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Autore: Avion946    13/10/2014    0 recensioni
Un singolare personaggio concede ad alcune persone, in un momento estremamente drammatico della loro vita, l'occasione di vivere e realizzare i propri sogni
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutta una vita davanti con immagini

                                                                                                                                         Tutta una vita davanti

Mark, da un sonno profondo e senza sogni, venne di colpo riportato alla realtà dal solito segnale. Un lampo di luce violenta, seguita da una serie di bagliori sempre più brevi  e fievoli che alla fine scomparivano del tutto. Poi, sarebbe 'andato'. Il segnale veniva all'improvviso, sia che fosse sveglio, sia che dormisse. Infine, dopo pochi secondi o diversi minuti, succedeva. Col tempo, aveva imparato a capire quanto aveva a disposizione prima di 'andare'. Fin da bambino era stato 'strano'. All'inizio aveva subìto il fenomeno senza naturalmente capire di cosa si trattasse. All'improvviso, veniva semplicemente trasferito fisicamente in qualche luogo lontano, insolito, fra gente sconosciuta ed era di ritorno nel giro di pochi secondi. Troppo veloce per raccapezzarsi, per spaventarsi o per crederci. Aveva provato a parlarne ai genitori che l'avevano ascoltato con pazienza e affetto, convinti di ascoltare le fantasie di un ragazzino. Stranamente non erano rimasti colpiti nemmeno dalla accuratissima descrizione dei luoghi che il bambino sosteneva di aver visitato. Erano anzi contenti di avere un figlio dotato di una così fervida fantasia. Così Mark aveva smesso di raccontare. Crescendo, i periodi di 'viaggio' si erano allungati, così come la loro attesa, poteva durare diverse ore. I genitori cominciavano ad essere un pò seccati dal fatto che a volte il loro ragazzo non rispondeva alle chiamate e non si facesse trovare per lunghi periodi. Alla fine arrivarono alla conclusione che se avessero mostrato di non dare importanza alla cosa, il figlio avrebbe smesso di comportarsi in modo strano. Il che logicamente non avvenne. Se all'inizio i viaggi erano vissuti in modo totalmente passivo e da semplice spettatore, andando avanti negli anni, Mark aveva cominciato ad interagire con gli ambienti che visitava. Parlava con le persone che incontrava o almeno tentava di farsi capire perchè, spesso, gli altri parlavano lingue sconosciute. Usava oggetti, assaggiava cibi diversi, ascoltava musiche esotiche. Ma tutto senza capire ancora perchè questo avvenisse. Poi a 15 anni di età, nel corso di una particolare avventura, comprese quale fosse in realtà il suo vero potere e cosa ci si aspettava veramente da lui. Era qualcosa di molto impegnativo e di enorme responsabilità. Non avrebbe mai creduto di esserne all'altezza ed invece svolgeva il suo compito con grande semplicità ed abilità. E alla fine aveva imparato che, seppure la meta del viaggio non dipendeva da lui, una volta giunto, aveva un pressochè totale controllo sull'ambiente e infine poteva mettere termine alla sua esperienza quando lo riteneva opportuno. Ora, era un bel ragazzo di 28 anni, alto, robusto, con un bel viso dai tratti marcati e due occhi scuri dallo sguardo penetrante. Le sue particolari doti non avevano apparentemente influito sulla sua vita quotidiana. Un discreto lavoro, un'eterna fidanzata, un numero accettabile di amici e conoscenti. E poi, naturalmente, quella "cosa". Era tarda mattinata perchè, la notte precedente, con gli amici, aveva fatto le ore piccole. Sentiva, sapeva, che stavolta che la 'cosa' non sarebbe accaduta in tempi brevi. Consumò un pranzo leggero ma senza appetito nè entusiasmo, perchè, in qualche modo, percepiva che questa volta l'impegno sarebbe stato pesante. Trascorse un pomeriggio eterno, strano, dedicandosi alle cose più inutili, perchè per quanto facesse, non riusciva a concentrarsi. Poi, finalmente giunse la sera. Ora sapeva che stava per accadere.  Si dispose mentalmente per essere pronto a tutto. Il sole era tramontato da un pezzo e le ombre della sera si erano ormai allungate. Pazientemente si sedette sulla sua poltrona preferita, di fronte alla finestra del salone, dalla quale poteva osservare le cime del boschetto che era dall'altra parte della strada, illuminate dalla luce dei lampioni. E poi.......si traferì. No, invece non era assolutamente preparato allo scenario nel quale fu catapultato. Era in piedi, o almeno cercava di restarci, all'estremità di un corto e basso corridoio. Davanti a lui, a destra e a sinistra due file di sedili occupati, in parte, da persone evidentemente in preda al panico più totale. L'ambiente era scosso da violente inclinazioni in tutte le direzioni che gli sconquassavano lo stomaco. Si trovava nella fusoliera di un aereo in volo, almeno finchè fosse riuscito a rimanerci. Fra le grida delle persone a bordo, si percepiva, assieme al rombo dei due motori ad elica, che facevano quello che potevano, un suono che sembrava l'urlo furioso di un vento impetuoso e implacabile, forse una tempesta o addirittura un tornado in cui l'aereo aveva avuto la sfortuna di incappare. Immediatamente davanti a lui, seduta al primo sedile sulla sinistra, la hostess, riconoscibile dalla divisa, con gli occhi sbarrati ed il volto terreo, si teneva aggrappata spasmodicamente ai braccioli e cercava, quasi eroicamente, ma  purtroppo in modo assai poco convincente, di rassicurare gli altri. Ma si vedeva che non ci credeva nemmeno lei. All'altra estremità del corridoio la porta della cabina di pilotaggio si era aperta e sbatteva di continuo, mostrando il pilota che, combattendo con una cloche impazzita, cercava con tutte le forze di esercitare un pur minimo controllo sull'aeromobile. Dai finestrini si vedeva all'esterno un buio totale e profondo, squarciato continuamente da tremende scariche di fulmini che aggiungevano un tono estremamente drammatico alla terribile scena. Tutta la struttura dell'aereo gemeva in modo tremendo e preoccupante. La morsa del vento l'avrebbe stritolata da un momento all'altro. Mark realizzò che aveva a disposizione solo pochi secondi e quindi, fatto un profondo respiro, gridò semplicemente : "Alt!". Ciò che seguì aveva dell'irreale. Un silenzio totale. Uno scenario congelato e immobile. L'aereo restava sospeso immoto nell'aria, leggermente inclinato in avanti sulla destra. I passeggeri fermi nelle posizioni che avevano assunto nel momento del blocco della situazione, come congelati nelle loro espressioni di terrore. Preso un pò di respiro, Mark si rese conto meglio della situazione. Dalla scena e dai protagonisti presenti, gli vennero alcune delle risposte di cui aveva bisogno, almeno per cominciare. Si trovava su un piccolo aereo Raytheon Bechcraft B190, in volo fra Las Vegas e San Diego per una tratta di circa 260 Mn. Per il fatto di avere solo 19 posti, non rientrava nella categoria degli apparecchi di linea e quindi, bastava un solo pilota per guidarlo. Non che in quella particolare circostanza un secondo pilota avrebbe prodotto la benchè minima differenza. Anche la hostess era opzionale e in quel caso, era presente a bordo, praticamente in qualità di passeggera, perchè, come tutti gli altri viaggiatori, aveva urgenza di recarsi a San Diego e, quale membro della compagnia, aveva chiesto ed ottenuto un passaggio. Era stata forse proprio l'urgenza di tutti coloro che erano a bordo, a portarli a quella situazione estrema e catastrofica. Ognuno aveva un valido e pressante motivo per raggiungere San Diego e questo aveva fatto loro accettare i rischi di un volo che si sapeva già essere pericoloso e che, fino all'ultimo momento, stava per essere annullato. Poi le previsioni avevano dato il tempo in miglioramento ed erano partiti. Ma dei fortissimi venti da sud avevano fatto spostare il fronte temporalesco ad una velocità tale che il pilota era finito dentro la tempesta quasi all'improvviso. La cosa peggiore era che si trattava di un uragano che dal grado 2 era passato in breve tempo e in modo imprevedibile al valore 4. D'altronde il radar meteo di cui l'aereo era equipaggiato, e che avrebbe potuto fare la differenza in quella situazione, era fuori uso. In quel clima di irreale immobilità, Mark cercò di capire 'per chi' era in quel luogo. Cominciò ad avanzare nel corridoio osservando le persone sedute sulla destra e sulla sinistra.

Nota: L'aereo di cui si parla nel racconto, è un valido aereo, il Beechcraft Raytheon B190, costruito in un gran numero di esemplari fino al 2002. E' un aereo bimotore a turboelica, veloce e facile a pilotarsi. E'diffusissimo nelle piccole e grandi compagnie per le tratte brevi (max 300 Mn) ed è stato acquistato in varie versioni anche dall'esercito degli S.U. E' molto robusto ma la situazione descritta nel racconto non lascerebbe scampo nemmeno ad un grosso potente aereo di linea di ultima generazione. Per seguire con più facilità lo svolgimento della storia, si consiglia di osservare lo schema riportato nella figura seguente . E' rappresentata la zona passeggeri del B190, vista dall'alto. Per ogni posto occupato è indicato il nome del viaggiatore e, di seguito, la sua età.

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A sinistra, seduta all'ultimo posto, c'era la hostess Michelle Sterling di 34 anni, davanti a lei, sfalsata di un posto c'era una donna elegantissima, Jean Heaton di 51 anni, apparentemente una donna in carriera. Davanti a lei, anch'essa sfalsata di un posto, c'era una giovane donna, Ellen Corby di 32 anni che stringeva a sè in modo angosciato un bambino, Peter, di 4 anni e mezzo. Davanti a lei, sfalsato di un posto, c'era un marinaio della Marina Militare, Richard Gainess di 48 anni. Sempre sul lato sinistro, al primo posto della fila era seduta una donna, Laraine Day, il cui vero nome era Doroty Giarrusso, di 49 anni, portati malissimo. Nella cabina, il pilota, teso nel disperato tentativo di controllare l'aereo, drammaticamente aggrappato alla cloche, George Barnes di 52 anni. Sulla fila destra, al secondo posto sedeva una giovane donna, evidentemente terrorizzata, che, seduta di traverso sul suo sedile, aveva le mani strette in quelle di un uomo seduto dietro di lei e che si sporgeva in avanti a farle coraggio. Erano marito e moglie. Edhit Head di 33 anni e Walter Neff di 36 anni. Procedendo verso il fondo, c'era un uomo non più giovane, Jhon Kellog di 44 anni. Seduta dietro all'uomo, una ragazza, Mara Freeman di 22 anni. Poi Ralph Dowson di 57 anni. Mark notò subito che lui aveva il polso sinistro bloccato con le manette al bracciolo esterno del sedile. Dietro sedeva il poliziotto che lo scortava durante il trasferimento, il sergente Davide Logan, in borghese, di 51 anni. Nel sedile successivo sedeva un uomo precocemente invecchiato, Laurence Ruffini di anni 54. Mark ora sapeva che era lì per la donna con il bambino in braccio. Le si avvicinò.

Ellen Corby e Peter, rispettivamente 4 anni e mezzo e 32 anni

La donna era chinata in avanti, mentre stringeva a sè il suo bambino. Aveva gli occhi chiusi, ma si vedeva che stava piangendo. Di certo, tutta la sua apprensione, era per il piccolo che stringeva a sè. Il bambino, con gli occhi sgranati, era aggrappato alla donna e sul suo volto si leggevano i segni della paura. Mark toccò la donna sulla spalla ed il bambino sulla schiena. I due, quasi all'istante, si rilassarono. La donna delicatamente, mantenendo gli occhi chiusi, si lasciò andare tranquillamente sullo schienale del sedile ed il bambino appoggiò, sereno, la testa sulla spalla della madre. Dal suo viso scomparvero i segni della paura ed i suoi occhi si chiusero. La donna si chiamava Ellen Corby ed il bambino Peter. Erano madre e figlio. Sposata sei anni prima con un uomo che si era rivelato cattivo, meschino e violento, aveva dovuto sopportare di tutto, scenate, minacce e, alla fine, anche percosse. Per lei non le importava, poteva anche resistere. Per il bambino, no. Era stato costretto ad assistere a scene di violenza che gli avevano causato una profonda sofferenza, e questo non doveva più succedere. Così, alla fine, la donna aveva contattato in segreto  un vecchio amico di famiglia, a San Diego, il quale si era dichiarato felicissimo di aiutarla. Le aveva trovato un discreto posto di lavoro e anche un adeguato alloggio. Perciò, quella mattina, appena uscito il marito, Ellen aveva preso Peter, i bagagli, che aveva precedentemente preparato in grande segreto, ed era corsa all'aeroporto dove l'aspettava il volo della Flying Fox Line che l'avrebbe portata lontana dal suo inferno personale. Al marito, tanto per scrupolo, aveva lasciato una lettera nella quale spiegava i motivi della sua iniziativa. Concludeva chiedendo di non cercarla. Aveva tempo fino alla sera, prima che il marito scoprisse la sua fuga perciò voleva essere lontana da lì il più presto possibile. Purtroppo il maltempo aveva ritardato la partenza e quando finalmente era arrivato il segnale di via libera nel tardo pomeriggio, aveva tirato un gran sospiro di sollievo. Mark mise con delicatezza le mani sulla testa della madre e del bambino e si concentrò per il suo lavoro......  Quando Ellen Corby, con il suo bambino in braccio, scese dall'aereo al terminal n. 1 est dell'aeroporto Lindberg di San Diego, trovò il suo amico ad aspettarla. Era ancora piuttosto stravolta per quel terribile viaggio in aereo. Dal giorno seguente iniziò la sua nuova vita. Lavorava, grazie al suo vecchio diploma, come infermiera in uno studio medico dove operavano diversi dottori, nella zona di University City. Andò subito d'accordo con le colleghe e anche Peter, che era stato iscritto in un istituto scolastico vicino al luogo di lavoro della madre, si ambientò abbastanza in fretta sia con gli insegnanti che con i suoi nuovi compagni. La donna, da una amica fidata di Las Vegas, seppe che il marito, tornato a casa quella sera, si era ubriacato e aveva praticamente distrutto l'appartamento dove avevano vissuto. Poi, aveva cominciato a cercarla. Successivamente seppe che, per il suo carattere violento, si era cacciato in un serio guaio ed era stato arrestato. Non ne seppe più nulla. Il tempo trascorreva finalmente sereno. Peter cresceva ed era diventato un bel ragazzo. Ellen aveva avuto qualche breve relazione però non riusciva a liberarsi del doloroso ricordo del marito e questo le impediva di iniziare una seria relazione con gli uomini che incontrava e che le dimostravano interesse. Alla fine strinse amicizia con un brav'uomo, Edward Alley, di mezza età, capitato in qualità di paziente nel centro dove lei lavorava. Era una persona piuttosto facoltosa, di notevole cultura che si affezionò alla donna e al ragazzo. Diventò insomma un buon amico 'di famiglia'. Solo in qualche rarissimo caso, qualcosa di più. Peter crescendo era capitato spesso nel centro medico dove lavorava la madre e, alla fine, aveva conosciuto tutti i medici che lo avevano preso in simpatia. Fu perciò naturale che la situazione influenzasse le scelte del ragazzo, relativamente al suo futuro. Decise infatti di frequentare la facoltà di medicina e chirurgia presso l'Università di San Diego. Questo fece sì che potesse studiare vicino a casa, con l'aiuto e il consiglio di tutti i medici che aveva da tanto tempo frequentato. A differenza di tanti altri ragazzi, non aveva il desiderio di allontanarsi da casa. Per prima cosa, perchè aveva sempre goduto di una grande liberà. Poi perchè aveva accompagnato più volte, assieme alla madre, Edward in lunghi viaggi in giro per il mondo e infine la comunità di San Diego offriva notevoli stimoli per i giovani. Dalla zona dei surfisti a Pacific Beach, a quella degli artisti presso North Park e a tutte le iniziative della attivissima comunità universitaria locale. Conobbe intanto una bella ragazza, Elizabeth Moore, che frequentava la stessa facoltà. Alla fine si decise a presentarla alla madre che, nel vederla, capì che il suo ragazzo era cresciuto ed era ora che pensasse al suo futuro. Per cui, seppure con una venatura di amarezza, accolse molto bene Elizabeth, scoprendo, in un secondo tempo, di conoscerne la famiglia che era di buon livello.  I due ragazzi si laurearono insieme ma le loro strade per un po' si divisero. Peter si specializzò in cardiochirurgia, la fidanzata in pediatria. Poi decisero di sposarsi e poichè due medici anziani dello studio in cui lavorava Ellen, si ritiravano per limiti di età, i due ragazzi subentrarono al loro posto. La nascita del primo nipotino fece sentire ad Ellen che la sua dedizione per il figlio non era stata sprecata. Alla fine, almeno lui, aveva raggiunto un traguardo importante e, assieme alla moglie, aveva ancora tutta la vita davanti. La festa per il primo compleanno del nipotino fu bellissima. Ellen era veramente commossa. Su richiesta del figlio e della nuora, raggiunta una discreta tranquillità economica, aveva valutato l'idea di lasciare il suo lavoro, anche per l'età, e di seguire il nipotino e magari anche gli eventuali prossimi. Ellen, contenta per come erano andate le cose, e Peter, per ciò che il futuro poteva riservargli, andarono a dormire sereni e felici. Quella notte fecero dei sogni magnifici......... Mark lasciò madre e figlio sereni e tranquilli. Ellen sembrava placidamente addormentata sul suo sedile e Peter, abbandonato fra le sue braccia le cingeva il collo. Egli, almeno in teoria, aveva terminato il suo compito ma, guardandosi attorno e percependo tutta quell'angoscia e quel terrore, non ebbe coraggio di concludere lì il proprio lavoro. Non poteva lasciare quelle persone così. La stessa particolare sensibilità che era alla base della sua opera, gli avrebbe riproposto quei visi con quella tremenda espressione di terrore stampata sopra, senza posa se le avesse abbandonate in simili condizioni. Si accinse quindi intervenire pur sapendo che la cosa gli sarebbe costata una quantità spaventosa di energia. Non aveva mai operato su un raggio così ampio.

