Mi
dispiace per il titolo in inglese ma la nostra bella lingua non ha una
traduzione soddisfacente per questa parola, che invece mi sembrava
particolarmente adatta al racconto. È una oneshot un
po’ lunga ma non me la
sento di spezzarla in più parti, credo vada letta tutta di
fila per
apprezzarla, esattamente come tutto di fila è
l’episodio raccontato.
Mettendosi
su a sedere sul
vecchio divano di feltro, il ragazzo combatté contro uno
sbadiglio e riprese
possesso della sua lucidità. La prima cosa che fece quando
fu ormai sicuro di
essere completamente sveglio fu guardare l’orologio.
4.55
Si
girò istintivamente
verso la finestra: se avesse aspettato ancora un po’ avrebbe
potuto vedere il
sole fare capolino tra i tetti dei grattacieli. Solo una
mezz’oretta e il nero
della notte si sarebbe tinto di rosa…
Passi
risuonarono sul
pavimento dell’ingresso. Passi pesanti, stanchi, eppure
affrettati: l’altro non
si preoccupava neanche più di nascondere l’orario
indecente a cui rientrava
ogni notte, o ogni giorno. Non aveva più neanche paura di
svegliare il suo
coinquilino. Yami non sapeva se fosse perché il ragazzo era
così stanco da non
riuscire più neanche a pensare di usare una simile
delicatezza o perché obiettivamente
non gli importava. Ma sentì la rabbia aumentare a poco a
poco a ogni passo, a
ogni scalpitio e a ogni rumore, fosse quello del cappotto che veniva
levato
sbrigativamente dalle spalle o dell’armadio che veniva aperto
e poi richiuso
con un tonfo. La rabbia saliva, così come il groppo in gola
che ogni sera
diventava sempre più pesante, tanto da fargli temere che
prima o poi sarebbe
scoppiato a piangere.
Patetico.
La
porta del salone si
aprì e Yugi fece il suo ingresso nella stanza, le gambe
stanche, i capelli un
disastro e due visibilissime occhiaie a incorniciare i suoi bellissimi
occhi viola,
resi opachi dal sonno e magari anche da un bicchiere di troppo. Yami si
ritrovò
suo malgrado a fissarlo minaccioso.
“Buonasera”
lo salutò Yugi
con un mezzo sbadiglio.
“Buongiorno
sarebbe più
indicato...” osservò tagliente l’altro.
Yugi annuì distrattamente.
“Dove
sei stato?” chiese
Yami nel tono più calmo che poteva. Un come
stai sarebbe stato più gradito. Yugi strinse le
spalle e fece per dirigersi
verso la porta della sua stanza, ignorando la domanda.
“Rispondimi
almeno” ora la
voce di Yami si era fatta più dura, la sua mano aveva
afferrato il bracciolo
del divano e lo stringeva con forza, gli occhi rossi non avevano
lasciato Yugi
un solo istante.
“In
giro…”.
“Questo
lo avevo capito.
Ti ho chiesto dove” insistette il ragazzo, alzandosi dal
divano. Yugi sbuffò
alzando gli occhi al cielo: perché dovevano fare quel
discorso tutte le sere?
“Non
sono affari tuoi”
mormorò.
“Sì
che lo sono: non so se
te ne sei accorto visto che sei sempre fuori ma io
vivo qui” rimbeccò indicando teatralmente la casa
con la mano.
Erano coinquilini, una cosa più che normale fra studenti: in
pochi potevano
permettersi di pagare da soli l’affitto di un appartamento, e
così i due
ragazzi si erano messi d’accordo per dividere il tetto e le
spese, e come la
quasi totalità dei coinquilini non si erano mai visti o
conosciuti prima di
cominciare a vivere insieme. Non molto tempo fa in fondo, forse un anno
o poco
più… con lo studio e tutto la casa era sempre
l’ultimo dei problemi e l’ultimo
dei posti da frequentare: serviva solo per dormire. Yami passava tutto
il suo
tempo all’università e Yugi anche. O quasi.
