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Autore: ChrisRobin    06/10/2014    4 recensioni
Nell'estate del 97 ci inventammo una storiella per spaventare le ragazze.
Ma le storielle sono cose stupide.
Allora mi sono permesso di scrivere questa cosa qua.
E' come sarebbe andata la storiella se fosse stata cosa mia.
Se vorrete leggerla, vi posso promettere mistero, angoscia, problemi adolescenziali, forse del sesso e un romanticismo d'altri tempi.
Genere: Malinconico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MOSTRO


Ricordo quell’estate, dovevano essere sette anni fa, durante la quale circolava una strana leggenda, inquietante ed affascinante al tempo stesso; sembrava che nel nostro piccolo paesino fosse venuto a vivere un Mostro.

Non un assassino o un maniaco sessuale, intendiamoci, ma semplicemente un uomo talmente brutto da essere inguardabile; inizialmente era solo una voce, una cosa di cui parlare per spaventare le ragazze e magari per fare colpo. Poi, quando iniziarono a parlarne anche gli adulti, nessuno di noi di terza media aveva più dubbi sul fatto che fosse tutto vero.

Per quanto mi riguarda... beh, all’epoca la mia fervida immaginazione più che dai mostri era presa da conturbanti fantasie proibite riguardo le mie compagne di classe, fantasie inconfessabili e tuttora inconfessate.

La storia del Mostro non mi riguardò fino a che Elisabetta, la ragazza di cui ero innamorato (meglio, una delle tante ragazze di cui ero innamorato) non mi avvicinò all’uscita della scuola, per parlarmi a tu per tu.

Non ho una gran memoria, ma ricordo ancora quel momento come se lo avessi vissuto pochi giorni fa: a quell’epoca non ero particolarmente in gamba con le femmine, eufemismo per dire che ero un vero imbranato. I miei compagni già narravano delle loro entusiasmanti avventure, dei loro viaggi dentro le mutandine delle studentesse delle superiori, o addirittura in quelle delle madri altrui; e io ero abbastanza ingenuo da crederci davvero e da sentirmi uno sfigato.

Elisabetta mi si avvicinò tormentandosi nervosamente le mani e pensai che non l’avevo mai vista così bella come in quel momento, con i suoi capelli neri e la carnagione scura che risaltavano contro il cielo rosso del tramonto; nessuno di noi lo diceva apertamente, ma sono convinto che sotto sotto tutti quanti la trovassimo bellissima... solo che quando sei in terza media, non puoi permetterti di fare apprezzamenti alla ragazza più intelligente della classe, quella senza un filo di tette né la fama di una che la da. E' una secchiona, e non si fanno apprezzamenti alle secchione.

«Ciao, Betty» la salutai. Sicuramente sorridevo come uno scemo; la cosa mi farebbe ridere, se non fosse che da allora non sono affatto cambiato!

«Si, ciao. Posso chiederti un favore?» mi disse lei, in tono contrariato; se lei non era una ragazza particolarmente popolare tra noi maschi, io ero letteralmente lo zimbello delle femmine. Doveva essere proprio disperata per doversi rivolgere proprio a me per un favore, ma io ero talmente cotto che anziché godermi quella piccola rivincita nel vederla costretta ad una simile umiliazione, mi sentii scioccamente in colpa.

«Ma certo, se posso molto volentieri!»

«E' per mia madre. E' una donna molto apprensiva e non vuole che faccia la strada di casa da sola dopo il tramonto. Sai, lei crede a quella storia

Il periodo era fine aprile, le giornate si stavano allungando ma la nostra professoressa di lettere era un'insegnante piuttosto severa e in vista degli esami aveva preteso ed ottenuto che una volta a settimana si tenessero delle lezioni pomeridiane di quattro ore, dalle due fino alle sei di sera, quando il sole cominciava a tramontare.

La professoressa era una donna piuttosto intellettuale, non il tipo da credere alle sciocche credenze provincialotte su mostri e stronzate simili.