Richard Gaines, 48 anni

Si avvicinò al sedile su cui era seduto il robusto marinaio, Richard Gaines, di anni 48. L'uomo aveva la cintura allacciata e, stringendo spasmodicamente i braccioli del sedile con volto segnato dalla tensione, guardava fuori del finestrino come a cercare un riferimento visivo in quel buio profondo, solcato da continue scariche elettriche. Mark gli si avvicinò e gli toccò la spalla. Quasi immediatamente il marinaio si lasciò lentamente andare sul sedile, fino a trovarsi in posizione comoda e distesa........... Richard era nato a Seattle. Il padre, marinaio, quasi sempre assente, era imbarcato come motorista sul traghetto che tutte le settimane collegava Seattle con le località dell'Alaska, ossia raggiungeva Kodiak passando per Ketchikan, Sitka, Juneau, Homer. In pratica tutta la costa ovest. Il ragazzo, estremamente irrequieto, aveva preso a frequentare cattive compagnie che si muovevano all'interno del grande porto cittadino. In particolare compivano piccoli furti a bordo dei numerosissimi pescherecci ormeggiati alla banchina Fishermen's Terminal, approfittando della confusione che vi regnava. Naturalmente, dopo un poco di tempo, furono scoperti e catturati. Richard era il più giovane del gruppo e incensurato, a differenza degli altri. Il giudice, che non voleva rovinarlo, gli offrì la scelta fra l'andare in prigione o arruolarsi in un corpo militare. Il ragazzo non ci pensò due volte e, consigliato anche dal padre, scelse di arruolarsi nella Marina Militare. Stranamente la marina gli piacque. La vita non era facile ma gli piaceva il fatto che fosse regolata da norme chiare, precise. Lo avevano messo nel ramo delle trasmissioni e, negli anni, fece carriera come sottufficiale specializzandosi nei sistemi di rilevamento sonar e radar. La sua attività non gli aveva lasciato lo spazio per una famiglia. Ormai la sua famiglia erano i suoi amici e i suoi colleghi. Ragazze, molte, ma nessuna importante. Salvo una. Durante un seminario di specializzazione su un nuovo tipo di antenna, aveva conosciuto una sua collega che, esperta di sistemi informatici, seguiva il seminario per la parte che riguardava la gestione computerizzata dell'apparato. Si chiamava Margherita Solinas. Fu un amore a prima vista, fulminante, intenso che non risparmiò nessuno dei due. Alla fine del seminario, però dovettero tornare alle loro unità. Non ci fu nulla da fare. Promisero di risentirsi, di rivedersi ma, come succede in questi casi,  il tempo passò e non accadde più nulla. Richard che pensava spessissimo a Margherita, non aveva il coraggio di rifarsi vivo dopo tanto tempo e così, continuò a rimpiangerla, ipotizzando che avesse trovato qualcun altro, magari migliore di lui. Un anno prima  era imbarcato in qualità di sottufficiale anziano sulla fregata "Thunder", al comando di una squadra addetta alla manutenzione degli apparati di rilevamento. Durante una esercitazione combinata con altre unità, in un momento critico e delicato, una delle antenne aveva smesso di funzionare e così, assieme a un assistente, era corso ad arrampicarsi sull'albero dell'antenna ed aveva iniziato a cercare il guasto. Senza alcun preavviso un tremendo scossone coinvolse l'albero su cui era salito e a cui si era assicurato con una cintura apposita. Purtroppo il suo assistente, che non aveva preso quella precauzione, precipitò sul ponte, 15 metri più in basso, dove restò immobile. In realtà Richard non ebbe tempo per spaventari perchè, quasi istantaneamente, con un rumore assordante, una grossa porzione della fiancata destra, a mezza nave, fu scagliata in mare a gran distanza e dalla grossa apertura irregolare, eruppe una tremenda fiammata seguita da un fumo acre e soffocante. Come da una posizione 'privilegiata' vide sotto di sè i marinai che fuggendo dai passaggi e dai boccaporti cercavano di arrivare alle scialuppe di salvataggio e che venivano investiti da terribili fiammate ed esplosioni che avevano ormai compromesso l'integrità della coperta e  ora si susseguivano frequentemente. Davanti a lui a circa venti metri di distanza vide l'interno della plancia dove il capitano parlava convulsamente in un interfono forse per capire l'entità dei danni o almeno la causa. Poi un'esplosione fece scomparire tutto e Richard si rese conto che lui, pur dalla sua posizione di spettatore, non era invulnerabile e solo per caso fino a quel momento era rimasto illeso. Infine lo scafo, leggermente piegato sulla destra, di prua iniziò rapidamente ad affondare. Pensò di gettarsi in mare ma attorno allo scafo il carburante fuoruscito dai serbatoi, era in fiamme. Con la prospettiva di essere trascinato dallo scafo che affondava, se non si fosse sbrigato a prendere una decisione, alla fine si risolse a gettarsi in acqua cercando di nuotare sotto le fiamme. Quando risalì a galla per respirare la prima volta si trovò circondato dal fuoco e quindi si rituffò immediatamente continuando a nuotare con il respiro sempre più corto. Poi risalì comunque per respirare un minimo d'aria. Si ustionò ma riuscì a riempire i polmoni e riprese a nuotare sott'acqua. Continuò così finche potè e poi forse, istintivamente, al limite delle sue energie, trovò da aggrapparsi a qualcosa che galleggiava, probabilmente un relitto della sua stessa nave. Unico superstite, venne trovato dopo due giorni di ricerche, in mare aperto, aggrappato ad un relitto, mezzo accecato dalla nafta, fortemente disidratato e con diverse ustioni, per fortuna non gravi, su tutto il corpo. In ospedale, nella base di San Diego, la convalescenza fu lunga e difficile. Il marinaio che fisicamente migliorava giorno per giorno, moralmente   non riusciva a riprendersi. Aveva visto morire tutti i suoi compagni, il capitano, i suoi amici. Li aveva sentiti gridare mentre, sotto di lui cercavano inutilmente scampo dalle fiamme e dalle esplosioni. Malgrado l'impegno del personale medico specializzato in eventi del genere, stava lentamente scivolando nella depressione. Più che altro cercava la risposta che giustificasse il fatto che lui era ancora vivo e i suoi compagni no. La notte non riusciva a dormire. Per fortuna aveva stabilito un bel rapporto con il dottor Denis Carter, un dermatologo che aveva lavorato molto per trattare al meglio le sue ustioni. Richard aveva scoperto che l'altro era un vero esperto di storia della Marina Americana, a proposito della quale conosceva fatti, date, personaggi, battaglie e qualsiasi altra cosa la riguardasse. Era inoltre capace di raccontare moltissimi episodi, usando parole, espressioni particolarmente coinvolgenti e con il suo entusiasmo sapeva farsi ascoltare. Egli comunque non si contentava di studiare sui libri ma anzi, gran parte della sua cultura, l'aveva appresa 'sul campo'. Era un valido subacqueo ed aveva partecipato a moltissime spedizioni tese ad identificare relitti antichi e recenti. Richard spesso faceva compagnia al dott Carter quando questi aveva il turno di notte. Avrebbe dovuto stare nella sua camera ma il personale, che conosceva la sua condizione, chiudeva un occhio, anche considerato che il marinaio a volte dava loro anche una mano. Così spesso le notti passavano, con uno che raccontava storie di battaglie, imprese, navi gloriose e l'altro che ascoltava rapito quegli eventi, immaginando quasi di farne parte e per un pò dimenticava chi era e cosa gli era accaduto. Fu appunto durante una di queste lunghe nottate, che fu portato, in emergenza, un ferito grave. Si trattava da un sub, imbarcato su una nave militare in attività a poche miglia dalla costa. Era rimasto coinvolto in una grave esplosione avvenuta sott'acqua, come dissero i colleghi che lo avevano accompagnato, avvenuta durante una operazione di bonifica del fondale. Il dottore che lo visitò, si rese immediatamente conto della gravità delle condizioni del ferito. La  tuta che indossava ancora, era lacerata in più punti metteva allo scoperto diverse ferite. La lesione più importante però derivava dalla tremenda compressione a cui era stato esposto nell'esplosione che aveva causato delle serie lesioni interne. Mentre il dottore si preparava ad intervenire con urgenza e veniva chiamato il personale specializzato ad intervenire in questi casi, il ferito era stato stabilizzato ed era rimasto solo per qualche istante. Richard gli era andato vicino e gli aveva preso una mano per rassicurarlo, per non farlo sentire solo. L'altro che apparentemente conservava un barlume di coscienza, per un attimo aprì gli occhi e lo guardò con uno sguardo intenso, cercando forse di comunicare qualcosa. Fu uno scambio di sguardi profondo e pieno di significati. Da una parte un uomo sospeso fra la vita e la morte, con mille interrogativi e dubbi ma contemporaneamente con quella sorta di fatalismo di chi si rende conto dell'ineluttabilità degli eventi e dall'altra, un uomo che aveva visto morire tutti i suoi compagni, che era stato a sua volta ad un passo dalla fine e che non voleva veder morire più nessuno. Richard lo calmò dicendogli che da lì a poco lo avrebbero curato per guarirlo e farlo tornare dai suoi compagni. Il ferito, essendo stato intubato, non poteva parlare. Riuscì però a passargli un piccolo oggetto che aveva stretto nella mano per tutto quel tempo e di cui non si era accorto apparentemente nessuno. Quasi meccanicamente Richard lo prese senza prestargli molta attenzione e pensando soprattutto a continuare a parlare con l'altro. Presto tornò l'equipe medica al completo che prese la barella e di corsa la portò in camera operatoria. Lui, preoccupato per il ferito, quasi senza pensare, si era infilato in tasca il piccolo oggetto che aveva ricevuto ed era rimasto lì ad aspettare, per avere notizie. Nell'attesa che sembrava non finire mai, lo riprese per vedere di cosa si trattasse. Sembrava un pezzetto di roccia, di corallo forse, che però inglobava qualcosa di piccolo e sottile che stranamente luccicava. Con il suo temperino, usando le opportune precauzioni, cominciò a togliere lo strato esterno e alla fine si trovò in mano un dischetto di metallo che in alcuni punti luccicava. Era di certo una moneta e sembrava fosse d'oro. Ma dove l'aveva presa il ferito? Capì che forse c'era sotto qualcosa di importante. Doveva indagare, ma con cautela. Chissà quali potevano essere gli sviluppi di quella circostanza. Anzitutto era importante sapere cosa stesse facendo insieme ai suoi compagni e soprattutto dove. Quando il ferito fosse stato meglio, magari glielo avrebbe potuto chiedere. Purtroppo, dopo un pò le porte della sala operatoria si aprirono e ne uscì l'equipe, stanca e palesemente amareggiata. Il dr Carter lo guardò e senza dire nulla, scosse la testa e sospirò. Poi lo seguirono gli altri. Era andata male. Seppe poi che le lesioni del ferito erano troppo gravi e che i compagni, prima di portarlo in ospedale, avevano perso tempo, almeno mezz'ora, come se fossero incerti se ricoverarlo o no. Qualche giorno dopo, il dottore gli disse, in confidenza, che gli era arrivato dai piani alti un invito a chiudere in fretta il verbale circa l'accaduto. Non che ci fosse nulla da nascondere, tutto era andato come prevedeva la routine ma non si era ritenuto opportuno rivelare dove era accaduto il fatto, in quali circostanze e, soprattutto, perchè un'operazione così complicata fosse stata effettuata di notte. Richard intanto aveva con molta precauzione liberato la moneta da una gran parte del sedimento che la ricopriva. Non aveva eseguito un lavoro completo per paura di scalfirla o rovinarla. Comunque, da quello che si vedeva, un lato riportava il profilo di un uomo con la barba e l'altro l'immagine di un aquila con le ali spiegate sovrapposta ad una bandiera. Si leggevano le parole 'escudo', 'Messico' e si distingueva la data, il 1844. Passò molte ore al computer per cercare di individuare la moneta nei siti di numismatica. Non riuscì a trovare nulla. Quella che più gli si avvicinava era il 1/2 escudo d'oro dell'imperatore Massimiliano, datata 1865. Alla fine si risolse a parlarne al suo amico dottore. Questi osservò a lungo la moneta e poi, dando l'idea di aver ripescato nella memoria un evento lontano, disse che non poteva esserne sicuro ma forse avevano in mano qualcosa dal valore inestimabile. Forse era la risposta che convalidava un fatto che veniva riportato, quasi che fosse una leggenda e di cui nessuno aveva confermato la veridicità. Chiese un poco di tempo per documentarsi meglio. Dopo una settimana circa il dottore chiamò Richard e gli disse che quello che avevano in mano era quasi sicuramente la testimonianza di un fatto avvenuto circa 150 prima. Si trattava di eventi quasi sconosciuti che erano riportati esclusivamente in pochissimi siti. Il punto era che i cercatori di tesori avevano delle fonti di informazione particolarmente esperte e complete. Alcuni avevano fatto di questi studi lo scopo della loro vita. Solo per caso il dottore aveva avuto accesso ad un certo tipo di documentazione messagli a disposizione da un suo ex collega di avventure. La storia era la seguente. Nel 1844 il governo messicano cominciava ad avere seri problemi per via che i coloni texani, impegnati in una continua azione per ottenere l'indipendenza, diventavano sempre più risoluti. Qualcuno, fra i più grandi possidenti del Messico, intravide nell' apparente debolezza dello stato centrale, la possibilità di prendere il controllo della situazione con un colpo di stato. In particolare un grande possidente, Mauricio Trigos de la Cruz, ricchissimo, ritenne di avere grandi possibilità. Aveva uomini e mezzi. A lui si unì un altro uomo altrettanto ricco e influente, Anselmo Ruiz de Alavera il quale concorse al progetto con ulteriori capitali e uomini armati. Per avere una maggiore possibilità di raggiungere il potere, i due cercarono di tirare dalla loro parte il governatore della regione che si trovava a Los Angeles. Questi, Hipolito Villaurrutia, fedele al governo centrale e ritenendo di non poter validamente contrastare l'iniziativa dei due cospiratori con le forze a sua disposizione, finse di essere dalla loro parte ma contemporaneamente avvisò le autorità governative del progetto di colpo di stato. Ormai convinto della riuscita della sua iniziativa, Mauricio Trigos de la Cruz , perduto in una sorta di delirio di onnipotenza, ritenne di poter addirittura anticipare gli eventi. Si vedeva già presidente degli Stati Uniti del Messico e quindi mise a disposizione almeno 800 Kg di oro perchè fosse battuta una moneta, che volle chiamare escudo, con la sua effigie. Informò di questa sua iniziativa il governatore e anzi, in premio per la sua lealtà, gli regalò un cospicuo numero delle nuove monete. Invece il governo centrale inviò di lì a poco, un piccolo drappello di soldati scelti che, di sorpresa,  nella notte, arrestarono nelle loro case i capi della congiura, eludendo tutte le loro forze armate. Per evitare strascichi e polemiche, i due, dopo un processo molto sommario, vennero condannati a morte per il reato di tradimento e quasi immediatamente, giustiziati. Hipolito Villaurrutia, si rese conto che il particolare delle monete non era mai venuto a galla durante tutta la vicenda e quindi era praticamente l'unico a sapere che esse erano ancora tutte conservate al sicuro, in un posto che Mauricio gli aveva confidato. Con molta cautela riuscì a recuperarle ma, un po' per paura di mettere altri al corrente della storia, un po' perchè gli eventi iniziarono a precipitare, non trovò mai il modo di rifondere le monete in innocui lingotti. Poi il 13 maggio 1846 gli Stati Uniti, dichiararono guerra al Messico. Il 15 luglio arrivò a Monterey la flotta statunitense al comando del commodoro Robert Field Stockton, composta dalla nave ammiraglia, tre fregate, un trasporto con 800 uomini, tre sloop con 20 uomini ciascuno e tre navi di rifornimenti. Ci furono diverse operazioni sul territorio che, assieme ad altre combinate a terra, portarono al controllo di tutta la zona. Visto come si erano messe le cose, il governatore messicano decise di fuggire da Los Angeles finchè era ancora in tempo. Previde di partire con due navi. La prima, una corvetta di nome Invencibile,  che avrebbe trasportato il governatore, la sua famiglia e altri personaggi importanti da mettere in salvo. La seconda, un piccolo trasporto di nome Santa Cruz, su cui erano stati caricati i bagagli più ingombranti ma anche, in gran segreto, l'oro ancora in forma di moneta. Il tragitto prevedeva di raggiungere Mazatlan a circa 1000 miglia a sud, al sicuro. Le due navi salparono a breve distanza di tempo una dall'altra. Appena partite però furono investite da una tremenda tempesta che infuriò per due giorni al largo delle coste della Bassa California. L'Invencibile portò in salvo i suoi passeggeri ma la Santa Cruz, che si era mossa poche ore dopo, non giunse mai in nessun porto. Forse il fortunale l'aveva affondata o era stata intercettata dalla flotta statunitense e mandata a picco. In realtà, poichè essa non aveva alcun valore, salvo per il governatore che ne conosceva il segreto, venne presto dimenticata di fronte ad eventi ben più importanti. Alla fine del racconto, il dr Carter rimase in silenzio, come attendendo un commento del suo ascoltatore. Questi stava riflettendo, cercando di capire se aveva ben analizzato la storia appena ascoltata. Se quella che avevano in mano era una delle monete di cui si era parlato, allora 'forse' dove era stata presa c'erano delle altre. E se era finita in mano di un sub che lavorava in qualche posto al largo della costa davanti a San Diego, allora....... Aveva capito bene? Nei giorni successivi, discussero molto, facendo ipotesi e congetture. Se era vero quello che pensavano, si trattava di circa 800 Kg d'oro per un valore di circa 35 milioni di dollari! Calcolando il peso medio di ogni moneta attorno agli 8 grammi con un titolo del 99%, come si usava all'epoca, stavano parlando di almeno 100.000 monete. Certo, il valore numismatico sarebbe andato quasi a zero ma il valore dell'oro sarebbe rimasto notevole. Ma dove erano? Dove era accaduto il fatto che aveva coinvolto il sub? E se la Marina Militare stava effettuando lavori in quella zona, allora qualcuno poterebbe avere già trovato quel tesoro. Ma nessuno aveva detto nulla e sarebbe stato difficile tenere segreta una scoperta del genere. Decisero che ne avrebbero dovuto saperne di più. Purtroppo avevano capito che la missione che interessava loro, per qualche motivo era stata classificata come segreta. Richard, a cui questa storia sembrava aver sgombrato la mente da malinconie e dolori, chiese di essere dimesso e tornare in servizio. Egli sapeva che in attesa di essere eventualmente riassegnato, sarebbe stato preso in servizio presso la base della Marina a San Diego. Se da qualche parte c'erano delle risposte circa la missione che gli interessava, quelle erano lì. Fu assegnato, come aveva previsto, ad un corso di aggiornamento sui più moderni sistemi di intercettazione, mentre intanto una equipe valutava il suo recupero per capire se poteva tornare in mare o se, vista anche la sua non verde età, non sarebbe stato più saggio metterlo a riposo. Durante il suo tempo libero, Richard aveva ritrovate parecchie delle sue vecchie amicizie. Molto discretamente cercava di saper qualcosa circa l'incidente del sub ma nessuno sapeva o voleva parlare dell'argomento. Poi, una sera, un suo ex compagno di corso che ora lavorava nel centro approvvigionamenti, a cui aveva fatto bere una dose un pò eccessiva di ottimo wiskey, gli disse di non sapere nulla della missione in particolare ma che spesso di notte degli specialisti si munivano di particolari equipaggiamenti prima di partecipare a missioni riservate. Si diceva che erano addetti al collaudo di armi sperimentali. Se quello che aveva saputo era vero, Richard si rese conto che sarebbe stato difficilissimo sapere qualcosa di più, nessuno ne avrebbe parlato. L'unica cosa sicura era che l'informazione sarebbe comunque stata memorizzata nei computer della base. Era ad un punto morto. Il dott Carter, con il quale si incontrava regolarmente, intanto aveva condotto uno studio sulle correnti e sui fondali nella zona costiera fra Los Angeles e San Diego e aveva identificato delle zone che avrebbero potuto essere quelle giuste. Si era basato appunto sulle rotte che venivano seguite dalle navi in quell'epoca e sul fatto che il mare, nella zona che interessava loro, non doveva essere molto profondo visto che i sub, a quello che aveva visto, indossavano delle normali mute. Il risultato era un rettangolo di mare compreso fra San Diego e Rosarito, lungo la costa,  e largo circa 12 miglia al limite dell'arcipelago delle isole Coronado. In questa porzione la profondità raramente superava i 50 metri. Rimaneva comunque uno spazio enorme da perlustrare. Alla fine fu contattato da un personaggio che all'interno della base si muoveva con grande disinvoltura e che gli disse di essere in grado di fornirgli alcune informazioni se opportunamente motivato. Richard aveva molte riserve ad avere a che fare con una persona simile. Intanto sapeva che si trattava di un giocatore incallito pieno di debiti e inoltre non voleva che si pensasse che lui potesse avere interesse ad ottenere informazioni strategiche, quasi a scopo di spionaggio. Il guaio era che non poteva certo dire ad una persona del genere la verità. Anche a lui, fornì la storiella che il morto era un suo carissimo amico e la famiglia voleva a tutti costi sapere come erano andate veramente le cose.  La cifra richiesta in cambio delle informazioni non era bassa ma per fortuna nemmeno proibitiva, segno che l'altro doveva essere con l'acqua alla gola per i tanti debiti. Fissò comunque un appuntamento per lo scambio in zona neutra, disse lui. L'incontro sarebbe avvenuto in un hotel di un casinò di Las Vegas. D'accordo con il dottore, Richard decise di tentare questa carta. Messa insieme la cifra richiesta, era partito per Las Vegas e si era recato all'appuntamento. Purtroppo, il portiere dell'albergo gli disse che la persona in questione, poche ore prima era stata aggredita da tre uomini che l'avevano praticamente ridotta in fin di vita e che ora essa, in ospedale, lottava fra la vita e la morte. Quasi certamente, pensò Richard, qualche creditore, di quelli pericolosi, si era stufato di aspettare. Alla fine fu quasi sollevato che le cose fossero andate in quel modo. Quella persona dava l'idea di essere veramente 'sporca' e averci a che fare era abbastanza disgustoso. Decise di tornare a San Diego al più presto,  e quindi salì sul primo aereo in partenza sul quale aveva trovato posto............  Mark gli toccò delicatamente la fronte........... Richard scese dall'aereo piuttosto scosso. Se l'era vista brutta lassù. Egli, abituato ad affrontare le peggiori tempeste in mare, si era sentito molto a disagio ad affrontarle in cielo. Attese che scendesse il pilota e lo salutò e lo ringraziò. Di certo era merito suo se erano riusciti a cavarsela. Sarebbe stato proprio grottesco che si fosse salvato dalla sua esperienza in mare per poi finire così, stupidamente in aria. Tornò alla base e lì, subito, si recò nel bar dove riprese coraggio e tranquillità aiutandosi con un paio di bicchieri di ottimo wiskey. Fu molto meravigliato quando sentì una voce femminile che lo chiamava per nome. Quando si voltò rimase incredibilmente sorpreso trovandosi davanti Margherita Solinas che, in divisa da ufficiale, con i gradi di maggiore, gli sorrideva più bella che mai. Appariva più matura, più sicura di sè e più attraente di quanto ricordasse. Solo il posto dove si trovavano, impedì loro di abbracciarsi. Si capiva che tutti e due erano felicissimi di rincontrarsi. Certo, con qualche anno in più ma, apparentemente, fra loro, poco o nulla era cambiato. Passarono assieme il resto della serata e poi finirono in un motel dove poterono constatare che il tempo pareva non essere passato affatto. Lui le disse che quella era stata la sua giornata più fortunata. Era scampato ad un disastro aereo e la sera la aveva incontrata. Cosa poteva volere di più? Poi si raccontarono un pò di loro. Lui non aveva granchè da dire. Un periodo di servizio attento e inappuntabile, la normale carriera di un sottufficiale e poi, naturalmente il naufragio. Lei invece aveva fatto molta strada. Era diventata una vera esperta in sistemi informatici ed era stata promossa ufficiale. Ora teneva seminari nelle varie basi della Marina. Il lavoro, la carriera, non avevano consentito nemmeno a lei di costruirsi una famiglia. Continuarono a vedersi con una certa assiduità per una settimana. Poi lei gli disse che sarebbe stata molto impegnata perchè il responsabile della sicurezza della base, con il consenso dei superiori, le aveva chiesto di collaborare alla istallazione di un nuovo software che avrebbe protetto meglio tutti i segreti contenuti nei computer della base. Lei prese la strana espressione di Richard per semplice disappunto per il fatto che si sarebbero visti di meno, ma invece l'uomo era sorpreso per l'occasione incredibile che si presentava. Solo, occorreva trovare il modo di coinvolgere Margherita nell'impresa di recupero, senza darle l'idea di voler forzare la sua integrità e assoluta lealtà alla Marina. Chi meglio di lei, a quel punto avrebbe potuto scoprire cosa era accaduto quella notte e, soprattutto, dove? Per il momento decise di non dirle nulla preferendo consigliarsi prima con il dr Carter. Questi ammise che l'occasione era incredibile e irripetibile. Convenne però che effettivamente c'era di  che insospettire la donna sulla fortuità del loro incontro. Era anche vero che in quell'occasione lei non aveva ancora ottenuto l'incarico. Alla fine disse a Richard che l'unica cosa era giocare a carte scoperte con la donna perchè tanto non avevano nulla da perdere. Senza di lei l'unica alternativa era passare magari tutto il resto della loro vita a setacciare un fondo marino estesissimo con la reale prospettiva di non trovare nulla e magari impazzendo nel tentativo. Così fu fissato un incontro a tre in un localino riservato del quartiere degli artisti di San Diego. La donna aveva sospettato qualcosa ed era perplessa se accettare o no. Poi alla fine l'ebbe vinta la curiosità di sapere cosa avevano da chiederle i due uomini. Di Richard credeva di potersi fidare ma l'altro non lo conosceva. Se le avessero chiesto qualcosa che aveva a che fare con il suo lavoro si sarebbe alzata immediatamente e se ne sarebbe andata. Magari li avrebbe anche denunciati. Non era tipo da scendere a patti. Al momento di incontrarsi erano tutti molto nervosi. Fatte le presentazioni, il dottore ordinò qualcosa da bere per cercare di sciogliere quella strana atmosfera di riserbo, disagio e sospetto che si era creata. Alla fine decise di affrontare il toro per le corna. Premise però che l'idea dell'incontro era stata sua e che quindi Richard, qualsiasi fosse stato il risultato di quella iniziativa, non era responsabile. Iniziò a raccontare i fatti cominciando dal momento del ricovero del sub in ospedale. Raccontò della storia collegata con la moneta e concluse mettendo la moneta sul tavolo davanti alla donna che, dopo un attimo di esitazione, la prese e cominciò a guardarla con interesse. Il dottore concluse dicendo che loro volevano sapere solo dove erano accaduti i fatti, purchè questo non mettesse naturalmente a rischio la sicurezza nazionale. Ma se c'era una possibilità di andare a controllare se la loro ipotesi era esatta, allora....... E naturalmente anche lei sarebbe stata socia alla pari vista l'importanza del suo aiuto. Lei chiese a quel punto se erano sicuri di confidarle un tale segreto. Cosa le proibiva di scoprire l'accaduto e poi magari tentare il recupero da sola? O addirittura di denunciarli immediatamente tutti e due? Il dottore le rispose che non credevano che lei fosse il tipo da giocare un tale scherzo. La sua stessa correttezza le avrebbe impedito di agire disonestamente. E poi non avrebbe mai trovato dei compagni di avventura più leali, onesti e simpatici di loro. Alla fine Margherita disse loro che avrebbe visto cosa sarebbe stato possibile sapere e li avrebbe contattati. Detto questo, se ne andò. Era confusa, teneva al rapporto con Richard che le era sembrato sincero, le girava la testa per l'entità della somma in gioco, avrebbe dovuto guardare fra i file segreti rischiando di scoprire chissà cosa. Passarono otto giorni durante i quali Richard temette di avere perso Margherita. Aveva voluto sfidare la sorte ed aveva perduto. Il dr Carter era invece molto più ottimista. Di certo la donna stava lavorando per loro e non voleva che ci fosse il modo di collegarla a qualcuno o qualcosa di sospetto. Infatti, inaspettatamente, Margherita contattò il dottore e gli diede appuntamento al solito locale. Ai due uomini che l'attendevano con ansia, la donna apparve molto tranquilla. Era di certo sollevata per ciò che aveva scoperto e li salutò tranquillamente e con tono amichevole. A Richard diede perfino un bacio una guancia. Si vedeva che si divertiva a tenerli sulle spine e prendeva tempo con le ordinazioni, facendo osservazioni sul locale, sui clienti. Giocava con loro, insomma. Forse per quello che le avevano fatto passare, con il dubbio che avrebbe tradito la sua patria. In realtà le cose non erano andate proprio come si poteva immaginare. Alla fine la donna ebbe pietà di loro e, tirato fuori dalla borsa un foglietto, lo mise sul piano del tavolo davanti al dottore così come lui aveva fatto con la moneta. Sopra, erano segnati alcuni numeri: 32°24'07''N e 117°15'19''O. Evidentemente delle coordinate. Preso atto che il dottore aveva capito, iniziò il racconto. La Marina in realtà non c'entrava quasi per nulla. Era un grosso pasticcio che aveva combinato una delle società che progettava armi per le forze armate. La società in questione aveva messo a punto un sofisticatissimo drone armato di due missili con capacità di rendersi invisibile grazie ad un materiale segreto che, adattandosi alle condizioni ambientali, assumeva una colorazione tale da renderlo indistinguibile, quasi fosse un camaleonte. Inoltre una parte di tecnologia stealth, un motore particolarmente silenzioso, lo rendevano non localizzabile anche a brevissima distanza. Per collaudare sul campo l'arma, perchè di un' arma si trattava, qualche bel cervellone aveva pensato di portarla sull'isola Coronado South, la più meridionale dell'arcipelago Coronado, a circa 8 miglia ovest rispetto alla spiaggia di Rosarito, in territorio messicano, sulla quale c'era  un presidio militare permanente. Se nessuno l'avesse rilevata, allora il collaudo sarebbe stato perfetto. Logicamente qualcosa era andato storto. Dopo aver sorvolato l'isola in lungo e largo, al momento di recuperare il drone, questo, forse per essere passato accanto ad un dispositivo militare messicano che produceva un potente segnale a radiofrequenza, forse una postazione radar che nessuno sapeva essere stata installata sull'isola, non aveva più risposto ai comandi. Dalla telecamera che ancora trasmetteva le immagini, l'avevano veduto inabissarsi a breve distanza dalla costa occidentale dell'isola. In quel punto l'acqua era profonda solo 32 metri. Forse di giorno si poteva addirittura vedere l'oggetto dalla superficie. Inoltre la zona era piuttosto frequentata perchè l'autorità di Tijuana che governava la zona, proibiva lo sbarco sull'isola ma invogliava le attività di pesca. Il problema non era tanto il drone, ma il fatto che fosse armato di due missili perfettamente efficienti. Era quindi stato disposto un piano di recupero, combinato fra le forze della Marina ed alcuni tecnici della società responsabile.  Nella notte, delle forze speciali avevano raggiunto con molta cautela e segretezza la zona dell'incidente. Nella caduta, però, per qualche motivo, uno dei missili si era armato ed ora era estremamente pericoloso. Allora avevano deciso di staccarlo dal drone e procedere intanto al recupero di questo. Così avevano fatto. Alla fine uno degli artificieri era ritornato sul fondale per programmare l'esplosione temporizzata del missile. Nessuno sapeva cosa era veramente accaduto ma all'improvviso c'era stata una forte esplosione sul fondo. Immediatamente i colleghi si erano tuffati per recuperare l'artificiere che avevano trovato gravemente ferito riverso sul fondale. Dopo averlo soccorso, avevano discusso a lungo per decidere cosa fare. Le lesioni erano talmente gravi che, per avere una speranza di salvarlo, avrebbero dovuto portarlo subito all'ospedale. C'erano state naturalmente delle resistenze e questo aveva fatto perdere tempo prezioso.  Alla fine l'avevano spuntata i compagni del sub ferito e l'avevano portato dal dr Carter. Ma le gravi condizioni e soprattutto il tempo perduto, avevano aggravato le sue condizioni. Dall'isola apparentemente non era stato notato nulla. Lo strato d'acqua aveva limitato gli effetti dell'esplosione. Nessuno, visto che eventuali prove erano comunque state distrutte, aveva più intenzione di tornare sul luogo. Ed ora? Intanto serviva un sopralluogo. Il dottore e Richard, esperti marinai tutti e due,  avrebbero noleggiato una barca da pesca a San Diego e si sarebbero spinti nel luogo corrispondente alle coordinate ricevute. Intanto si erano procurati più informazioni possibili sulla zona interessata. L'arcipelago delle isole Coronado, a circa 8 miglia dalla costa, era formato da 4 isole poste all'incirca una sotto l'altra. L'arcipelago rappresentava la riserva marina più estesa del Messico. Le acque erano abitate da numerosissime varietà di pesci, con una grande presenza di delfini di varie specie. Più in alto c'era l'isola Coronado North, disabitata che non offriva alcun approdo. Sugli scogli di questa isola era possibile vedere un gran numero di orsi marini. A circa 2 miglia a sud-est c'era il Pilon de Azucar, la più piccola isola dell'arcipelago. Era solo uno scoglio appena affiorante dalla superficie del mare. Ancora a un quarto di miglio a sud-est si trovava l'isola chiamata Coronado Center caratterizzata da una vegetazione per lo più di cactus, ospitava numerose colonie di uccelli, soprattutto pellicani. Sulle sue spiagge era possibile osservare un discreto numero di leoni marini. Per sfortuna sull'isola aveva anche trovato ospitalità una vasta comunità di crotali, piuttosto velenosi. Infine a mezzo miglio a sud-est, finalmente si scorgeva l'sola che li interessava, la Coronado South. Era la più grande. A sud e a nord si trovavano due fari e, poco distante da quello posto a nord, era ospitato il contingente militare messicano permanentemente di stanza sull'isola. Sempre nella parte nord, c'era un piccolo villaggio che ospitava circa 270 abitanti. Sull'isola era proibito lo sbarco ma la municipalità di Tijuana, che controllava il territorio, invogliava i turisti a recarsi nella zona sia per osservazioni naturistiche sia per praticare la pesca sportiva. Avrebbero dato un'occhiata intorno fingendo di pescare, per capire quanto fosse possibile agire senza farsi notare. Era vero che una squadra di uomini specializzati, aveva addirittura effettuato un recupero senza che nessuno del luogo se ne accorgesse ma si trattava di professionisti perfettamente attrezzati e addestrati. Loro invece non sapevano nemmeno cosa stessero cercando. Il primo sabato disponibile partirono per la loro ricognizione. Partendo da San Diego, seguirono il normale tragitto consigliato per i turisti. Passarono fra l'isola North e il Pilon de Azucar e poi diressero verso sud. Lungo la rotta esterna all'arcipelago, era possibile incontrare in certi periodi dell'anno le balene azzurre che arrivavano da lontano per l'accoppiamento. Raggiunta approssimativamente la zona indicata dalle coordinate, gettarono l'ancora. Davanti a loro, a circa mezzo miglio, si allungava la costa dell'isola South. Era una distanza ragionevole per operare senza essere osservati. Semmai il punto era che, lavorando di notte, avrebbero dovuto rimanere ormeggiati nell'attuale posizione mentre, di norma, le barche in preferivano recarsi nell'insenatura a ovest dell'isola, detta Baia Piccola, che in un lontano passato veniva utilizzata dai contrabbandieri per nascondersi e poi, nell'oscurità delle tenebre, importare alcolici in California. Poichè ormai erano sul posto, anche se sprovvisti di attrezzatura adeguata, tanto valeva dare un'occhiata. A turno, si gettarono in mare come normali turisti che svolgono attività di snorkeling. Anche se tutti e due erano sub provetti, non scesero oltre i sei, sette metri e quindi non poterono osservare il fondale, che si trovava a circa 25-30 metri sotto di loro, con grande precisione. Il fondale appariva in prevalenza roccioso con zone di sabbia chiara. Tutto ciò che non era sabbia, era coperto di vegetazione marina. Però tutti e due, notarono un luogo, posto a circa 50 metri dal loro ormeggio, in cui il fondale appariva sconvolto, alterato. Tutta la vegetazione era stata letteralmente spazzata via e anche la sabbia appariva quà e là rimossa, rivelando delle cavità profonde nella roccia. Dovettero resistere alla tentazione di raggiungere il fondale in apnea. Non aveva nessun senso rischiare la vita a quel punto. La zona dell'esplosione era senz'altro quella e loro l'avevano individuata. Ora dovevano solo organizzare il loro lavoro. Durante la settimana il dr Carter contattò discretamente delle sue conoscenze che operavano nel campo dei recuperi per sapere, rimanendo sempre molto sul vago, quali fossero le procedure del caso. Le notizie che ricevette, come temeva, non erano delle migliori. Il Governo Messicano non era molto generoso nei confronti di quanti ritrovavano tesori nelle sue acque territoriali. Ne informò i suoi due soci, Margherita e Richard ma comunque insieme decisero di procedere egualmente. Il sabato successivo, Richard e il dottore ripartirono per la loro gita turistica. Avevano dovuto faticare molto per convincere Margherita a desistere dall'accompagnarli. Meno la collegavano a loro e meglio sarebbe stato. Giunsero sul posto notando con sollievo che in zona non c'era nessuna attività. Stavolta erano particolarmente attrezzati. Avevano le migliori mute da sub che avevano trovato nei negozi specifici di Rosarito, dove erano passati per due ricchi americani svitati con soldi da spendere. A parte, il dottore si era procurato dei palloni subacquei da recupero e la barca noleggiata, come al solito senza equipaggio, aveva un compressore per la ricarica delle bombole e a poppa una piccola gru utilizzata per issare a bordo delle prede di notevoli dimensioni. Decisero di tuffarsi di nuovo a turno. Una persona sarebbe stata sempre a bordo del battello. Si tuffò per primo il dottore, più esperto nel campo dei recuperi marini. Discese utilizzando la catena dell'ancora e si diresse verso la zona che avevano individuato. Un GPS da polso controllava i suoi spostamenti. Arrivato nella zona interessata, rimase estremamente colpito per la devastazione che trovò. L'esplosione doveva essere stata terribile e con un campo di azione piuttosto vasto. Questa non era una buona notizia. Se essa aveva coinvolto direttamente il relitto che cercavano, avrebbe potuto farlo a pezzi, rendendo il recupero veramente difficoltoso. Il fondale appariva squarciato. Il centro dell'esplosione mostrava un cratere della profondità di circa sette-otto  metri e della larghezza di almeno trenta. Il dottore cominciò a muoversi lungo un tragitto prefissato che avrebbe consentito di ispezionare tutta l'area. Effettivamente l'esplosione aveva rimosso quasi tutta la sabbia dalle zone circostanti ed aveva letteralmente spazzato tutta la vegetazione marina del posto. Aveva a disposizione solo un periodo massimo di 25 minuti. In tal modo sarebbe stata sufficiente, per sicurezza, una decompressione di 5 minuti a 3 metri di profondità. Quando si immerse Richard questi continuò l'operazione di ricerca secondo il programma. Verso la fine del suo periodo, a poca distanza dal bordo del cratere, notò, quasi per caso, una sagoma caratteristica che sporgeva  appena da un mucchio di sabbia che era stata spostata. Avvicinatosi maggiormente potè constatare che si trattava di una parte del fasciame interno di una chiglia. Era di legno e si vedevano perfettamente le centine che avevano tenuto insieme il fasciame dello scafo. Si notava a malapena in quanto il legno marcito e attaccato dagli agenti sottomarini aveva assunto all'incirca il colore grigio della sabbia circostante. Poi tutto intorno vide dei piccoli oggetti che rimandavano la luce del raggio della sua lampada. Erano le monete che coprivano in gran numero il fondale. Ne raccolse una ventina che mise in un sacchetto assicurato alla cintura. Fissò la nuova posizione con il GPS e tornò in superficie, ansioso di comunicare la sua scoperta. Il dottore che lo sostituì sott'acqua, restò immerso quasi al limite del tempo consentito. Prima di emergere dovette effettuare quindici minuti di decompressione e tre metri di profondità. Richard, che lo vedeva attaccato alla catena dell'ancora per non farsi portar via dalla corrente, aspettava, pensieroso, di conoscere l'esito dell' immersione e capire perchè si era prolungata così tanto. Il dottore finalmente tornò in superficie con una strana espressione in viso. Raccontò che, da quanto aveva potuto appurare, la nave che era là sotto, dopo essere stata disalberata, visto che non c'erano detriti in merito, era colata a picco. Era finita di fianco nelle spazio fra due grosse rocce vicine e lì, di certo era rimasta incastrata mentre negli anni la sabbia l'aveva lentamente ricoperta. La tremenda esplosione che aveva sconvolto il fondale, aveva spazzato tutto, compresa quella parte di scafo che sporgeva dalle rocce, come se dalla chiglia della nave fosse stata asportata una fetta, mettendo direttamente allo scoperto la stiva ed il suo contenuto. Una delle casse che conteneva le monete era rimasta danneggiata ed il suo contenuto era stato sparso tutto intorno. Ma di casse nella stiva, seppure parzialmente coperte dalla sabbia, ce ne erano molte altre. Il dottore, ad un compagno sempre più eccitato, spiegò cosa aveva trovato. Alla fine stabilirono un piano di azione. Riposero tutta l'attrezzatura e si disposero a preparasi un bel pranzetto. Quindi passarono il pomeriggio, dormendo, pescando con la lenza o semplicemente osservando il panorama dell'isola o dei branchi di delfini che, di quando in quando, nuotavano accanto a loro. Sembravano proprio due svogliati tipici pescatori in momentanea fuga dal caos cittadino. Quando si fece buio, la recita terminò. Con la massima efficienza prepararono tutta l'attrezzatura necessaria e indossarono le mute. Poi iniziarono il lavoro. Andarono avanti quasi tutta la notte in una attività frenetica. Al mattino, esausti ma felici, avevano compiuto il loro lavoro. Sul ponte, appariva un mucchietto di monete, poco più di un centinaio. Giunta la sera, ritornarono verso la costa e approdarono al molo di un paesino a circa 7 miglia a nord di Rosarito, chiamato San Antonio del Mar. Lì avevano affittato un magazzino dove, sotto lo sguardo disinteressato e indolente di alcuni pescatori locali riposero le attrezzature, le casse di viveri avanzati e quelle di birra che apparentemente non avevano fatto a tempo a bere. Poi fecero rifornimento in un vicino distributore e si diressero finalmente a Rosarito. Quì contattarono gli amici del dottore, comunicandogli il ritrovamento ufficiale, suffragato da una manciata di monete recuperate. Vennero immediatamente avvertite le autorità che avrebbero dovuto concedere i permessi e che fecero un vero e proprio interrogatorio ai due uomini mentre un gruppo di funzionari in modo molto poco discreto, perquisirono la loro barca da cima a fondo per vedere se per caso si fossero tenuti per loro una parte del tesoro. Alla fine fecero firmare loro una marea di carte e finalmente li lasciarono liberi di andare. Carter si era accordato con i suoi amici che, appositamente attrezzati, si sarebbero occupati del recupero vero e proprio. Considerati i costi, le percentuali pretese dal governo e tutto il resto, alla fine Carter e Richard semplicemente accettarono di cedere il diritto di recupero in cambio di 900.000 dollari. Certo non erano i 35 milioni che avevano ipotizzato ma questo era meglio di niente. Il difficile fu dirlo a Margherita che però, alla fine, la prese meglio di quanto pensassero. A lei interessava il suo rapporto con Richard il quale era felicissimo per come erano andate le cose. L'operazione alla fine era stata portata a termine ed erano state ritrovate monete per circa tutti gli 800 chili di monete previsti e quantomeno sperati. Tutto era tornato alla normalità. Dopo circa 2 mesi, pensarono di fare una bella gita in barca, ma stavolta tutti insieme. Sarebbe stato un magnifico weekend in mare in un paesaggio fantastico. Partiti da San Diego con la solita barca, si recarono prima di tutto a San Antonio del Mar per recuperare le attrezzature e i viveri rimasti e soprattutto la birra. Quando arrivarono al magazzino, Richard chiuse le porte e il dottore, da una delle scatole, estrasse una borsa da cui pescò tre involti destinati a ognuno di loro. Margherita non capiva e rimase senza fiato quando, aperto il suo, ci trovò monete per circa un chilogrammo. Gli altri due le dissero che non sarebbe stato giusto che avessero guadagnato così poco dall'affare e quindi quella sembrava una meritata gratifica. Margherita, senza tante riserve, accettò, ritenendo che il discorso dei due uomini fosse corretto. 900.000 dollari in cambio di 35 milioni! A questo punto i suoi due compagni che avevano sul viso una strana espressione, le dissero che oltre a spartirsi i soldi e le monete, sarebbe stato opportuno spartirsi anche i viveri avanzati visto che li avevano comprati con una sorta di cassa comune. Margherita scarsamente interessata da qualche salatino o qualche scatoletta disse loro che se li potevano anche tenere, ma i due uomini invece sorridendo in modo sempre più evidente, quasi che si stessero in qualche modo prendendo gioco di lei, praticamente la costrinsero a scegliere fra i gli scatoloni di biscotti, salatini e pane e quello del cibo in scatola o infine quello con i salviettini e tovagliette di carta. Margherita iniziò a innervosirsi e allora i suoi due compagni di avventura la invitarono a pensarci su perchè forse valeva la pena di scegliere. Per dimostrarglielo le allinearono davanti gli scatoloni e, rimossi i prodotti in superficie, misero in vista delle cassette metalliche della dimensione di un forno a microonde. Le rinnovarono la proposta di scegliere e per aiutarla nella scelta, ridendo le aprirono davanti le cassette ad una ad una. La donna era rimasta senza fiato. Ogni cassetta era piena fino all'orlo di gioielli, pietre preziose di dimensioni notevoli, oggetti in oro. Ripresasi chiese anzitutto con voce tremante se quella roba era autentica. Le risposero che avevano scoperto che evidentemente le monete non erano il solo carico della nave. Qualcuno aveva caricato anche un ingente tesoro in gioielli e pietre preziose. A quel punto era stato facile decidere. Che gli altri si prendessero pure l'oro delle monete, difficile e ingombrante per essere riportato in superficie ma i gioielli li avevano recuperati nella notte, usando i palloni gonfiabili e la piccola gru di bordo. Da una stima approssimata del contenuto, forse ognuna delle cassette probabilmente valeva più di tutte le monete messe assieme. Alla fine avevano fatto un buon affare. Caricarono tutto sulla barca e partirono per la loro gita. Al ritorno avrebbero provveduto, con le amicizie del dottore, a sistemare le cose. Quella sera, Richard e Margherita, distesi abbracciati sul ponte della piccola imbarcazione, mentre il dottore si era fatto discretamente da parte, sognavano un futuro in cui, insieme, si sarebbero potute prendere le loro belle soddisfazioni. Lui pensava ad una bella barca a vela, tutta sua, con la quale effettuare magnifici viaggi assieme alla sua Margherita. Lei pensava ad una sua impresa personale di software, che le avrebbe dato successo, fama e che l'avrebbe fatta diventare la numero uno nel suo campo. Così, cullato dalle onde del mare, sotto un cielo incredibilmente pieno di stelle, dolcemente Richard si addormentò..... Mark lasciò il marinaio. Le sue rughe, scavate da anni di mare e salsedine, si erano completamente distese e ora, su quel viso naturalmente duro e burbero, aleggiava un sorriso incredibile.