“Ok,
dov’è il problema?
Perché non posso andarmene in giro?” chiese Yugi
con un filo di esasperazione,
la mano che stringeva la maniglia.
“Non
ho detto questo:
voglio solo sapere dove” non avrebbe permesso a Yugi di
cavarsela anche
stavolta, ogni sera era la stessa storia: le due, le tre, le quattro e
mezza…
oggi quasi le cinque. Dove andava la notte? Con chi,
e soprattutto perché? Ormai era arrivato il momento in cui
Yami sentiva che non sarebbe riuscito ad andare avanti se Yugi non gli
avesse
rivelato qualcosa: non riusciva a capire che era preoccupato per lui?
“E
dopo che lo avrai
saputo che farai?”. Yugi lo stava prendendo in giro, era
evidente, forse Yami
aveva permesso al suo lato di ‘mammina protettiva’,
come lo chiamava Yugi, di
venire allo scoperto troppo in fretta, ma era così
dannatamente tardi: come si
poteva pretendere che riuscisse a pensare logicamente a
quell’ora? Yugi al
contrario era sonnolento solo nell’aspetto, per il resto era
lucido e brillante
come sempre, pronto a dare le risposte taglienti e svianti che Yami
tanto
odiava.
“Mi
proibirai di uscire?
Mi metterai in punizione?” continuò Yugi.
Seriamente, non riusciva a capire
perché tutta quella premura da parte di Yami: tutti gli
studenti escono la
sera, in fondo non faceva nulla di male, non portava gente pazza o
ubriaca
fradicia in casa, non organizzava orge, non faceva rumore mentre
l’altro
studiava. Perché Yami doveva sempre lamentarsi? Il ragazzo
dagli occhi rossi
però non si fece tirare indietro dalle parole di Yugi e
incrociò le braccia al
petto, appoggiandosi alla parete.
“Hai
qualcosa da
nascondere?”. Touché.
Le parole
sembrarono sortire il loro effetto perché il ragazzo
lasciò andare la maniglia
della porta della sua camera. Gli occhi viola si dilatarono, per poi
ridursi a
fessure.
“Anche
se fosse non sono
tenuto a dirtela” rispose voltandosi verso di Yami.
“Non puoi controllarmi: non
sei mia madre, non sei mio padre, non sei nessuno”
sibilò. Non era nessuno…
quelle parole colpirono Yami più profondamente di
quanto Yugi potesse immaginare, mettendolo davanti al vero motivo per
cui si
stava mostrando così insistente. Ma proprio come ogni volta
che Yami veniva
ferito, il suo dolore si trasformava in impeti di rabbia.
“Vivo
con te, ho il
diritto di dire la mia!” scattò. Ma sapeva che
come giustificazione non era
sufficiente.
“Ma
non sulla mia vita! O
credi che sia andato a pagare le bollette della luce alle quattro di
notte e
non ti abbia invitato? Oh, scusa Yami, ci siamo divertiti un sacco
all’ufficio
postale: la prossima volta ricorderò di portare anche
te”.
Ci?
“Piantala di prendermi in
giro!” doveva controllarsi, stava per esplodere, stava per
lasciare che le sue
emozioni prendessero il sopravvento.
“E
tu piantala di
controllarmi! È sempre un ‘Yugi dove
sei’, ‘Yugi dove vai’, ‘Yugi
quando
torni’” lo canzonò “Sono
grande e vaccinato, so badare a me stesso”.
Poca
gente riusciva a
farlo arrabbiare, e poca gente lo faceva arrabbiare quanto Yami:
riusciva
sempre a premere i tasti giusti, chissà come li conosceva
tutti, e in lui c’era
sempre qualcosa che Yugi non riusciva a capire, per quanto si
sforzasse. Ed era
terribilmente irritante.