Ma Elisabetta abitava a un chilometro di distanza dalla scuola, e proprio a metà strada sorgeva il grigio e cadente condominio in cui abitava il famigerato Mostro; non esistevano strade alternative, bisognava passarci per forza davanti. E da un po' di tempo, nessuno più si azzardava a passare a piedi sotto quel palazzo dopo una certa ora, nemmeno quelli che a parole dicevano di non credere alla leggenda del Mostro.

«Tua madre crede al Mostro?» chiesi, perplesso.

Lei fece una risatina sarcastica: «Si. Che stupidaggine, no?»

Io alzai le spalle: «Non lo so. Tu ci credi?»

«Certo che no!» rispose lei con il suo tono categorico, quasi scandalizzato, che la faceva sembrare così matura, così donna. Era quello che mi aveva fatto innamorare di lei. «E' mia madre, te l'ho detto. Se mi vedesse rientrare da sola mi farebbe una testa così. Vuole che mi accompagni un ragazzo.»

Quindi era proprio questo che voleva chiedermi. Accompagnarla a casa. Il sogno romantico di ogni ragazzo delle medie innamorato.

«Davvero vuoi che ti accompagni io?»

«Ehi, se non vuoi farlo posso chiedere a qualcun altro»

Mi guardai intorno. Il resto della classe si era già avviato oltre il cancello, in gruppetti di tre o quattro, in direzione del tutto opposta a quella dove abitava Elisabetta; i più fortunati avevano i genitori ad aspettarli con l'auto.

Se non l'avessi accompagnata io, non l'avrebbe fatto nessun altro, e lei doveva saperlo bene.

«Beh, ti accompagnerei anche, ma io abito nell'altra direzione, e i miei genitori lavorano fino a tardi e non possono venire a prendermi in macchina.»

Rimase a guardarmi con la bocca socchiusa e gli occhi sbarrati; Betty non sapeva cosa dire e io meno ancora. Sentivo qualcosa come mille voci nella testa dirmi che ero un coglione e un idiota, che non avrei mai più avuto un'occasione simile, che se l'avessi accompagnata forse lei mi avrebbe chiesto di fermarmi per cena. Ma tra quelle mille voci ce n'erano anche alcune che mi dicevano di lasciarla lì e andarmene, che se l'avessi ridotta alla disperazione mi avrebbe chiesto di fermarmi non solo per la cena, ma anche per dormire insieme.

Ma prima che potessi scegliere a quali di quelle voci dare retta, lei afferrò le mie mani tra le sue guardandomi con un'espressione da gattina abbandonata.

«Per favore» disse, e dal suo tono supplicante iniziai a dubitare seriamente che fosse sua madre quella che aveva paura della leggenda del Mostro.

«Ok» balbettai. Mi sentivo le guance avvampare e un sorriso imbecille stampato in faccia, ma fu un momento di felicità immensa, che non scemò nemmeno quando lei, un secondo dopo, mi mollò le mani.

«Grazie! Ti ringrazio sul serio.» disse lei sollevata.

Varcammo il cancello della scuola e ci incamminammo insieme lungo la strada che portava verso casa sua.

Avevamo fatto solo tre passi e già potevamo vedere stagliarsi contro il cielo in tramonto l'inquietante palazzo dove si diceva vivesse il Mostro.




Speranze ed illusioni. Avevo sperato veramente che in quei dieci minuti scarsi che avremmo passato insieme, tra noi sarebbe potuto nascere qualcosa. Una semplice amicizia, o anche solo scalfire quel senso di indifferenza mista a disgusto che Betty, come tutte le altre ragazze della classe, provavano per me.

Non nascondo che mi ero persino illuso che sarebbe successo qualcosa di più, che lei mi avrebbe preso nuovamente per mano, che mi avrebbe appoggiato la testa sulla spalla o che avrebbe tentato di baciarmi.

Speranze ed illusioni si spezzarono dopo neanche un minuto, quando una voce dietro di noi ci chiamò.

Meglio, chiamò Elisabetta.

Ci voltammo all'unisono e vedemmo Carolina correre verso di noi, con il fiatone e lo sguardo preoccupato.

Carolina era una delle tante di cui ero stato innamorato; la mia innamorata numero uno di tre mesi prima, se non ricordo male. Era una ragazza alta, più di me che pure non ero poi così basso, magra, con dei bei capelli biondi e un viso con un nonsoché di adulto.