 

Laraine Day, 49 anni

Sul primo sedile della fila sinistra, appena dietro al portellone dell' ingresso anteriore, c'era seduta una donna di mezza età, pesantemente truccata, la qual cosa la faceva apparire grottescamente assai più vecchia di quel che era, con un risultato quasi grottesco. Laraine Day era il nome con cui si faceva chiamare nel suo ambiente. Gettata all'indietro, tesa, appoggiata contro lo schienale del sedile, aveva le mani al viso, evidentemente disperata, sola, in quella situazione drammatica. Le lacrime le avevano sciolto il trucco che le rigava il volto e i posticci biondi erano andati penosamente fuori posto. Mark le mise una mano sulla spalla e delicatamente le scostò le mani dal viso portandola a poggiare le braccia sui braccioli. La fece distendere comodamente e rilasciare profondamente con gli occhi chiusi............ Il suo vero nome era Doroty Giarrusso, ex ballerina, ex di tutto nell'ambiente dello spettacolo nel quale non aveva mai raggiunto nessun risultato degno di nota. Non perchè non fosse dotata di un certo sia pur modesto talento, ma più che altro perchè la smania di arrivare, la brama del successo, la aveva indotta a scegliere sempre delle scorciatoie dalle quali, in cambio di risultati sempre più effimeri, aveva saccettato conseguenze sempre più amare. Aveva praticamente bruciato la sua vita e quel che era peggio aveva bruciato sè stessa. Aveva 49 anni e ne dimostrava almeno 60. Una incredibile acconciatura di capelli biondo cenere, sfacciatmente posticci, un trucco pesantissimo, degli abiti di colori e foggia assurda, tutto contribuiva a dare di lei un quadro grottesco e volgare di cui apparentemente non si rendeva conto. Sapeva che gli uomini la guardavano e questo le bastava, senza porsi altri interrogativi. Arrivata comunque drammaticamente alla conclusione che aveva percorso ogni strada possibile e che per lei a Las Vegas non c'era più nulla da fare, nessuno la voleva più, alla fine si era dovuta rassegnare e così, stanca, consumata, vuota, ingoiato il suo orgoglio, aveva contattato la sorella a San Diego, per chiederle se avrebbe potuto almeno alloggiarla in cambio di qualsiasi lavoro. La verità era che la solitudine la terrorizzava. Una sua conoscente era morta e se ne erano accorti solo dopo un mese. Nessuno si era voluto occupare della sua sepoltura. Le sue cose, forse le più care, forse legate a fatti salienti della sua vita, erano state gettate così, nei bidoni della spazzatura. Questa cosa l'aveva talmente colpita, che da allora non era più riuscita a dormire senza avere tremendi incubi. La sorella, Elizabeth, che le aveva sempre voluto bene, aveva costantemente pensato a lei con angoscia, perchè sapeva cosa stava combinando a Las Vegas e pregava che non si facesse troppo male. I loro contatti si erano interrotti praticamente quando, sbattendo la porta, se ne era andata a cercare la fortuna nella città del gioco e del divertimento che già aveva fatto tante altre vittime fra le loro conoscenze. Lei, diceva sicura Doroty, era diversa, lei ce la avrebbe fatta, via da quello squallore, dal negozio di drogheria dove le due sorelle facevano le commesse. Poi, qualche sporadica lettera, qualche cartolina, ma la maggiore fonte di informazioni erano stati i giornaletti scandalistici che in qualche modo parlavano di Doroty, anzi di Laraine Day, e delle sue squallide avventure. Elizabeth le aveva risposto che sarebbe stata felicissima di accoglierla e che non perdesse tempo. Era rimasta a vivere nella casa dei loro genitori, ormai scomparsi da un pezzo, e la stanza di Doroty era sempre là, come se sapesse che alla fine sarebbe ritornata. Nel tempo, aveva fatto carriera nella drogheria dove da commessa era diventata direttrice del negozio, e infine aveva trovato il modo di rilevarlo dal vecchio proprietario. Gli affari le andavano piuttosto bene ed ora non le sarebbe dispiaciuto un aiuto. Laraine Day, salendo su quell'aereo usciva di scena per sempre perchè ne sarebbe scesa solo Doroty Giarrusso. Mark le toccò delicatamente la fronte......... Doroty scese dall'aereo con le gambe che ancora le tremavano per la terribile situazione che avevano affrontato in aria. Osservandosi allo specchio prima dell'atterraggio aveva notato lo sfacelo del suo trucco ed aveva preferito rimuoverlo tutto o almeno ci aveva provato. Per coprire i capelli in disordine aveva messo in testa un grosso foulard di colore assurdo. Cosa avrebbe detto la sorella a vederla ridotta in quello stato? Elizabeth era ad aspettarla. Appena la vide, le andò incontro e la abbracciò stretta, a lungo, in silenzio. Avevano da dirsi una montagna di cose ma questo sarebbe accaduto dopo, al momento opportuno. Elizabeth prese Doroty per mano, come tanti, tanti anni prima e la condusse verso l'automobile che le avrebbe portate a casa. Doroty, che aveva temuto a lungo quell'incontro, sentì che la sorella le voleva ancora bene. Non l'aveva accolta per pietà o per poterle rimproverare le sue scelte di vita. Le voleva bene, così, semplicemente. E basta. Questo la tranquillizzò parecchio perchè sapeva di non avere la coscienza a posto. C'erano stati dei momenti, durante la sua carriera, in cui si era 'inventata' una famiglia speciale, a volte addirittura altolocata, quasi vergognandosi della modestia delle sue origini. Ed ora tutto questo le pesava. Entrò nella sua camera con trepidazione e incertezza, quasi a temere che quell'ambiente che lei aveva sdegnosamente abbandonato tanti anni prima la potesse in qualche modo respingere, rifiutare. Invece quella stanza, che la sorella aveva conservata quasi immutata nel tempo, le parlava di una ragazza, allegra esuberante, viva, in cerca di una strada speciale, di una occasione ed ora, come se l'avesse riconosciuta, la accoglieva con affetto. Doroty si sedette lentamente sul letto, come se dovesse riprendere contatto con cautela con quell'ambiente e, con il viso fra le mani, iniziò a piangere e andò avanti per un pezzo. Elizabeth, che era andata a chiederle se le servisse qualcosa, sentì i singhiozzi da dietro la porta e decise di lasciarla in pace. Sapeva che era comunque forte ed in quel posto tranquillo avrebbe ritrovato da sola il suo equilibrio. Il giorno seguente, scese per colazione una donna diversa. Doroty aveva rimosso tutti i capelli posticci ed era senza trucco. Indossava un vestitino semplice ed un paio di scarpe basse. La sorella era rimasta a bocca aperta. Le sembrò che il tempo fosse ritornato indietro. Quella, era sua sorella. Certo l'età e la tensione le avevano segnato il viso, ma di certo quell'orribile vecchia che era entrata in casa la sera prima, era scomparsa per sempre. La nuova arrivata era una persona matura, con un fisico curato e apparentemente in buona salute. Elizabeth era in un certo imbarazzo perchè non sapeva come rapportarsi con quella donna che per lei, purtroppo, era diventata quasi un estranea. Non aveva idea delle aspettative della nuova arrivata, nè quale sarebbe stato il suo atteggiamento. Fu Doroty a mettere subito tutto in chiaro. Non si aspettava nulla. Era immensamente grata alla sorella che l'aveva riaccolta in quella casa, senza condizioni. Riflettendo gran parte della notte, era arrivata alla conclusione che Las Vegas le aveva imposto un prezzo durissimo per ogni pur minima soddisfazione che lei potesse aver avuto. Quel sogno le aveva tolto tutte le cose più importanti per cui vale la pena di vivere ed ora era convinta di non avere quasi più nulla da offrire. Non aveva molti soldi con sè e disse alla sorella che avrebbe provveduto a svolgere ogni incarico necessario, dalle pulizie a piccole commissioni. Elizabeth, commossa, le disse che per lei nulla era cambiato. C'era sempre il negozio e se lei se la sentiva, una brava collaboratrice le sarebbe stata molto utile. Così Doroty, giorno per giorno, riprendeva quella vita che tanti anni prima aveva disprezzato e abbandonato sdegnosa. Si rimetteva in salute, il suo viso si distendeva ed aveva quasi riacquistato quella certa bellezza di cui era stata sempre dotata. La clientela nel tempo era cambiata e nessuno la conosceva per cui non ci furono commenti al suo arrivo nel negozio. Ogni tanto qualche particolare, un motivo musicale, un profumo, facevano riaffiorare dei ricordi di un'altra vita. Ma durava solo pochi secondi. La gente che incontrava ora, era gentile. Non pretendeva nulla di speciale. Era serena. Elizabeth ogni tanto la osservava chiedendosi se il passato non avrebbe trovato il modo di rifarsi vivo, rovinando di nuovo la vita della sorella. Effettivamente Doroty un pensiero lo aveva. Si sentiva sola. Percepiva l'affetto della sorella e anche di altre persone che per un motivo o per l'altro si trovava a frequentare ma lei nel bene o, purtroppo anche nel male, aveva sempre avuto un uomo accanto ed ora questa figura non c'era. Cercava comunque di scacciare questa cosa dalla sua mente un pò perchè temeva di scandalizzare la sorella e poi perchè le ultime esperienze l'avevano talmente ferita che aveva sinceramente paura di poter soffrire ancora. C'era effettivamente un cliente del negozio dai modo gentili, un certo Gabriel Gray, proprietario della vicina officina meccanica G&G, un uomo di circa 55 anni molto ben portati, forte, longilineo, con un bel viso incorniciato da lunghi capelli grigi. Doroty credeva di aver notato da parte sua un certo interesse ma non voleva dare nessun peso alla cosa. Non sapeva nulla di lui e poi, un meccanico...... Non aveva idea di che pensare. Nel quartiere intanto, in quegli anni, si era stabilita una discreta quantità di artisti che avevano creato un certo numero di piccole gallerie d'arte e laboratori artistici. In particolare lungo la Ray Street si contano moltissime attività legate al mondo dell'arte. Doroty aveva preso l'abitudine di frequentare nel suo tempo libero quell' ambiente che le trasmetteva un senso di entusiasmo, di vitalità, di brio. Ogni secondo  sabato del mese c'era la 'Ray Night' ovvero sulla strada dalle 18.00 alle 22.00 tutte le gallerie d'arte restavano aperte, offrendo anche piccoli rinfreschi per invogliare le persone a visitarle. Doroty, in realtà, non comprava nulla ma conosceva un po' tutti e in quelle occasioni, era molto gradita la sua presenza. Lei in quelle occasioni ritrovava un pò di quella vita mondana di cui aveva fatto parte per tanti anni. Fu per lei una sorpresa incredibile, scoprire che in una di queste gallerie, l'artista principale era Gabriel Gray, che esponeva dei mosaici bellissimi. Colori delicati, soggetti fantastici, sensazioni gradevolissime. Rimase quasi senza parole, più che altro per la sorpresa. Improvvisamente prese atto che Gabriel, lontano dalla sua officina, era dotato di un incredibile fascino. Poi, con una certa meraviglia, notò fra le opere, un ritratto a mosaico, incredibilmente somigliante a lei. Confusa da quell'imprevista situazione, non sapeva cosa pensare. Fu lui ad andarle incontro, a presentarla ad alcuni amici e a metterla a suo agio. Doroty in seguito gli disse di essere molto interessata da quel tipo di arte e lui si offrì di insegnarle la tecnica nel suo laboratorio. Si incontrarono spesso, la sera, da quella volta, e scoprirono di essere molto attratti uno dall'altra. Ma Gabriel aveva scoperto la storia della donna e non sapeva come avrebbe potuto reagire alle sue advances. Fu così Doroty che una sera, dopo aver terminato assieme un mosaico che rappresentava una veduta del deserto al tramonto, si decise a prendere l'iniziativa e improvvisamente lo abbracciò e lo baciò. Gabriel che non attendeva altro, ricambiò quel bacio con passione. Poi parlarono a lungo. Avevano molte cose da dirsi e lo fecero. Doroty rientrò a casa quella sera, tardi, allegra come non lo era più, da moltissimi anni. Elizabeth che la vide, intuì qualcosa ma, come al solito, evitò di fare domande. Se la sorella avesse voluto metterla al corrente delle sue vicende, avrebbe scelto lei il tempo ed il modo. Quella notte Doroty andò a letto felice e serena. La sua vita non era finita, tutt'altro. Si addormentò contenta e piena di aspettative con un magnifico sorriso sul viso ora luminoso......  Mark la lasciò così con un volto finalmente sereno e radioso.

Pilota George Barnes, 52 anni

Nella cabina di pilotaggio George Barnes, aggrappato alla cloche, il viso contratto nello sforzo, coperto di sudore, combatteva contro quelle tremende forze della natura che avevano ghermito il suo piccolo aereo. Mark lo toccò su una spalla e subito il corpo del pilota si lasciò andare, si distese, consentendo a Mark di adagiarlo comodo sul sedile, sereno, con gli occhi chiusi.......... Il pilota  aveva rinunciato a programmare una linea di condotta in quella tempesta. Il radar meteo di cui è dotato quell'aereo era in avaria e lui non aveva capito di essere capitato in mezzo al maltempo fino a quando non era stato troppo tardi. Agiva istante per istante, cercando semplicemente di mantenere per quanto possibile l'aereo in linea, mentre tentava di uscire da quell'inferno. Solo così, poteva operare, senza farsi contagiare dal panico che aveva catturato tutti gli altri a bordo. Aveva prestato servizio per 15 anni nell'aeronautica militare. Poi, con il matrimonio, cedendo alle insistenze della moglie, aveva preferito passare all'aviazione civile, con un lavoro più regolare, meglio retribuito e senza improvvise partenze per misteriose missioni. Aveva trovato subito lavoro presso la compagnia Flying Fox Line, con sede a San Diego in qualità di secondo pilota. Poi, seguita la trafila, aveva ricevuto alla fine, la promozione al grado di comandante, addetto alle tratte più importanti. Raggiunti i 50 anni di età, la compagnia gli aveva conservato il grado ma lo aveva trasferito sulle tratte  brevi, con aerei più piccoli. A lui andava bene così. I piccoli aerei gli trasmettevano un senso di libertà, con responsabilità minori. Spesso volava anche senza la hostess. In certi giorni, guardando la zona passeggeri aveva l'impressione di essere solo un conducente di autobus. L'aereo che pilotava più spesso, il Beechcraft B190, aveva infatti solo 19 posti e questo lo escludeva dalla classe degli aerei di linea. Ciò gli permetteva di volare senza secondo pilota e senza personale di cabina. L'aereo era una buona macchina, affidabile e semplice da manovrare. Poteva raggiungere la velocità di 450 Km/h che lo rendeva concorrenziale rispetto ai piccoli jet, per voli entro le 300 miglia. Da un po' di tempo, però, la situazione era cambiata. Alcuni piccoli segnali, solo apparentemente di scarsa rilevanza, gli avevano fatto nascere il sospetto che la FFL per risparmiare, economizzasse un pò troppo sulla manutenzione dei velivoli. Questo lo preoccupò non poco e concorse a fargli perdere l'entusiasmo per il suo lavoro. Più di una volta, aveva preso in considerazione l'idea di mettersi a riposo. La moglie non vedeva l'ora che questo avvenisse. Non avevano avuto figli e lei lo attendeva ogni volta che tornava dal suo lavoro. Per lei il marito, di cui era innamoratissima, era tutta la sua vita. Era molto preoccupante, per lei, vederlo tornare a casa sempre più stanco e inquieto e, anche se lui non le diceva nulla, aveva capito che qualcosa non andava...... Mark gli mise delicatamente una mano sulla fronte..... Quando George Barnes riuscì a far toccare le ruote del piccolo B109 sulla pista dell'aeroporto di San Diego, ancora quasi non credeva alla sua fortuna. Mille volte in quella tempesta si era dato per spacciato. Se quel maledetto radar meteo avesse funzionato, di certo non sarebbe accaduto nulla, invece aveva fatto rischiare la vita a lui e a tutti i suoi passeggeri. Per fortuna, all'improvviso, dopo aver lottato per un tempo che gli era sembrato infinito, aveva intravisto fra le nuvole una porzione di cielo libero, punteggiato di stelle. Immediatamente aveva manovrato in quella direzione, uscendo da quell'inferno. Convinto di trovarsi nei pressi di Palm Springs si rese conto che invece la tempesta lo aveva portato fuori rotta di almeno 40 miglia, facendolo finire nei pressi di Riverside. Contattò immediatamente l'aeroporto di San Diego, da dove un controllore gli fornì una nuova rotta. Atterrò sulla pista dell'aeroporto di San Diego esausto ma soddisfatto. Aveva passato uno dei momenti più brutti della sua vita ma alla fine ce l'aveva fatta a salvare il suo aereo e soprattutto i suoi passeggeri. Aveva però preso la sua decisione. Se la era vista troppo brutta. Parcheggiò l'aereo nella zona prevista e spense tutti i dispositivi prima di lasciare il suo aereo. Alla base della scaletta, trovò la hostess Michelle Sterling che lo aveva aspettato. Lei, che era salita su quel volo in qualità di passeggera, si era resa conto di cosa avevano veramente rischiato e aveva voluto attenderlo per ringraziarlo e salutarlo. Probabilmente per lei quello sarebbe stato l'ultimo volo. Lui ricambiò affettuosamente il saluto rivelandole che anche lui avrebbe abbandonato il lavoro. Quando giunse negli uffici della compagnia, infatti, ascoltò quasi indifferente gli elogi e i complimenti per aver salvato aereo e passeggeri ma, subito dopo, rassegnò le sue dimissioni irrevocabili. Giunse a casa felice e leggero. Quando la moglie lo accolse sulla porta della loro villetta, lui la abbracciò forte, senza parlare. Lei, sorpresa, capì che doveva essere accaduto qualcosa di serio, ma anche che ora doveva essere passato. Così lo lasciò fare anzi, rispose con grande trasporto all'abbraccio del marito. Quella sera parlarono a lungo del loro futuro, fecero progetti, sognarono insieme una vita nuova e diversa. Anzitutto, misero a punto un viaggio che avevano progettato di fare da una vita. Quando partirono, due settimane dopo, sembravano due ragazzini. Felici, visitarono tutte le tappe prestabilite. Curiosi, felici, pieni di entusiasmo. Riscoprirono il loro vecchio rapporto, che con gli anni si era appannato e soprattutto scoprirono che avevano ancora tanto da dirsi. L'ultima sera del loro viaggio, festeggiarono a lungo, pensando già al prossimo. La loro vita ora sarebbe stata piena e felice. Così quella notte, George, con la mente ingombra di sogni e progetti, serenamente si addormentò......  Mark uscì dalla cabina di pilotaggio lasciando un uomo sereno, con un magnifico sorriso sulle labbra.

Edith Head e Walter Neff, rispettivamente 33 e 36 anni

Edith Head e Walter Neff erano marito e moglie. Lei, seduta davanti, era rivolta verso il corridoio, e si protendeva verso il marito, seduto dietro che, forzando contro la cintura di sicurezza, che aveva allacciato secondo le raccomandazioni del pilota, piegato in avanti, le stringeva forte le mani, come a cercare di consolarla. Il viso di lei era disperato, rigato di lacrime. La bocca aperta, come a chiedere un aiuto che il marito non avrebbe potuto darle e lui con il volto preoccupato, la fronte aggrottata, forse cercando di invitarla a stare calma. Mark li toccò sulla spalla. Edith, si rilassò contro lo schienale del suo sedile. Walter rimase piegato in avanti trattenuto dalla cintura. Si tenevano ancora per  mano. I due sposi tornavano da un viaggio sul cui esito avevano nutrito tante speranze. Edith e Walter erano cresciuti nello stesso quartiere a nord della città di San Diego. Lui, da giovanissimo, era stato trascinato da amicizie sbagliate in una brutta direzione. Poi, però, aveva saputo riprendersi e si era messo a lavorare seriamente, in qualità di meccanico di automobili, presso l'officina di un suo zio. Con il passare degli anni l'attività andò sempre meglio finchè lo zio, ritiratosi per limiti di età, lasciò l'officina al nipote che a quel punto, senza pensarci un minuto di più, sposò la sua Edith della quale, in fondo, era stato sempre innamorato. Sarebbe stato tutto perfetto se non per il fatto che non riuscivano ad avere un bambino. Desiderosi di avere figli, avevano avviato le pratiche per una adozione. Dopo tanto tempo e tante prove e insistenze, finalmente li avevano convocati in un piccolo ufficio che si occupava di queste questioni, a Los Angeles. Lì, dopo averli fatti attendere un tempo veramente eccessivo, una coppia di funzionari stanchi e disincantati li ricevette. Purtroppo in quell'ufficio venivano convocate le coppie che, per un motivo o per un altro, non erano state ritenute idonee e i due addetti avevano avuto una dura giornata per aver dovuto spiegare a varie coppie incredule e ostinate i motivi di un rifiuto.  Nel loro caso, si trattava di una scoperta che la commissione incaricata, aveva fatto controllando il fascicolo di Walter. Infatti era stato trovato un documento il quale, purtroppo, attestava che egli nel 1993, all'età di 15 anni, assieme a 2 compagni più grandi di lui, era rimasto coinvolto nel furto di una automobile finito tragicamente con un terribile incidente stradale, legato al fatto che i ragazzi coinvolti erano risultati drogati. Pur con responsabilità ridotta, Walter era stato condannato ad una breve pena detentiva ed ora risultava pregiudicato. Non contava che egli avesse, da quel momento in poi, sempre rigato dritto. Il lavoro nell'officina, poi, grazie all'aiuto e all'impegno della moglie, era stato annesso un negozio che vendeva autoricambi e quindi si era ancora ingrandito, aumentando il suo giro di affari. Con la moglie si conoscevano praticamente da sempre e lei conosceva il passato del marito. Speravano solo che la cosa non avesse conseguenze. Ora invece...... Lei non ce l'aveva con Walter, si rendeva conto che lui era già abbastanza addolorato per conto suo. E ora tornavano a casa, sperando di riuscire a trovare una qualsiasi altra strada per raggiungere il loro fine........Mark posò loro una mano sulla testa.......Scesero dall'aereo ancora tremanti ed increduli di avercela potuta fare. La paura passò comunque presto. Lei disse al marito che la loro tremenda avventura avrebbe potuto essere interpretata come un segnale, un monito del destino di astenersi dall' insistere nel loro intento. Il marito era piuttosto scettico ma poi, visto che la cosa si faceva sempre più improbabile, fece finta di crederci e non ne parlò più. Si gettarono nel lavoro che, forse proprio per questo, andava sempre meglio. Il personale era aumentato e Walter aveva assunto una nuova ragazza che desse una mano a Edith nel suo lavoro. Si trattava di una bellissima ragazza messicana, Isela Reyes. Non aveva avuto il lavoro per il suo prorompente aspetto fisico, ma perchè era veramente brava. Allegra, intelligente, spiritosa, era riuscita a conquistare subito colleghi e clienti. Efficientissima sul lavoro, nella vita privata le piaceva divertirsi, uscire, conoscere. Una sera Edith la trovò che piangeva a dirotto nel cortile del negozio di ricambi. Alla fine, Isela le disse che era incinta e che il padre, un maturo cliente del negozio che le aveva giurato eterno amore, appena saputa la cosa era letteralmente sparito. Isela decise comunque di tenersi il bambino. Purtroppo, ad un certo punto la padrona di casa della ragazza, scoperto che lei era incinta e nubile, la cacciò letteralmente dall'appartamento, dicendo che lei, nella sua proprietà, non voleva delle poco di buono. Quando Edith lo seppe, fu categorica. Andò dal marito e, senza problemi, lo convinse che la loro grande casa, una villa di due piani con parco e piscina, acquistata due anni prima, avrebbe potuto facilmente ospitare una povera ragazza, che fra l'altro, sul lavoro, era quasi divenuta indispensabile. Così Isela si trasferì presso di loro. Ebbe il suo bambino a cui fu messo nome Raphael, era il nome del padre di Isela, e su insistenza dei suoi ospiti, continuò ad abitare presso di loro. Il bambino non era mai solo. Se non c'era la madre, c'erano Edith e Walter, altrimenti una abile cameriera che si occupava normalmente della casa. Il bambino cresceva bene e si era affezionato ai suoi 'zii', come si facevano chiamare. Poi Isela conobbe un altro uomo. Giurò a Edith, che in qualche modo era diventata per lei una specie di confidente, che era quello giusto, che era l'amore vero della sua vita ma........ ma non voleva sentire parlare del bambino che ora aveva tre anni. Chiese il permesso di lasciare il bambino presso la coppia per un periodo di tre mesi. In questo tempo sarebbe andata ad abitare con il suo nuovo innamorato, per capire cosa voleva fare veramente e per cercare di convincere lui ad accettare il piccolo. Marito e moglie si dichiararono immediatamente disponibili con gioia a seguire  Raphael. Walter però era un po' preoccupato per l'atteggiamento della moglie. Non voleva che si affezionasse troppo al bambino che, in fondo, aveva già una madre. Temeva che la situazione potesse cambiare di colpo e non nel modo migliore. In tutto quel periodo la ragazza continuava ad andare al lavoro ma si vedeva che qualcosa non andava per il verso giusto. Appariva sempre stanca, non era più brillante come una volta. Interrogata sulla sua situazione, rispondeva con mezze parole. Una volta Edith disse al marito di aver avuto una fugace visione di quello che sembrava un livido sul braccio di Isela. Per diverse volte la ragazza mancò dal lavoro. Una sera, mentre erano tutti a cena, una telefonata li informò che una giovane donna, seriamente ferita, era ricoverata in ospedale e, prima di perdere conoscenza, aveva dato il loro indirizzo. Corsero in ospedale e trovarono Isela in gravi condizioni, che stava per essere portata in camera operatoria. Con il suo ragazzo avevano avuto un terribile incidente d'auto, in cui lui aveva perduto la vita. L'incidente l'aveva causato proprio lui che, ubriaco fradicio al volante, era andato a sbattere contro un grosso camion in manovra. La ragazza era uscita viva dall'incidente ma aveva riportato, comunque, lesioni di una notevole entità. I coniugi Neff si incaricarono di far fronte a spese e impegni. Inutile dire che la cura di Raphael era al primo posto. Uno dei due coniugi, a turno, si incaricava di portare il piccolo in visita alla madre più frequentemente possibile, appena questo fu consentito. E poi, all'improvviso, quando sembrava che le cose si fossero messe per il meglio, Isela ebbe una crisi violenta e morì nel giro di un paio d'ore. Rapahael, che ormai aveva circa quattro anni, fu informato della cosa con grande cautela e delicatezza. Non pianse ma rimase in camera sua, in silenzio, per un intero giorno. Poi, il giorno seguente uscì dalla sua stanza e fu come se nulla fosse accaduto. Chiese ai suoi zii, con fare sorprendentemente maturo, cosa ne sarebbe stato di lui. Ossia se avrebbe potuto stare ancora con loro o se l'avrebbero portato via. I due coniugi si guardarono e gli dissero che non lo avrebbero mai lasciato. Allora Raphael, consolato, li abbracciò e si strinse a loro a lungo, piangendo. A quel punto, naturalmente,  i due coniugi fecero l'impossibile perchè fosse loro affidata la custodia del bambino. Era nato nella loro casa, era cresciuto con loro ed a loro si era profondamente affezionato. Non risultava ci fossero altri parenti.  Walter questa volta assunse addirittura due avvocati, fra i migliori del ramo e non badò a spese. Alla fine la spuntarono. Raphael era divenuto a tutti gli effetti loro figlio. Il bambino in realtà continuava a chiamarli zii ma a loro stava bene lo stesso. Edith era raggiante e Walter era felice per lei, oltre che naturalmente contento anche per sè. Il ragazzino divenne un bel ragazzo, obbediente, serio e molto attaccato ai suoi genitori adottivi. Walter voleva associarlo all'attività di famiglia che intanto aveva prosperato al di là di ogni previsione. Raphael accettò di buon grado ma chiese tempo per studiare, in modo da poter gestire l'attività con competenza e serietà. Fu ammesso presso l'Anderson School of Menagement, facoltà dell'università di Los Angeles, California, una delle migliori degli Stati Uniti. La sera prima di partire per i suoi studi, Rapahael dopo cena, nel salutare i sui genitori, disse che era loro  incredibilmente riconoscente. Voleva molto bene a tutti e due e non aveva un solo ricordo di quella casa che non fosse bello e piacevole. Loro erano stati per lui meglio di due veri genitori. Lo avevano accolto e lo avevano cresciuto con un affetto infinito. Li abbracciò a lungo, come tanti anni prima, e poi andò a dormire perchè la mattina seguente sarebbe partito prestissimo. Inutile dire che avrebbe trovato Edith e Walter in piedi per un ultimo saluto ed un'ultima colazione assieme prima della partenza. Quella sera i due coniugi andarono a dormire stringendosi per mano. Avevano cresciuto un buon ragazzo. Ora dovevano accettare l'idea che diventasse un uomo. Si addormentarono sereni e contenti, immaginando già quando sarebbe tornato per occuparsi dell'azienda di famiglia e poi, chissà una brava ragazza e ancora forse dei nipotini......Mark si staccò da loro che ancora si tenevano per mano.

John Kellog, 44 anni

John Kellog era schiacciato nel suo sedile, quasi a voler entrarci dentro. Il viso teso, le mascelle serrate con gli occhi chiusi e le mani contratte a stringere i braccioli. Mark gli si avvicinò e gli toccò una spalla..... John smise all'istante di far pressione contro il sedile e si rilassò completamente. Il viso si distese, gli occhi restarono chiusi. Era nato in California, nel 1970 in un paesino di nome Shasta, vicino alle rive orientali del Whiskeytown Lake. All'epoca, l'economia del posto si basava sullo sfruttamento del legname della foresta vicina, prima che fosse, in seguito, protetta con il nome di Shasta Trinity National Forest. L'albero che veniva trattato, era l'abete di Douglas, che forniva un legno molto richiesto perchè adatto ad essere utilizzato in ogni branca delle costruzioni e dell'arredamento. Anche il padre di John lavorava nella segheria che forniva lavoro a gran parte della popolazione locale. Il padre era anche molto abile a scolpire il legno, creando dei bellissimi oggetti, che poi vendeva ai turisti di passaggio. Infatti, l'altra risorsa del luogo, era il turismo. La zona del lago Whiskey era adattissima per gite e partite di pesca. Risalendo per poche miglia il torrente chiamato Crystal Creek, si giungeva alle Crystal Creek Falls, che rappresentavano uno spettacolo incredibile. Seguendo l'hobby del padre, anche John iniziò ad intagliare il legno e, in breve tempo, raggiunse un'abilità che il genitore non aveva mai ottenuto. Le sue opere andavano a ruba ed un commerciante di New York, che era capitato a Shasta in qualità di turista, gli chiese di lavorare per lui su ordinazione. Il padre che era un uomo concreto, non gradiva che qualcuno montasse la testa al figlio e così, John, per non recargli dispiacere, lasciò correre e iniziò a lavorare anche lui nella segheria. Fu messo a 0operare su una macchina che effettuava sul legno delle lavorazioni particolarmente accurate per pezzi semilavorati. A forza di occuparsi di quel macchinario John ebbe un'intuizione per la costruzione di una macchina 'combinata' particolarmente efficace, capace di particolari e molteplici lavorazioni e contemporaneamente piuttosto semplice dal punto di vista meccanico. Si recò a San Diego da suo cugino, Robert, che aveva messo su un'officina per lavorazioni meccaniche. Gli espose la sua idea e questi, fiutato il buon affare, gli propose di costruire il macchinario  in serie. Fu un successo. Ne vendettero un gran numero di esemplari. Robert addetto alla costruzione e John in giro per la promozione e la vendita. Ma poi, con il passare del tempo, furono presentate altre macchine più efficienti. Pur inserendo l'elettronica nel loro macchinario, non erano riusciti a stare al passo con la concorrenza. Gli affari erano andati a rotoli. John aveva cominciato a chiedere prestiti per sopravvivere, con il parere contrario della moglie che cercava di salvare il salvabile. Poi John aveva scoperto che la moglie aveva messo in salvo una piccola cifra, con la speranza di avere una minima sicurezza. Sapendo che c'era un possibile finanziatore per una sua nuova idea, John prese di nascosto il denaro e lo invitò a Las Vegas, per un week end tutto pagato, in uno dei migliori alberghi, con la speranza di convincerlo  a investire nel suo progetto. Quello accettò, fece la sua vacanza a Las Vegas, spendendo i soldi di John, per poi dirgli che la cosa non lo interessava. Questi, a quel punto, disperato, aveva deciso di tornare immediatamente a San Diego, saltando sul primo volo disponibile, sperando che la moglie lo perdonasse..... Mark gli toccò delicatamente la fronte........ John scese dall'aereo ringraziando il cielo di essere ancora vivo dopo quella terribile esperienza. Corse immediatamente a casa ma la moglie, scoperto cosa era accaduto, dispiaciuta, indispettita dall'azione del marito, se ne era andata, senza lasciargli nemmeno un biglietto di spiegazioni. Capì che se lo era meritato e  che la donna non lo avrebbe mai perdonato. Lasciò la sua casa, che ormai non poteva più permettersi, trasferendosi in un piccolo appartamento in un quartiere chiamato Downtown, nella zona a sud della città e riprese a lavorare come semplice operaio per il cugino che intanto, tiratosi fuori in tempo dal fallimento, aveva riadattato la sua officina per le vecchie lavorazioni. La sera John, per non sentire troppo la solitudine, si recava in un bar del quartiere di North Park, attratto dalle tante luci e dalle piccole botteghe degli artisti, ripensando a tanti anni prima, quando ancora ragazzo, si dilettava a scolpire il legno. Fu appunto durante una di queste sere solitarie, che si sentì chiamare per nome da un uomo che egli non riconobbe subito. Poi, capì che era il commerciante di New York, che si chiamava Daniel Cross, che tanti anni prima gli aveva offerto di lavorare per lui. Parlarono un pò, John gli raccontò la sua storia e l'altro a quel punto gli fece la sua proposta. Stava cercando un artista del legno che realizzasse delle statue per un locale di Las Vegas che stava per aprire. Delle statue grandi, impegnative. Gli artisti interpellati avevano chiesto compensi da capogiro ed egli non era autorizzato a spendere cifre così alte. Così, se lui se la fosse sentita, con un compenso modico e se la sua mano era ancora quella di una volta, il lavoro era suo. Vedendo la titubanza di John, lo invitò a provarci, almeno. Le capacità che aveva dimostrato anni prima non potevano essere scomparse. Alla fine John, contagiato anche dall'ottimismo che l'altro era stato in grado di comunicargli, accettò. Così, la sera seguente, si recò in un piccolo laboratorio per la lavorazione del legno dove avrebbe trovato tutto il necessario per effettuare il lavoro e che era stato affittato all'uopo. C'era legname in quantità, attrezzi, macchine, insomma tutto il necessario. Il nuovo locale si sarebbe chiamato 'Aquarius' e quindi le opere dovevano seguire tutte un tema legato al mare. Per il resto, stava a lui scegliere il soggetto o i soggetti. Dopo una serie di schizzi John optò per due statue. Una di una sirena e l'altra di un tritone a grandezza naturale. Presa una licenza dall'officina, iniziò il lavoro con un po' di incertezza per la paura di rovinare i due grandi pezzi di legno scelti ma, con il procedere del tempo, si accorse che le mani avevano cominciato come ad andare da sole con i vari attrezzi, ritrovando quella spinta, quell'entusiasmo e quella capacità che lo riportarono quasi ai tempi della sua giovinezza. Ormai si era gettato nel lavoro completamente. Tornava a casa la sera coperto di segatura e, anche nel sonno, vedeva le procedure per intervenire su quel legno in modo da creare movimenti, espressioni ed effetti particolari. Alla fine davanti alle sue statue completate, si dichiarò abbastanza soddisfatto e chiamò Daniel per informarlo che aveva terminato. Quando Daniel si trovò davanti il lavoro, rimase a lungo in silenzio e poi disse che sarebbe andato a prendere il cliente. Uscì senza aggiungere altro. John non sapeva cosa pensare e rimase sui carboni ardenti finchè non giunsero gli altri due. Daniel entrò ma non si avvicinò. Fece cenno al cliente di avanzare ed osservare il lavoro. Anche lui rimase in silenzio a lungo. E poi rivolto verso John gli disse che non si sarebbe mai aspettato delle creazioni così belle. La forza, il carattere che lo scultore era riuscito ad infondere a quelle realizzazioni era incredibile. Sembravano vive. Era come se in tutti quegli anni il talento celato di John, si fosse accumulato ed ora fosse esploso tutto insieme per creare quei due capolavori, come insisteva a chiamarli il cliente. Anche Daniel che ora si era avvicinato disse che la prima volta che aveva visto il lavoro, era rimasto senza parole per l'emozione. La sera dell'inaugurazione, le statue furono disposte nell'ingresso del locale, arricchite da un sapiente gioco di luci. Furono molto ammirate e parecchie persone vollero sapere chi fosse quell'artista così pieno di talento. Ricevette altre ordinazioni e, senza accorgersene, si trovò totalmente immerso nel lavoro. Malgrado il suo successo, aveva sempre una grande nostalgia per la moglie che, da quella sera sciagurata, non aveva più avuto il coraggio di cercare.  Poi, timidamente, saputo dove si trovava, aveva fatto dei cauti tentativi per ricontattarla. Lei, trattandolo molto freddamente gli aveva fatto capire che le cose non erano cambiate. L'aveva delusa e ormai non c'era più nulla da fare. In realtà anche lei, dopo quel gesto di rottura, di certo più che motivato, a volte si era pentita ma non voleva tornare sui suoi passi e aspettava che fosse il marito a prendere l'iniziativa. Alla fine, convinta anche da amici comuni, una sera, all'improvviso, si presentò al laboratorio dicendo che certe cose non cambiano mai. Cosa era tutto quel disordine e quella sporcizia? John non credette ai suoi occhi. Sua moglie era lì. Era tornata! Si abbracciarono forte e a lungo. Lui rideva e piangeva, era felice. Alla fine erano tutti e due ricoperti di segatura. Riprese così la loro vita insieme. Così come, insieme, tutti i giorni, si recavano al laboratorio dove John, sempre pieno di lavoro, scolpiva di tutto e la moglie badava alla contabilità e all'organizzazione dell'attività. Poi un giorno Daniel si fece vivo con una proposta incredibile. Se fosse stato disposto, lui gli avrebbe organizzato una mostra personale a Las Vegas, dove la sua fama l'aveva già preceduto. Accettò, naturalmente, e la mostra, che si tenne nel salone di un importante casinò, fu un successo. Vendette ogni cosa ai prezzi che aveva fissato Daniel, che erano piuttosto esosi. Quella sera festeggiarono tutti assieme e la moglie approfittò per comunicargli che forse avrebbe dovuto insegnare a scolpire il legno anche al bambino che stavano aspettando. John non poteva avere notizia migliore. Che serata! La mostra conclusa al meglio, proposte di lavoro da ogni parte, una bella moglie, che lo amava da sempre, ed ora anche un figlio! Cosa poteva chiedere di più? Quella sera con la moglie andarono a dormire abbracciati stretti stretti. La vita era stata buona con loro ed ora tutto sarebbe andato sempre meglio. Con questo magnifico pensiero John si addormentò.......Mark lo lasciò gentilmente al suo magnifico sogno.