“E
allora perché non mi
dici semplicemente dove sei stato stanotte? Hai paura che ti pedini,
che ti
buchi le gomme dell’auto così domani non potrai
uscire? Perché lo so che domani
uscirai di nuovo, e dopodomani, e il giorno dopo
ancora…” enumerò contando
sulle dita.
Sì,
sì aveva paura che lo
pedinasse e facesse tutte le altre cose che Yami aveva appena elencato.
Ma non
perché il ragazzo fosse uno psicopatico: non aveva paura di
Yami, non del
ragazzo con cui condivideva il tetto da un anno. “Piantala di
controllarmi ho
detto” Yugi stava seriamente impegnandosi per non lasciare
che la rabbia
prendesse il sopravvento: era tardi, era stanco, non aveva le forze
né la
voglia di mettersi a discutere. Sospirò pesantemente,
passandosi una mano sul
viso “Non dovresti essere a dormire a
quest’ora?”.
“Anche
tu” ribatté Yami.
“Ok
senti, te lo dico così
la facciamo finita: sono un vampiro, la notte volo nelle case degli
altri,
succhio il sangue, uccido e odio la luce del giorno. Ecco dove sono
stato.
Contento adesso?”. Yami non rideva, la sua espressione era
indecifrabile, forse
era ferito, forse solo arrabbiato. Sembrava volesse litigare e basta,
erano le
cinque di mattina e lui voleva incastrarlo con le sue chiacchiere sul
dove sei
stato stanotte e i sensi di colpa.
“Non
è divertente” mormorò
il ragazzo fissando Yugi negli occhi. Un’ondata di emozioni
investì il giovane
dalle iridi viola: senso di colpa, stanchezza, tradimento, rabbia,
esasperazione…
“Allora
scusami, non ho
niente di meglio da offrire a
quest’ora…” disse Yugi con un filo di
voce,
fissando gli occhi sul pavimento. Forse Yami non aveva tutti i torti:
era il
suo modo per dimostrare che ci teneva. Se fosse stato nei suoi panni,
probabilmente Yugi si sarebbe comportato alla stessa
maniera… “Senti, mi
dispiace, Yami. Scusa se ti ho fatto stare alzato fino a
quest’ora, non volevo
farti preoccupare, ma io sto bene, davvero, è stata una
serata tranquilla. Non
c’è bisogno che tu ti agiti tanto” disse
al colmo dell’esasperazione, come se
si stesse arrendendo.
“Allora
dimmi solo dove
sei stato” ma al contrario di lui, Yami non si arrendeva.
Probabilmente era
vero: Yugi non era in nessun brutto giro, non faceva nulla di male la
notte.
Era un ragazzo responsabile in fondo. E allora perché non
dirgli semplicemente
come stavano le cose? Una semplice risposta e Yami lo avrebbe lasciato
in pace.
Ma lo avrebbe fatto sul serio? No, e Yugi questo doveva averlo capito.
La
domanda era solo un pretesto: Yami avrebbe cominciato a cercare
informazioni, a
cercare gente, a fare altre domande, magari perfino a insistere di
accompagnarlo. Era fatto così, e Yugi stava solo cercando di
proteggere quel
po’ di privacy che gli rimaneva, che Yami e la sua
personalità non avevano
ancora invaso.
“Perchè?”
chiese
fermamente Yugi.
“E
tu perché non vuoi
dirmelo?” ecco la rabbia tornare a salire di nuovo, insieme
all’impazienza e
alla… gelosia?
“Lasciami
in pace!” Yugi
per poco non urlò, abbassando finalmente la maniglia della
porta ed entrando in
camera sua, ma Yami fu veloce a seguirlo: in un paio di passi fu dentro
anche
lui e richiuse la porta alle loro spalle.
“Che
ci fai qui? Esci
immediatamente!” si stava comportando in modo più
strano del solito quella
sera, non aveva mai osato seguirlo fino in camera.
“Questa
è anche casa mia”
rispose Yami.
“Ma
la camera è mia e io
ti dico di uscire!” urlò finalmente Yugi indicando
la porta.