Lei ed Elisabetta erano migliori amiche da una vita; io per lei ero un semplice sfigato, e non perdeva occasione per dirmelo in faccia.

Ma in quel momento, non sembrava fosse lì per insultarmi.

Elisabetta non la salutò e nemmeno la guardò; come tutte le migliori amiche tredicenni, stavano passando quella fase del rapporto in cui non ci si parla e non ci si guarda.

«Che vuoi?» le chiesi, bruscamente.

«Credo che mia madre si sia di nuovo dimenticata di venirmi a prendere. Faccio la strada con voi.»

«Davvero?» chiesi, poi mi rivolsi ad Elisabetta: «Allora non c'è più bisogno che ti accompagni io, se torni a casa con Carolina tua madre non avrà nulla da ridire.»

«No!» dissero loro all'unisono, afferrandomi una per un braccio e una per l'altro; poi si guardarono in cagnesco e mollarono la presa all'istante, ma era stato un momento grandioso. In un istante ero passato dall'essere il ragazzino sfigato e insignificante il cui massimo effetto sulle ragazze era quello di provocare risatine, ad una sorta di cavaliere senza paura incaricato di proteggere le due belle fanciulle dal terribile Mostro di via XXIV Maggio.

«Mia madre ha detto che deve accompagnarmi un ragazzo» disse nuovamente Elisabetta, poco convinta, e Carolina annuì energicamente.

«Giusto, che razza di uomo lascerebbe da sole due ragazze della nostra età a quest'ora di sera, senza nessuno in circolazione? Non lo sai che la maggior parte dei rapimenti avviene a quest'ora della sera? Non di notte col buio, ma al tramonto, e proprio nelle vie più..»

«Ok, ok. D'accordo, vi accompagno.»

«Grazie» disse Carolina sorridendo, e fece quello che mi ero aspettato avrebbe fatto Elisabetta: mi prese a braccetto e mi stampò un bacio sulla guancia.

Ne rimasi elettrizzato.

Elisabetta le lanciò un'occhiata che non seppi decifrare. Speravo fosse gelosia, probabilmente era qualcosa che solo una donna poteva capire.

«Andiamo ragazze» dissi, incamminandomi. «Se non ci sbrighiamo, io la strada per il ritorno dovrò farmela col buio.»


Via XXIV Maggio si estendeva per quasi due chilometri; su un lato le case popolari, i condomini, le grigie botteghe con le saracinesche perennemente abbassate e le insegne che cadevano a pezzi; sull'altro, una distesa sconfinata di campi di granoturco, in mezzo a cui di tanto in tanto si vedeva spuntare un fantoccio a mo' di spaventapasseri.

In quel momento, mentre camminavo con la mia peggior nemica a braccetto da una parte e la mia innamorata dall'altra, non ci feci molto caso, ma una volta che avessi dovuto ritornare indietro da solo, col sole ormai completamente scomparso dietro le montagne, quello scenario sarebbe stato veramente angosciante, Mostro o non Mostro.

Che poi, io al Mostro non avevo ancora deciso se crederci o meno.

Man mano che ci avvicinavamo al condominio che ospitava il famigerato Mostro, le ragazze mi si facevano più vicine; giunti esattamente di fronte al sentiero che portava all'interno del palazzo che era la sua tana, Carolina mi si appiccicò letteralmente addosso ed Elisabetta mi strinse la mano.

Fossi stato un pelino più scaltro, ne avrei approfittato per allungare le mani; dubito avrebbero avuto da ridire, e forse nemmeno se ne sarebbero accorte.

Gettai anch'io un'occhiata all'appartamento: in effetti, c'era qualcosa che metteva i brividi in quel posto... si aveva quasi la sensazione che le finestre fossero in realtà occhi fissi su di te, e soprattutto sulle ragazze che ti portavi appresso. E la porta sembrava una bocca famelica, desiderosa di fagocitare le bellezze locali, meglio ancora se giovani adolescenti nel fiore degli anni. La carne fresca è più buona, e la paura la rende più tenera.

Pensandoci in quel momento, nessuno aveva mai saputo dare una descrizione del Mostro: un gigante tutto muscoli? Un nanetto deforme? Una creatura androgina o un qualche scherzo della natura travestito da clown?