 

Mara Freeman, 22 anni

Mara Freeman, curva in avanti con le mani strette a pugno, premute contro il mento. Gli occhi sbarrati, velati di lacrime, lo sguardo fisso al pavimento, forse presa in una disperata preghiera. Mark la toccò sulla spalla. Gentilmente le staccò le mani dal viso, le depose le braccia sui braccioli e la fece distendere comoda sul sedile con gli occhi chiusi. Delicatamente le tolse i capelli dal viso. Ora il volto aveva un espressione serena. Mara era nata a San Diego da una famiglia abbastanza agiata. Abitava nel quartiere di Point Loma ed essendo cattolica, frequentava la vicina chiesa di "Our Lady of Rosary". Entrò presto nel coro ed emerse subito per le sue innate doti canore. Crescendo coltivò la passione del canto con successo. Il fratello della madre, impiegato presso il casinò Caesar Palace di Las Vegas le raccontava continuamente della magnificenza, dello splendore, della bellezza degli spettacoli dei teatri di quella città. Alla fine Mara, che non faceva che sognare gli scenari che lo zio le raccontava, che divorava tutti gli articoli delle riviste specializzate, decise che quella era la strada che faceva per lei. Anche lei avrebbe cantato e si sarebbe esibita dove avevano trovato la fortuna stelle del calibro di Diana Ross, Cher, Judy Garland, Gloria Estefan e tante altre. Sfidando il parere della famiglia, partì, portando con sè alcuni risparmi che le avrebbero consentito di sopravvivere mentre cercava la sua occasione. Capì subito che non sarebbe stato facile. La concorrenza era spietata e con avversarie disposte a tutto. E poichè lei disposta a tutto non era, alla fine fu costretta, almeno per sopravvivere, ad accettare ruoli di ballerina di seconda fila. Partecipava a tutte le audizioni per cantanti possibili. Era brava, sì, ma alla fine le mancava quella spigliatezza, quella spregiudicatezza che nell'ambiente veniva ritenuta essenziale. Dopo due anni di questa vita, alla fine l'occasione arrivò. Le dissero che proprio nella sua città, San Diego, presso il Balboa Theatre, che per ironia della sorte era vicino a casa sua, stavano mettendo in scena un musical e cercavano persone con le sue doti e le sue caratteristiche. Con la speranza di avere una parte, Mara era salita sul primo aereo per San Diego...... Mark, con dolcezza, le poggiò una mano sulla fronte........ All'aeroporto trovò ad aspettarla i genitori che, saputo cosa era successo in cielo, si stavano riprendendo dall'ansia provata per lei. Si abbracciarono tutti a lungo, consapevoli che avrebbero potuto non vedersi più e poi, subito a casa, dove aspettavano altri parenti ed amici. Fu una bella festa. Nessuno accennò al fatto che forse, visti i risultati, Mara avrebbe potuto starsene tranquillamente a casa. La vita era la sua e lei aveva fatto una sua scelta. Anzi, tanto di cappello, per il fatto che lei aveva tenuto duro, senza scendere a compromessi. Il giorno seguente si presentò alle audizioni presso il Balboa Theatre dove trovò molte altre pretendenti ai vari ruoli. Il musical che avrebbero messo in scena era 'Sette spose per sette fratelli'. Fu scelta ma non, come aveva sperato, per il ruolo di Milly Pontipee, la moglie di Adamo, il primogenito, ma per il ruolo di Dora, la ragazza che poi sposerà Beniamino, uno degli altri fratelli. Era comunque una bella parte e lei la interpretò al meglio delle sue possibilità, Fu un successo. Dopo la prima serie di rappresentazioni previste, la produzione decise di replicare lo spettacolo per altri tre mesi confermando tutto il cast. Una sera Mara fu avvicinata da un bel giovanotto che le disse di essere un collaboratore della Music Coronado Record, una nuova casa discografica che apparteneva ad un gruppo che gestiva anche due stazioni televisive locali via cavo e quattro emittenti radiofoniche. Era alla ricerca di nuovi talenti e le chiese se se la sentiva di partecipare come cantante solista ad una trasmissione dedicata alle nuove scoperte. Mara accettò con entusiasmo. Visti i risultati, le fu chiesto di incidere alcune canzoni che vennero poi trasmesse dalle emittenti radiofoniche. Ebbe subito un discreto successo e quindi dopo breve tempo incise un altro CD e venne messa sotto contratto con condizioni molto favorevoli. Aveva rincontrato più volte il giovanotto che l'aveva contattata all'inizio della sua avventura. Si chiamava Mike, era un bel ragazzo e. malgrado l'ambiente che frequentava, sembrava 'pulito'. Fu quasi naturale che fra i due sbocciasse una relazione. Mara era contenta. Cantava le sue canzoni e tutte quelle che una equipe di autori scriveva per lei, Sembrava che ogni cosa che cantasse  aveva successo e quel che più contava, si vendeva. Cominciarono ad arrivare parecchie offerte da parte di diverse ditte che le proponevano di diventare la loro testimonial. Purtroppo i tanti impegni non consentivano a Mara e a Mike di vivere serenamente la loro storia che anzi, proprio per questo venne messa più volte a dura prova. Le cose proseguirono così per circa un anno, finchè la Music Coronado Record, si trovò ad essere assorbita da una grossa organizzazione del settore che aveva filiali in tutta la California, la Double Raimbow Record con sede a Los Angeles.  Il nuovo proprietario, di nome Lester Lee,  volle conoscere di persona i vari dipendenti del ramo artistico. Si trattava di un vecchio musicista dalle doti  artistiche molto discusse che sembra avesse trovato altre strade per fare carriera. Aveva stretto strane amicizie in certi ambienti e si diceva che si occupasse di molte altre attività non tutte particolarmente oneste. Quando vide Mara, la invitò immediatamente a cena nella sua villa, con il pretesto di ridiscutere il contratto. Fu subito chiaro alla ragazza che il nuovo capo aveva nei suoi confronti dei progetti che nulla avevano a che fare con la musica e le sue canzoni. Alla fine, alle advances sempre più pressanti dell'uomo, fu costretta a rispondere con un sonoro ceffone. Per fortuna, riuscì a scappare indenne riparando spaventata e molto amareggiata a casa del suo ragazzo, Mike. Dopo qualche giorno ebbe notizia che il suo contratto, era stato riesaminato e modificato in modo da essere assolutamente inaccettabile. Seppe inoltre, da un avvocato che seguiva gli interessi della nuova proprietà, che se non avesse accettato, non avrebbe  più  cantato nemmeno agli angoli delle strade. Lei, non si dette per vinta. Non accettò le nuove condizioni e decise invece di sposare il suo Mike. Durante la sua pur breve carriera aveva guadagnato quel tanto per non avere preoccupazioni finanziarie per un bel pezzo. Mike, inoltre, che non era direttamente interessato alla faccenda, lasciò di sua spontanea volontà la Double Raimbow Record e trovò un buon lavoro in una società di Los Angeles. Comprarono una bella villa in riva al mare sulla spiaggia di Santa Monica. Nello spazio di due anni ebbero due bellissimi bambini, un maschietto ed una femminuccia. Mara aveva scoperto di essere capace di scrivere musica e compose delle magnifiche canzoni che vennero interpretate anche da gruppi importanti grazie anche alle amicizie di Mike. La vita della famiglia proseguiva con belle soddisfazioni sia dal punto di vista dei sentimenti che per la parte lavorativa. Quando i due bambini giunsero all'età di quattro e cinque anni, Mara e Mike accettarono l'invito di un importante gruppo musicale che aveva accettato di esibirsi su una nave della compagnia Dream Lines, di accompagnarli in crociera. Mara si sarebbe presa anche l'incarico di riarrangiare per loro alcune canzoni di successo scritte da lei. La sera del debutto a bordo, il capo del gruppo musicale, durante il numero ringraziò pubblicamente Mara per il suo lavoro di compositrice e insistette per farla salire sul palco. Dopo molte resistenze alla fine lei accettò e accettò anche di cantare con gli altri. Fu un successo. Molti degli spettatori, che l'avevano riconosciuta, chiesero con insistenza che si esibisse per loro con alcune delle sue vecchie canzoni. Fu una serata incredibile. Per un attimo le sembrò che il tempo non fosse passato. Gli applausi le fecero molto piacere ma tornò presto alla realtà nella sua veste di madre felice. Aveva già tutto quello che poteva desiderare. Invece, mentre il giorno seguente era con la sua famiglia sul ponte di passeggiata, fu avvicinata da due signori di mezza età, molto distinti. Dissero di essere stati moto colpiti nel ritrovarla quasi per caso a bordo della nave. In realtà qualcuno aveva parlato loro proprio di lei in tempi recenti. Erano due importanti personaggi del mondo del cinema di Hollywood, che in quel momento avevano deciso di prendersi una vacanza quasi in incognito. Però, di recente, qualcuno aveva ventilato l'idea di produrre un film sul mondo della musica con un personaggio femminile che perfettamente si adattava alle caratteristiche di Mara. Anzi, uno degli autori aveva espressamente affermato che sarebbe stato l'ideale se qualcuno avesse potuto consultarla in merito. Ai due funzionari era sembrato un segno del destino essersi trovati su quella nave ed avere potuto assistere a quel numero fantastico della sera prima. Mara rimase naturalmente molto colpita dalla proposta, valutando che ora aveva una famiglia e molti altri impegni. I due uomini però insistettero, dicendo che pur di averla, le avrebbero fatto un contratto incredibilmente favorevole. Avrebbe avuto tempo per tutti i suoi impegni??, a partire dalla famiglia. Sarebbe stata lanciata di nuovo nel gran mondo dello spettacolo e a quel punto le si sarebbero potute aprire tutte le porte che avesse voluto. Mara accettò di andare a parlare con loro, una volta finita la crociera e sistemate alcune sue cose. In realtà aveva già tutto quello che aveva sempre desiderato. Un bravo marito innamorato, due magnifici figli, soddisfazioni nel campo lavorativo e tanti amici che l'apprezzavano e le volevano bene. Ci avrebbe comunque pensato. La sera fu di nuovo invitata ad esibirsi e lei lo fece con gioia e nuovo entusiasmo. Fu un successo incredibile. Quella sera, dopo aver messo a letto i due bambini, andò a dormire serena e felice. Non poteva desiderare di più dalla vita. Ora poi anche un progetto nel cinema. Così pensando alla musica delle sue canzoni, Mara serenamente si addormentò........ Mark la lasciò tranquilla e sorridente.

Ralph Dowson, 57 anni

Ralph Dowson era seduto, sporto in avanti sul suo sedile, parzialmente girato verso il passeggero dietro di lui. Il braccio sinistro, fissato con le manette al sedile, era sollevato ed evidentemente stava chiedendo all'altro, il poliziotto di scorta, di liberargli il polso. Mark si avvicinò e lo toccò su una spalla....... L'uomo si lasciò andare tranquillo sul sedile, le braccia abbandonate sui braccioli, il volto sereno, gli occhi chiusi. Ralph era stata una promessa del basket fin dai tempi delle scuole superiori. La sua famiglia, originaria della cittadine di Bend, contea Deshutes, in Oregon, si era trasferita a San Diego nel 1971, per motivi di lavoro del padre. Non disponendo di molti mezzi, ameno all'inizio, la sua famiglia andò ad abitare nel quartiere di Downton, nella zona sud della città. Ralph fu quindi iscritto nella vicina scuola superiore che era la San Diego High Educational Complex che era, fra l'altro, l'istituto superiore più antico della città. A parte un profitto medio, egli si fece immediatamente notare per l'incredibile capacità nel gioco del basket. Nella squadra della scuola vinse numerosi tornei. Nel 1976 passò al college di San Diego perchè la famiglia non poteva permettersi di inviarlo in università più prestigiose. Era comunque una eccellente istituto. Nella squadra dell'università cominciò a farsi notare, fornendo un validissimo contributo e trascinando i compagni a vincere il campionato fra atenei della costa ovest. Fu notato dagli osservatori del San Diego Clippers, la squadra locale, e fu contattato per un ingaggio non eccezionale, ma che avrebbe potuto essere i suo trampolino di lancio negli ambienti che contavano. Ralph, con l'impazienza caratteristica dei giovani, contro il parere della famiglia, che voleva che terminasse gli studi, accettò. Le cose per la formazione non andarono molto bene e perciò non riuscì, almeno all'inizio a raggiungere quegli obiettivi che si era prefisso. Nel 1982 la squadra fu ceduta per 20 milioni di dollari a Donald Sterling, un affarista di Los Angeles. Questi, nel 1984 decise di trasferire tutta la squadra a Los Angeles e di cambiarle il nome in Los Angeles Clippers. Fu a questo punto che le cose iniziarono a girare per il verso giusto. La squadra andava forte e i migliori giocatori, fra cui naturalmente anche Ralph, cominciarono ad essere sempre più quotati. All'inizio del 1985, mentre cercava una abitazione che soddisfacesse le sue aspettative di uomo ricco, conobbe una abile agente immobiliare che lo consigliò per il meglio, facendogli acquistare una bella casa a condizioni molto convenienti. Ralph rimase molto colpito da quella bella ragazza decisa, capace e brillante. Se ne innamorò e lei ricambiò il suo sentimento. Nel dicembre del 1985, dopo un serrato corteggiamento, la sposò  e l'anno successivo divenne padre di una bellissima bambina. Da circa un anno Ralph era stato contattato dai funzionari dei  Los Angeles Lakers, la squadra rivale dei Clippers ma che si muoveva su un livello ben diverso. Egli, legato con un contratto alla squadra attuale, ancora per un anno, al suo scadere, senza nemmeno pensarci un attimo, passò alla squadra rivale. Questo naturalmente gli costò molto in termini di popolarità, ma quando l'anno successivo, la Los Angeles Lakers vinse, anche per merito suo la Pacific Division (era la quarta volta consecutiva) tutto fu dimenticato in fretta. Iniziò a guadagnare cifre da capogiro. Tutto andava per il meglio. Avrebbe giocato ancora per qualche anno e poi si sarebbe ritirato in bellezza. Alla fine della stagione 1987-88, nell'ultima partita per la vittoria della Pacific Division contro i Detroit Pistons, Ralph si infortunò seriamente al ginocchio destro. La sua squadra vinse la partita ma, per lui, il gioco era finito. Le speranze di riprendersi in fretta svanirono presto. Nei primi tempi la squadra gli fu molto vicina ma, con l'andar del tempo, emersa la gravità della situazione, dovuta anche alla non verde età di Ralph, le cose cambiarono. La squadra naturalmente partì immediatamente alla ricerca di un valido rimpiazzo e il giocatore infortunato fu lasciato da parte. Invece di arrendersi alla realtà, Ralph, iniziò a cercare di recuperare le proprie capacità facendo ricorso a quanto di meglio disponibile in campo medico, ma con scarsissimi risultati. Quando, alla fine, anche la sua assicurazione terminò di sovvenzionarlo, fu necessario per lui accettare la realtà e fare il punto della situazione. Di giocare, almeno a livello agonistico, non se ne parlava più. Finanziariamente non avrebbe avuto particolari problemi, purchè si fosse gestito con prudenza. A questo ci aveva pensato la moglie che, paventando quello che poi sarebbe successo, aveva gestito la loro situazione con oculatezza. Inoltre non aveva mai abbandonato il suo lavoro che le fruttava un discreto guadagno. Purtroppo Ralph non si rassegnava a quanto gli era accaduto. Era vero che aveva previsto di fermarsi di lì a poco, ma non accettava come erano andate le cose. Divenne irrequieto, cominciò a bere. Tramite conoscenze, gli fu offerto di aiutare l'allenatore della compagine giovanile della squadra. In verità il titolare era una vera frana ed era stato messo a quel posto per far piacere al fratello, un politico locale. Dapprima rifiutò. Gli sembrava che gli stessero offrendo la carità. Ma poi, scoprendo che avrebbe avuto mano libera, in quanto il titolare, di norma,  non partecipava agli allenamenti, accettò, se non altro per stare a contatto con la squadra. Certo, ogni volta che vedeva giocare i suoi ex compagni, si deprimeva e poi immancabilmente si prendeva una bella sbronza. Ma la sua squadretta andava veramente bene e, in capo ad un anno, passò al ruolo di allenatore titolare. Sembrava tranquillo. La moglie lo vedeva più disteso e con piacere notava quanto fosse attaccato alla loro bella bambina che ora aveva 4 anni. Poi fu contattato da un rappresentante di una nuova squadra di Phoenix, la Dust Davils, che voleva insidiare il primato all'altra squadra cittadina, la più affermata e famosa Phoenix Suns, in attività dal 1968. L'occasione era grossa. Il compenso di più. Malgrado il malcontento della moglie, Ralph accettò. Propose però alla moglie di non seguirlo nella sua trasferta. Lei aveva il suo lavoro, la bambina, la sua scuola e le sue amicizie. Magari il lavoro non sarebbe andato a buon fine e lui, al termine della stagione sarebbe ritornato. Partì entusiasta e iniziò il suo lavoro con successo.  Purtroppo, dopo due mesi di lontananza da casa, conobbe la caposquadra  delle cheerleaders, Nora Rayen. Una biondina, con un bel fisico, simpatica, spiritosa e molto provocante. Lei, letteralmente, lo conquistò, e lui si dimenticò completamente della famiglia per pensare solo a lei. Naturalmente la ragazza pretendeva molte attenzioni e soprattutto molti regali. Ralph la scusava con il fatto che era giovane, piena di entusiasmo, ingenua. A nulla valsero le parole dei pochi amici che aveva, che cercarono di farlo ragionare. Troppo tardi. Aveva perso completamente la testa. La moglie amareggiata e offesa,  gli disse di non farsi più vedere nè da lei, nè dalla bambina. Lui, effettivamente non trovò il coraggio di cercare un accomodamento, soprattutto perchè si rendeva conto che a causa della differenza di età, il suo rapporto con Nora, poteva passare per ridicolo, se non addirittura per grottesco. I soldi per portare avanti la sua relazione sugli attuali ritmi non gli bastavano mai e, in breve, si era riempito di debiti. Fu quasi naturale che dopo poco tempo, visto che la sua situazione finanziaria era conosciuta ormai da molti, fosse avvicinato da sinistri individui che gli proposero di influire un pò sui risultati delle partite, ricevendo ingenti somme. Fu naturale da parte di Ralph un immediato rifiuto. Ma gli altri che conoscevano la sua situazione, non ebbero fretta e alla fine lo convinsero. All'inizio fu penoso e difficile, poi fu tutto più facile. Scoprì che anche membri della squadra erano già nel giro. La cosa che lo mise completamente a terra fu scoprire che Nora era anche lei nell'organizzazione e che probabilmente aveva finto di amarlo solo per portarlo nel giro di quei delinquenti che ormai lo tenevano in pugno. E poi, naturalmente, tutta la storia venne a galla. Al momento dell'arresto, capì che la festa era finita. Stranamente non provò dolore, angoscia, per quello che gli stava accadendo. Al contrario. Fu quasi un senso di liberazione. La giovane moglie, come previsto da tutti i suoi amici, prese immediatamente le distanze. Prese anche tutti i soldi che riuscì a rastrellare e sparì indignata, minacciando di fare causa per danni subiti alla sua immagine. Ralph restò quasi indifferente, apatico, come se la cosa stesse accadendo ad un altra persona. Aveva fatto tutto da solo. Aveva perduto, per sua colpa, le cose più importanti della sua vita. La moglie, la figlia e soprattutto la stima in sè stesso, la sua dignità. Quindi cosa altro gli potevano fare? Alla sua età non si faceva più illusioni. Era convinto di non avere più nulla da dire. Quindi, senza pensarci due volte, si accollò la responsabilità totale di tutto ciò che era accaduto all'interno della sua squadra. Pensò che i giocatori coinvolti erano tutti giovani. Se avessero appreso la lezione, si sarebbero rimessi sulla retta via. La legge non ci andò quindi leggera. Il processo fu breve e il giudice gli inflisse 8 anni di prigione da scontarsi nell'istituto penale della Contea di San Diego. Il suo avvocato gli disse che era stato fortunato. Il sovraffollamento carcerario della California lo aveva salvato da famigerati istituti, tipo Folsom o Corcoran, veri inferni, dove, di solito, venivano inviati i detenuti condannati per il suo reato, almeno per i primi due anni di detenzione.  Ralph, che ormai credeva poco alla fortuna, prese la notizia con indifferenza, come se la cosa non lo riguardasse. Ormai era vecchio e aveva fatto soffrire troppe persone. Che gli succedesse pure quello che volevano. Decise che non gliene importava nulla. Fu comunque grato per il fatto che per l'ultimo tragitto da uomo libero, avessero deciso di usare un aereo. Volare gli era sempre piaciuto molto........ Mark gli sfiorò delicatamente la fronte......... Sceso dal piccolo aereo dove, assieme agli altri passeggeri, aveva passato momenti estremamente drammatici, trovò la macchina della polizia con due agenti ad attenderlo. Il compito dell'anziano poliziotto che lo aveva scortato, terminava lì. Firmate le carte previste per il passaggio di responsabilità, il suo accompagnatore lo salutò ed egli lo ringraziò di cuore per avergli tolto le manette nel momento più pericoloso del volo. I due agenti che lo avevano preso in custodia, lo richiamarono bruscamente alla realtà e lo fecero salire in fretta sull'auto di servizio, dopo averlo riammanettato. Per loro era solo un delinquente come gli altri e, come tale, doveva essere trattato. Subì come in trance tutte le azioni previste per il suo ingresso in carcere e, quasi senza accorgersene, si trovò in cella. Per lui era stato previsto l'isolamento per i primi sei mesi. Per tutto quel periodo, vide solo degli agenti che svolgevano i vari servizi e lui si limitò a mangiare, dormire, usufruire della sua ora d'aria quando glielo dicevano 'loro'. Intanto nelle lunghe ore in cella si era studiato il regolamento della prigione, come gli avevano raccomandato di fare per non 'avere guai' e poi ripensava e riviveva degli episodi salienti della sua vita. Riviveva le prime partite, il momento del successo, la sua famiglia e poi il declino. L'incidente, i compromessi, la perdita dei suoi cari, le sciocchezze fatte per quella ragazza. E poi la vergogna, la perdita della stima degli altri. Al termine dell'isolamento lo sistemarono in una cella in compagnia di un ragazzo cupo e taciturno che, semplicemente, ignorò la presenza del nuovo arrivato. Non che Ralph ci tenesse molto a far conversazione, ma, stranamente, quella condizione gli pesava più di quanto volesse ammettere. Chissà cosa racchiudeva dentro di sè quel ragazzo così particolare. Sapeva anche che si chiamava Thomas Ross, che aveva 23 anni e che era dentro condannato a vita. Potè anche ricevere visite. Non che ne spettasse ed inoltre non le avrebbe gradite, poichè non voleva farsi vedere nella veste di carcerato da nessuno della sua vecchia vita. Rimase comunque colpito, nel ricevere la visita del suo vecchio amico Alfred Razzini, dei tempi dell'università, che non l'aveva mai dimenticato, anche quando tutti gli altri avevano preso ampiamente le distanze da lui. Gli parlò di quello che era successo di fuori. Gli disse che la sua storia aveva fatto scalpore solo per il tempo del processo. Poi, come succede, la gente aveva presto dimenticato. Gli aveva portato una cosa che per Ralph aveva un valore inestimabile: la foto della sua bambina che ora aveva sei anni. Gli altri carcerati lo lasciavano in pace. Forse lo avevano riconosciuto o forse no. Nessuno aveva mai tentato di avvicinarlo o di parlargli. Durante l'ora d'aria in cortile Ralph rimaneva spesso per conto proprio, finchè si accorse che il suo compagno di cella, non gli stava mai molto distante, quasi che fosse per lui un punto di riferimento. Come a riconoscere che non parlava con lui ma che ammetteva di avere nei suoi confronti un particolare tipo di rapporto. Nel cortile c'erano in un angolo, alcuni attrezzi sportivi e anche un campetto con due canestri per giocare a basket. Alcuni detenuti si allenavano facendo palleggi e tiri ma senza impegnarsi a giocare partite vere e proprie, perchè, per motivi di sicurezza, le guardie scoraggiavano sfide e contrasti fra i detenuti del carcere. Anche in questo luogo, come negli altri, i detenuti erano divisi in bande che avanzavano pretese su ogni possibile azione, compatibilmente con il livello di severa disciplina della struttura e quindi ogni occasione poteva essere buona per scatenare risse fra gruppi. Ralph passava molto tempo a fissare quei due canestri che gli raccontavano tante storie, belle e meno belle. Più che altro sentiva molto la mancanza della sua bambina ma ormai il danno era fatto. Non avrebbe potuto mai frequentare un padre ex galeotto, per cui si convinceva che non l'avrebbe più rivista. Si accorse alla fine che, sempre assolutamente in silenzio, a fianco a lui veniva a sedersi il suo compagno di cella. Una mattina come per caso, il pallone da basket, finì fra i suoi piedi. Sentì i richiami degli altri che chiedevano di riaverlo. Ralph, quasi senza accorgersene, lo raccolse e mentre lo teneva fra le mani, percepì una strana sensazione, come se quell'oggetto gli stesse trasmettendo una strana tremenda energia. Quasi senza rendersene conto accennò un palleggio e tirò direttamente al canestro distante molti metri. E lo centrò! Inutile dire che gli altri detenuti rimasero molto colpiti. Uno dei presenti, raccolto il pallone, glie lo porse di nuovo, invitandolo a ripetere il tiro per capire se era stato un caso o se era veramente bravo. Come in sogno, accennò dei semplici palleggi, constatando di avere ancora padronanza nei movimenti. Poi azzardò di nuovo qualche tiro al canestro. Prima forse un po' incerto, ma poi, quasi che avesse aggiustato le misure, cominciò ad infilarne uno dietro l'altro. E riprese a fare  palleggi complicati,  tiri da lontano. Si sentiva bene, era libero, era forte, non era più lì, sentiva gli urli della folla, gli applausi del suo pubblico. Dei ripetuti colpi di fischietto e delle grida lo richiamarono bruscamente alla realtà. Durante la sua performance gli altri detenuti del cortile, come attratti da quello spettacolo magico, senza rendersene conto, si erano radunati attorno al campo, e ad ogni tiro di Ralph, gridavano e esultavano per quell'incredibile inatteso spettacolo. Erano le loro urla, che Ralph aveva scambiato per quelle del suo pubblico. Le guardie, che per un breve attimo, erano rimaste anche loro rapite da quello spettacolo di velocità, leggerezza e precisione, inaspettate in un detenuto 'infagottato' in una pesante tuta sformata e apparentemente piuttosto anziano, si resero però presto conto della pericolosità della situazione rappresentata da tutta quella gente esaltata e radunata, contro tutti i regolamenti del carcere. Si gettarono fra i detenuti in modo brusco, disperdendoli violentemente e, quando raggiunsero Ralph, che uscito dal suo sogno, era rimasto fermo e frastornato, lo presero per le braccia con violenza e, strattonandolo, lo trascinarono nel fabbricato del carcere, per sbatterlo senza tanti complimenti nella cella di isolamento. Erano convinti che egli avesse agito intenzionalmente, ed ebbero il loro bel da fare per l'atteggiamento dei prigionieri, che protestavano in vari modi contro il loro intervento che aveva interrotto quel fantastico spettacolo. Al funzionario che esaminava i casi di indisciplina e insubordinazione nel carcere, Ralph spiegò cosa era veramente accaduto quel giorno. L'uomo, colpito dal modo appassionato e sincero  del detenuto, capì la situazione e lui se la cavò con solo 10 giorni di isolamento. Durante quel periodo però, all'inizio senza dargli nessuna importanza, poi valutando che invece fosse da prendere in considerazione, aveva preso atto di quanto era accaduto durante la sua folle performance. E la cosa gli aveva dato parecchio da pensare. Doveva però stare attento. Se avesse sbagliato ad agire avrebbe potuto perdere il diritto alle visite, con il rischio che il suo amico Alfred, che lo andava a trovare regolarmente, non gli avrebbe più portato notizie della figlia. Tornò in cella con una vaga idea in testa ma chiaramente non si doveva fare illusioni. Quando il ragazzo gli chiese se lui veramente era Ralph Dowson dei Los Angeles Lakers, credette di aver capito male ma poi realizzò che aveva sentito bene. Il ragazzo stava parlando con lui! Gli disse infatti che era stato un fan accanito dei Los Angeles Lakers. Gli ricordavano un periodo in cui conduceva una vita normale ed era stato felice. Poi, una sera di cinque anni prima, mentre tornava a casa assieme ai genitori e alle due sorelle, dopo aver partecipato ad una festa, si erano trovati per caso sulla linea di fuoco di una sparatoria fra gang rivali. La madre e le due sorelle furono uccise. Il padre e lui erano rimasti gravemente feriti. Superato il dolore delle ferite e della grave perdita, seguì un'altra amarissima delusione. Tutti sapevano chi era stato ad uccidere, ma nessuno faceva nulla di serio per intervenire. I responsabili si erano saputi coprire con delle efficacissime protezioni. Dopo aver riflettuto a lungo e mentre osservava il padre che non riusciva a riprendersi, distrutto dal dolore, decise di agire personalmente. Pensò molto al modo di procedere. I colpevoli dovevano pagare e dovevano soffrire come era successo a loro. Si sapeva che i responsabili del delitto avevano il loro quartier generale in una villetta alla periferia della città. Studiò a lungo la situazione e prese atto che spesso, la notte, in quella costruzione, si svolgevano veri e propri festini a cui partecipavano tutti i membri della banda, sapendo che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di sfidarli in casa loro. Una sera, alla fine, dopo aver messo freddamente a punto un piano, prese il fucile del padre e tutte le munizioni che riuscì a trovare. Presso un distributore self-service, empì tre taniche di benzina da 10 litri ognuna, poi si recò dove era la casa nella quale si riuniva la gang che aveva distrutto la sua famiglia. Attese in automobile che tutto il gruppo che gli interessava fosse entrato. Con il passare delle ore si udiva la musica e le grida delle persone all'interno che si divertivano, si ubriacavano o si 'facevano'. Dalle voci sentì che c'erano anche delle ragazze. Tanto peggio, si ricordava che erano presenti anche loro sulla scena della sparatoria. Quando si rese conto che la festa era al culmine e nessuno lo avrebbe notato, uscì dalla macchina e con le taniche di benzina, metodicamente, bagnò tutti le pareti di legno del fabbricato. Poi con freddezza, accese il fuoco. Mentre le fiamme divampavano, di corsa, andò ad arrampicarsi su un albero poco distante dove, in un sopralluogo effettuato pochi giorni prima, aveva individuato un posto sui rami, da cui poteva dominare tutta la scena. Presto si udirono le urla degli occupanti della casa che, nel giro di un paio di minuti, si erano trovati circondati dal fuoco senza via di scampo. Alcuni degli uomini, nella disperazione, si gettarono contro le finestre solo per trovare ad attenderli le fucilate del ragazzo che non sbagliava un colpo. La casa bruciò come uno zolfanello e i pompieri, che erano arrivati troppo tardi per qualsiasi intervento, avevano trovato il ragazzo che osservava la scena seduto sul marciapiede di fronte. Il fucile era a terra davanti ai suoi piedi. Quando giunse la polizia, si lasciò arrestare e da quel momento non disse più una parola. Aveva ucciso 18 persone. Praticamente tutta la gang della zona. Il giudice fu molto dubbioso se inviarlo in carcere o in un manicomio criminale, poi, considerando la gravità del reato, malgrado  la giovane età, optò per la prima soluzione. Thomas raccontò la sua storia a Ralph di getto. Disse che alla fine della sua vendetta non aveva provato la soddisfazione che si era aspettato ma che anzi l'amarezza lo aveva sommerso. Aveva perduto in quel modo anche la sua vita. Era come se fosse stato ucciso anche lui. I veri responsabili, quelli che avevano coperto i criminali, erano ancora liberi e tranquilli ed ora egli non li avrebbe più potuti toccare. Ma anche se avesse potuto farlo, avrebbe lasciato perdere, la vendetta non serviva a nulla. Ora che aveva avuto tanto tempo per pensarci, lo sapeva bene. Peccato che per capirlo aveva dovuto uccidere 18 esseri umani in quel modo terribile. Concluse dicendo di aver capito e accettato che la sua era stata una 'vita segnata'. E poi, come se avesse chiuso un capitolo, cambiò tono e, tutto infervorato, chiese al suo compagno di cella di raccontargli com'era il mondo del basket. Cosa si fa nelle squadre importanti, come sono i viaggi, gli alberghi. Cosa si prova con la vittoria e con il successo. Voleva sapere, faceva mille domande. Gli chiese di insegnargli le basi del gioco. Ralph, quasi travolto da quell'irruenza, cercava di arginare la curiosità del ragazzo. Aveva provato più volte a dirgli che nel mondo del basket non era tutt'oro ma, ogni volta che cercava di spiegare come era finito dietro a quelle sbarre, Thomas trovava il modo di interromperlo e di cambiare discorso. Ralph comprese che il ragazzo voleva sentire di belle cose, di avventure, di imprese importanti, di vittorie. Voleva volare con la fantasia, servendosi dei racconti del suo compagno di cella. Voleva allontanarsi con la mente almeno per un po' da quell'ambiente, da quelle sbarre dietro le quali era finito pure troppo presto, senza praticamente vedere nulla della vita. Soddisfacendo la curiosità del ragazzo, notò il suo atteggiamento e capì che la sua intuizione poteva essere esatta. Parlò con il cappellano del carcere che gli confermò che la sua idea avrebbe potuto anche funzionare ma occorreva sentire il parere del direttore. Alla fine, il direttore, sentito anche il parere del sacerdote, acconsentì a concedergli qualche minuto. Ralph disse che il basket poteva essere un elemento in grado di smuovere diverse persone dall'apatia in cui erano cadute con le conseguenze che si potevano vedere. Durante la sua infelice performance, che lo aveva portato in isolamento, i detenuti si erano messi a guardarlo e a incitarlo dimenticandosi i gruppi, le bande e le divisioni. Perchè non sfruttare questa possibilità, naturalmente con un attento controllo? Alla fine il direttore che si era preso un po' di tempo per pensarci, concesse un breve periodo di prova con severe condizioni. Una sola disobbedienza ai suoi ordini e tutto immediatamente sarebbe stato annullato. Ralph organizzò dei gruppetti di dieci persone, scelte con sapienza proprio per far conoscere individui che normalmente non si frequentavano. Durante gli allenamenti, gli altri prigionieri potevano seguire ma senza avvicinarsi al campo. Anche quando non c'era lui, il campetto ora non era mai vuoto. In qualche modo era riuscito a contagiare molti compagni che forse, solo in attesa di un cambiamento sia pur minimo, forse in attesa di un diversivo alle loro noiosi giornate, avevano preso a cuore la disciplina sportiva, parlandone anche negli spazi comuni. Alcuni avevano svelato delle insospettabili conoscenze nel campo sportivo ed altri avevano pronunciato più parole negli ultimi giorni che in tutti gli anni che erano stati lì. Le guardie, secondo gli ordini, sorvegliavano attentamente tutta la situazione ma non c'era mai stato bisogno di intervenire. Infatti, tutti sapevano che la minima infrazione alle norme, imposte dal direttore, avrebbe comportato la fine di tutto ed il responsabile se la sarebbe vista molto brutta. Dopo  circa quattro mesi, Ralph si trovò con una decina di elementi di insospettabile capacità e valore. Era in grado di formare due squadre di buon livello che giocando dei brevi incontri, erano capaci di fornire uno spettacolo di ottima qualità. Ma la cosa più importante, era che, nelle compagini, c'erano persone che, fino a qualche tempo prima, non si sarebbero nemmeno parlate, in quanto appartenenti a gruppi ed etnie diverse. Un giornaletto locale venne a conoscenza dell'iniziativa, forse una delle guardie aveva parlato, ed il direttore non potè smentire, ma rimase anzi molto sorpreso quando ricevette gli elogi per la 'sua' iniziativa da gran parte della comunità e da diverse autorità locali che lo definivano coraggioso, intraprendente, innovatore e persino lungimirante. E poi venne la sfida con una  squadra esterna al carcere, la squadra dell'università di San Diego. Il direttore fu praticamente costretto ad accettare ma ponendo strettissimi limiti alla sicurezza. Non bisognava dimenticare che gran parte della popolazione di quel carcere era costituita da individui veramente pericolosi. Sapeva bene che si stava giocando la carriera ed il suo avvenire. La squadra del carcere avrebbe avuto cinque giocatori e cinque riserve. Avrebbero assistito all'incontro solo 100 detenuti scelti dal direttore e tenuti sotto stretto controllo delle guardie. Gli altri avrebbero seguito, via altoparlanti, dal blocco delle celle. Il pubblico esterno sarebbe stato costituito da un massimo di 300 persone. E poi ci sarebbe stato l'inevitabile gruppetto di giornalisti e delle autorità che avevano voluto partecipare. Prima dell'inizio della partita il direttore si raccomandò con Ralph perchè tutto si svolgesse nel migliore dei modi, che controllasse al meglio la disciplina dei suoi uomini in campo. Nessuno si aspettava che vincesse, quindi, si limitasse ad un bel gioco. Negli spogliatoi Ralph disse ai suoi uomini di volere un gioco pulito. Ne sarebbe andato di mezzo il futuro di quella attività nella prigione. Era vero che nessuno si aspettava che vincessero ma avrebbero dovuto far di tutto per riuscirci. Usciti sul campo, ci fu qualche applauso ma più che altro aleggiava un certo nervosismo. Vista la situazione, in teoria avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa. Le guardie comunque, erano pronte a tutto. Al fischio di inizio, però, le cose cambiarono. Cominciato il gioco, si vide che il livello delle squadre si equivaleva ed erano in gamba tutte e due. Certo, la squadra dell'università era più esperta, ma quella dei carcerati aveva qualcosa da dimostrare. Poi, nell'intervallo fra il primo e il secondo tempo, Ralph notò qualcosa fra il pubblico. Era il suo amico Alfred che si sbracciava per farsi notare. Lui lo salutò ma rimase senza fiato quando quello gli fece vedere che, seduta al suo fianco, aveva una bambina che si guardava attorno un pò incerta. Non poteva credere ai suoi occhi. Come poteva aver fatto il suo amico a portarla da lui? Magari di nascosto daq sua moglie. L'emozione fu fortissima e i suoi uomini si accorsero immediatamente che qualcosa era successo. Quando seppero di cosa si trattava, ne furono molto colpiti. Anche alcuni di loro avevano dei figli che non vedevano da lungo tempo. Alla fine, gli dissero che avrebbero vinto anche per sua figlia. Ralph ebbe paura che commettessero qualche fallo grave ma si comportarono bene ed alla fine dopo aver inseguito gi avversari per tutta la partita, con uno scatto di orgoglio, riuscirono a vincere con due punti di vantaggio. Gli avversari si complimentarono e chiesero la rivincita. Era stata una partita incredibile vista la situazione in cui si era svolta. Dal blocco delle celle si sentivano grida, clamori e altri rumori non bene identificabili ma le guardie riferirono che tutto era sotto controllo. Le autorità vollero premiare la squadra ed anche l'allenatore al quale fu chiesto di dire qualche parola. Ralph, diplomaticamente, prima chiese il permesso di rispondere, poi ringraziò gli uomini della sua squadra, ma soprattutto il direttore, che con la sua iniziativa, aveva reso possibile tutto. Appena potè, però, tutta la sua attenzione fu diretta alla zona degli spettatori esterni che le guardie stavano facendo sgombrare e vide, con grande commozione, il suo amico che indugiava come poteva, e che lo indicava alla bambina la quale, con un timido gesto della , lo salutò. Sperò solo che il suo amico non le avesse rivelato alla bambina chi fosse veramente. Al termine della cerimonia la squadra ricevette in premio una piccola coppa di latta con una targa, che riportava i dati dell'evento. Quel modesto oggetto aveva un valore enorme per quegli uomini che, per un breve periodo, avevano fatto vedere come anche loro, opportunamente motivati, potevano essere in grado di rispettare le regole. Avevano commesso vari e gravi reati ma per un momento, solo un momento, avevano capito che sarebbero stati capaci di impiegare meglio le loro energie e certamente qualcosa sarebbe scattato nei loro cuori. Erano stati solo degli atleti, degli uomini che si misuravano in uno scontro regolare con altri uomini come loro. Anche quelli rimasti nelle celle che avevano gioito ed esultato assieme per la vittoria, per un momento erano stati un tutt'uno, tutti assieme. Certo, non sarebbe durato a lungo, ma aveva dimostrato che tutto era possibile. Se nei loro cuori per un attimo non c'erano state solo amarezza e violenza, chissà, forse qualche sentimento migliore poteva ancora emergere. Era solo un inizio. A questo pensava Ralph quella sera, tornato in cella dopo i modestissimi festeggiamenti concessi dal direttore alla squadra. Per premio, gli era stato permesso di portare in cella, solo per quella sera, il piccolo trofeo che avevano conquistato. Thomas lo guardava e lo riguardava come se si fosse trattato di una sacra reliquia. Chissà cosa ci vedeva o cosa riceveva da quel modesto oggetto. Ralph aveva lasciato che il ragazzo se la tenesse lui. Aveva altro per la mente. Forse la sua missione, il suo vero scopo, era stato quello di poter fare qualcosa per gli uomini rinchiusi in quel posto. Renderli migliori, per consentirgli di vivere un po' meglio o per fare scelte diverse una volta usciti. E poi sua figlia. Chissà se sapeva che quell'uomo che aveva salutato era il padre. Forse un giorno...... Era stata una bella e importante giornata quella per Ralph. Molte possibilità si erano presentate e lui vedeva qualche spiraglio per riscattare gli errori fatti. Si addormentò sulla sua branda, sereno, sognando ora un futuro possibile.... Mark, piuttosto provato si sollevò da quell'uomo all'inizio così triste e disperato ed ora sereno e tranquillo. Poi si guardò attorno e vide che mancavano ancora quattro persone e sperò di avere l'energia sufficiente. Oltre al suo lavoro, stava tenendo in sospeso quella situazione estrema fuori dell'aereo e sapeva di non avere ancora molto tempo a disposizione. Per cui dopo una brevissima pausa riprese la sua azione.

