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Autore: JonS    09/10/2014    1 recensioni
Pensai a come dovessero sentirsi i fantasmi che vagano sulla terra, a quanto fossero tristi, o almeno a come deve essere drammatica la situazione di una creatura che è fatta della stessa sostanza che non può assimilare.
Genere: Drammatico, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Non importa quante volte 
Mi hai detto che volevi andar via 
Non importa quanti respiri 
Prendessi, non riuscivi ancora a respirare 
Non importa quante notti 
Sei rimasta sveglia 
Al suono della pioggia velenosa 
Dove sei andata?  

*  

Era un mattino di ottobre quando uscì per pagare le bollette chiusa in quel cappotto rosso di Lu-jo, facevo la stessa strada di sempre, quella che mi portava da casa all'ufficio postale distante solo pochi minuti, percorrevo quella strada con i tacchi alti che tamburellavano sull'asfalto, i miei capelli castani raccolti in uno chignon e il passo deciso dei miei trent'anni.  

Ogni Mercoledì del mese, lo stesso giro, attraversavo Towers Bridge fino alla traversa con Annesburgh Drive, dove giravo l'angolo e mi trovavo al Post Office. 

Quella mattina, una tra le più fredde dell'ultimo mese, annaspavo nella mia sciarpa per cercare, con il solo potere del fiato, di scaldare le mie labbra già violacee per il freddo; non sopportavo il vento e quel giorno, per mia sfortuna, ne tirava molto. 

Lungo la via mi trovavo spesso ad osservare gente che, noncurante, mi superava senza mai guardarmi in volto; era una sensazione piacevole, mi permetteva di guardare tutti, di studiarli quasi, il che rendeva quei minuti di camminata molto più brevi di quel che già erano. 
 

 * 


Ora sono passati i mesi e tutto sembra un andirivieni familiare, ogni giorno che vivo è un giorno in cui fa freddo, ogni mattina è Mercoledì, in questa mia speciale parte di mondo. 

In uno di quelle mattine mi ero trovata ad ascoltare il tranquillo saluto del signor Allaway. Io e lui ci ritrovavamo sempre a percorrere Towers Bridge nello stesso momento e capitava che ci scambiassimo un saluto e un cenno del capo. Allaway doveva essere come me, bloccato in quel mondo dal tempo statico, anche lui costretto a ripercorrere giorno dopo giorno la stessa strada, lo stesso ponte fino a girare per Curtis Street e sparire dal mio campo visivo. La mattina che salutai Allaway, mi fermai a pensare ai respiri che si fanno quando si è in vita, a come questi paiano irrilevanti benché ci tengano legati al mondo dei vivi; pensai anche a quando il respiro viene tolto e a come deve esser difficile scaldare le mani gelide quando non puoi farlo con il vapore del fiato. Pensai a come dovessero sentirsi i fantasmi che vagano sulla terra, a quanto fossero tristi, o almeno a come deve essere drammatica la situazione di una creatura che è fatta della stessa sostanza che non può assimilare. 
 

* 

 Fu l'attimo in cui mi resi conto che, nel puntare la mia attenzione alle mie lucubrazioni mentali, avevo del tutto perso la sensazione di dove ero. Il mondo intorno a me non si era fermato, ma al contrario, continuava a muoversi ed io stessa – essendo parte di quell'universo – mi muovevo con lui, benché non ne avessi reale coscienza.  

Ad ogni passo, i tacchi parevano affondare in quell'asfalto all'apparenza solido. Stavo forse sognando? Oppure questo mondo era l'esatta realtà, ed io ero la sua parte irreale? 

Le gambe mi sembravano fatte di vapore, affondavano nell'asfalto e scomparivano, come un immagine i cui bordi sono sfocati. Il ponte pareva allungarsi, ed ogni passo che facevo in avanti, sembrava portarmi cinque indietro. Mi guardai, tentai di riprendere fiato, ma l'aria non entrava e non usciva dalle narici, presi a tremare quando i ricordi mi travolsero, portati dal vento. Li sentì sbattere sul petto e sentì pervadere di angoscia la mia anima. 