Chissà.

Di lui si sapeva solo che era brutto, bruttissimo. Capirai, gran bella descrizione.

Forse ognuno lo vedeva in modo diverso, una creatura in grado di prendere le sembianze di ciò che più terrorizzava chi gli stava di fronte.

O forse era davvero solo una presa in giro.

Impossibile, ci credevano anche gli adulti.

Quando ci fummo lasciati alle spalle quell'inquietante palazzo, iniziò un procedimento inverso a quello di poco prima: Elisabetta mi lasciò andare la mano e Carolina si distaccò poco a poco, fino a mollare del tutto la presa sul mio braccio.

Quindi era già tutto finito?

Dopo un paio di minuti, Elisabetta si lasciò sfuggire una risatina nervosa, quasi di sfogo per il passato pericolo, che però mi fece sobbalzare.

«Ehi, ma l'avete vista oggi la professoressa di inglese? Che razza di vestito...» disse, ma troncò la frase con uno strillo acuto di terrore, quando sentì le urla gutturali dietro di noi, a non troppa distanza; Carolina non strillò nemmeno, scoppiò direttamente a piangere e mi si gettò addosso a peso morto, avvinghiandosi, quasi si stesse arrampicando su un albero. In un'altra occasione avrei trovato gradevole quel contatto, ma Carol mi impediva di vedere cosa fossero quelle urla e in quel momento la mia priorità era solo quella.

Non poteva essere il Mostro, perché il Mostro non esisteva, gli adulti si sbagliavano, dovevo solo scrollarmi Carolina di dosso e avrei visto da me che si trattava di uno scherzo idiota di qualche compagno di classe.

Elisabetta era in ginocchio, con gli occhi colmi di panico e il respiro ansimante, da attacco d'asma, e quando riuscii a togliermi di dosso Carolina capii il perché fosse ridotta a quello stato.

Dietro di noi, il Mostro aveva appena percorso il vialetto del suo palazzo e ci veniva incontro zoppicando, completamente nudo, brandendo un manico di scopa che nella sua grossa mano sembrava un semplice stuzzicadenti.

Gridai anche io, e pazienza se le ragazze avrebbero pensato che fossi una femminuccia.

Lo chiamavano Mostro non perché fosse semplicemente brutto. Era terrificante, da non dormirci la notte.

La testa aveva una forma cilindrica, probabile risultato di qualche bizzarro incidente di lavoro o forse a causa di una malformazione, e non potevi fare a meno di domandartelo; la pelle era spessa, aveva il colore del cuoio e sembrava effettivamente cuoio, con grosse pieghe in cui ci si poteva infilare l'intero dito e vederlo scomparire; i capelli non erano capelli, ma una grigia moquette ricettacolo di sporcizia e insetti di ogni tipo. La struttura fisica era imponente, superava i due metri e aveva dei muscoli grossi e sformati, e sicuramente l'andatura zoppicante era dovuto al fatto che le braccia erano molto più grosse delle gambe.

Urlò di nuovo come un selvaggio.

«Fai qualcosa, ti prego fai qualcosa!» mi strillò nell'orecchio Carolina, sull'orlo della pazzia; Elisabetta sembrava in stato catatonico. Non sbatteva più le palpebre.

La afferrai sotto le ascelle e la costrinsi ad alzarsi in piedi, ma sembrava di sollevare un carico di massi anziché una ragazzina tutta pelle e ossa, non so se per via del peso morto o per il fatto che mi sentivo tutti i muscoli del corpo completamente molli.

Quando iniziai a pensare che non saremmo mai riusciti a metterci in salvo tutti e tre (ma io e Carolina si, e magari sull'onda di quella brutta esperienza tra noi sarebbe potuto succedere qualcosa), il Mostro si fermò ed emise una risata sguaiata, puntando il manico di scopa contro di noi come una sorta di bacchetta magica.

«Conosco i vostri nomi. So dove abitate. Dovete ripagarmi i vetri, bastardi!»

«I... i vetri?» disse Carolina.

«Glieli pagheremo. Ci lasci andare a casa, per favore.»