Davide Logan, 51 anni

Davide Logan era sporto in avanti, intralciato dalla cintura di sicurezza, e aveva nelle mani le chiavi per aprire le manette del prigioniero che stava scortando in prigione. Era un uomo di una certa età, non al meglio della forma fisica, aveva il viso segnato di chi aveva affrontato molte esperienze nella sua vita e che ne aveva di certo viste di tutti i colori. Appariva fortemente preoccupato ma, con grande fatalismo, stava cercando di aiutare l'uomo davanti a lui. Mark gli mise una mano sulla spalla e l'altro tranquillamente si adagiò con gli occhi chiusi sul suo sedile. Si chiamava Davide Logan ed era nato nel 1960 nella contea di River Side da una famiglia piuttosto numerosa di agricoltori e allevatori di pecore. Poco portato per l'attività di allevatore e ancora meno per quella di agricoltore, per un po' sopportò la vita in casa come meglio poteva. Poi, in seguito all'aumento dei casi di furto di bestiame in tutta la vallata, assieme ad alcuni coetanei, formò un gruppo per contrastare il fenomeno. Visto il successo dell' iniziativa, gli fu chiesto di organizzare una attività regolare di vigilantes addetta alla salvaguardia delle fattorie e dei pascoli. Accettò con molto piacere, anche visto che la paga era piuttosto soddisfacente. Conobbe una bella ragazza, Emily Clark, figlia di un vicino. La ragazza, decisa ed energica, era molto attratta da Davide ma non poteva accettare quella sua vita da perdigiorno e sbandato, come la definiva lei. La ragazza voleva un uomo che facesse un lavoro serio, che le stesse vicino e che si prendesse la responsabilità di una bella famiglia numerosa. Intanto si verificava nella zona, un interessante fenomeno. Vista la vicinanza del luogo con Los Angeles e San Diego, collegate molto comodamente con l'interstrada 15 che passavo proprio di lì, e il basso prezzo delle unità immobiliari, cominciò ad affluire nella zona un gran numero di persone. Ne seguì un vero e proprio 'boom' di tutte le attività commerciali, e non, del luogo. Cominciarono anche ad espandersi attività collegate con la ristorazione e con il turismo in generale. Una delle mete favorite in zona, era costituita dal lago Skinner, a circa 10 miglia a est,  dove puntualmente una discreto numero di pescatori, in continuo aumento, si recava per pescare. Si trovavano pesci persico trota, persico sole, trota iridata e persino qualche pesce gatto. Anche Davide, con suo padre e i suoi fratelli, c'era stato molte volte. Emily, desiderosa di uscire dal suo ambiente, con le idee chiare e grande volontà e decisione, riuscì ad avviare sulla riva sud del lago, una attività di ristorazione, forniture di attrezzature da pesca e un noleggio di piccole barche, attività che incontrò grande favore da parte dei turisti, dando ottimi risultati.  Nel 1989, la popolazione era divenuta così numerosa che, in seguito ad una votazione fu costituita la cittadina di Temecula, prendendo il nome da un antico ranch del posto. Davide entrò a far parte senza problemi del nuovo corpo di polizia cittadina e, solo per pochi voti e per la giovane età, non fu nominato sceriffo. La vita nel nuovo insediamento scorreva abbastanza serena e nei periodi di ferie Davide si recava sempre dalla sua amica Emily, la quale aveva aggiunto alle sue attività quella di albergatrice con una struttura adibita a  motel. Davide sperava sempre di riuscire a convincere la ragazza a tornare con lui ma lei, quasi persa ormai in altri pensieri e con altri progetti, non voleva sentir parlare di amore. Anzi, aveva messo subito i chiaro una cosa. Era di un amico, che aveva bisogno, un vero amico con cui parlare e con cui sfogarsi o condividere momenti belli e brutti. Questo era il patto. Un amico, totalmente disponibile, ma solo e sempre quello. Davide, che non voleva allontanarsi da Emily, accettò e per parecchio tempo fu il suo migliore amico. Poi un giorno, verso la fine del 1990, si trovò ad affrontare e risolvere un importante caso che era stato seguito per anni dal corpo della polizia di Las Vegas, senza molto successo. La cosa fece colpo sul capo della polizia di quella città che gli offrì un posto nel suo organico, con un notevole aumento di stipendio. Alla fine attratto dalle opportunità della città e dal desidero di uscire dalla monotonia del suo paese, che in realtà gli era sempre andato stretto, accettò. In fin dei conti non si sarebbe poi allontanato parecchio dalla 'sua' Emily. Le cose continuarono così per parecchi anni. Davide scoprì a sue spese che tutte quelle luci, quell'attività convulsa, quell'aria perennemente festosa della città, in realtà nascondeva tutta una serie di elementi tristi, dolorosi, amari e squallidi e purtroppo era questa la faccia della situazione che egli affrontava quotidianamente. Per fortuna che si poteva ritemprare con le vacanze al lago Skinner che ogni anno lo rimettevano in forma. Aveva rinunciato ai suoi progetti con Emily ed il loro rapporto, rafforzatosi con il passare del tempo, era ormai stabile. Nel 2007 purtroppo scoppiò la crisi finanziaria legata al fenomeno dei mutui 'subprime'. Questo portò ad una pesante, implacabile correzione del mercato immobiliare in tutti gli Stati. Anche a Temecula, dove gli insediamenti erano ancora piuttosto recenti, molti scoprirono che il loro mutuo aveva assunto un valore decisamente più alto della casa stessa e, cosa peggiore, non riuscivano a pagarne le rate. Verso la fine del 2008, alcune zone della cittadina avevano molte case in vendita. Sembravano un po' i quartieri di una città fantasma. Molte attività commerciali dovettero ridimensionarsi e molte altre furono perfino costrette a chiudere. Emily risentì anche lei, naturalmente, della crisi ma per fortuna i pescatori continuavano a frequentare la sua struttura. Solo il motel aveva iniziato a perdere clienti ma non in misura tale da preoccupare seriamente la proprietaria. Negli anni a seguire le cose continuarono nella normalità. Davide, nella città del gioco e del vizio, affrontava decisamente tutto ciò che gli capitava prendendo atto sempre più spesso delle miserie delle persone, delle loro delusioni e del loro insuccesso. Emily invece gestiva al meglio la sua struttura, cercando di non rimetterci in conseguenza ad una rarefazione del fenomeno del turismo locale. Alla fine comunque dovette decidersi a ristrutturare la sua proprietà ed a rinnovare il parco barche. Era convinta che con queste innovazioni avrebbe potuto recuperare una bella fetta di clientela, tornando ad una prosperità che le garantisse di nuovo una certa sicurezza. Avviò i lavori malgrado il parere contrario del suo amico, del quale, in quell'occasione, non volle accettare consigli. Purtroppo per effettuare i lavori, Emily fu costretta a chiedere un prestito alla banca San Diego Coast Credit Union, la quale mise naturalmente un'ipoteca sulla proprietà. In teoria le cose sarebbero andate al meglio ma a metà del 2012, sulla riva ovest del lago, una grossa impresa alberghiera, costruì una struttura all'avanguardia, munita di tutti i più moderni conforts e le più efficienti e moderne attrezzature per la pesca. Ad Emily, a quel punto, rimasero solo alcuni, purtroppo pochi, clienti affezionati. La donna conseguentemente cominciò, all'inizio del 2013, ad avere problemi a pagare le rate dell'ipoteca e alla fine rimase indietro con i versamenti. La cosa drammatica era che il debito residuo non era molto alto ma lei rischiava comunque di perdere tutto. Alla fine, malgrado le costasse molto, disperata chiamò al telefono Davide e gli chiese se poteva darle una mano. Purtroppo lui non aveva grandi risparmi da darle ma poteva parlare con un alto funzionario della banca che aveva conosciuto nel passato per motivi di lavoro, a cui aveva fatto un grosso favore, per vedere cosa poteva fare. Seppe per caso che c'era un detenuto da trasferire al carcere di San Diego e si offrì volontario per accompagnarlo. Avrebbe così risparmiato almeno i soldi del viaggio...... Mark toccò l'uomo sulla fronte..... Il poliziotto era sceso dall'aereo abbastanza provato dalla brutta avventura che aveva passato. Trasmesse le consegne ai colleghi venuti a rilevare il prigioniero e dopo che questi lo aveva salutato e ringraziato per essersi fidato di lui e avergli tolto le manette in volo, si diresse all'albergo che gli era stato riservato per la notte. Si trattava di un modesto hotel nella zona di Downtown appena passabile. Prima di partire, aveva contattato il suo conoscente che lavorava nella banca che gli interessava e che, fattosi dare gli estremi del caso, gli aveva dato appuntamento per il giorno seguente nei locali dell'istituto. Purtroppo non aveva buone notizie da dargli. Infatti, da qualche settimana, il presidente della banca, Robert Tanner, aveva messo il figlio, Walter, alla direzione di quella sede e questi, per tentare di fare colpo sul padre, conduceva la sua attività in un modo estremamente severo e quasi spietato. I dipendenti lo definivano una vera carogna. Sembra che si fosse messo perfino a spiare gli impiegati per coglierli in fallo. Ed il guaio era che, appunto lui, ora si occupava dei recuperi delle rate dei mutui e lo faceva in modo estremamente duro. Davide, che personalmente di rado aveva paura di qualcuno, chiese egualmente di poterci parlare. Era molto nervoso perchè non era lui al centro della questione, ma si trattava della sorte della sua carissima amica. Il funzionario, dopo averlo fatto attendere quasi un'ora, alla fine lo ricevette con aria estremamente seccata. Ascoltò con fare distratto le argomentazioni di Davide, mentre palesemente si stava occupando di altri fogli che aveva davanti. Se non fosse stato per la sua amica, l'anziano poliziotto lo avrebbe preso per i baveri della giacca e lo avrebbe sbattuto più volte alla parete per insegnargli in po' di educazione ma poi, pensò che Emily si fidava di lui. Alla fine il funzionario, gli spiegò, come si spiegano le cose ad un bambino ritardato, che la prassi non consentiva deroghe e che, quindi, non c'era nulla da fare e che di conseguenza, poteva togliere il disturbo. E per essere più chiaro, andò alla porta e gliela aprì. Fu in quel preciso momento che si udirono dei colpi di arma da fuoco. Prima di poter reagire, arrivarono nell'ufficio due uomini con il volto coperto da un passamontagna e, senza complimenti, li afferrarono, il direttore per il collo e il poliziotto per un braccio e, strattonandoli, li condussero nella sala comune dove, intanto, altri quattro rapinatori, armati di mitra, avevano fatto sdraiare a terra i clienti e tenevano tutti sotto il tiro delle loro armi. Davide, che aveva ancora la sua pistola, capì che, se voleva fare qualcosa, doveva capire bene quali fossero le opzioni possibili. Ma la situazione precipitò prima che potesse organizzare qualsiasi cosa. Uno dei rapinatori, di certo il capo, prese il direttore, terrorizzato, per le spalle e, puntandogli una pistola alla tempia gli ordinò di aprire la cassaforte di cui solo lui aveva le chiavi. Il giovane, perse completamente la testa ed invece di cooperare, nel panico più totale, cominciò ad urlare come un pazzo tentando di divincolarsi. Nel muoversi, riuscì per un attimo a liberarsi e a strappare il passamontagna dal viso del criminale. Questi, preso alla sprovvista, furioso, prese la mira e sparò contro di lui. Davide, quasi istintivamente, si gettò in avanti a coprire l'ostaggio estraendo contemporaneamente la sua pistola. Fece fuoco ma subito dopo avvertì due colpi che lo avevano centrato alla spalla ed al fianco. Poi tutto perse significato. Gli sembrò di udire altri colpi di arma da fuoco, delle grida e poi più nulla. Riacquistò coscienza molto gradatamente e lentamente. Prima, fu la volta del tatto. Iniziò a percepire la superficie su cui era disteso, di certo un materasso. Percepì la sensazione di tessuto che lo copriva fino al torace. Poi, forse, fasciature sul tronco. Nell'incavo del gomito qualcosa lo pungeva, forse un ago di una flebo. Una sensazione di pressione su un dito indice. Un sensore per macchine diagnostiche. Poi l'olfatto. Odori di medicinali, di disinfettanti ma anche...... un odore diverso familiare, un profumo, ma al momento non gli sovveniva. Buono, però. Poi l'udito. Ma non c'era nulla di particolarmente interessante da ascoltare a parte il rumore caratteristico di alcune macchine diagnostiche applicate per monitorare la salute di qualche paziente.  Una grande confusione in testa. Cosa era successo? Si ricordava di essere sceso da un aereo ma non ricordava altro. Si azzardò a socchiudere gli occhi. Immediatamente li richiuse, disturbato dalla luce, seppure non fortissima. Non aveva veduto nulla con quella breve occhiata, solo una specie di ambiente tutto bianco. Si sentiva esausto e non aveva nemmeno pensato a fare un seppure minimo movimento. Come se quella semplice indagine lo avesse esaurito, ricadde in una situazione di incoscienza profonda. La seconda volta, l'esperienza fu molto diversa. Sentiva il contatto con il materasso ed il cuscino sotto la testa ma anche il dolore, sopportabile, delle ferite. Sapeva che gli avevano sparato ma non aveva modo di conoscere la gravità del suo stato. Percepiva gli stessi odori della volta precedente, compreso quel leggero profumo. Sentiva che avrebbe dovuto riconoscerlo ma non riusciva a trovare la risposta. Quasi con paura passò in rassegna le parti del suo corpo, come preso da un improvviso cieco terrore che gli avessero asportato qualcosa. Per fortuna c'era tutto, gambe, piedi, braccia e mani. Accennò a muovere un po' tutto e, per fortuna, tutto sembrava rispondere. Già questo gli sembrò un piccolo miracolo. Questa volta avrebbe aperto gli occhi con maggior prudenza. Si sentiva più forte, meno stremato della volta precedente. Iniziò col vedere un soffitto bianco e poi ai lati, spostando appena lo sguardo, per il momento, delle attrezzature mediche, una flebo, un gruppo di macchine diagnostiche in funzione, una finestra con le tapparelle quasi chiuse per mantenere la stanza nella penombra. Fin'ora tutto bene. Fece un profondo respiro e mosse la testa di lato. Vide Emily, seduta su una poltrona accanto al letto, leggermente assopita, con una rivista ancora in mano, che stava pian piano scivolandole per terra. Ecco l'origine del profumo. La donna era rimasta lì tutto il tempo. Che significato poteva avere ciò? Era forse venuta perchè in qualche modo si sentiva responsabile dell'accaduto o forse c'era dell'altro? Troppe domande e forse troppe illusioni. Per il momento rimase lì, fermo, con il piacere di guardarla mentre assaporava la sensazione di essere vivo. Poi la rivista cadde a terra e la donna con un sussulto si destò. Raccolse macchinalmente la rivista e poi ritirandosi su, il suo sguardo si incrociò con quello dell'uomo che la osservava sorridendo. Rimase per un istante senza fiato per la sorpresa, poi gli fece una leggera carezza e si chinò a dargli un rapido bacio, poi uscì di corsa dalla stanza per andare a cercare qualcuno del personale dell'ospedale. Tornò quasi subito con un giovane medico che, per prima cosa, cercò di calmare proprio lei. Poi si accostò al ferito ed eseguì rapidamente dei controlli di routine previsti per questi casi. Gli chiese anzitutto se poteva parlare. Avutane conferma proseguì domandandogli come si sentiva, se aveva sensibilità nelle braccia e nelle gambe. Ricevuta risposta affermativa sospirò di sollievo e gli spiegò che la ferita alla schiena era molto vicina alla colonna vertebrale avevano valutato la possibilità di un danno neurologico. Gli disse che era stato molto fortunato. Nei giorni seguenti, mentre continuava a migliorare, ricevette la visita di molte persone. Suoi colleghi che lo volevano salutare, superiori che lo elogiavano, magari portandosi appresso qualche fotografo che li riprendesse mentre gli stingevano la mano. Intervenendo in banca, in quel modo, aveva ferito seriamente il capo della banda di rapinatori prima di essere colpito a sua volta ed aveva creato un diversivo che aveva concesso agli altri poliziotti della banca di intervenire. I banditi, privati del loro capo, si erano arresi subito. Davide accettava di buon grado tutto questo soprattutto perchè Emily non si staccava un momento da lui. Non fosse altro per intercettare tutte le bottiglie e i sigari che gli amici e i colleghi cercavano ripetutamente di fargli avere. Poi un giorno andò a fargli visita un uomo anziano, molto distinto, che lui non aveva mai visto. Si presentò come Robert Tanner, presidente della banca San Diego Coast Credit Union. Lo ringraziò del suo atto eroico e lo pregò di accettare un consistente assegno per compensarlo di aver salvato, non tanto la banca che era comunque assicurata, ma la vita del figlio, Walter. Sotto uno sguardo di disapprovazione di Emily, egli naturalmente rifiutò, dicendo che aveva fatto solo il suo dovere. L'altro ci rimase un po'male, specie perchè era stato informato di quanto il figlio avesse maltrattato quell'uomo. Prese commiato, dicendo che comunque qualcosa avrebbe escogitato, perchè non gli piaceva avere debiti con qualcuno. Emily alla fine convenne che Davide aveva avuto ragione a non accettare quella somma. Gli chiese poi quanto guadagnasse un poliziotto in pensione perchè da lì a poco lei sarebbe rimasta senza lavoro. Poichè a questo punto anche lui avrebbe dovuto fare una vita normale, come un uomo normale, nulla vietava che potessero finalmente valutare l'opzione di mettersi insieme. All'uomo, sorpreso da quella proposta (dopo tutti quegli anni!), rivelò che in quei giorni drammatici aveva scoperto che effettivamente teneva a lui ben più che se fosse un amico. Davide, che non credeva alle sue orecchie, per un po' fece il sostenuto, prendendo tempo con mille scuse. Poi finì che si abbracciarono a lungo anche se con cautela, visto che le ferite gli facevano ancora male. Nei giorni seguenti, fecero molti piani e molti progetti circa il loro futuro. Pensarono a dove sarebbero andati ad abitare, visto che ambedue non volevano assolutamente sentir parlare di stare a Las Vegas, a come avrebbero empito le loro giornate e tante altre cose. E invece, pochi giorni prima che Davide fosse dimesso dall'ospedale, Emily ricevette un plico dalla banca. Con mani tremanti lo aprì consapevole che dentro c'era di certo l'ordine di sfratto dalla sua proprietà. Ma mentre leggeva i fogli la sua espressione cambiò di colpo. Poi rilesse il testo un'altra volta per accertarsi di non avere equivocato il senso della missiva. Infine scoppiò in lacrime ed esultando abbracciò di nuovo Davide, malgrado le sue proteste, e lo ringraziò di tutto. Lui, che non capiva, riuscì finalmente a mettere le mani su quei fogli e così vide che la banca, per ordine del presidente, rinunciava ad ogni pretesa sul terreno ed i fabbricati della proprietà di Emily. Inoltre, a titolo di risarcimento per i disagi creati dalle precedenti iniziative dell'Istituto, tutti lavori di ristrutturazione erano stati presi in carico dalla banca stessa. La cosa più sorprendente era che la missiva era firmata da Walter Tanner. Daniel, con espressione un po' triste, prese atto che la cosa cambiava la situazione. Ora che la donna era di nuovo in affari, magari non sapeva che più che farsene di lui. Fu Emily stessa che notata l'espressione dell'uomo, scoppiò in una sonora risata, dicendogli di non aver paura perchè da un pezzo aveva bisogno di qualcuno che fosse in grado di dare consigli ai pescatori inesperti e che si occupasse delle barche dell'hotel. Che non pensasse nemmeno a non accettare. Solo che avrebbe dovuto fare il suo lavoro senza nemmeno un centesimo di stipendio in quanto non sarebbe stato bello che una moglie versasse uno stipendio al marito perchè questi lavorava nell'impresa di famiglia. La sera lei se ne andò. Lui, ancora un pò frastornato per gli eventi, non riusciva a prendere sonno. Poi, immaginandosi sul pontile delle barche, che dolcemente si dondolavano presso la riva del lago, finalmente in pace e vicino alla sua Emily, pian piano, scivolò nel sonno. Mark, quasi esausto, lasciò l'anziano poliziotto e passò al passeggero successivo.