“E
io ti dico di
rispondermi!”.
“No!”.
“Sì!”
ormai stavano
praticamente urlando, litigando come due bambini capricciosi e
cocciuti:
nessuno dei due si muoveva di un millimetro dalla propria posizione,
nessuno
voleva cedere, per quanto stupide e puramente orgogliose fossero le
ragioni.
Semplicemente una questione di puntiglio.
“Che
cosa vuoi da me!
Lasciami stare!”.
“Smettila
di urlare!
Sveglierai tutti!”.
“Ma
stai urlando anche
tu!”.
“Sì
lo so!”.
“Vattene!
Fuori da questa
camera!”.
“Prima
devi ascoltarmi!”.
“No,
ho già sentito
abbastanza!”.
“Ho
detto che devi
ascoltarmi!”.
“VATTENE!!”.
“Dio,
Yugi. MA NON LO CAPISCI CHE TI AMO??”.
La
bocca di Yugi si aprì
per controbattere ancora una volta, ma dalle sue labbra non
uscì nessuno suono,
per quanto il ragazzo provasse a muoverle. Completamente preso alla
sprovvista.
Il silenzio piombò nella stanza e i due si ritrovarono a
fissarsi negli occhi,
fra la rabbia e lo stupore, per secondi lunghi un secolo. Poi Yami si
voltò di
scatto, strinse la maniglia della porta e schizzò fuori
dalla stanza a passi
veloci, verso la sua camera. Non aveva idea di come quella frase gli
fosse
uscita fuori, sapeva solo che era vera. E quella era la cosa peggiore,
perché
non avrebbe mai potuto rimangiarsela o chiedere scusa come per
qualsiasi altra
frase avesse usato contro di Yugi nei loro litigi.
Perché
non aveva
semplicemente detto qualcosa come ‘mi preoccupo per
te’, ‘non voglio che ti
succeda qualcosa di brutto’? Perché sarebbe stato
imbarazzante: Yugi gli
avrebbe risposto che non aveva motivo di preoccuparsi, Yami gli avrebbe
detto
che non poteva farne a meno e fra una frase e l’altra avrebbe
finito per
spiegare il perché, il perché teneva
così tanto a Yugi, rivelandogli
inevitabilmente quello che provava. Sarebbe stato decisamente
imbarazzante.
Invece così era molto meglio, vero? Già, urlargli
direttamente in faccia ‘io ti
amo’, così, senza motivo, era sicuramente meglio.
Perché
non era andato a
dormire? Che senso aveva aspettare Yugi al varco per poi aggredirlo?
Forse
sperava che il ragazzo lo accogliesse con un ‘ehi, grazie
delle tue attenzioni:
mi fa molto piacere sapere che ti preoccupi per me’. Come
frase era adatta a
Yugi, ma totalmente svincolata dal giusto contesto. Solo un pazzo, o un
genitore, si permetteva di essere così insistente nei
confronti di un'altra
persona, e Yami non ne aveva il diritto non essendo né
l’uno, o almeno così
sperava, né tantomeno l’altro. Yugi aveva ragione.
E lui aveva torto.
Yami
chiuse la porta alle
sue spalle, girando la chiave nell’uscio due volte: sapeva
che era infantile ma
aveva il bisogno di mettere quanta più distanza possibile
fra sé stesso e Yugi,
di preservare quel briciolo di orgoglio che forse gli era ancora
rimasto. Si
accasciò con la schiena addosso alla porta, lasciandosi
cadere finché le sue
mani non toccarono terra e rimase seduto lì sul pavimento,
la testa piegata
all’indietro e premuta contro il legno freddo. Chiuse gli
occhi e si passò la
mano sulla faccia: che razza di casino aveva combinato?
L’improvvisa
uscita di
scena di Yami non aveva avuto su di Yugi l’effetto sperato:
invece di provare
un senso di liberazione, il ragazzo si sentiva stringere dai sensi di
colpa.