L'uomo, il Mostro o qualsiasi altra cosa fosse, per un istante parve ragionare; perlomeno, parlava la nostra lingua e sembrava capire quello che gli avevo detto, e fui sicuro che ci avrebbe lasciato andare. Ma poi il suo sguardo cadde su Elisabetta e si fece cattivo. Riprese ad avanzare verso di noi, brandendo il manico di scopa con fare minaccioso.

«Sei tu che mi lanci i sassi di notte. Ti ho vista! Adesso vedrai cosa ti faccio!»

Carolina fece un verso di paura indescrivibile; il lato davanti dei suoi pantaloncini si macchiò di scuro e la pipì le colò lungo le gambe. Elisabetta, lei ormai si era rifugiata con la mente in un mondo tutto suo.

Trovai le forze per tirarla su con uno strattone e me la caricai in braccio, poi iniziai a correre; potevo solo sperare che un tizio così grande e grosso, e così svitato, non avesse le capacità atletiche per corrermi dietro.

Vidi il manico di scopa rotearmi a qualche centimetro dall'orecchio; buon segno, se l'aveva lanciato, significava che non aveva alcuna intenzione di seguirci.

«Cosa... cosa succede?» mormorò Elisabetta. Aveva la voce di chi si risveglia all'improvviso da un sogno piuttosto movimentato.

«E' tutto a posto» le dissi io col fiatone, senza rallentare. «Carolina, ci sei?»

Nessuna risposta da Carolina.

Mi voltai con la testa, ma non smisi di correre.

Il condominio del Mostro era a più di un centinaio di metri di distanza ormai.

Di lui non c'era più traccia.

Di Carolina nemmeno.

Mi fermai.

«Credi di riuscire a reggerti da sola?» chiesi ad Elisabetta.

«Io... si, penso di si. Cosa è successo? Dov'è Carolina?»

La lasciai andare e nonostante la gambe traballanti riuscì a stare in piedi senza troppi problemi.

«Io non lo so. L'ho lasciata andare quando ho raccolto te. Ho paura che l'abbia presa.»

«Il Mostro?»

«Devo tornare indietro. Non posso lasciarla.»

Lei mi fermò prima che potessi fare un passo, mi strinse le mani attorno alla vita e mi si gettò addosso.

«No! Sta scendendo il buio. Ti prego, portami a casa. Puoi telefonare ai tuoi genitori e chiedere se passano a prenderti. Oppure puoi fermarti a dormire da me. Che ne dici, ti va?»

Tachicardia. Non puoi sentirti chiedere una cosa del genere dopo che hai appena corso i cento metri inseguito dal diavolo.

«Dai, andiamo. Prima che torni!»



La madre di Elisabetta era una donna molto grossa e molto anziana, con una mentalità antica; si dimostrò fin da subito molto cordiale e gentile, forse anche troppo, tanto da sembrare sospetta. Forse pensava che io fossi il fidanzato di Betty, e la cosa mi faceva piacere.

Fu lei stessa a telefonare ai miei genitori, non chiedendogli, ma dicendogli che mi sarei fermato per cena e anche per la notte e che si, potevano stare tranquilli, non avrebbe permesso a me e ad Elisabetta di dormire nella stessa stanza.

Riattaccò senza neanche farmi parlare con loro.

Dopo cena, la donna andò subito filata a letto, e io ed Elisabetta restammo in salotto, seduti su due divani diversi, a guardare la tv in silenzio.

«Che ne dici se guardassimo un film horror?» le chiesi, con tono scherzoso. La sua faccia inespressiva diceva più di mille insulti.

«Scusa, era una battuta cretina.»

«No, scegli tu cosa guardare.»

Scorsi un po' di canali a caso fino a trovare un varietà di quelli che andavano di moda in quegli anni, una schifezza con barzellette senza allusioni sessuali e stacchetti musicali con ballerine in corpetto e giarrettiera.

Lo guardammo senza seguirlo veramente.

Lei a un certo punto si alzò, andò al telefono, sollevò il ricevitore e poi tornò a sedersi nell'identica posizione di prima.

Io la guardai perplesso e lei mi spiegò: «I genitori di Carolina chiameranno sicuramente, non vedendola tornare.»