Lawrence Ruffini, 54 anni

Lawrence Ruffini era seduto al suo posto, piegato in avanti, con la testa stretta fra le mani. Il viso incredibilmente contratto. Stava malissimo. Mark lo toccò leggermente su una spalla e lo portò a distendersi tranquillo sul suo sedile. Il viso però, almeno al momento, conservava una traccia di inquietudine,  quasi di dolore. Quell'uomo soffriva incredibilmente. Avrebbe pagato chissà cosa per un sorso di liquore. Tanti anni prima era stato un uomo sereno, con una vita normale. Aveva una bella moglie ed un figlio maschio. Gestiva assieme al fratello Martin, una piccola impresa per manutenzione giardini nella città di San Diego. Poi, inaspettatamente, per una serie di fortunate circostanze, si erano ingranditi. Oltre a curare i giardini di molte ville nel quartiere di 'La Jolla', grazie alle capacità imprenditoriali del fratello, ottennero anche degli appalti pubblici. Il lavoro era diventato gravoso, con responsabilità sempre maggiori. La pressione per lui era insostenibile. Alla fine, Lawrence, cedette e cercò di trovare sostegno, aiutandosi coll'alcool. Fu una pessima idea perchè divenne inaffidabile, inadatto a svolgere il suo  lavoro e quel che è peggio, perse la sua famiglia. Alla fine il fratello, esasperato, lo liquidò, con una consistente somma di danaro, purchè se ne andasse e non si facesse più vedere. Egli accettò immediatamente anche perchè rendendosi conto di come si era ridotto, non vedeva l'ora di lasciare quella città, che gli ricordava tante cose dolorose e con la speranza di poter ricominciare una nuova vita in un posto dove non lo conosceva nessuno. Purtroppo, per questo suo progetto scelse di recarsi nella città di Las Vegas. Inutile dire che fra gioco, donne ed alcool, la sua piccola fortuna durò molto poco. Si ridusse a vivere di lavoretti, espedienti, maltrattato, umiliato. Molte volte pensò di rivolgersi al fratello per un aiuto, ma poi capì che sarebbe stato inutile. Il fratello era stato categorico. Sarebbe dovuto sparire per sempre e lui aveva preso i soldi ed aveva accettato. Per continuare a bere, buttava giù tutto ciò che gli capitava, finchè una sera, evidentemente, esagerò e finì in coma etilico. Una pattuglia della polizia lo raccolse per strada quasi moribondo e, compreso subito di cosa si trattava, lo portò in un ospedale specializzato che aveva una corsia riservata per gli alcoolisti cronici. Riprese conoscenza disteso in un letto, la notte successiva. Era ricoverato ancora in ospedale, dove lo avevano recuperato, facendogli passare la crisi. Era circondato da grida e lamenti. Pian piano prese coscienza di cosa accadeva attorno a lui. C'erano degli uomini vecchi, seduti nei loro letti con un tremito incontrollabile che scuoteva loro  le membra. Accanto a lui, un uomo di mezza età, legato al letto per i polsi e le caviglie, si lamentava chiedendo che gli togliessero le formiche che aveva addosso. Lawrence però non ne vedeva nessuna. Poi, all'improvviso un uomo anziano, tremolante, balzò dal letto rifugiandosi in un angolo e lì, furioso, esasperato, con un cuscino tentava di tenere alla larga un esercito di  invisibili topi che, a suo dire, lo volevano divorare, il tutto fra l'indifferenza generale. Lawrence era terrorizzato, sconvolto. Arrivarono di corsa due robusti infermieri che presero l'esagitato e lo riportarono nel letto, legandolo. Se ne andarono lasciandolo urlante e disperato. Dopo una notte eterna di incubo, la mattina seguente egli ebbe un colloquio con il dottore del reparto, che gli spiegò che quello che aveva visto era solo l'effetto dello stadio avanzato dell'intossicazione che lui si stava pian piano raggiungendo. La prima avvisaglia seria era costituita da un tremito incontrollato, seguito dalla visualizzazione di grossi animali, come topi, lucertole e poi, verso la fine, piccoli animali come formiche, ragni. Gli disse anche però che, date le sue condizioni non ancora critiche, con una buona cura disintossicante e una severa astinenza, lui ce la avrebbe ancora potuta fare ad uscirne. Dimesso dall'ospedale, si guardò riflesso in una vetrina. Vide un uomo precocemente invecchiato, denutrito, malvestito, malandato. Vide mentalmente il suo futuro, in quella terribile struttura da cui era appena uscito. Non voleva, non poteva fare quella fine. Lui era diverso, o almeno ne era convinto. Perciò determinato, senza più orgoglio, deciso ad avere una risposta, un'opportunità, chiamò al telefono il fratello. Questi non si meravigliò di risentire la voce di Lawrence. Si meravigliò invece della richiesta che questi gli fece. Non soldi, non aiuti generici. Gli chiedeva semplicemente di aiutarlo ad entrare in una struttura sanitaria di San Diego, dove venivano recuperati gli alcoolisti come lui. Per avere una seconda occasione. Non chiedeva altro. Il fratello, che in fin dei conti era sempre stato molto addolorato per la sua sorte, gli organizzò un ricovero presso l'ospedale Santa Caterina di Los Angeles che gestiva una succursale nella zona di San Diego, dedicata a questa funzione e in particolar modo ai casi difficili. Martin gli inviò i documenti già pronti per il ricovero e i soldi per il biglietto aereo. Lawrence, che non aveva più toccato una goccia di alcool, mise insieme le sue povere cose e si diresse immediatamente in aeroporto, verso la sua ultima possibilità di salvezza. All'interno dell'aeroporto si trovò a passare davanti al negozio che vendeva anche liquori. La tentazione fu fortissima. Una sorsata, una sola, da una di quelle bottiglie esposte e poi più niente, niente problemi, niente dolore, niente angoscia. Si ritrovò a guardare quelle bottiglie scintillanti nella vetrina. Aveva in tasca tutta la somma che il fratello gli aveva inviato per pagarsi il biglietto d'aereo. Quante bottiglie ci sarebbero scappate per quella cifra? Senza accorgersene aveva poggiato le mani sul vetro e poi anche il naso. Come se avesse potuto sentire l'aroma di quel liquido ambrato. Poi pensò che dalla sbronza ci si risveglia, si sta male e poi rivide il vecchio che lottava con i topi. Terrorizzato da quel ricordo, si staccò quasi con violenza dalla vetrina e si sbrigò a correre per comprare il biglietto dell'aereo finchè ancora serbava un minimo di controllo........... Mark gli poggiò delicatamente una mano sulla fronte........ Lawrence scese dall'aereo scosso da un tremito convulso. Doveva bere, doveva assolutamente bere. Là, in aria, avrebbe dato qualunque cosa per un goccio di alcool ma sfortunatamente o, piuttosto fortunatamente non ce ne era. Ora però degli addetti della compagnia stavano assistendo i passeggeri mentre sbarcavano, più che altro, forse, per accertarsi che non avessero lamentele da presentare in seguito. A qualcuno offrivano del caffè ma anche alcune bottigliette d liquore, di quelle che normalmente si distribuiscono durante i voli. Lawrence bevve avidamente una tazza di caffè ma respinse in modo quasi brusco l'offerta di una bottiglietta. Aveva quasi rischiato la vita per giungere fin lì. Se avesse accettato, sarebbe finita e tutto sarebbe stato inutile. Con i pochi soldi rimasti, si fece portare al centro dove lo aspettavano. Se aveva superato quella prova, significava che per lui c'era ancora speranza e che forse dentro c'era ancora una piccola scintilla che valeva la pena di alimentare. Al centro lo istruirono subito su quelle che erano le procedure. Il dottore che lo ricevette gli parlò a lungo e lo interrogò con molta perizia circa le sue passate esperienze, circa la sua condizione attuale e alla fine volle sapere perchè aveva deciso di sottoporsi alla terapia del centro. Le risposte, almeno al momento, sembrarono soddisfarlo. Aggiunse che, elemento fondamentale per la riuscita del trattamento, era la volontà degli interessati. Senza quella, qualsiasi intervento sarebbe stato inutile e comunque non duraturo. Il regime, almeno all'inizio, era durissimo ma poi, in seguito, almeno per chi ce la faceva, si scopriva che ne era valsa la pena. Di nuovo una vita vera, normale. Contatti con la gente normale, forse una famiglia, di nuovo, almeno per alcuni. Lawrence pensò che, a quel proposito, almeno per lui, era tardi. Ma non per questo non voleva provarci. I due infermieri che lo accompagnarono in visita al centro e che poi lo condussero al suo alloggio, senza nessun riguardo, gli dissero che per la loro esperienza, visto il tipo, lui non sarebbe durato più di una settimana e che, se fosse stato per loro, lo avrebbero buttato fuori subito. Lawrence aggiunse anche questo alla lista delle sue motivazioni. Gliela avrebbe fatta vedere a quei due scimmioni imbecilli! Sembrava che invece di aiutarlo, cercassero di cacciarlo via, come se volessero semplicemente 'levarselo dalle scatole' come pensò lui. Ne avrebbe parlato con il dottore. Invece fu solo con gli infermieri , che venivano indicati con la funzione di assistenti, che ebbe a che fare la prima settimana. Sembrava che lo facessero apposta a prenderlo di punta. E la stessa cosa facevano con diversi altri. Lawrence fu costretto a svolgere compiti piuttosto pesanti poichè gli fu detto che la retta non copriva tutte le spese del ricovero. Quello che mancava, dovevano guadagnarselo. Dovette pulire pavimenti, spostare carichi, tagliare legna. In certi momenti avrebbe dato chissà cosa per un goccio di alcool ma naturalmente lì non ce ne era. La sera era comunque così stanco che, dopo la cena, sognava solo di andare a letto a dormire. Veniva però costantemente fornito di sigarette. Avevano un gusto tremendo ma erano meglio di niente. C'erano poi un pò dappertutto distributori di bevande gasate che fornivano bibite varie per pochissimi spiccioli. Si rese conto che la porta della sua stanza era sempre aperta. Era convinto che la notte lo avrebbero rinchiuso e invece no. Le porte erano tutte aperte. Anche il portone principale. Qualcuno avrebbe potuto quindi anche uscire e andare a rimediarsi qualcosa da bere. Una sera, tanto per vedere se gli avrebbero detto qualcosa, dopo cena, uscì dal centro e camminò ostentatamente su e giù davanti al portone, mentre il portiere di turno pensava solo a leggere il giornale. Alla fine, stanco per il pesante lavoro della giornata, decise di rientrare e andare a letto. Il portiere, che in realtà non lo aveva perduto di vista per un momento, parlò brevemente al telefono con qualcuno e poi tornò alla lettura del suo giornale. Andò avanti così, per un paio di mesi. Fra buone giornate, in ci si sentiva molto motivato, ed altre meno belle perchè, esaurita la spinta iniziale, cominciava a domandarsi perchè facesse tutto questo. A chi importava, in fondo? Poi magari il ricordo del fantasma che lo aveva guardato dallo specchio dell'aeroporto di Las Vegas serviva a dargli una mano. Sentiva però molto la mancanza della sua famiglia. E' vero che era nella sua città ma la moglie, pur di non incontrarlo più, aveva accettato un lavoro in Europa ed egli ora non sapeva nemmeno dove fosse. Durante le riunioni periodiche a cui partecipava assieme agli altri, aveva scoperto che in molti avevano vissuto il suo inferno e che anche loro avevano dovuto trovare una buona motivazione per tentare di uscirne. Fece qualche amicizia e iniziò a parlare con i suoi compagni di "avventura". Con la buona stagione, aveva iniziato a passare quasi tutto il suo poco tempo libero nel giardino. O meglio, quello spazio all'aperto che, nella struttura, chiamavano eufemisticamente giardino. Si trattava di uno spazio brullo con qualche filo d'erba stentato quà e là e alcuni alberi d'alto fusto che erano lì da molto tempo e che erano in discrete condizioni. L'organizzazione che gestiva quel posto non poteva usare fondi per la manutenzione del giardino perchè fra le varie spese di manutenzione, non avanzava danaro. Lawrence chiese al medico di poter lavorare all'esterno. Vista la sua ex professione aveva intuito la possibilità di recuperare qualcosa da quel pezzo di terreno trascurato da molto tempo. Al dottore sembrò una buona idea e acconsentì. Lawrence, usando quel che si poteva ricordare della sua passata esperienza lavorativa, nella sua stanza aveva buttato giù un progetto per migliorare in qualche modo quel posto. E poi aveva in mente un'idea che sperava tanto desse buoni frutti. Iniziò ad identificare degli spazi dove intervenire e altri dove invece lasciare dei viali e degli spiazzi. Poi, con degli attrezzi che aveva trovato in un vecchio capanno, cominciò faticosamente a dissodare quel terreno che per anni era stato abbandonato. Presero forma delle grandi aiole che egli delimitò, al momento, con dei sassi che erano emersi durante lo scavo. Il solo odore della terra lavorata, riportava la sua mente ad un passato che gli parlava di tante cose belle. Fu abbastanza sorpreso di trovare dei compagni di lavoro che si misero a sua disposizione consapevoli che lui sapeva quello che andava fatto. Il dottore aveva dato il permesso quasi a tutti quelli che lo avevano chiesto. Gli sembrava una buona iniziativa e, se poi non avesse dato frutti, poco male. Avrebbero comunque dato una sistemata e una pulita all'aerea esterna dell'edificio. Gli alberi erano in buone condizioni e fu necessario solo potarli. Per fare questo, Lawrence dovette salire su una lunga scala sotto l'occhio attento e preoccupato degli inservienti della struttura che non avevano nessuna fiducia nelle sue risorse fisiche. Lui però fu in grado di stupire tutti perchè, tanto era l'entusiasmo di essersi rimesso  fare il suo lavoro, che non si rese nemmeno conto che stava lavorando ad un'altezza di quasi sei metri dal suolo. Alla fine si accorse di aver formato una specie di squadra giardinieri, che lavorava con entusiasmo, anche solo per la voglia di essere utili, facendo qualcosa che poteva dar loro soddisfazione. Solo il fatto di essere lì, all'aperto, con un attrezzo in mano, con l'odore della terra smossa, dell'erba tagliata, parti di una squadra, era una cosa che molti di loro non si sarebbe più aspettata. In particolare Lawrence fu preso da parte da una donna che lavorava alacremente nel gruppo e che, fino a quel momento, non aveva mai detto una parola. Si chiamava Therese, aveva circa 45 anni, alta, magra, precocemente invecchiata per chissà quali vicissitudini. Era di buona famiglia ma lei era stata sempre una specie di pecora nera. Aveva intrapreso la cura di disintossicazione più volte, ma alla fine, era sempre ricaduta. Si era accorta però che la presenza e l'entusiasmo di Lawrence le avevano trasmesso come una forza particolare e riteneva che se lui le fosse rimasto vicino, forse questa volta avrebbe potuto farcela. In realtà gli fece capire che lei cercava un contatto molto stretto e fu estremamente esplicita. Lui invece, fu molto sincero, anche se sentiva molto la solitudine e gli sarebbe piaciuto davvero il contatto con una donna. Si sarebbe sentito un miserabile se avesse approfittato della situazione. Therese prese atto del suo atteggiamento, disse di capire perfettamente le sue ragioni, di apprezzarlo per questo e che a lei comunque bastava che lui continuasse a coinvolgerla nel suo progetto e se poi, comunque, avesse cambiato idea...... Il punto era che il 'progetto', in assenza di novità, stava per terminare. Il direttore della struttura era stato chiarissimo. Niente fondi per il giardino. Visti i recenti risultati, capì che era un errore ma non poteva farci nulla. Lawrence, che si sentiva responsabile per il suo gruppo, tentò allora una carta a cui stava pensando da tanto tempo. Alla fine si decise. Telefonò al fratello che, nel sentire la sua voce, si allarmò un poco. Invece lui gli chiese solo se non avesse da mandargli qualcosa che nel magazzino risultasse in più, anche materiale rovinato. Buste di sementi scadute, attrezzi da giardino fallati, qualsiasi cosa insomma che risultasse inutile alla professione. Il fratello rimase molto colpito da quella richiesta e rispose che avrebbe controllato e gli avrebbe fatto sapere. Invece telefonò al direttore del centro per cercare di capire il motivo di quella richiesta. Quando seppe cosa stava facendo il fratello, rimase molto colpito e sperò che la cosa potesse continuare. Pochi giorni dopo giunse al centro un autocarro carico di sementi, piantine in vaso, arredi da giardino, arbusti per siepi, attrezzi nuovi e fertilizzante. Lawrence guardava tutta quella meraviglia con le lacrime agli occhi. Tutto il gruppo si fece coinvolgere in quella festa. Il tempo era passato in fretta. Mai, durante tutto il periodo della permanenza Lawrence aveva avuto seri problemi. Invece purtroppo Therese, dopo un poco, era sparita e probabilmente aveva ripreso la sua triste esistenza. Purtroppo il dottore aveva ragione. La forza doveva venire da dentro, non era possibile prenderla dagli altri che al massimo avrebbero potuto solo aiutare e sorreggere. Lawrence più volte aveva pensato che se avesse accondisceso alle proposte della donna, forse lei sarebbe stata lì con lui. Ma poi, arrivava sempre alla stessa conclusione. Non avrebbe funzionato. Tutti gli altri però, come lui, avevano risposto bene alla cura. Ora la struttura aveva un bel giardino con siepi, alberi, aiole fiorite, panchine e perfino una piccola fontana che Lawrence aveva realizzato con ciò che aveva trovato. Alla fine Martin, incuriosito, era andato a vedere ed era rimasto colpito nel constatare che il fratello era tornato quasi quello di una volta e prese atto dell'incredibile lavoro che egli aveva svolto assieme ai suoi amici. Gli propose di tornare a lavorare insieme, ma lui prese un pò di tempo per decidere. Alla fine del suo periodo di ricovero, chiese al direttore della struttura di lasciarlo continuare nella sua attività di giardiniere. Si sarebbe contentato di poco e avrebbe potuto continuare ad aiutare altri che, come lui, cercavano solo uno scopo, un'occasione per uscire dal loro inferno. Il direttore si rese conto che andato via lui, probabilmente tutto il progetto sarebbe andato in malora e straordinariamente gli concesse di restare con un modesto salario e naturalmente con vitto e alloggio. Lawrence era entusiasta. Aveva  visto la possibilità di tirare su, un piccolo frutteto con alberi di tante specie diverse. Quello sarebbe stato il suo prossimo progetto nel quale avrebbe continuato a coinvolgere tutte le persone ricoverate che avessero desiderato partecipare. Il fratello avrebbe capito e magari lo avrebbe aspettato. Il tempo passava così, mentre aiutava tanti come lui a combattere la propria battaglia, giorno per giorno. Era diventato amico degli stessi assistenti che avevano tentato di scoraggiarlo all'inizio ed aveva scoperto che, quella tecnica, serviva solo a motivare di più quelli che erano determinati a farla finita con l'alcool. In realtà in fondo al suo cuore lui aveva sempre sperato di rivedere Therese. Quella donna l'aveva turbato e forse lui, nel tempo, si era infatuato di lei. Dopo due anni di regime da sobrio, come era la consuetudine, si fece una grande festa nel centro a cui intervennero i medici, gli assistenti, gli altri pazienti e molti, molti di quelli che avevano vinto la loro battaglia e che ora cercavano di aiutare altre persone in difficoltà. Lui era uno di quelli e aveva capito che la sua abilità con le piante poteva essere utilizzata per il suo scopo. Con i dovuti permessi, era anche riuscito a ricavare un piccolo utile dalla vendita di fiori e frutta. Ora era veramente sereno e convinto di fare veramente qualcosa di importante. Durante il ricevimento, il dottore gli disse che quasi certamente sarebbe tornata Therese per fare il suo ennesimo tentativo di disintossicarsi. Alla fine della festa rimase ancora un poco in quel giardino dove un anno e mezzo prima era iniziato tutto. Pensava a tutto quello che era stato e che ora avrebbe potuto essere. Poi sereno, andò a dormire....... Mark lasciò quell'uomo che giaceva rilassato con un viso finalmente disteso e sereno, dopo tanti anni.