Fu allora che cominciai a ricordare, tutto appariva pian piano più nitido, facendosi strada tra la confusione della mia testa; ricordai l'ultima notte della mia prigionia. 

Nella mia mente, l'immagine della pioggia diventò sempre più vivida, sentivo il rumore delle gocce che si infrangevano contro il vetro, potevo ricordare i miei pensieri; ricordare come fossero oscuri, pieni di angoscia per quelle lacrime del cielo, la cui fine era segnata. Non ero forse io stessa una di quelle gocce?  

 ** 

 Battito di cuore, un battito di cuore, 

Ho bisogno di un battito di cuore, un battito di cuore…  
 

Ancora non riuscivo a ricordare come fossi arrivata in quell'appartamento. Le pareti erano spoglie, c'erano due poltrone in un angolo, separate da un tavolino cosparso di cibo "a portar via"; nella parte opposta, un letto che mi aveva vista sua ospite per poche e violente ore di veglia. Ricordo, avevo un compito, quando mi stendevo, sulle ruvide lenzuola, dovevo coprirmi gli occhi per non vedere il mio carnefice. Di lui non sapevo molto, aveva i capelli corti, biondi -a giudicare da quelli che trovavo la mattina sul cuscino – un accento del nord- ovest, le mani ruvide e il respiro alcolico.  

Mi ebbe per un'intera settimana, contavo i giorni sull'orologio, unico oggetto di mia proprietà insieme alla croce che avevo al collo. Ogni volta che con forza entrava dentro di me, ne usciva meno tormentato dai suoi demoni, la cosa doveva dargli una sorta di piacere passeggero, probabilmente pensava a me come ad una droga. 

Ricordo che aveva orologi ovunque, ognuno aveva una precisa utilità; sapevo che il ticchettio a destra, con rispettivo suono, sanciva il momento della possessione, quello sopra il letto, avvisava dei pasti, mentre quello sopra la porta, avvisava per gli orari di lavoro. Quando quello prendeva a suonare sapevo che avrei avuto cinque ore di pace.  

Mi furono date istruzioni sul tenere la benda fintanto che fosse stato fuori per poi rimetterla quando fosse rientrato. Una sadica routine che mi faceva sperare che il mio carceriere mi avrebbe liberata, prima o poi. 

Avevo provato ad aprire la porta e le finestre, entrambe bloccate. La porta blindata, era chiusa a doppia mandata, mentre alle finestre erano fissati dei sensori: se le avessi aperte lui sarebbe stato li in dieci minuti. Il fatto che l'appartamento fosse al ventesimo piano, non aiutava le mie aspettative di fuga. 

 In uno di quei tanti giorni, mi ritrovai a bere un intera bottiglia di vino che avevo trovato su uno scaffale, avevo anche acceso una sigaretta che non avevo mai portato alla bocca. Avevo passato l'intero pomeriggio a guardare fuori dalla finestra, godendo dello spettacolo del creato, di quel sole che nel tardo pomeriggio aveva lasciato il posto alle nubi, ed infine alla pioggia. Con il calare della sera, le luci della città si accesero, mi sentì quasi riscaldata da quel calore effimero emanato dai led, mi perdevo nel guardare le piccole auto che, come insetti, correvano su e giù fino a Lower Drive. L'orologio vicino alle poltrone – un grosso esemplare dell'anteguerra- prese a suonare alle nove e venti, contai fino a dieci e la chiave venne infilata nella porta. Due giri dopo, il mio carceriere si era palesato nella stanza, stavolta non avevo intenzione di rimettere la benda, ero stanca ,affamata, sporca e non avevo intenzione di sottomettermi di nuovo. 

I gesti metodici, lo portarono a chiudere la porta e dirigersi verso le poltrone, sedersi e rimanere immobile, Mi accorsi di come l'alcol aveva aiutato la mia testa a sentirsi leggera, così libera. 