Non sarebbe mai voluto arrivare a quel punto, litigare con Yami,
urlargli e
perdere la pazienza, ma era stato l’altro a costringerlo.
Ogni volta che Yugi
aveva tentato di abbandonare la discussione Yami era ripartito
all’attacco, con
un’insistenza e un’arroganza che non aveva mai
visto in lui. Che tutte quelle
sere passate fuori casa avessero spinto il ragazzo dagli occhi rossi
sempre di
più in là, centimetro dopo centimetro, come in
attesa della goccia che facesse
finalmente traboccare il vaso? Da quanto tempo Yami si sentiva
così? E da
quanto voleva chiedere conto a Yugi delle sue azioni ma si tratteneva
per non
dare l’impressione che lo stesse perseguitando? Forse molto
tempo, eppure non
si era mai fatto mancare frasi mirate, riferimenti più o
meno cifrati al fatto
che Yugi gli tenesse nascoste tante cose. Ma quella sera aveva deciso
di non
arrendersi davanti al silenzio di dell’altro ed era esploso.
Yami
e le sue manie di
controllo. Yugi questo non lo sopportava. Non l’aveva mai
sopportato: lui
doveva sempre controllare, dirigere, fare il bravo ragazzo...
Yugi
si buttò a sedere sul letto, sospirando
pesantemente.
Beh,
almeno adesso era
sicuro del perché. In un certo senso era sollevato: il fatto
che Yami avesse
agito in quel modo non era perché il suo coinquilino era uno
psicopatico o uno
stalker. Era solo seriamente preoccupato. E probabilmente anche molto
geloso.
Ci siamo, il groppo in gola che indicava che i sensi di colpa stavano
peggiorando era già al suo posto. Ma perché Yami
non glielo aveva detto prima?
Yugi represse una risata amara, la vera domanda era perché
non aveva continuato
a tenerglielo nascosto. Non sono cose che si dicono facilmente e il suo
amico
era orgoglioso, non avrebbe mai rivelato nulla se non fosse stato
sicuro che
Yugi ricambiasse. Non era tipo da accettare rifiuti e quanto era appena
successo lo dimostrava: pur di non accettare il "no" di Yugi sul dove
era stato fino a quell'ora avevano finito per litigare. E aveva finito
per
urlargli in faccia quelle parole.
Idiota.
D’accordo: Yami era bravo a nascondere le emozioni, ma come
aveva fatto Yugi a
non capirlo o a non pensarci? Era la spiegazione perfetta al
comportamento
insolito dell’altro, eppure a Yugi era sembrata
un’eventualità così remota e
assurda che non l’aveva considerata neanche per un secondo. I
suoi amici sì
però: Jono ci aveva scherzato su almeno un paio di volte,
ridacchiando che se
Yami si preoccupava così tanto doveva essere
perché era geloso. E Anzu… Anzu
glielo aveva ripetuto quasi ogni sera, ricordava benissimo le sue
parole. “Non dovresti irritarlo
così, in fondo anche
lui ti vuole bene… forse anche di più”.
Irritarlo.
Sì perché in
fondo era stata tutta una ripicca, una provocazione nei confronti
dell’altro
per vedere quanto in là riusciva a spingerlo, quanto erano
resistenti i suoi limiti.
E adesso che Yugi li aveva finalmente toccati con mano, e aveva
scoperto di che
pasta erano davvero fatti, era come se dentro di lui si fosse aperto il
vuoto.
Era stato stupido, infantile, sì moltissimo, e aveva
ignorato qualcosa che in
realtà era serissimo, facendo del male a una delle persone a
cui voleva più
bene. Perché paranoie a parte, Yami era un ottimo amico, di
quelli che non ti
abbandonano alla prima difficoltà. E neanche alla seconda,
alla terza o alla
ventesima. C’era sempre, ogni volta che Yugi aveva avuto
bisogno di lui. E il
ragazzo cominciava a chiedersi da quanto tempo l’altro
provasse quei
sentimenti, se li avesse sempre provati, e come fosse stato in grado di
nasconderglieli così bene.