Hostess Michelle Sterling, 34 anni

Seduta sul sedile in fondo a sinistra c'era la hostess. Michelle Sterling, malgrado non fosse in servizio su quel volo, cercava comunque di fare il suo mestiere. Sporta in avanti, per quanto permetteva la cintura di sicurezza con cui aveva dovuto assicurarsi per non farsi sballottare pericolosamente, cercava di tranquillizzare i passeggeri, invitandoli semplicemente a reggersi forte e non lasciarsi andare al panico perchè, da lì a qualche minuto, l'aereo sarebbe stato fuori dalla tempesta e  tutto sarebbe finito. Mentiva, chiaramente, ma in quel momento era tutto quello che poteva fare. Era decisamente una bella donna, alta, slanciata, carnagione scura, capelli neri, piuttosto muscolosa. Ma contemporaneamente si intravedevano sul suo viso dei segni che tradivano una profonda inquietudine, forse segnali di una malattia, di quelle cattive e insidiose. Il volto ovale era segnato da una espressione di fatica o di una sofferenza profonda. Sul lato sinistro della fronte, un piccolo taglio, segno di un colpo ricevuto pochi minuti prima. Mark le si avvicinò e le toccò  la spalla.......Michelle, come se avesse perduto di colpo tutta la sua energia, si distese all'indietro sul suo sedile, il capo sul poggiatesta, leggermente rivolto verso destra. Il volto, ora un po' più sereno, pur senza trucco e con gli occhi chiusi, mostrava una bellezza latina classica. Era cresciuta a Las Vegas con i suoi due genitori, Paul e Barbara, ed un fratello minore, Tom, di quattro anni più giovane di lei. Il padre era un dirigente di un casinò e la famiglia era decisamente benestante. Michelle aveva avuto la possibilità di studiare nei migliori istituti della città e aveva quasi tutto quel che voleva. Era molto affezionata ai suoi genitori ed in particolare al fratello. Sentiva però ogni tanto una strana percezione. Le apparivano d'improvviso delle immagini di luoghi sconosciuti. Le vie di una città, una in particolare, la facciata di una casa, delle immagini di interni, delle persone. A volte aveva persino la sensazione di assistere a delle discussioni, a degli eventi come ad esempio l'ascolto di un brano di concerto musicale. Questa condizione, di cui non aveva mai parlato con nessuno, per paura di essere presa per stramba, le causava un atteggiamento di irrequietezza, di insofferenza per tutte le convenzioni e le consuetudini che di norma riguardano le ragazze di buona famiglia. Solo una volta aveva trovato il coraggio di parlare con il suo dottore, quando all'età di 12 anni, una notte, si risvegliò con una sensazione di angoscia senza pari. Era all'interno di una delle sue visioni, la peggiore che aveva mai avuto. Mentre era a letto, in una stanza sconosciuta, un uomo  maturo, mai visto prima, la stava pesantemente molestando. Subì quella esperienza terribile per circa un minuto, poi percepì delle grida, dei colpi, e tutto finì all'improvviso, lasciandola spossata e tremante per l'angoscia che aveva provato. Il suo medico, dopo averla ascoltata, optò per un brutto sogno, e lei fece finta di accettare questa semplicistica conclusione anche se sapeva che non era così. Rimase turbata per diversi giorni. Si sentiva completamente a suo agio in particolar modo col fratello, con il quale faceva lunghe passeggiate ed organizzava escursioni nelle zone circostanti, spesso della durata di diversi giorni. Frequentemente aveva delle 'visioni' che la trasportavano in alto, come se fosse in volo, con panorami spettacolari. Quando si trattò di scegliere un lavoro, malgrado il padre avesse provato a indirizzarla verso il casinò, in qualità di funzionaria, lei aveva rifiutato ed aveva optato per qualcosa che le consentisse una vita sempre in movimento, ossia aveva scelto il lavoro di hostess. La sua bella presenza, le su capacità e la discreta cultura, le avevano spianato la strada. Fu subito assunta dalla locale compagnia aerea Flyng Fox Line e, dopo un breve periodo di apprendistato sulle linee interne , approdò ai voli internazionali, avendo così la possibilità di girare tutto il mondo. Conquistata dal volo, aveva conseguito anche un brevetto di pilota privato. Aveva avuto qualche relazione sentimentale ma, purtroppo, il suo carattere complicato e inquieto, aveva finito sempre per rovinare tutto. Alla fine, i suoi compagni, pur se innamoratissimi, si stancavano delle sue stranezze e dei suoi capricci e la lasciavano. Erano più che altro a disagio quando Michelle, nel corso delle sue 'visioni' sembrava essere lontana mille miglia e si estraniava dall'ambiente in cui si trovava. Le ultime 'visioni' l'avevano portata davanti ad una magnifica villa e poi al suo interno. C'erano dei mobili bellissimi, tutti di gran classe. Poi alla fine un simpatico ragazzo la guardava sorridendo e si avvicinava a lei. Il volto di quel giovanotto comparve diverse volte nella sua mente e lei aveva alla fine l'impressione di conoscerlo. Le dava una buona e bella sensazione e lei lo definiva il suo fidanzato virtuale. A volte si sentiva addirittura attratta da quella strana figura, come se ne stesse veramente innamorando. Spesso rideva di se stessa. Si era innamorata di una visione, di un fantasma! Era importante che questi episodi non si erano mai manifestati durante il suo lavoro. Alla fine si era rassegnata ad aver brevi relazioni e, per il momento, aveva accettato quella situazione. Ogni volta che un ragazzo la lasciava, lei, per consolarsi, prendeva un aereo dell'aeroclub di cui faceva parte, si faceva un bel volo di almeno due, tre ore sul deserto del Nevada. Non dormiva molto e spesso per mantenere i suoi ritmi, faceva uso di eccitanti che le davano l'energia di cui aveva bisogno sul lavoro. Poi cominciò ad avvertire la stanchezza. Sapeva che avrebbe dovuto limitare i suoi impegni o almeno condurre una vita più regolare. Ma per quello c'era tempo. Lei era ancora giovane e per un po' non avrebbe avuto problemi. Si accorse che perdeva sangue dal naso quando era particolarmente affaticata. Inoltre si trovava frequentemente sul corpo lividi, perchè, secondo lei, era divenuta sbadata e urtava con facilità contro gli oggetti che la circondavano. Per combattere la stanchezza che si faceva sentire sempre di più, si limitò ad aumentare la dose delle pillole. Finchè, durante un volo molto lungo, con la cabina piena di passeggeri che chiedevano continuamente di tutto, perse conoscenza e rimase a lungo priva di sensi, fortunatamente assistita dalle sue colleghe. All'arrivo, il comandante dell'aereo dovette segnalare l'accaduto e la ragazza fu ricoverata in ospedale per controlli. Michelle, molto contrariata, voleva uscire subito ma il dottor Harper Nelson, che l'aveva presa in cura, non era d'accordo. Dopo una visita generica, le prescrisse una serie di analisi e un periodo di riposo da trascorrere in ospedale. Dopo un paio di giorni, il dottore la sottopose ad una visita molto più accurata e le prescrisse altre analisi. La ragazza cominciò ad essere un po' preoccupata. Temeva che tutte quelle pillole che aveva ingoiato, avessero potuto causare qualche danno serio alla sua salute e che magari la sua condotta, quanto meno leggera, che dalle analisi probabilmente era venuta fuori, la potesse seriamente danneggiare sul lavoro. Poi il dottore la visitò di nuovo ma questa volta volle sapere tutta la sua storia e la storia della sua famiglia. Alla fine, le disse che c'era un problema, purtroppo abbastanza serio. Dalle analisi e dai sintomi, era emerso che lei era affetta da una seria patologia a carico del sangue, che all'inizio era stata interpretata come 'Piastrinopenia persistente'. Ma poi la effettiva gravità era emersa con indagini più accurate. Ed era anche in fase piuttosto avanzata perchè non aveva seguito le cure necessarie al momento opportuno. Ora, per tirarsi fuori dai guai, avrebbe avuto necessità di un trapianto di midollo compatibile. Di norma, poichè per trovare un donatore adeguato ci vuole sempre una notevole attesa, e Michelle, al punto in cui era, non aveva poi tanto tempo a disposizione, conveniva cercare un donatore all'interno del nucleo familiare. Per fortuna tutta la sua famiglia, almeno alle apparenze, risultava sana e di certo, nel suo ambito, avrebbe trovato il donatore giusto per lei. Le dette una cura di mantenimento che la avrebbe aiutata per un breve periodo e la dimise raccomandandole però di procedere con le pratiche della donazione del midollo più in fretta possibile. Giunse a casa dei suoi genitori e li rassicurò sulle sue condizioni. Poi spiegò loro cosa era successo e comunicò le conclusioni del medico. La reazione dei genitori fu per lei una sgradita sorpresa. Via via che parlava, si era resa conto che essi si rabbuiavano in viso e si scambiavano rapide occhiate, come se avessero qualcosa da nascondere. Alla fine la madre si coperse gli occhi con le mani e cominciò a piangere silenziosamente, mentre il marito cercava di consolarla. Michelle, che non capiva, aveva il dubbio che nessuno dei due avesse nè il coraggio nè l'intenzione di sottoporsi ad un prelievo, fra l'altro notoriamente piuttosto doloroso e per un attimo ne fu molto delusa. Poi la madre, che si era ripresa, disse al marito che lei doveva assolutamente conoscere la verità. L'uomo, dopo una lunga esitazione disse alla ragazza che le avevano sempre voluto bene come se fosse una loro figlia, ma loro non erano i suoi genitori naturali. Per Michelle questa fu una vera e propria mazzata. Mai aveva avuto il minimo sospetto di ciò. I suoi genitori, per lei, si erano fatti in quattro in più occasioni e più volte le avevano fornito grandi prove di affetto. Alla fine il padre le raccontò tutta la storia. Tanti anni prima, quando lui era solo un semplice impiegato nel casinò dove lavorava tuttora, i medici avevano detto a lui e a sua moglie che, con molte probabilità, non avrebbero potuto avere figli. Così avevano avviato le procedure per una adozione. La cosa era andata a buon fine ed il risultato era che alla fine, nel centro preposto, avevano affidato loro una magnifica bambina che poi, crescendo, era diventata quella fantastica donna che ora era Michelle. Quando, quattro anni dopo, era venuto Tom, lo avevano preso come un dono del cielo e avevano però deciso che mai, nessuno, avrebbe dovuto conoscere la verità. Ma ora.......  Michelle, si pentì di aver pensato male dei suoi genitori che erano state negli anni per lei due persone magnifiche. Ma poi pensò che per avere una possibilità in tempi ragionevoli di un trapianto, restava un'unica soluzione, ossia rintracciare la sua vera famiglia. Ma la cosa appariva altamente improbabile per il segreto che copre le pratiche di adozione. L'unica speranza era che, vista la gravità e l'urgenza della situazione, qualcuno facesse un'eccezione. Purtroppo, al centro dove erano state svolte a suo tempo le pratiche, nessuno volle venirle incontro. Capivano la serietà della situazione, ma la legge...... Magari se avessero ottenuto un permesso ufficiale, anche se si trattava di una pratica lunga....In realtà fecero ripetutamente presente che non c'era nulla da fare. Tornarono a casa estremamente demoralizzati. Eliminata quella possibilità, restavano assai poche speranze. I genitori della ragazza si rifiutavano di arrendersi e disperatamente cercavano un modo di venire a capo della situazione. E alla fine  Paul, si ricordò che nel centro lavorava una infermiera che seguiva i bambini immediatamente prima dell'affido alle coppie. Sapeva dove abitava e, se era ancora viva, forse avrebbe potuto aiutarli. Naturalmente il primo tentativo ebbe esito negativo. La donna, abitava in una piacevole villetta alla periferia della città. Ormai molto anziana, ricevette Paul ma appena questi le rivelò il motivo della sua visita, non volle sentire ragioni e lo mise alla porta. Il maldestro tentativo dell'uomo di offrirle del denaro, poi la mandò su tutte le furie e minacciò di chiamare la polizia. Un ulteriore tentativo di Barbara sortì lo stesso effetto. Seguì un periodo assurdo durante il quale ognuno tirava fuori qualche soluzione che poi, immancabilmente, non portava a nulla. La famiglia volle comunque sottoporsi ad un test di compatibilità che naturalmente non dette i risultati sperati. Poi, una sera, Michelle che, quasi senza guardare, tentando di pensare   ad   altro che non fosse il suo problema, sfogliava meccanicamente una rivista, rimase all'improvviso colpita da una foto che ritraeva a tutta pagina la facciata di una casa. Era la villa di un importante industriale nel campo delle materie plastiche. Un giovane miliardario di nome Nicholas Palmer. La casa era quella che le era apparsa tante volte nelle ultime sue visioni e la fotografia dell'uomo la sorprese ancora di più. Era quello che le sorrideva nelle medesime situazioni.  Lei conosceva quella casa, conosceva il suo interno e cosa ancora più fantastica, conosceva quell'uomo! Nell'articolo si diceva che il giovane industriale stava per sposarsi. Provò una strana, stupida sensazione di gelosia, come se, avendolo frequentato, nella sua mente, per tanto tempo, ritenesse che quella persona un pochino le appartenesse. Una sorta di ridicolo amore platonico a distanza. Una cosa da scolarette pensò, arrossendo. Su un lato di una pagina c'era la foto della futura moglie. Era una foto sgranata, presa con il teleobiettivo e i dettagli non erano chiarissimi. Ma......... sembrava lei! Un corto e stretto abito nero fasciava un corpo come il suo, il viso era perfettamente somigliante e persino i capelli, seppure di un biondo platinato, erano acconciati come i suoi. Rimase a lungo a riflettere. Poi, come una illuminazione, una risposta logica a tanti eventi strani. Possibile che avesse una sorella, e gemella per di più? Questo avrebbe spiegato tante cose. Le avevano detto che i gemelli spesso condividevano delle esperienze esistenziali. Che quelle visioni che aveva di quando in quando provenissero da una sorella gemella? Senza dire nulla a casa, andò a parlare con il suo dottore, chiedendogli un parere in merito. Lui rimase piuttosto sconcertato dai fatti. Osservò a lungo le foto della rivista. Una sorella gemella? Ma come provarlo? Senza documenti poteva essere una semplice coincidenza. E poi, ma questo il dottore non lo disse a Michelle, chissà che non avesse lo stesso problema? Nel qual caso tramontava ogni possibilità di trapianto. Michelle doveva sapere. Ne andava della sua vita. Fece ricerche in internet ma stranamente la rete non aveva particolari informazioni sulla fidanzata dell'industriale. C'erano alcune foto, ma sempre accanto al suo fidanzato e in nessuna si vedeva chiaramente. Alla fine, su una pagina Facebook, trovò delle foto scattate durante una festa mondana. Era proprio lei! Stesso fisico, stesso viso, stesso atteggiamento. Solo una cosa saltava all'occhio. L'espressione di quella donna, chiunque fosse era un'espressione dura, insensibile, scostante, nella quale lei assolutamente non si riconosceva. Nelle foto veniva indicata con il nome di Georgia Turner. C'era solo un modo di affrontare la questione. Andare a vedere di persona. Così, appena possibile, si recò in aeroporto e chiese un passaggio sul primo aereo per San Diego, offrendo in cambio un servizio di assistente di volo........ Mark le mise delicatamente una mano sulla fronte......... Michelle scese dall'aereo quasi stremata per la tensione nervosa e per il lavoro che aveva comunque svolto nel tentare di calmare i passeggeri. Aveva anche riportato un lieve trauma cranico perchè all'inizio della perturbazione, per assicurarsi che tutti avessero le cinture ben allacciate, aveva continuato a spostarsi per la cabina e aveva sbattuto con violenza la testa contro l'estremità di un bracciolo quando, uno scossone più forte degli altri, l'aveva praticamente gettata a terra. Andò a salutare il pilota e lo abbracciò ringraziandolo. Poi, con le poche forze residue, si recò in un vicino motel dove dormì per parecchie ore, cercando di recuperare le energie. Al mattino, sentendosi meglio, noleggiò una piccola vettura sportiva presso lo stesso motel. Per ordine e suggerimento del suo medico, il dott. Nelson, la ragazza  avrebbe dovuto recarsi, innanzitutto, presso una struttura medica che sorgeva nel quartiere Del Mar di San Diego, la Coastal Psychiatric Medical Associates, dove, a prescindere dal nome, operavano anche specialisti esperti in pediatria, radiologia ed ematologia. In quel luogo, l'avrebbe assistita un suo amico, il dott. Jordan Bell,  che sarebbe intervenuto a seconda delle necessità, per consentirle di essere al massimo della forma. Solo per un caso, il posto deve doveva recarsi, era a meno di tre miglia dal luogo dove aveva intenzione di cominciare le sue ricerche, ossia quella casa veduta nella rivista ma anche nei suoi sogni. Essa, infatti si trovava nel quartiere di Torrey Pine, a ridosso di un magnifico campo da golf. Quando Michelle giunse alla clinica, le infermiere dell'accettazione, nel vederla, fecero una strana espressione e tutte si mostrarono molto indaffarate e nessuna le badò finchè, ritenuto di aver atteso un tempo più che ragionevole, chiese comunque ad alta voce del dr  Bell. Alla fine una delle addette, con aria di condiscendenza chiese conferma del nome perchè il dottore che la seguiva era il dr. Morris e loro non avevano più tempo da perdere con lei. Michelle, che cominciava seriamente ad alterarsi, ribattè che lei non aveva nessun dottore perchè era la prima volta che si recava in quella struttura e per dare maggior peso alle sue parole, mostrò la lettera di presentazione del suo medico. Intervenne la capoinfermiera che fino a quel momento era restata in disparte, prese la lettera ostentando grande pazienza. La lesse e poi, la rilesse. Osservò attentamente la donna e poi, come per scrupolo, le chiese se avesse con sè un documento. Un pò sorpresa, non ebbe problemi a mostrarlo. A questo punto, dopo aver lanciato alle altre colleghe una strana occhiata, la capoinfermiera disse a Michelle di seguirla e, fattala sedere nel corridoio che avevano percorso, la invitò ad attendere ed entrò nella stanza vicina. La donna, da fuori, sentì delle voci che questionavano ma non riusciva a capire il senso delle parole. Alla fine fu invitata ad entrare. Dietro una grande scrivania, un uomo piuttosto corpulento, di mezza età, con un camice bianco, la osservò con interesse e curiosità. Le chiese alla fine chi fosse e cosa volesse da lui. Michelle gli indicò la lettera che l'uomo aveva sul piano dello scrittoio. Il dottore allora congedò l'infermiera che invece, si vedeva che avrebbe voluto a tutti i costi rimanere e, quando questa fu uscita, prese il telefono e chiamò il suo collega a Las Vegas, il dott Turner. Gli disse di avere davanti a lui la persona che gli aveva inviato e gli chiese se poteva fornirgli qualche altro particolare. Parlarono un pò e poi la conversazione fu interrotta. Il dottore compose un altro numero e chiese alla persona che rispose, se per favore poteva venire nello studio con una certa celerità perchè aveva qualcosa di molto particolare da mostrarle. Dopo un poco si aprì la porta ed entrò un altro medico, il dott Morris. Vide Michelle seduta sulla sedia davanti alla scrivania e, senza dare tempo a nessuno di parlare, le chiese in modo piuttosto brusco dove si fosse nascosta, perchè con il suo bizzarro comportamento, aveva rischiato di mandare a monte tutto. Poi, osservando l'espressione quasi divertita del collega ed esterrefatta della donna, si fermò, capendo che qualcosa gli sfuggiva. Si avvicinò ancora di più alla donna osservandola meglio e poi restò in silenzio guardando il collega. Questi, con la massima calma, gli disse che aveva l'onore di presentargli la signorina Michelle Sterling di Las Vegas, che gli era stata inviata per essere assistita durante il suo viaggio alla ricerca di una ipotetica gemella. L'identità della ragazza gli era stata confermata dal suo collega dr Nelson. Le chiesero perchè si fosse recata proprio lì, e lei spiegò cosa l'aveva portata in quel posto e mostrò, per suffragare le sue parole, una copia della pagina della rivista da cui tutto aveva preso le mosse. I due uomini le chiesero gentilmente di attendere fuori dallo studio e quando lei uscì, chiudendo la porta sentì che avevano cominciato a parlare fra loro piuttosto animatamente. Dopo un poco il dr Morris uscì a sua volta e dopo un rapido saluto, se ne andò. Il dr Bell, invece, la fece di nuovo accomodare, le prescrisse dei farmaci che le avrebbero somministrato le stesse infermiere della clinica, e poi, le chiese quali erano i suoi progetti nell'immediato futuro. Quando lei gli disse che aveva intenzione naturalmente di recarsi alla villa di Nicholas Palmer, il dottore sembrò molto contento e in realtà era anche sollevato per il fatto che le intenzioni della ragazza gli avevano evitato di parlare di cose che forse sarebbero andate contro l'etica professionale. Con la sua piccola automobile, Michelle entrò nel giardino della villa  e, dopo alcune esitazioni, si decise a suonare alla porta. Dopo pochi secondi aprì un impeccabile maggiordomo che però, appena la vide,  assunse un'espressione seccata e se ne andò lasciando la porta aperta dietro di lui e borbottando qualcosa a proposito di 'certa gente che fa solo perdere tempo a quelli che lavorano davvero'. La ragazza restò interdetta davanti alla porta spalancata, esitando sul da farsi. Era chiaro che si trattava tutto di un equivoco e lei aveva iniziato a farsi un'idea della situazione. La gemella c'era, eccome. E doveva essere un bel tipo, per aver indispettito a tal punto, tutti coloro che la conoscevano o che comunque avevano avuto a che fare con lei. Qualche dote però doveva possederla, se il padrone di casa si era innamorato di lei al punto di volerla sposare. Alla fine si decise. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. Era in un ampissimo vestibolo, alto quanto tutta la costruzione. Dal tetto, attraverso un enorme finestrone, la luce del sole entrava in modo sapiente, illuminando l'ambiente. Ai lati del vestibolo, di forma circolare, due rampe di scale portavano ai piani superiori. Tutto rigorosamente in bianco, con i gradini coperti da una guida e quadri d'epoca alle pareti. Insomma una villa stile anni 60'/70'. Guardandosi attorno Michelle scoprì di sapere quasi tutto di quella casa, anche se non ci aveva mai messo piede. Dietro la porta di quercia a sinistra, la biblioteca ricca di moltissimi volumi. La porta successiva portava allo studio del padrone di casa. Procedendo dritti, si accedeva ad un salone, usato come sala da pranzo e di lì, si giungeva ad un bel giardino interno. La porta a destra, invece, conduceva ad uno splendido salone, usato per le feste  e contenente anche un pianoforte a coda di gran pregio. Passò una giovane cameriera con l'aria di non voler essere disturbata ma Michelle le chiese decisamente dove fosse il padrone e quella, senza parlare, le indicò la porta dello studio. Fatto un profondo respiro, bussò e senza attendere risposta, entrò. L'uomo che lei non aveva mai incontrato ma che invece conosceva così bene, alzò distrattamente la testa da alcuni fogli che stava esaminando e subito, ritenendo di aver riconosciuto la visitatrice, si alzò e si precipitò ad abbracciarla malgrado la resistenza di Michelle. Lui la stringeva chiedendole dove fosse stata, dicendo che l'aveva tanto fatto preoccupare e che gli dispiaceva che avessero litigato. Alla fine Michelle riuscì a staccare l'uomo da lei e a dirgli che c'era stato un equivoco. Lei non lo conosceva affatto ed era lì solo per chiedere informazioni su una persona. In realtà non era proprio così. Non lo aveva mai incontrato questo si, ma lo conosceva al punto da esserne praticamente innamorata. Lui assunse un'espressione strana e le domandò se aveva intenzione di ricominciare il gioco. Il giorno prima, durante la cena, nel bel mezzo di una discussione, come in preda al panico, all'improvviso si era alzata da tavola e premendosi le mani sulla fronte e gemendo era scappata dalla casa e nessuno l'aveva più vista. Michelle pensò al giorno prima, pressappoco all'ora di cena. Era il momento in cui aveva rischiato di morire assieme a tutti gli altri passeggeri del suo volo. Allora, anche lei era in grado di trasmettere qualcosa alla sorella! Poi, Nicholas la guardò in modo strano, aveva di certo notato qualcosa. Per quanto gemelle non potevano di certo essere identiche. Infine l'uomo con un tono inquisitore le chiese chi fosse lei e che cosa cercasse in quel posto. Michelle disse solo che aveva scoperto di avere una sorella gemella ed ora la voleva conoscere, quindi chiese notizie di Georgia Turner. Palmer fu molto evasivo nelle sue risposte e si capiva che era molto combattuto fra il mandarla via e trattenerla lì, in quanto affascinato da qualcosa che gli comunicava quella donna. Il viso, il corpo, per quello che poteva vedere, erano identici a quelli della sua Georgia, ma il resto..... lo sguardo, l'intonazione della voce, l'energia stessa che emanava era completamente diversa. Migliore, forse. Michelle capì che lì non aveva più nulla da fare e senza esitazione lasciò il recapito del suo motel chiedendo di essere chiamata quando fosse tornata la sorella. Uscì ma, quando fu prossima alla sua automobile, parcheggiata presso la parete della villa, si sentì prendere con violenza per un braccio e, prima di capire cosa succedesse, era stata trascinata dietro l'angolo della casa e messa con le spalle al muro. Chi aveva fatto questo era..... lei. Era proprio lei, ma con i capelli tinti di biondo, un vestito evidentemente di alto costo e piuttosto stretto e corto ed un paio di scarpe con tacchi vertiginosi. In più un trucco molto vistoso, anzi, certamente eccessivo. La donna che la osservava, quasi senza parole per la reciproca sorpresa, aveva comunque un so che di cattivo nello sguardo. Quando la sconosciuta assalitrice si riprese dalla sorpresa, con voce tagliente chiese all'altra donna chi fosse e cosa stesse cercando in quella casa. Michelle, che non si era certo immaginata un incontro simile con la sorella gemella, perchè non c'era dubbio che quella fosse colei che era venuta a cercare, ripresasi dalla sorpresa di quella specie di attacco, decisamente respinse le mani della donna e le disse chi era. Le rivelò anche cosa voleva da lei. L'altra fece uno strano sorriso e le disse che, per quello, era arrivata tardi. Stimato che Michelle non era pericolosa, Georgia le disse di salire in macchina e, salita a sua volta, la guidò ad un piccolo locale sulla spiaggia dove, sedute all'esterno, presero un caffè, ma più che altro iniziarono a parlare fra di loro. In realtà passarono diversi lunghi minuti a squadrarsi. Michelle, perchè non trovava le parole, Georgia, perchè in realtà la stava valutando per qualche sua mira personale. Lei era fatta così, la vita le aveva insegnato a cercare di sfruttare gli altri per quanto possibile e lei, d'abitudine, soppesava tutti coloro con cui aveva a che fare. Alla fine Michelle parlò delle visioni che le arrivavano all'improvviso. L'altra confermò a sua volta lo stesso fenomeno. La sera prima, addirittura,  era stato così terribile e intenso da farla quasi impazzire di terrore. Quando l'altra le spiegò cosa era accaduto, Georgia le disse che aveva sentito addirittura la morte vicina. Era malata anche lei, stesso problema, e la morte la ossessionava da un pezzo. Aveva scoperto, per caso, molto prima della sorella, del problema che aveva. Anche a lei avevano detto che, nel suo caso, ci sarebbe voluto un trapianto. Con sgradita sorpresa aveva saputo, presso la clinica dove era in cura, appunto la Coastal Psychiatric Medical Associates, che la lista d'attesa, per lei, sarebbe stata lunga per via dell'età in quanto, per ovvi motivi, la precedenza veniva data ai bambini. Per essi, infatti era anche molto più bassa la percentuale di rigetto. L'ultimo elemento che aveva messo la parola fine alle sue speranze, era stata la notizia che il procedimento, tutto compreso, le sarebbe venuto a costare fra i 50.000 e i 70.000 dollari. Tanto valeva che le avessero chiesto un miliardo per quelle che erano in quel momento le sue disponibilità. Aveva perso la  pazienza  ed essendo divenuta nel tempo un tipo piuttosto violento, aveva suscitato un pandemonio causando danni alla struttura e malmenando addirittura alcuni membri del personale. Alla fine era dovuta intervenire la polizia. Aveva capito di avere un disperato bisogno di soldi e cercava il modo di procurarseli. Per vie traverse, venne a sapere che un uomo ricco, un industriale, cercava una nuova segretaria pratica della zona. Sfruttando tutte le sue risorse lecite e non, era riuscita a farsi assumere. Aveva una bellissima presenza, aveva avuto l'intelligenza di farsi una discreta cultura, all'occorrenza non si faceva scrupolo di usare le arti marziali che aveva studiato per diversi anni, proponendosi quindi anche come guardia del corpo. Nicholas Palmer era rimasto affascinato da quella donna così particolare e, alla fine, lei era riuscita a far andare le cose in un certo modo per cui il suo datore di lavoro era divenuto presto il suo fidanzato. Poi era venuta fuori, come per caso, la questione della malattia e la necessità del trapianto. Lui, naturalmente, aveva mosso mari e monti e alla fine, un donatore compatibile per lei, si era trovato. Tutto liscio e tutto pronto. La procedura per l'intervento sarebbe partita due giorni dopo. Michelle capì che per lei non c'era più nulla da fare e quindi, stanca e sfiduciata, lasciò la sorella davanti alla villa di Palmer e poi tornò al suo motel dove apparentemente, senza più forze, si lasciò cadere sul letto. Aveva tentato la sua ultima carta ma non era andata bene. Dubitava perfino che la sorella l'avrebbe aiutata, anche se fosse stata sana. Lei aveva avuto una vita tutto sommato normale e piacevole. Una bella famiglia, dei buoni amici, un bel lavoro. L'altra, aveva trovato il modo di raccontarle che aveva avuto delle vicende ben diverse. Una famiglia regolare ma poi, quando aveva circa 12 anni, il padre adottivo aveva tentato di molestarla. La madre aveva scoperto tutto ed aveva cacciato il marito, ma lei era finita in una casa famiglia dove aveva dovuto imparare a sue spese a difendersi. Passata in un'altra struttura similare, con ragazzi più grandi,  le cose non erano migliorate. A sedici anni, per una bravata finita male, era stata inviata per due anni in un riformatorio dove aveva impiegato il suo tempo sfruttando al massimo l'opportunità di studiare. Alla fine, uscita, era divenuta maggiorenne. Aveva iniziato a lavorare, cercando però sempre di migliorarsi e non cedendo mai alle lusinghe di una vita facile. Aveva avuto una lunga relazione con un campione di arti marziali che le aveva insegnato diverse tecniche. Poi, altri lavori, ma sempre con una smania di andare avanti, di non contentarsi mai. E poi... la scoperta della sua malattia. Quando Georgia tornò alla villa, Palmer le chiese cosa fosse accaduto ma lei, dopo aver dato delle sommarie spiegazioni, lasciò cadere l'argomento, come se la cosa non la riguardasse più. Lui invece rimase a pensare a lungo a quella strana situazione. Quella ragazza, così particolare, in qualche modo l'aveva colpito. Non riusciva a scordare i suoi occhi e lo sguardo. Alla fine si decise a prendere il telefono e contattare il dr  Morris. Gli chiese se, vista la particolare situazione, il trapianto non si potesse praticare su due persone, invece che su una sola. Magari, essendo sorelle gemelle, sarebbe andato bene lo stesso materiale per tutte e due e, se era solo una questione di soldi,......... Il telefono dovette squillare a lungo prima che Michelle, ancora distesa sul letto, con la mente fuori dal mondo, come a volersi estraniare da tutto e tutti, si decidesse a rispondere. Con uno sforzo sovrumano, si volse verso l'apparecchio che era sul comodino, accanto al letto, e sollevò il ricevitore. Dopo aver confermato di essere Michelle Sterling, rimase in ascolto e udendo le parole del suo interlocutore, dapprima ebbe un'espressione di incredulità, poi di meraviglia e infine di gioia. Dall'altra parte del filo le avevano comunicato che il sig Palmer aveva disposto l'eventualità di un intervento anche per lei, se fosse stata d'accordo, dopo essere stato rassicurato che entrambe le donne avevano la possibilità di guarire. Le vennero date le disposizioni e le dissero che l'aspettavano presso la clinica Coastal Psychiatric Medical Associates per il giorno seguente. Dopo aver informato la sua famiglia di quanto le era accaduto, fece tutti i preparativi per il giorno successivo. Trovò ad aspettarla in clinica Nicholas Palmer che non volle ringraziamenti e che le disse che era naturale che si procedesse in quel modo, vista la singolarità della situazione. Tutto sotto lo sguardo piuttosto seccato di Georgia. Le fasi dell'intervento richiedevano che le due donne fossero isolate in camera sterile per almeno quattro settimane. I medici, effettivamente, avevano pensato che, essendo sorelle, si sarebbero fatte reciproca compagnia. In realtà le due donne erano delle perfette estranee tanto uguali fisicamente quanto differenti dal punto di vista del carattere. Al momento dei saluti, Nicholas abbracciò la fidanzata e poi dette la mano alla sorella. La stretta di mano durò però qualche istante più del necessario. Tutti e due erano rimasti lì, fermi a guardarsi negli occhi. Alla fine Gerogia, con il suo solito atteggiamento brusco,  disse alla sorella di muoversi. I primi giorni furono pieni di attività, di eventi belli e brutti. Tagliarono loro i capelli cortissimi, fecero tantissime analisi e alla fine inserirono loro un piccolo catetere venoso al di sotto della clavicola sinistra, attraverso il quale sarebbe stato somministrato loro tutto quanto necessario per la procedura. Per due giorni ricevettero medicinali aventi lo scopo di eliminare, per quanto possibile, le cellule malate o imperfette. Durante questo periodo stettero ambedue piuttosto male, con Michelle che sopportava con una certa rassegnazione e Georgia che protestava su tutto, trattava malissimo gli addetti e si lamentava per qualsiasi cosa. Durante quella fase,  l'accostamento delle due donne risultò una mossa vincente. Michelle aveva la capacità di calmare la sorella e alleviarle quindi la sofferenza a livello emotivo. Poi, finalmente, per endovena, ricevettero il midollo sano. Ora dovevano solo aspettare per due settimane che le cellule cominciassero a riformarsi, nella speranza che tutto fosse andato a buon fine. Durante questa fase, avrebbero dovuto essere attentissime a non contrarre alcun tipo di infezione, essendo ormai prive di qualsiasi difesa immunitaria. Si erano portate in camera sterile diversi oggetti per passare il tempo. Il necessario per scrivere e anche un piccolo computer, uno smartphone e riproduttori di musica. Dopo alcuni contatti telefonici con persone all'esterno, decisero di non chiamare più nessuno. Le amicizie di Georgia l'avevano trattata come una marziana e i parenti di Michelle erano apparsi preoccupatissimi. D'altronde, le due donne si facevano un'ottima compagnia. Approfittarono del tempo disponibile per conoscersi più a fondo. Forse erano più simili di quanto potesse apparire. Era chiaro che, per il loro carattere, molto avevano influito le vicende familiari ed esistenziali. Ogni giorno veniva a trovarle Nicholas che, separato da un vetro, parlava a lungo con la fidanzata elencandole i progetti che avrebbero realizzato quando lei fosse uscita da lì. Dopo circa una settimana però Georgia iniziò a dare chiari e seri segni di insofferenza. Agitata, smaniosa, irrequieta per natura, mal sopportava quella situazione da reclusa e questo veniva aggravato dal tremendo senso di nausea che provava in continuazione. Passava lunghe ore raggomitolata nel suo letto, girata verso la parete per non vedere e non sentire nessuno. Quando giungeva Nicholas lei faceva appena segno con una mano per salutarlo ma poi si estraniava in quella che ormai era divenuta, almeno durante il giorno la sua posizione abituale. In compenso era Michelle che ora faceva lunghe chiacchierate con quell'uomo che l'attraeva così tanto. Si trovavano bene insieme, e il tempo concesso per le visite passava in un attimo. Poi Michelle andava dalla sorella e trovava il modo di calmarla, alleviandole un poco la sofferenza. Alla fine, dopo circa tre settimane, per tutte e due, si cominciarono a vedere gli sperati risultati. Le nuove cellule avevano iniziato a riprodursi e loro stavano decisamente meglio. Pur senza esagerare, la loro dieta si arricchì un pochino e poterono lasciare finalmente quella reclusione a cui erano state sottoposte. Dovettero però rimanere ancora nella clinica per altre sei settimane. Finchè alla fine Georgia si decise ad affrontare l'argomento. Chiese alla sorella se per caso si fosse innamorata di Nicholas perchè se la risposta era affermativa, le assicurò che, a cose concluse, poteva benissimo tenerselo. Ad una Michelle incredula e sorpresa, spiegò che l'uomo era stato necessario per ottenere l'intervento, oltre che a ricevere in dono diversi gioielli, un'auto sportiva da 60.000 dollari, e vacanze nei più belli ed esclusivi hotel di mezzo mondo. Ma ora basta, perchè comunque Nicholas era un uomo di una noia mortale. Non rideva quasi mai, non ballava, non si ubriacava, non faceva mai stupidaggini ed era sempre attento e compassato. Insomma una rottura di scatole da record del mondo. Per cui, appena uscite, un bell'abbraccio, un ringraziamento e poi via sulla sua macchinetta con tutto quello che era riuscita ad ottenere. La sorella non capiva come si potesse essere così cinici. Inoltre quel discorso, come era però nello stile di Georgia, non considerava minimamente la volontà di Nicholas. Ma non stava a lei giudicare, In fondo quello che era iniziato come un amore assolutamente platonico, con il tempo e la frequentazione effettiva, si era trasformato in qualcos'altro. Da quel momento quando Nicholas veniva in visita, Georgia faceva in modo di essere altrove e non rintracciabile. Michelle e l'uomo poterono passare diverse ore insieme, durante le quali si confidarono tante cose. Lui le disse che di lei l'aveva colpito lo sguardo dolce e la buona energia che si percepiva intorno alei. Della sorella, l'aveva stregato, al principio, quella sua aria misteriosa, intrigante. Quel carattere così forte, all'inizio, l'aveva letteralmente soggiogato. Si era reso conto però, ben presto, che era divenuto quasi un giocattolo nelle mani di quella donna che pretendeva sempre di più senza praticamente dare quasi nulla. Ora era giunta Michelle che gli aveva mostrato come doveva essere una vera donna o almeno quella che lui aveva sempre sognato. Finalmente, noncuranti di essere nel giardino della clinica, si abbracciarono e si scambiarono un lungo bacio, il bacio che Michelle aveva sognato per anni. Quando la salute delle due donne che miglioravano sensibilmente di pari passo, lo permise, vennero dimesse. Michelle aveva accettato di restare nella villa di Nicholas e Georgia, caricate tutte le sue cose sulla sua splendida auto, li aveva salutati ed era partita in cerca dei vecchi amici nel suo ambiente. Aveva promesso di seguire alla lettera le indicazioni del medico ma...... Quel giorno stesso Nicholas chiese a Michelle di sposarlo e lei, che lo trovava l'uomo più meraviglioso del mondo, accettò con entusiasmo. Lui le dette, a quel punto, un minuscolo anello con una pietruzza appena visibile. Lei l'accettò comunque con gioia per ciò che rappresentava. Nicholas, che aveva studiato attentamente la sua espressione, capì definitivamente di non essersi sbagliato. Michelle era sincera nella sua felicità. Quella era la donna che voleva. Le disse che c'era un altro regalino per lei e la fece salire in macchina andando verso la San Diego Fwy, a breve distanza. Le chiese di chiudere gli occhi e di non imbrogliare. Michelle, sorpresa e divertita da quella situazione, obbedì alla lettera. Quello non sarebbe stato  certamente un uomo noioso. Dopo circa 5 minuti la macchina su cui erano si fermò e Nicholas l'aiutò a scendere. La ragazza si lasciò guidare per una  cinquantina di metri. In realtà si era fatta una mezza idea circa il  tipo di posto dove era stata condotta. Aveva riconosciuto sia l'odore che i rumori di quell'ambiente caratteristico. Non sapendo cosa aspettarsi, decise comunque di stare al gioco fino in fondo. Poi lui le disse di guardare. Erano in un piccolo aeroporto e di questo la ragazza si era già resa conto. Davanti a loro, un hangar con le porte spalancate e lì, parcheggiato, un fantastico aereo bimotore Beech King Air 200 bianco con inserti argento e blu. Poi lui le mise in mano le chiavi dell'aereo. Quello era il suo dono di nozze. Aveva saputo che lei era in possesso del brevetto di volo  lui. Quello era il mezzo per il loro viaggio di nozze, nel luogo che lei avrebbe scelto. Lei era rimasta senza parole e non aveva trovato di meglio da fare che abbracciarlo strettamente. La sorella non aveva proprio capito nulla! Quella sera andò a dormire felice. Non poteva desiderare nulla di più e di meglio. Era guarita, aveva trovato finalmente un uomo che l'amava veramente e profondamente. Aveva sentito per telefono la sua famiglia ed erano entusiasti per lei. Così, consapevole che i suoi sogni si stavano avverando, dolcemente, scivolò nel sonno.......Mark piuttosto stanco lasciò la donna serena e con un fantastico sorriso che le illuminava il bel viso.

