la vita vera con le tre (quattro se si considera il pov Lore) storie che ho in corso. Mi dispiace davvero, più
di questo non posso dire o fare :( Posso solo garantire, come sempre, che ogni
storia in corso verrà conclusa e nessuna abbandonata.
Vi ringrazio se, nonostante tutto,
siete ancora qui a leggere.
Un bacione grande!
Bec
PS: ho pubblicato l’inizio del
prossimo capitolo nel mio gruppo spoiler su
facebook, nel caso in cui vogliate leggerlo :)