 

Dimmi, uccideresti per salvarti la vita? 
Dimmi, uccideresti per dimostrare di aver ragione?  

 

Furono cinque i minuti che passò seduto; al rintocco dell'orologio in bagno si alzò, percorse i pochi passi che lo distanziavano da me e si fermò alle mie spalle. Potevo sentire il suo alito caldo sul collo; lo sentì muovere il braccio passarmelo sulla schiena, risalendo dalle natiche fino alle scapole, fu allora che il vestito mi venne sfilato; il brivido che percorse il mio corpo fece cedere la presa che avevo avuto, fino a quel momento sul collo della bottiglia, che cadde intonsa, sulla moquette grigio topo, senza rompersi. Chiusi gli occhi, una lacrima percorse pigra la guancia, fermandosi in bilico sul mento, deglutii e trattenni il fiato quando la sua mano che mi prese il seno e strinse quanto bastva per farmi soffrire per un accenno di dolore. Con l'altra già si slacciava la cintura dei pantaloni.  

Lo sentì passare dal seno ai fianchi, dove affondò le unghie, mi graffiò e i tagli arrivarono fino all'inguine, mi toccò e non provai piacere. 

Nel cercare l'eccitazione prese a sussurrarmi qualcosa nell'orecchio, leccandolo ad ogni pausa. Fu allora che decisi di volerlo vedere, volevo capire se i suoi occhi erano come li avevo immaginati , pieni di cattiveria e dannazione. 

Mi voltai di scatto, cosa che lo lasciò sorpreso, e mi ritrovai a fissarlo in volto; quel demone dagli occhi chiari, pieni di dolore malato, pieni di una peccaminosa e bramosa angoscia sessuale. 

 

Schianto, schianto, brucia, lascia bruciare tutto 
Questo uragano ci sta rincorrendo tutti sotto terra  

  

Aveva gli occhi chiari, questo angelo scacciato dall'inferno, le labbra non erano melmose ma rispecchiano la perfezione dell'ovest.  

Abbassai il capo a cercare la bottiglia, che pocanzi era scivolata via dalle mie mani. Mi abbassai velocemente a prenderla, provando ad urlare nel rialzarmi, ma dalla mia bocca non fuoriuscì alcun suono. Velocemente la mia mano si alzò e si riabbassò quasi contemporaneamente, pensai che volevo ferirlo, fracassare il cranio di quel bastardo, vedere i suoi occhi trafitti dalle schegge di vetro sentire le sue urla e quanto dolore scaturisse dall'essere violati. La debolezza del mio corpo mi impedì di reagire con forza. La tempesta divampò dentro la mia carne, come fiamme che esplosero quando mi bloccò il braccio e la bottiglia scivolò via dalle mie mani. "Tanto finiremo tutti sottoterra, prima o poi" disse prima di spingermi contro il vetro della finestra che avevo alle mie spalle. All'inizio non sentì dolore, solo qualche fitta provocata dal colpo e mentre cadevo nel vuoto lo sentì finalmente urlare. 

 

Non importa quante volte muoio, 
Non dimenticherò mai 
Non importa quante menzogne vivo, 
Non avrò mai rimpianti 
C’è un fuoco dentro che ha iniziato una rivolta e sta per esplodere in fiamme 
Dov’è il tuo Dio? 
Dov’è il tuo Dio?  

 
 

Ogni notte, un'ennesima spinta mi fa cadere da quel terrazzo, sento il mio corpo che viene attratto dal terreno, mi chiedo se la mia croce che porto al collo mi salverà o se preferirà salvare l'anima del mio carnefice. Dimentico il mio nome, mentre l'oscurità mi avvolge.  

Ricordo le foto della mia famiglia, le vedo bruciare nel fuoco che arde nella mia testa, cado con una lentezza che mi pare durare attimi e anni.  

Prego che la mia anima sia salvata. 