Jean Heaton, 51 anni

Jean Heaton era seduta rigida, con le mani aggrappate letteralmente ai braccioli. Era tutta tesa all'indietro e con le mascelle serrate. Guardava fuori del finestrino con uno sguardo teso, come a cercare, da donna abituata a risolvere ogni problema, una via di uscita da quella tremenda situazione. Mark le si avvicinò e le toccò una spalla. Jean si lascò andare rilassata sul sedile chiudendo gli occhi e distendendo i tratti del viso. Era nata in una facoltosa famiglia, nello stato del Nevada, che si occupava di prodotti chimici e farmaceutici. All'inizio era stata solo una ragazza viziata che si occupava esclusivamente di vestiti, feste e, per quanto possibile, considerando la sua giovane età, di bei ragazzi. Ma poi, arrivata all'età di sedici anni, aveva insistito per accompagnare il padre che partiva per un lungo giro di contatti in alcuni paesi del Centro Africa. Per quanto frequentassero solo i migliori alberghi e i quartieri più signorili delle città visitate, non potè non accorgersi della grande miseria che c'era attorno a quelle isole felici ma, soprattutto, della gente malata e senza cure. Questa esperienza la cambiò profondamente e appena tornata in patria, decise di terminare gli studi e intraprendere una carriera che le consentisse di intervenire per fare qualcosa per sconfiggere quella terribile condizione. Contro la convinzione di tutti i suoi familiari, sicuri che quei propositi sarebbero durati solo poco tempo, arrivò a prendere una laurea in medicina e poi si specializzò nel campo delle malattie infettive. A quel punto, forte della sua esperienza e delle sue conoscenze, si ripropose all'industria di famiglia dove intanto il fratello maggiore aveva raggiunto una situazione di prestigio a livello amministrativo. Il padre la accolse a braccia aperte e la mise subito al lavoro. Nel giro di pochi anni Jean produsse due vaccini che trovarono vasta distribuzione nei paesi sottosviluppati. Purtroppo questo periodo durò poco. Il padre morì ed il fratello, subentrato per testamento nella direzione dell'industria, le disse chiaro e tondo che i suoi studi costavano più di quello che rendevano quindi il suo programma sarebbe stato cancellato. E basta.  Fu tutto inutile. Pur essendo un'erede, nella conduzione degli affari di famiglia non aveva nessuna voce in capitolo. Ci rimase così male, che decise di rompere con la sua famiglia. Lasciò il lavoro, si liberò del pacchetto azionario ricevuto in eredità, e andò a lavorare per una industria concorrente, che, conoscendola di fama, la accolse immediatamente e senza riserve, dopo che essa si era impegnata a non comunicare ai nuovi datori di lavoro notizie relative a quanto svolto fino a quel momento. Aveva avuto alcune intuizioni nel campo dei vaccini di cui non aveva ancora parlato a nessuno e avendo avuto campo libero, si mise a lavorare in quella direzione. Derivarono dei prodotti di grande efficacia e di larga diffusione. La donna iniziò a fare carriera e, purtroppo, questo la allontanò un poco dal campo della ricerca pura, destinando una rilevante parte del suo tempo alle pubbliche relazioni per la promozione dei prodotti. Nel 1987 la società per cui lavorava, prese contatti con l'esercito, relativamente ai vaccini previsti per i militari in servizio in alcuni Paesi esteri. Jean partecipò a molte riunioni, in qualità di esperta, per fornire notizie e dettagli sui prodotti presentati. Durante una di queste riunioni conobbe un maggiore dei marines, George Collins. Era un bell'uomo, sulla quarantina, alto e robusto. Apparentemente rude e estremamente determinato ma anche capace di gesti teneri e spontanei. Fu un amore a prima vista. Si sposarono pochi mesi dopo. George non faceva parte, in quel momento, di reparti combattenti e quindi la loro vita scorreva regolare e abbastanza tranquilla, seppure ognuno avesse per l'altro dei segreti legati alla loro particolare attività. Ma essi accettavano serenamente questo stato di cose con rispetto e discrezione. Avevano degli amici comuni, al di fuori della loro cerchia lavorativa, che frequentavano con una certa regolarità. E poi, il 2 agosto 1990, l'Iraq occupò il Qwait. Immediatamente, assieme ad un intenso lavoro diplomatico per cercare di risolvere la questione, si mise in moto anche la potente macchina da guerra statunitense, ma contemporaneamente, ciò avvenne anche in altri Paesi, alcuni europei, che, eventualmente le cose fossero precipitate, non volevano farsi trovare impreparati. Intanto nei confronti dell'Iraq venne applicato un blocco commerciale. Il 29 novembre 1990 l'ONU chiese il ritiro dal Qwait dando come termine il 17 gennaio del 1991. Quando questo termine giunse alla scadenza  senza esito alcuno, la coalizione costituita dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, passò alle maniere forti. George fu richiamato al servizio attivo e, senza molto preavviso, partì assieme alla sua unità. Fortunatamente fu rimpatriato all'inizio dell'anno successivo sano e salvo. Jean si rese conto, quasi immediatamente, che l'uomo ritornato da quella esperienza, non era esattamente quello che era partito, ma si convinse che una guerra poteva avere questo effetto su una persona, anche se già abituata a partecipare ad eventi bellici. Però, nel tempo, le cose iniziarono a peggiorare. George era sempre stanco, di pessimo umore, specie a causa di tremende emicranie e poi, gradatamente, nel giro di un paio d'anni, iniziò ad avere dei vuoti di memoria, via via sempre più gravi. Jean iniziò a preoccuparsi seriamente quando venne a conoscenza che questi sintomi, assieme ad altri anche più gravi, interessavano un grande numero di reduci dalla guerra del Golfo. Era segno che in Iraq era successo qualcosa che prescindeva dai semplici fatti bellici. Qualcosa aveva contagiato o comunque contaminato quegli uomini ed ora, essi avevano assolutamente bisogno di aiuto. Jean, nella sua veste di ricercatrice, si mise subito all'opera coadiuvata da altri colleghi, per cercare di scoprire, anzitutto, le cause di quei seri problemi, poi per valutare cosa poteva averli prodotti e infine per trovare una cura. Subito si resero conto di una cosa. Non solo non ebbero il minimo aiuto dalle autorità a cui si erano rivolti, ma anzi ebbero la netta impressione di essere  ostacolati nelle loro iniziative, come se qualcuno tentasse di coprire qualcosa. La giustificazione di questo comportamento fu che già altre organizzazioni con reali capacità e mezzi, si stavano occupando del problema e che non sarebbero state accettate ingerenze. Questo comportamento non convinse affatto Jean che inoltre, a causa di George, era parte in causa. Scoprì così che le ricerche condotte fino a quel momento, avevano indicato alcune cause ricorrenti. La prima indicava la possibilità di esposizione all'uranio impoverito di alcune munizioni usate in battaglia. Si parlava poi di esposizione alle famose armi chimiche degli Iracheni, che le avrebbero effettivamente usate in combattimento. Si parlava in particolare di iprite. C'erano stati poi degli episodi particolarmente gravi, come ad esempio il bombardamento e la distruzione della base irachena di Khamisyiah, nel nord del paese, avvenuta nel marzo del 1991 da parte degli americani. L'azione, portata avanti senza avvertire nè gli alleati nè le truppe circostanti, aveva distrutto riserve di armi chimiche, senza rendersi conto, al momento, che fra esse si trovavano grandi quantità di Sarin, un tremendo gas nervino che, al momento dell'esplosione, assieme all'iprite, produsse una nube dagli effetti non valutabili per chiunque non si trovasse a distanza di sicurezza. Ma vista l'estensione e la consistenza della nube, la zona avrebbe dovuto essere veramente molto, molto estesa. Jean decise di mettersi a lavorare come esperta ricercatrice su questi dati, per valutare i danni che essi potevano aver causato alle vittime. Riuscì ad ottenere notizie e documenti sui campioni di sangue prelevati a molti degli ammalati. La società per cui lavorava decise di lasciarla fare. Il numero degli ammalati era molto elevato e un vaccino avrebbe avuto grande diffusione e avrebbe portato prestigio al produttore. La donna sentiva però che qualcosa le sfuggiva. Aveva la certezza che qualcuno le nascondesse degli elementi importanti. E intanto George peggiorava sempre di più. Ma anche molti altri. Poi, qualcuno le fece notare che i sintomi riguardavano anche un certo numero di personale che non era mai stato sui campi di battaglia, sia per quanto riguardava i soldati americani, sia per quelli della coalizione. E poi.... Poi le arrivò, da una fonte anonima, un invito a controllare cosa veniva iniettato ai soldati in partenza per i luoghi di guerra. Scoprì che essi, a seconda dei luoghi dove potevano essere inviati, ricevevano fino a 25/30 vaccini, senza sapere realmente cosa essi provocassero all'organismo di quelle persone. Al primo posto c'era quello contro l'antrace. In particolare scoprì che uno dei suoi componenti, lo 'squalene', in dosi massicce, sembrava avere effetti pericolosi per l'organismo. Si trattava di un idrocarburo tritorpene il cui nome deriva dal fatto che viene prodotto in notevoli quantità dal fegato degli squali. In realtà viene prodotto dall'organismo di ogni essere vivente, uomo compreso, seppure in quantità minime. Circa l'80% dei militari colpiti dalla malattia, presentava anticorpi per contaminazione da squalene. Qualcuno dei reduci ammalati con cui parlò, le disse poi, che la paura dei parassiti era talmente alta, che gli alloggi dei militari americani in Iraq erano continuamente irrorati con antiparassitari, spesso perfino con le truppe all'interno. Le cause quindi potevano essere parecchie ma un elemento restringeva il campo di ricerca. Molti degli ammalati non erano mai partiti per il fronte. Questo servì a far orientare l'interesse di Jean verso l'ipotesi delle vaccinazioni. Non era facile però procedere poichè avrebbe avuto bisogno dei vaccini per esaminarli e per studiarli. Molti di questi erano protetti da segreto e non trovò il modo di ottenerne neppure piccoli campioni. Comunque, nel suo studio sul tessuto nervoso, la sua degenerazione ed eventuale recupero, risolse dei problemi che aiutarono molti suoi colleghi nel campo della ricerca. Ne derivarono medicinali all'avanguardia che rendevano alla società, per cui lavorava, floridi guadagni. Ma tutto questo alla donna non interessava. Aveva in mente un solo obiettivo: recuperare George e tanti altri come lui. Era diventata la sua missione, la sua ossessione. Alcuni rimedi che aveva messo a punto, sembrarono avere degli effetti positivi ma purtroppo si trattava di risultati temporanei. Avevano però l'indubbio merito di rallentare il decorso della malattia che, però, procedeva inesorabile portandole sempre più lontano la mente di George. Alla fine, mentre cercava disperatamente di procurarsi dosi sufficienti di vaccino per poterle analizzare e condurre tutta una serie di esperimenti, nel 2009 arrivò una doccia fredda. Dall'alto, una sentenza definitiva, dichiarava, senza ombra di dubbio, che i vaccini non erano assolutamente collegati con la patologia in questione. I farmaci erano efficaci e tutti quelli previsti, dagli anti influenzali a quelli destinati ai neonati e ai bambini, o erano altrettanto. A quel punto perse ogni contatto e aiuto da parte di quelle autorità che, seppure malvolentieri, avevano collaborato con la ricerca. Non era però un tipo da arrendersi e questo l'aveva confermato con moltissime scelte nella sua vita. Se non poteva studiare le cause, sarebbe ripartita dalle conseguenze. Non si sarebbe mai arresa. Chiese alla compagnia per cui lavorava se l'avrebbero appoggiata nella sua nuova ricerca. Ottenuto il consenso, trasformò il suo laboratorio in modo da poter effettuare i nuovi test. In realtà, il nuovo studio, appariva già ai colleghi e anche ai collaboratori una follia. Il punto era che la gamma dei sintomi era così ampia da non consentire un metodo di ricerca organizzato e attendibile. Problemi organici,  mentali, strutturali. Da che parte cominciare? Capire cosa potevano avere in comune tutti quei sintomi. Questo non era difficile. La questione riguardava problemi a livello cellulare. Perchè le cellule perdevano il loro equilibrio? Cosa alterava la composizione della pellicola esterna? Cosa influiva sull'equilibrio elettrico, fra l'interno e l'esterno della cellula?  Cosa attaccava le guaine mieliniche che difendevano i nervi, provocando, conseguentemente, la morte del nervo stesso? Alla fine, delle risposte vennero trovate. Jean riuscì ad isolare una serie di elementi che, quasi certamente, provocava i danni riscontrati. Si poteva intervenire per eliminarli e fermare comunque la fase degenerativa. Certo, importante, ma dopo tanti anni, chi si era ammalato era già arrivato ad una situazione critica, sempre che fosse ancora vivo. Il suo George, con tutte le cure a cui era stato sottoposto, aveva una accettabile condizione fisica ma la sua mente se ne era praticamente andata. Non riconosceva più nessuno e passava le sue giornate seduto in una poltrona che gli consentiva di osservare l'attività nella strada sottostante. Da un po' di tempo, però, la donna si era accorta che il marito aveva lo sguardo perso nel vuoto come se non avesse più nessun contatto con la realtà. Serviva qualcosa di più, serviva qualcuno che fosse in grado di prendere quei rimedi trovati e fonderli in modo da farli lavorare assieme, ma con una marcia in più, qualcosa che sapesse ottenere un'armonia nei vari effetti, tale da riavviare un processo di rigenerazione generale. Ma per fare questo non bastava uno scienziato. Ci voleva qualcuno che nel suo campo avesse un estro speciale, un "artista". Pensò subito ad alcuni nomi e, alla fine, scelse quello di un personaggio che, pochi anni prima, era addirittura stato vicino al Nobel per la medicina per una serie di studi nel campo della citopatologia, il professor  Nicholas Maxwell. Non lo aveva mai visto di persona ma aveva letto diversi suoi libri e seguiva le sue pubblicazioni. Da una ricerca sul computer, vide che in quei giorni, era ospite di un convegno che si svolgeva in un hotel di Las Vegas. Non perse un istante. Il giorno seguente era in quella città diretta verso l'hotel che le interessava. Quando giunse, i lavori erano terminati da poco e i vari partecipanti erano al bar per una festa di commiato. Si fece indicare il professore e subito lo raggiunse, dicendogli, dopo essersi presentata, che gli doveva parlare con una certa urgenza. Lui, preso un po' alla sprovvista, prese tempo rimandando il loro colloquio al termine dell'intrattenimento. Quando il professore fu disponibile, Judith rimase un poco delusa. L'uomo aveva palesemente bevuto un pò troppo e da questo, ed altri particolari, pensò che quella non fosse esattamente la persona che si era aspettata. Dopo averla ascoltata con aria grave, il professore rimase a lungo in silenzio, guardando a terra o il bicchiere che aveva in mano. Alla fine, con un profondo sospiro, si decise a parlare. Di certo, complice l'alcool bevuto, con un senso di fatalismo, confidò alla donna, sorpresa da quell'atteggiamento, di non essere lui la vera mente del suo gruppo. Si, lui era esperto, bravo, in gamba, perspicace, intelligente e soprattutto molto autoritario sul lavoro. Questo significava che, se nella sua equipe qualcuno, dotato di genialità, particolari capacità deduttive e perspicacia al di fuori nel comune nelle ricerche, tirava fuori qualche conclusione peculiare, questa conclusione diventava la sua, in qualità di capo. Ma era così dappertutto, nelle varie università, nei centri ricerca dove gli ultimi arrivati, subivano spesso di questi soprusi. Anche lui aveva avuto alle sue dipendenze un genio, una persona speciale, che però alla fine, stufo di essere scavalcato e ignorato, se ne era andato. Aveva raccolto un pò di soldi e si era messo in proprio, aprendo un laboratorio personale. Il vecchio professore, come se stesse parlando con sè stesso, aggiunse che avrebbe volentieri dato tutto il suo enorme laboratorio scientifico per essere accanto a quel giovane ricercatore e vedere cosa stesse combinando. Poi, vedendo lo sguardo interrogativo di Judith, le disse che la persona che cercava, il genio, si chiamava  Samuel Baker e aveva un laboratorio, anzi un modesto capannone sulle rive del lago Martinez, poco a nord di Yuma. E le augurò buona fortuna. Poi, alzatosi, con una andatura un pò insicura, tornò ai suoi invitati. La donna, ancora incredula di avere ottenuto le inaspettate confidenze di quel vecchio professore, decise di non perdere assolutamente tempo. Sarebbe tornata a San Diego per raccogliere tutta la documentazione necessaria e poi, via, di corsa, verso il Martinez Lake, per incontrare la persona indicata dal professore. Salì quindi sul primo aereo in partenza per la sua destinazione.......... Mark, ormai con le poche energie residue, le toccò delicatamente la fronte....... Jean scese dall'aereo tutta indolenzita per essere rimasta contratta tutto il tempo su quel sedile con la consapevolezza che poteva morire da un momento all'altro. Volle comunque ringraziare il pilota, anche lui palesemente provato, e le venne naturale abbracciare la hostess che per tutto il tempo, seduta dietro di lei aveva cercato di farle coraggio. Preso un taxi, si fece portare subito al suo ufficio dove dette direttive di cercare tutto il possibile a proposito del dott Samuel Baker e di un laboratorio che si occupava di ricerche di citopatologia sulle rive del lago Martinez. Il giorno seguente aveva tutte le notizie che aveva richiesto. Il suo assistente, Julius Moore, le disse che il posto che cercava si trovava effettivamente sulla riva orientale del lago Martinez. Il dott Baker, contattato telefonicamente, aveva cercato di evitare la visita di Judit accampando scuse di tutti i generi ma, alla fine, pressato dall'indubbia capacità oratoria dell'assistente, aveva accettato.  Julius le disse che il posto che cercavano era a circa 160 miglia di distanza verso ovest. Per arrivarci avrebbero potuto usare un piccolo aereo, visto che proprio accanto alla loro meta, c'era una aviosuperficie messa a disposizione da una struttura che si chiamava Fishers Landing Resort, e che assisteva in tutti i modi quanti decidessero di andare a pescare nel lago, dall'arrivo, possibile anche in aereo, all'alloggio, all'attrezzatura. Jean, ancora scossa dall'esperienza del giorno precedente, rifiutò anche solo l'idea di salire per il momento su un qualsiasi tipo di macchinario volante. Il giorno seguente, lei con il suo assistente, in veste di autista, partirono. Percorsero la Interstate n 8, detta anche Kumeyaay Hwy, fino alla città di Yuma e poi proseguirono sulla statale 24 fino al lago, infine  fino al Fishers Landing Resort. Da lì  ricevettero le ultime informazioni per raggiungere il 'covo del matto', come lo chiamavano da quelle parti, per il fatto che non parlava mai con nessuno e le rarissime volte che si era fatto vedere in giro, aveva mostrato comportamenti a dir poco originali. Fra l'altro giravano molte dicerie su cosa combinasse nel suo capannone. Senza curarsi minimamente di queste notizie assolutamente gratuite, proseguirono per la loro destinazione, seguendo la Red Cloud Mins Road. Quando finalmente giunsero, effettivamente convennero che il luogo non era affatto invitante. Un alto recinto di filo spinato, segnali indicanti il reticolato sotto tensione, avviso di presenza di cani feroci. Cartelli che intimavano a tutti di stare lontani dalla struttura e minacciavano i trasgressori di pesanti pene. Individuarono comunque un cancelletto con un pulsante per  chiamare. Insistettero a lungo ma non rispose nessuno. In realtà la struttura sembrava abbandonata. Alla fine Julius, distrattamente, in un gesto sconsolato mise un braccio appoggiato al reticolato e...... non accadde nulla. Il ragazzo che per un istante aveva temuto seriamente di morire folgorato, dopo aver guardato la sua compagna di viaggio, con cautela ritoccò il recinto dal quale non venne nessuna scarica elettrica. Jean a quel punto fece addirittura di più. Spinse il cancelletto che semplicemente si aprì, consentendo il passaggio. Rimaneva la minaccia dei cani. Ma visto come si presentava la situazione, decisero di tentare la sorte ed entrarono. Non si vide nè sentì nessun cane. Giunti alla porta principale del capannone, bussarono sulle lamiere e alla fine, dopo una decina di minuti, venne ad aprire un uomo, piuttosto arrabbiato, che chiese sgarbatamente cosa ci facessero in quel posto. Aveva circa una trentina d'anni, robusto, un pò più basso della media. Indossava un camicione grigio sopra un paio di jeans ed aveva una folta barba che gli incorniciava un viso da bambino. In realtà non incuteva nessuna paura ma Jean con lui voleva iniziare col piede giusto. Per cui cominciò a scusarsi per l'intrusione sua e del suo assistente. Ricordò all'uomo che avevano una specie di accordo per incontrarsi e si presentò. Questi parve per un po' cercare nella memoria per ricordare il fatto e poi, come se avesse rammentato, si girò verso l'interno del capannone e fece segno agli altri di seguirlo.  Se l'esterno era apparso trasandato e sporco, l'interno rivelava ben diversa situazione. Attraversati alcuni locali arredati in modo essenziale e piuttosto spartano, evidentemente l'alloggio, tramite una porta stagna, entrarono in una area che suggeriva una situazione da fantascienza. In una condizione di pulizia immacolata si trovavano distribuiti su un vasto spazio macchinari e strumenti indicanti una tecnologia all'avanguardia. Alcuni di quegli strumenti i due visitatori non avevano nemmeno idea di cosa fossero. E dire che naturalmente il laboratorio nel quale essi operavano era uno dei migliori negli Stati Uniti. Sarebbero rimasti a contemplare quelle meraviglie, ma il dott Baker li fece entrare in un ufficio e, fattili accomodare con modi alquanto bruschi, disse subito che lui non aveva tempo da perdere e l'unico motivo per cui aveva accondisceso a riceverli, era che Julius, in qualche modo era riuscito ad incuriosirlo. Quando capì che avrebbe dovuto parlare con Jean, non nascose una certa mancanza di fiducia nelle donne in generale.  Lei decise comunque di ignorare la scortesia. Era troppo alta la posta in palio e voleva solo che lui, ove possibile, l'aiutasse. Il ricercatore iniziò con l'osservare tutta la documentazione relativa alla ricerca mentre la donna spiegava i vari passaggi e le procedure utilizzate. Baker dopo un poco iniziò a porre delle domande e dal suo atteggiamento si capiva che stava fortemente cambiando opinione sulle capacità di quella donna che mostrava con il suo lavoro una competenza che lui difficilmente aveva riscontrato in altri colleghi, specie uomini. Certo, non poteva sapere che magari l'elemento che spingeva quella bella donna a dare il meglio di sè, era un diretto coinvolgimento nella questione. Rimase affascinato dal lavoro svolto e decise di accettare la sfida che quei due visitatori gli avevano prospettato. Chiese di poter controllare con i suoi strumenti tutto il lavoro prodotto fino a quel momento, dopo di che, senza tanti complimenti li invitò a lasciarlo in pace ed a tornare la mattina seguente. Non avendo scelta, i due decisero di alloggiare fino all'indomani presso il Fisher Landing Resort. Qualcuno cercò di attaccare discorso con loro per sapere se avevano incontrato 'il matto', se ci avevano parlato e cosa avevano visto dentro a quel capannone. Poichè furono molto evasivi ed evitarono di dare confidenza alla gente del posto, furono etichettati anche loro con l'appellativo di 'strani'. Questo però fece sì che almeno li lasciassero in pace. Tornarono la mattina seguente da Baker molto ansiosi di conoscere il suo parere su quanto gli avevano lasciato e sulla possibilità effettiva di produrre qualcosa di valido. Senza porsi tanti problemi, entrarono nel capannone e lo trovarono che dormiva su una sedia, nella cucina del suo alloggio, dietro un tavolino su cui c'era un piatto con avanzi, probabilmente di una cena, e con stretti in mano alcuni fogli della ricerca di Jean. Altri fogli erano sparsi su tavolo. Percependo dei rumori l'uomo si svegliò e rimase un attimo sconcertato nel trovarsi davanti due persone. Poi li riconobbe ed allora senza una parola, si alzò ed uscì dalla stanza, bofonchiando qualcosa a proposito di 'caffè' e indicando un armadietto. Quando tornò nella cucina, aveva un atteggiamento più amichevole e gradì molto il caffè che intanto l'assistente aveva preparato. Pescò da qualche parte una scatola di ciambelle non molto datate e le offrì anche agli altri. Questo probabilmente era un buon segno. Alla fine, disse di aver studiato a fondo il problema ed era rimasto affascinato dalle procedure innovative e anticonformiste seguite per studiare e risolvere il problema. Jean gli spiegò che la strada seguita derivava dalla sentenza che scagionava i vaccini e che quindi l'aveva costretta a mutare punto di vista. Così, senza orario, la donna ed il dottore iniziarono un lavoro in comune su livelli talmente alti che l'assistente, con una preparazione insufficiente rispetto a quei livelli, aveva accettato di buon grado di provvedere alle operazioni essenziali di cucina, pulizia del laboratorio e contatti con gli eventuali fornitori. Alla fine, venne fuori un risultato. Avevano sintetizzato un composto che apparentemente copriva quasi tutta la gamma delle questioni. In laboratorio i campioni reagivano al preparato nel modo sperato. Ora occorreva sperimentarlo sul campo. Per il suo lavoro il dott. Baker non volle nessun compenso, asserendo che lavorare con quella donna era stato un privilegio ed un onore. La invitò a tornare quando voleva e magari accompagnata da quell'assistente che sapeva cucinare così bene. Sulla via del ritorno Jean era soddisfattissima dei risultati. Avevano sorpassato da circa 15 miglia il Fisher Landing Resort, quando l'automobile, semplicemente, li 'piantò'. Il motore si spense e non volle saperne di ripartire. Scesero dalla macchina per vedere se attorno ci fosse qualche struttura adatta a fornire aiuto. C'era, solo, a circa 200 metri, sulla riva del lago, una specie di baracca, di certo abitata da qualche pescatore. Naturalmente nella zona non c'era 'campo' per il cellulare. Era un particolare che avevano notato già durante l'andata. Si recarono a piedi verso la costruzione. Avvicinandosi, ci si accorgeva che era molto meno malandata di quanto sembrasse da lontano. Su un lato della casa, sotto una tettoia, un pick-up un po' datato ma perfettamente pulito, con le cromature scintillanti. Fecero per avvicinarsi alla porta per chiamare qualcuno, quando alle loro spalle, udirono un ringhio niente affatto rassicurante. Girandosi lentamente, convennero che stavolta i cani c'erano davvero ed erano anche piuttosto pericolosi. Si trattava infatti di due doberman che, fermi a circa sei-sette metri, li osservavano ringhiando senza che ci fossero dubbi sulle loro intenzioni. I due intrusi restarono fermi immobili, aspettando un qualsiasi evento che sbloccasse quella spiacevolissima situazione. Poi, una voce maschile, ferma e decisa, chiese loro, dall'interno della casa, chi fossero e cosa stessero cercando. Con calma, Jean spiegò la situazione e chiese se per caso lì ci fosse un apparecchio telefonico per chiamare un meccanico. La porta della casa si aprì e venne fuori un giovanottone, alto e robusto. Indossava i pantaloni di una tuta mimetica ed una canottiera verde militare. In mano aveva un fucile automatico che, fino a pochi secondi prima, di certo era puntato contro i due nuovi venuti. Fece un cenno ai due cani che immediatamente si calmarono e si sedettero, quasi indifferenti. Chiese a Julius di mostrargli l'auto e lo seguì fino al mezzo, sempre tenendo in mano il fucile. Jean rimase con i cani che le "facevano compagnia". L'uomo si fece aprire il cofano ed osservò il motore. Chiese all'altro di provare la messa in moto. Ascoltato qualche secondo il motore, poggiò il fucile all'auto e si chinò sul vano motore. Dopo pochi secondi ne emerse con in mano la pompa della benzina. La lanciò a Julius che la prese maldestramente al volo e poi gli indicò la direzione da cui erano venuti dicendogli che lì, a dieci miglia c'era un'officina che gliela avrebbe riparata o cambiata. Ripreso il fucile, gli disse che se fosse partito subito, con tre, quattro ore se la sarebbe cavata. Poi fece un gesto eloquente, con la mano, per far capire all'altro di andare, subito. Julius, capito che non aveva molta scelta, si incamminò ma prima, chiese all'uomo se Jean sarebbe stata al sicuro. L'uomo per tutta risposta lo invitò di nuovo a camminare. Poi tornò verso la casa e entratovi, posò il fucile e ne uscì con degli attrezzi da lavoro. Passando disse alla donna che il suo autista sarebbe tornato più tardi con il pezzo riparato. Fece un gesto ai cani ed uno si alzò subito andandogli dietro e l'altro rimase invece accanto alla donna ma si accucciò, come per mettersi più comodo. L'uomo scomparve dietro la casa e dopo un poco si sentirono dei colpi, dei suoni metallici e poi il rumore di un motore che si avviava. Jean, dopo una mezz'ora di attesa, si era stancata di aspettare e decise di tentare la fortuna. Si alzò e si diresse nella direzione in cui era scomparso l'uomo. Il cane si alzò dalla sua posizione e si limitò a seguirla. La donna vide che sull'altro lato della casa c'era un'altra tettoia, sotto la quale era stato collocato un lungo tavolo capace di ospitare una ventina di persone. Sui lati, delle panche in legno, piuttosto rozze ma di certo solide e comode. Proseguendo, vide che dal retro della casa, partiva un largo sentiero che portava fino alla riva del lago. Su un lato del sentiero, sulla destra, una serie di graticci  reggeva una grande quantità di grossi pesci messi a seccare. La donna era un pò perplessa. Sembrava l'abitazione di un pescatore ma l'uomo dava l'idea di un militare. Poi lo vide. Era accanto ad un tavolo da lavoro, in riva al lago, sotto una piccola tettoia e stava traficando su un motore fuoribordo. Un poco più in là, a un pontile, era ormeggiata una grossa barca da pesca. L'uomo la vide avvicinarsi ma continuò il suo lavoro senza dire una parola. Il lago era bellissimo e c'era una gran pace. La donna si sedette su una cassa ed il cane si accucciò accanto a lei. Dopo circa un'ora, l'uomo mise a posto i suoi attrezzi e tornò verso la casa, facendo cenno alla donna di seguirlo e poi  di sedersi alla grande tavola. Entrò in casa e si sentirono rumori di pentole e stoviglie. Dopo una quindicina di minuti, si cominciò a sentire nell'aria un buon odore di pesce cucinato. L'uomo portò a tavola dei piatti e dei bicchieri di metallo e poi riuscì dalla casa portando una grossa pentola, che posò sul tavolo accanto a loro. Evidentemente era stato già cucinato ed era stato necessario solo scaldare il pranzo. Senza dire una parola servì alla donna una generosa porzione di una profumata zuppa di pesce, se ne servì per lui una razione molto più generosa ed infine ne versò diverse ramaiolate in una grossa ciotola che dette ai cani. Questi si gettarono sul cibo a testa bassa ma lo consumarono senza litigare fra loro. Un pò perchè aveva effettivamente appetito, un po' perchè il profumo era decisamente invitante, Jean senza esitazioni assaggiò la zuppa e rimase sorpresa scoprendo che era buonissima. Lo disse all'uomo che ne fu piuttosto compiaciuto. Poi, come se avesse stimato che della donna si poteva fidare, le disse che quel pesce lo pescava lui. Si trattava di una specie chiamata Tilapia che abbondava nelle acque del lago. Un esemplare poteva arrivare ad una lunghezza di 50 centimetri per un peso di 5-6 chili. Lui lo pescava e lo seccava. Poi lo vendeva, non solo per uso alimentare ma anche per la pelle che poteva essere conciata e lavorata in diversi modi. Si utilizzava per ricoprire mobili, per confezionare guanti e calzature e altre svariate maniere nell'industria della pelletteria. La donna  notò che il pesce nel suo piatto, aveva ancora la pelle. L'uomo mangiava tutto, con una voracità incredibile. Lei provò a mangiare la pelle del pesce ma, pur trovandola stranamente gustosa, la ritenne troppo dura da inghiottire. Terminato di mangiare, si era servito per ben tre volte, l'uomo si presentò. Disse di chiamarsi Tom West. Poi si alzò, sparecchiò in fretta e sparì per un po' dentro la casa. Dopo una decina di minuti si percepì un buon odore di caffè. Tom infatti tornò con una grossa caffettiera fumante. Dopo che le ebbe versato il caffè, chiese alla donna cosa ne pensasse di quel posto e lei, rispondendo sinceramente, ammise che era fantastico. Incontaminato e soprattutto vi regnava una gran pace. Lui raccontò di essere nato lì. Il padre gli aveva insegnato a pescare e ad occuparsi di motori. Era cresciuto tranquillo, finche' quando lui aveva raggiunto i 18 anni, i genitori purtroppo perirono in un incedente d'auto. A quel punto, rimasto solo,  gli era presa voglia di andarsene da lì per vedere un po' di mondo. Non avendo soldi, aveva scelto l'unica possibilità. Affidata la casa ad un buon amico, si era arruolato nei marines e dopo un duro addestramento, aveva effettivamente cominciato a viaggiare. Fece una pausa bevendo una lungo sorso di caffè. Poi, continuò, un giorno, senza preavviso, avevano caricato la sua unità su un grosso aereo e, dopo un viaggio interminabile, li avevano scaricati in un paese caldo, pieno di polvere e di insetti e dove gli abitanti sparavano loro addosso. Era dovuto rimanere lì con gli altri, cercando di salvare la pelle e costretto in più occasioni a sparare a sua volta. C'erano stati morti e feriti da entrambe le parti, finchè non era stata firmata una tregua. Apparentemente, dal suo racconto, Tom non aveva capito molto di più di quello che era successo. Tornati a casa, lui ed i suoi colleghi, erano contenti di essere rimasti illesi in quell'inferno. Invece, proprio in quel momento, erano cominciati i guai. Avevano iniziato a stare male. Chi meno, chi più, avevano cominciato a mostrare i sintomi della cosiddetta sindrome del Golfo. Lui, assieme ad altri, era stato ricoverato in un ospedale militare. Tom fece una pausa per mandare giù un lunga sorsata di caffè ma anche per raccogliere le idee circa quello che stava raccontando. Non si era accorto di avere davanti a lui una Jean in ascolto che mascherava come poteva il suo indubbio interesse e la sua eccitazione. L'uomo che le parlava era nel pieno delle forze e apparentemente sanissimo. Come era stato curato? L'ex marine continuò il suo racconto. Per i soldati ricoverati era iniziato un vero calvario. Prelievi, analisi, visite e indagini interminabili. E poi medicinali, punture, flebo. E invece loro stavano sempre peggio. In breve tempo era chiaro che in realtà i medici non sapevano nemmeno loro cosa stessero facendo. Un giorno un suo carissimo amico era morto. Quella sera stessa, Tom, raccolte le sue cose, era fuggito dall'ospedale e in qualche modo aveva raggiunto casa sua. Nessuno conosceva la sua residenza e quindi nessuno sapeva che fosse lì. All'inizio era stata dura. Non stava ancora bene ma poi. con una vita regolare, con la ripresa della sua attività, con il cibo semplice, ora si sentiva di nuovo in forma. Alla domanda della donna rispose che non aveva mai pensato un solo minuto di tornare in ospedale. E poi ormai lui, sotto un certo punto di vista risultava un disertore, cosa gli sarebbe successo? Jean lo rassicurò che poteva stare sicuro. Non avrebbe mai rivelato a nessuno quello che lui le aveva raccontato, nemmeno al suo accompagnatore. Neanche a farlo apposta, si udì il rumore di un motore. Era un mezzo che stava riaccompagnando Julius dall'officina. Rassicurato che la donna stesse bene, stanco, accaldato, si era seduto al tavolo in attesa che la riparazione fosse effettuata. Chiese alla donna cosa fosse successo e lei gli rispose che era stata benissimo e che era un pezzo che non si prendeva una bella pausa come quella. Era un pò dispiaciuta per il suo assistente che invece appariva piuttosto provato. Sistemate le cose, ringraziò l'uomo per la sua ospitalità e lo rassicurò di nuovo circa la sua discrezione. Avrebbe dato chissà cosa per poter analizzare il sangue ed i tessuti di quel marine ma, almeno al momento, non le era sembrato proprio il caso di chiederglielo. Tornata nel suo laboratorio, iniziò a testa bassa la sperimentazione del farmaco messo a punto con il dottor Baker. I risultati erano molto incoraggianti. Purtroppo venne fuori un problema molto serio. Il preparato iniettato ad alcuni pazienti volontari, iniziava a predisporre tutto un quadro biologico che presupponeva una intensa rigenerazione dei tessuti interessati ma poi..... semplicemente nello spazio di una o due ore dalla somministrazione, tutto il processo, seppure lentamente, si arrestava, come se mancasse l'energia per portare avanti gli effetti. Come un motore che rimane senza carburante appena dopo la sua messa in moto. Ulteriori studi, miscelazioni dei componenti, analisi dei procedimenti, dettero un solo risultato. Per mantenere attivo il processo di rigenerazione, occorreva una dose massiccia di farmaco iniettato ogni ora. Il problema era appunto che in quella dose e composizione, il preparato risultava in brevissimo tempo letale. Jean era disperata. Era stato tutto inutile, tutti quegli anni e quelle risorse sprecate. Chi aveva fiducia in lei ora sarebbe rimasto deluso e si sarebbe dovuto rassegnare ad una fine lenta e dolorosa. Uscì dal laboratorio senza farsi vedere e senza avvisare nessuno. Voleva, doveva rimanere sola. Doveva rassegnarsi a perdere suo marito, non era riuscita ad aiutarlo, malgrado quello che gli aveva promesso quando ancora lui era in grado di comunicare. Camminando per ore, senza pensare ad una meta precisa, si ritrovò in riva al mare, vicino alla banchina denominata Fishermen's Terminal, il molo a cui attraccavano i pescherecci. Stette a lungo a guardare gli uomini che provvedevano alla manutenzione degli scafi e delle reti. Alcuni caricavano il necessario per partire, altri invece stavano scaricando delle cassette di pesce, probabilmente per uso personale. Le venne naturale pensare al marine Tom West, alla sua oasi, ai suoi cani e alla sua ottima salute. Era evidente che non era stato contaminato con l'intensità degli altri militari ma si era comunque ammalato ed ora invece stava bene. Cosa poteva essere accaduto per farlo guarire, almeno in apparenza, così, naturalmente? L'aria, l'acqua, il cibo? Quell'uomo mangiava praticamente solo pesce. Pesce e gli ortaggi che coltivava lui stesso. Il pesce. Passò in rassegna gli elementi più importanti che le tornavano alla mente. La sua carne conteneva i grassi insaturi omega3, utilissimi per combattere i problemi cardio-vascolari. Poi i fosfolipidi, importanti per la funzionalità delle cellule nervose. E infine le vitamine A, legata alla salute delle cellule, la B, legata alla salute mentale e infine la D, legata al sistema immunitario. Ma tutti questi elementi erano già stati presi in considerazione, testati e usati senza successo, se non per rallentare i sintomi. Cosa faceva quel marine di particolare oltre a divorare il suo pesce? Poi una luce si accese nella mente di Jean, una speranza forse. Per quanto flebile, esile potesse essere, la donna ci si appigliò con tutta la sua determinazione. Quell'uomo divorava il suo pesce, la tilapia,  lei ricordava bene. Divorava tutto, carne, lische, pelle. E se la risposta fosse stata proprio lì? Tornò nel laboratorio ed iniziò prima di tutto delle ricerche in rete e contemporaneamente ordinò che le fossero portati con urgenza degli esemplari di quella particolare specie, e freschi. Trovò subito un indizio consolante. La pelle di quel pesce era ricchissima di 'cistina' un elemento che provvede a fornire un enorme contributo alla gestione della salute delle cellule nervose e ai legami fra di esse. Occorreva testare subito questo elemento per valutare se avrebbe potuto essere il responsabile della ritrovata salute di Tom. Dopo aver testato l'elemento in questione, decise d'accordo con i suoi collaboratori di inserirlo nel preparato che avevano ottenuto. Il processo di rigenerazione, avviato, non si interrompeva più. Fu un successo incredibile. Si trattò solo di regolare al meglio la percentuale di cistina nel medicinale. George fu naturalmente uno dei pazienti a cui fu somministrata la medicina. Dopo circa quindici giorni, Jean, durante una delle sue frequentissime visite al marito, sempre seduto immobile davanti alla finestra, si accorse che egli aveva ricominciato a seguire i movimenti all'esterno. Fu una notizia fenomenale. anche molti altri pazienti mostravano segni di notevole miglioramento. Jean valutò che il suo lavoro sul campo era terminato e quindi decise che avrebbe seguito il marito in ogni istante. Con il passare dei giorni, ricominciarono i gesti volontari, anche i più semplici, come grattarsi il naso, strofinarsi un occhio. Ognuno di essi sembrava alla donna un successo straordinario. Suo marito stava "ritornando" da lei. Poi una sera, mentre la donna gli era seduta accanto e leggeva una rivista, udì un profondo sospiro e quando sollevò la testa, rimase folgorata da ciò che vide. George la stava guardando. E le sorrideva! Era tornato. Ancora non parlava ma si faceva capire a cenni. Quella notte Jean, finalmente in pace e fiduciosa per il futuro si addormentò pensando a George che aveva ritrovato la strada, a tanti altri come lui che avevano iniziato a "tornare" con  le loro famiglie, a quello strano soldato che il destino aveva messo sulla sua strada, con i suoi cani ed i suoi pesci........Mark, stanchissimo, tolse la sua mano dalla fronte della donna e fece un profondo sospiro. Era completamente fradicio di sudore e si reggeva in piedi a mala pena ma aveva in sè la gioia di aver portato a compimento quanto doveva fare.

 

Ora l'aereo immobile ospitava  14 persone serene, tranquille e soddisfatte del loro destino e così sarebbe stato. Avevano tutte vissuto una bella vita, completa e appagante. Mark, esausto ma soddisfatto come non mai, dette un'ultima occhiata in giro. Ora tutte quelle persone non erano più degli estranei per lui, specie adesso che aveva condiviso con loro tutta una vita. Con un senso di rammarico e di leggera amarezza, ma con la consapevolezza di aver fatto per loro tutto quanto gli era consentito, 'se ne andò'. Immediatamente si rifece sentire l'urlo del vento e l'aereo riprese la sua impari lotta che durò soli pochi secondi. Uno schianto violento mise la parola fine all'agonia di quel volo.

 

La mattina seguente, al sorgere del sole, le squadre di pompieri e di pronto intervento erano già sul posto. La zona era piuttosto brulla e rocciosa. Si distinguevano bene quindi i rottami e quant'altro dell'aereo che era precipitato dopo essere stato fatto praticamente a pezzi dalla furia della natura. Ciò che rimaneva era sparso su una vasta area ed era chiaro che nessuno a bordo poteva essere sopravvissuto. Uno degli investigatori del National Trasportation Safety Board, normalmente impiegato in quelle circostanze, pur essendo abituato a quegli spettacoli, si guardava attorno sconsolato mentre accanto a lui un vigile del fuoco spostava alcuni piccoli rottami per le sue ricerche. I due uomini si guardarono e scuotendo la testa tristemente convennero che purtroppo di fronte a quelle sciagure c'era molto poco da dire. Ed era un vero peccato perchè molte di quelle persone a bordo erano ancora piuttosto giovani ed avrebbero ancora avuto tutta una vita davanti. Quindi a testa bassa, lentamente si allontanarono.

  
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