Rimasi in silenzio, non sapendo cosa dire.

«Cosa credi che le succederà?» mi chiese.

«Forse è riuscita a scappare» azzardai. «Anzi, sai che ti dico? Sono quasi sicuro che lei sia corsa nella direzione opposta alla nostra. E poi al Mostro non interessava Carol, lui sembrava essersi fissato su di te.»

Elisabetta sgranò gli occhi, e io capii di aver fatto un'immensa cazzata.

«Su di me? E perché?» mi chiese, terrorizzata.

«Beh, parlava di cose assurde, sembrava convinto che tu fossi andata a lanciare sassi contro le sue finestre. Ma non è che lui voglia te, probabilmente se dovesse rivederti nemmeno ti riconoscerebbe!»

Voltò di scatto la testa verso la finestra.

«Ho sentito un rumore in giardino!»

«Aspetta, controllo io. Vedrai che non è niente.»

Mi affacciai alla finestra e guardai in direzione del piccolo angolo di giardino; un gatto stava camminando tra i cespugli, in cerca probabilmente di una preda con cui divertirsi un po'.

«Hai un gatto?»

«E' quello dei vicini» disse lei, sollevata. «Viene sempre a rompere da noi. Scusami, ma ho i nervi a fior di pelle.»

«Dovresti dormirci sopra. Vedrai che domani andrà meglio.»

«E' una buona idea. Ehi, tu non vorrai veramente dormire sul divano, vero?»

«Beh...» mormorai. Avevo un'idea migliore, ma mi vergognavo a dirla a me stesso, figurarsi a lei.

«Puoi stare in camera mia. Mia madre non si alza mai prima delle sette e mezza, basterà puntare la sveglia un po' prima così non si accorgerà di niente.»

«Accorgersi di cosa?»

«Del fatto che abbiamo dormito insieme, scemo!» disse lei, arrossendo.

Rimasi un attimo inebetito, ma lei mi prese per mano e sorridendo mi trascinò di peso fino in camera sua, e poi chiuse la porta a chiave.

«C'è un solo letto.» le feci notare.

«Ma io ti faccio così schifo?» mi chiese.

«Non capisco» balbettai. Mi sentivo così in imbarazzo che mi sembrava di sudare.

«Possiamo dormire nello stesso letto. Se ti va, dico.»

«Certo che mi va!» dissi. Probabilmente lo urlai.

Lei ridacchiò. «Adesso però girati, devo mettermi il pigiama. Promettimi che non guarderai.»

«Si, lo prometto»

«Giuralo!»

«Lo giuro»

Non guardai, ma cosa cazzo stava succedendo? Ragazze che mi si avvinghiavano addosso, mostri, rapimenti, e la mia innamorata che si spogliava in mia presenza chiedendomi di dormire con lei. Che fosse una candid camera?

«Io non ce l'ho il pigiama» dissi.

«Mi sa che dovrai dormire vestito, a meno che tu voglia mettere uno dei miei»

Si mise a ridere e anch'io ridacchiai. Lei si infilò sotto le coperte, e io mi misi seduto ai piedi del letto.

«Che fai, non vieni?»

«Rimango a fare la guardia»

Lei sorrise e si allungò a baciarmi la fronte.

Sogno romantico, solo un coglione sfrutterebbe questo momento per farsi una scopata.

Solo una testa di cazzo non lo farebbe.

Restammo in silenzio per qualche minuto, io assorto nei miei pensieri e lei, presumo, nei suoi. Chissà se erano gli stessi pensieri? Forse si era solo addormentata.

Invece no, perché d'un tratto parlò.

«Cosa racconteremo domani? Riguardo Carolina, intendo. Dovremmo dire la verità? O fare finta di niente? Se parlassimo, quel Mostro potrebbe venire a cercarci.»

«Non pensiamoci adesso, d'accordo? Domani decideremo con calma, insieme. Adesso però dormi.»

«Vieni anche tu. Non stare lì tutta la notte a fare la guardia, ok?»

Io annuii. Due minuti dopo stava già dormendo, e io, da vero gentleman, andai a dormire sul divano in salotto, non prima di averle dato il bacio della buonanotte.