Tocco terra e a rallentatore, l'asfalto si alza e il lastricato si infrange, sento il macabro suono delle ossa che si rompono, uno scricchiolio che si rinnova, come il rumore di un carillon rotto, che ripete sempre la stessa melodia, usando le note stonate. 

L'uomo che amavo mi starà cercando, la mia famiglia mi ritroverà sui giornali e un passante piangerà vedendo quello che resta della mia vita, disegnata come un quadro, su quell'asfalto bagnato dalla pioggia. 

 

 Dici di aver torto, aver torto, 
Io ho ragione, ho ragione, tu hai torto, litighiamo 

Ok, sto scappando dalla luce, scappando dal giorno verso la notte 
Oh, il silenzio definisce la nostra miseria 
La rivolta intera continua a tentare di farmi visita 
Non importa quanto proviamo, c’è troppa storia 
Troppe brutte note che suonano nella nostra sinfonia 
Perciò lascialo respirare, lascialo volare, lascialo andare 
Lascialo cadere, lascialo schiantare, bruciare lentamente 
E poi appellati a Dio 
Appellati a Dio  

 
 Ricordo che il mio assassino mi guardava da quel ventesimo piano, la mia vita era già finita e la sua esistenza già malata non trovava un appiglio a cui aggrapparsi. Mio nonno soleva dire: "la mela non cade mai troppo lontano dall'albero" e il mio assassino, aveva le fronde troppo lunghe per lasciare che la sua vittima vedesse il sole della libertà. 

Si lanciò nel vuoto e cadde con una velocità che gli parve rassicurante, in cuor suo sapeva quale destino avrebbe seguito la sua anima e quella della donna che voleva. Sarebbero stati eternamente legati, maledisse se stesso e il fiore che aveva lasciato cadere. Una lotta contro il tempo, un litigio tra la sua anima e il cielo stesso; Cadde e la vicinanza all'inferno fece si che le sue preghiere fossero esaudite. 

Si schiantò contro il mio corpo già martoriato - quante possibilità c'erano che accadesse? - 

E sugellò così il suo patto di sangue. 

 

Lo vuoi veramente? 
Mi vuoi veramente? 
Mi vuoi veramente, vivo o morto, per torturarmi per i miei peccati?  

 

  Ogni mattina, rivivo il mio incubo, mi alzo esco di casa, cammino lungo il Towers Brige. A metà ponte vedo Alastor, mi saluta. Lui è stato investito da una macchina quel giorno, mentre io andavo a pagare le bollette. 

Ricordo che ero sul ponte e qualcuno mi ha chiesto l'ora, mi sono voltata gli ho sorriso e gli ho fatto vedere l'orologio, non avevo avuto il dono della voce dalla nascita. 

Ricordo che pagai le bollette, uscì dal post office, voltai l'angolo, fu li che il mio assassino mi bendò per la prima volta. Qualcuno avrà pensato: "saranno amanti, infondo se fosse stata spaventata avrebbe urlato", ma io non avevo voce. 

 

Lo vuoi veramente? 
Mi vuoi veramente? 
Mi vuoi veramente, vivo o morto, per torturarmi per i miei peccati?  

 

 Ogni giorno muoio in questo mio limbo infernale, ed ogni mattina mi alzo dall'asfalto e ripercorro il cammino che mi porta a guardarlo negli occhi, a bruciare, a scordare e sapere, a morire e rinascere. Qualcuno crede di vedermi su quel ponte, di notte mentre cammino tra le luci soffuse del tramonto, in quell'attimo solo mio, in cui il demone del mio carnefice non può entrare. 

 Quanta determinazione ci vuole per maledire l'anima di chi si vuole? 

quanto tempo dovrò scontare i suoi peccati?  

C'è forse giustizia in questo?


 


Disclaimer: La canzone usata è dei è: "Hurricane" dei "30 seconds to mars". I personaggi della storia sono totalmente inventati da me.
 

  
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