Temeva
forse che Yugi
l’avrebbe cacciato via? Che gli avrebbe giurato di non
rivolgergli più la
parola? Che lo avrebbe abbandonato? Era davvero così
stupido? Ma Yugi non era
nemmeno arrabbiato, non più: le emozioni della sfuriata di
poco prima si erano
dissolte e adesso il ragazzo stava provando a pensare a mente lucida.
C’era una
sola cosa che poteva, doveva fare. Il suo amico la meritava, anche se
il modo
in cui l’aveva chiesta non era stato dei migliori.
Passi
risuonarono sul
pavimento dell’ingresso, passi pesanti e stanchi per
l’orario, ma affrettati
perché pieni di un disastro di emozioni diverse. I passi si
fermarono proprio
nel punto in cui Yami non avrebbe voluto che lo facessero, e
anziché il lieve
toc-toc di una mano sul legno della porta, il ragazzo sentì
la voce decisa
eppure gentile di Yugi chiamarlo dall’altra parte.
“Yami,
apri la porta” lo
sapeva che era chiusa a chiave, quando si trattava di essere infantile
il suo
coinquilino era imbattibile.
Yami
chiuse gli occhi:
quanta umiliazione ancora doveva sopportare prima che spuntasse
l’alba? Ed era
perfino stato lui a cominciare…
I
lunghi secondi di
silenzio che seguirono non scoraggiarono Yugi, che appoggiò
la sua mano contro
il legno.
“Yami,
per favore”
mormorò. Mettersi nei panni degli altri, soprattutto dei
suoi amici, era uno
dei talenti del ragazzo: riusciva sempre a simpatizzare, trovare le
parole
giuste, tirare su il morale. Ma con Yami era diverso: i muri che
metteva
attorno a sé erano talmente spessi che immaginare quello che
stava pensando
adesso era una sfida, e rendeva tutto così dannatamente
difficile.
Silenzio
ancora.
“Vuoi
che cominci a
passarti bigliettini da sotto l’uscio per comunicare con
te?” sorrise Yugi.
Ancora
qualche secondo di
silenzio, poi la voce dell’altro raggiunse finalmente le sue
orecchie, debole,
eppure Yugi avvertiva chiaramente il timido sorriso che doveva aver
sfiorato le
labbra di Yami.
“…
lo faresti davvero?”.
“Anche
se dovessi assumere
un interprete per decifrare la tua calligrafia” il tono del
ragazzo era sempre
uguale, calmo e gentile, ma decisamente sollevato adesso.
Una
risatina camuffata,
poi un’altra risposta.
“Allora
posso anche
restare qui. Passatemi il cibo dalla finestra, farò come
Emily Bronte.” Yugi
ridacchiò.
“Sei
il solito secchione…”
scosse la testa. “Mi fai entrare?” chiese piano.
Yugi
non poté vedere
ovviamente il lieve cenno d’assenso che Yami fece col capo,
ma sentì il suono
ovattato del ragazzo che si alzava pesantemente da terra, si girava e
allungava
la mano verso la serratura. Più decisi furono il doppio
click della chiave e lo
scatto della maniglia che si abbassava. Il viso di Yami fece capolino
dalla
fessura della porta, seminascosto dal buio che ancora avvolgeva la sua
camera.
Gli occhi però erano fissi sul pavimento, nonostante la
postura eretta. Dopo
qualche secondo di silenzio, Yugi fece un piccolo passo avanti, Yami
rispose
indietreggiando appena. Il più giovane lo
interpretò come un invito ad entrare
e in pochi passi fu nella stanza, la schiena rivolta a Yami, che
intanto aveva
chiuso la porta, e gli occhi persi nel vuoto. La tensione si tagliava
con un
coltello.
“Scusa
”
Yugi
si voltò e incrociò
le iridi scarlatte dell’altro per un attimo, prima che queste
si andassero a
fissare nella parete alle spalle del ragazzo. Il groppo in gola
peggiorava.