Forse era l'effetto della dormita o forse il fatto che la luce del giorno faceva vedere le cose sotto un diverso punto di vista, ma la mattina seguente Elisabetta sembrava essere tornata la ragazza fredda e distaccata di sempre.

«Alla fine hai dormito sul divano. Bravo, meglio così. Se mia madre si fosse accorta di qualcosa avrebbe fatto scoppiare un casino che non ti dico.»

Facemmo la strada per scuola insieme, senza scambiare una parola, e passammo anche davanti alla casa del Mostro; a quell'ora, con il via vai di macchine e pedoni, non sembrava poi così minacciosa.

Ma quando ci fummo davanti, Elisabetta mi prese la mano e non la lasciò più fino a quando non varcammo il cancello della scuola, attirando le occhiate curiose e divertite di una decina di nostri compagni di classe. Elisabetta arrossì e mollò immediatamente la presa, avviandosi di gran carriera verso la nostra classe e lasciandomi solo, mentre i miei compagni venivano a darmi pacche sulle spalle e a chiedermi se me la fossi scopata.

Io minimizzai, dissi che non era successo niente, che mi ero fermato da lei per una ricerca e siccome si era fatto tardi avevo finito col dormire a casa sua, eccetera eccetera, e mentre raccontavo tutte queste balle a questi ragazzi che improvvisamente mi parlavano come fossero stati i miei migliori amici, vidi Carolina da sola in un angolo, che mi osservava con un'espressione severa e colma di risentimento.

Ignorai i ragazzi e andai da lei.

«Carolina! Allora stai bene!»

«Io sto benone. E la tua fidanzata, come sta?» mi chiese, con sarcasmo.

Non mi piaceva il modo con cui mi stava guardando né il tono della sua voce, e men che meno poteva piacermi quella mancanza di rispetto verso Elisabetta (insinuare che fosse la mia fidanzata, quale offesa!); ciò nondimeno, non riuscivo a non sentirmi in colpa per quello che avevo fatto il giorno prima. L'avevo abbandonata. Lei aveva messo la sua vita nelle mie mani, e io non avevo saputo proteggerla.

«Come hai fatto a scappare al Mostro?»

«Sono fuggita attraverso i campi. Lui non mi ha seguita, forse per paura di tagliarsi, visto che era nudo.» Si chinò ad arrotolarsi la gamba dei jeans, mettendo in mostra un taglio notevole sullo stinco. «Ecco, questo me lo sono fatto scappando!»

«Comunque sei riuscita a scappare. Io ed Elisabetta eravamo preoccupati per te. Soprattutto Elisabetta, io me lo sentivo che eri riuscita a scappare.»

«Non certo grazie a te.»

«Insomma, l'hai visto anche tu. Elisabetta non era in grado di scappare da sola, e io non potevo prendere in braccio sia te che lei. L'importante è che non sia successo niente di male a nessuno, no?»

«Ma vaffanculo! Hai preferito aiutare lei che me, ma pensi che lei te ne sarà grata, povero scemo?»

Ripensai alla sera precedente, alla voce languida di Elisabetta che mi chiedeva di raggiungerla sotto le lenzuola. Carolina non sapeva un cazzo di niente, ed era una sensazione estasiante.

«Chi lo sa? Se avessi preso te, ora Elisabetta sarebbe morta e tu saresti qui a darmi la colpa. Perciò ho preso la decisione giusta.»

«Abbiamo solo voluto sfruttarti. Lo sapevamo che bastava farti gli occhi dolci e tenerti un po' per mano per farti fare tutto quello che volevamo. Sei così stupido che mi fai quasi pena.»

Io feci un gran sorriso e la guardai dritto negli occhi, fino a costringerla ad abbassare lo sguardo: «La sai una cosa, Carolina? Quasi mi dispiace che il Mostro non ti abbia presa. Anzi, se dovessimo incontrarlo di nuovo, gli darò il tuo nome e il tuo indirizzo di casa. Gli dirò che sei tu quella che gli rompe i vetri delle finestre a sassate. Così verrà a prenderti a casa e ti farà sparire una volta per tutte.»

Mentre parlavo, i suoi occhi si riempirono lentamente di lacrime; alla fine aveva il mento tremante e trovò solo la forza di mostrarmi il dito medio, prima di voltarsi e andarsene.





Finite le lezioni, uscii dalla classe a piccoli passi, guardandomi attorno con nonchalance. Era Betty che cercavo, per tutta la mattina l'avevo guardata, sperando che anche lei guardasse me, o che i nostri sguardi si incrociassero anche solo per caso. Invece niente. Del resto lei era una ragazza che prestava attenzione a tutte le lezioni, persino a quelle tenute dai supplenti, e la sua testa era sempre immersa nei libri. Però non era venuta a cercarmi nemmeno durante l'intervallo e pure ora non si vedeva.

Ci eravamo tenuti per mano. Mi aveva dato un bacio, sia pure sulla fronte. Mi aveva chiesto di dormire insieme a lei. Era già tutto finito?

Se l'avessi immaginato, sarei stato più gentile con Carolina.

Invece Betty era sulla soglia del cancello, e mi stava aspettando con un sorriso divertito.

«Eccoti, dov'eri finito?»

«Io... ti stavo cercando.»

«Davvero? E perché?»

Alzai le spalle. «E tu perché mi stavi aspettando.»

Si guardò intorno. Un fiume di studenti stava uscendo dalla scuola spargendosi in mille direzioni; molti si avviavano lungo via XXIV Maggio, certi che la luce li avrebbe difesi da ogni pericolo. Quando fummo rimasti solo io e lei, finalmente, mi parlò.

«Che ne dici di accompagnarmi di nuovo a casa?»

«Non è ancora il tramonto»

«Lo so, ma... ieri è stato emozionante, non trovi?»

«A me è sembrato un sogno.»

«Lo stesso per me. Mi sembra impossibile che sia successo veramente.»

«Non dirlo a Carolina.»

«Era molto arrabbiata?»

Annuii, indeciso se raccontarle della nostra piccola discussione di qualche ora prima; alla fine optai per tenermela per me, almeno per il momento. Il fatto che Carolina fosse una serpe profittatrice non significava che lo fosse anche Betty.

«Beh, sai che ti dico? Chi se ne frega! Andiamo, dai!» disse lei raggiante, dandomi la mano. Io la presi, e stavolta facemmo tutto il tragitto mano nella mano, e lei non smise un secondo di parlare, e io non capii una sola parola di ciò che stava dicendo.



L'orologio sulla parete di camera sua segna le otto e mezza. Sono sette anni che segna le otto e mezza. Non è un problema di batteria, è il meccanismo che è andato a puttane, ma Betty è affezionata a quell'orologio, è un regalo che sua nonna le fece quando compì dieci anni e non vuole staccarlo dalla parete.

Nell'altra stanza il cadavere di sua madre sta marcendo lentamente e inesorabilmente, ma noi abbiamo scopato e io sarei pronto a rifarlo anche subito.

Betty piange. Odiava quella donna almeno quanto la odiavo io, ma in casi come questi l'odio non serve ad addolcire le cose; aumenta solo i rimpianti.

«Non devi venire al funerale se non vuoi.»

Io la bacio sulla fronte, come lei aveva baciato me sette anni prima, la sera che insieme eravamo sfuggiti al diavolo. La sera che l'avevo salvata dal Mostro. La sera che la nostra storia era iniziata.

Chissà se anche lei è grata al Mostro come lo sono io.

«Non voglio abbandonarti un secondo. Ti sarò vicino.» le dico.


Come promesso, non la abbandonai un secondo. Lei uscì dalla chiesa a metà della cerimonia, e io le restai vicino. Camminammo mano nella mano senza una meta in particolare, mi lasciai guidare da lei e lei mi portò per le viette seminascoste che ai tempi delle medie percorrevamo per andare a fumare o a limonare di nascosto.

Lì è dove ci baciammo la prima volta.

Là è dove lei diede a Carolina lo schiaffo che troncò definitivamente la loro amicizia.

Più in fondo è dove scrissi con una bomboletta spray le nostre iniziali in un cuore rosso.

E qui, è dove mi dice che aspetta un bambino.

Un bell'epilogo per una storia dell'orrore.





  
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