Yami continuò a parlare. “Non volevo urlare
così, non dovevo dirti quelle cose,
hai ragione: non sono nessuno per farlo. Non so cosa mi è
successo, mi
dispiace…” fu come se Yugi non avesse sentito la
seconda parte della frase.
“Quelle
cose quali?”
chiese. Yami era indeciso se tacere ancora o rispondere.
Optò per la seconda,
omettendo sapientemente un elemento.
“Sono
stato insistente, ti
ho chiesto, ordinato, di dirmi dove
eri stato-“ ancora una volta Yugi parve non sentire la
risposta.
“Quelle
cose quali? Che…
mi ami?”. Fu come se Yami si fosse pietrificato, il petto si
irrigidì, le mani
strette ai fianchi, le vene del collo pulsavano. Yugi ebbe la conferma
che non
era previsto che quella frase scappasse dalle labbra
dell’altro. I suoi occhi
finalmente si mossero dal muro e cercarono quelli di Yugi nella
penombra,
incrociandoli e non abbandonandoli per lunghi secondi. Il ragazzo lo
leggeva
chiaramente nelle iridi rosse: sì, sì il
‘che mi ami’ era nella lista delle
cose che non avrebbe mai dovuto dirgli e quegli occhi trasportavano con
se un che
di scuse sincere, desolazione e dolore. Dalle serrande ancora abbassate
filtravano i primi raggi di sole. Dio, non era più tardi:
ora era addirittura
presto.
Cosa
doveva dire adesso?
C’era una cosa giusta che Yugi potesse dire, una
possibilità che qualunque
fosse la sua prossima frase non avrebbe ferito i sentimenti
dell’altro o non
l’avrebbe fatto suonare come un idiota? Ben gli stava per
aver voluto insistere
anche lui.
“Sono
stato a casa di
Anzu…”.
“Non
mi interessa…” la
voce di Yami era priva di emozione, non era un non
mi interessa duro o irrispettoso. Nemmeno geloso. Era solo
sincero. Non gli interessava davvero, non più. O forse non
gli era mai
veramente interessato. Era il suo modo di scusarsi e dire a Yugi che
non era
obbligato a dirgli dove era stato? Era come se il loro litigio lo
avesse
svuotato completamente. Anche Yugi si era sentito così, ma
adesso era di nuovo
a posto, quasi. Per Yami era diverso. In una gara fra sensi di colpa si
sarebbero contesi certamente il primo premio.
“Ci
sono stato tutte le
sere…” ora le parole uscivano da sole,
meccanicamente, inconsciamente. Come in
un sogno.
Solo,
quanto aveva
intenzione di fargli male Yugi quella sera? O mattina, per quanto gli
importasse… Beh, aveva sempre sospettato che
l’altro avesse una cotta per la
sua amica d’infanzia. Era una brava ragazza, gentile e
spiritosa, i capelli
lunghi e scuri, gli occhi blu, decisamente bella. In fondo che diritto
aveva di
essere geloso: quella frase sarebbe dovuta rimanere un segreto quindi
era come
se i suoi sentimenti non ci fossero, doveva solo ripeterselo
così tante volte
da finire per crederci. Poteva farcela. Ammiccò un mezzo
sorriso.
“Sono
contento per te” e
in fondo lo era davvero, erano una bella coppia: Yugi sarebbe stato
felice.
L’altro
però scosse la
testa, deluso. Yugi inclinò il capo di lato, fissando Yami
con uno sguardo che
sembrava voler indagare nella sua anima.
“Ti
arrendi così
facilmente?”. Cos’era quel tono?
Amarezza… Rimprovero? Perché? Che voleva dire
che si arrendeva? Non aveva neanche cominciato a lottare, non doveva cominciare a lottare, ed era
molto più difficile di quanto Yugi insinuasse. Le iridi
rosse si ridussero a
fessure: lo stava prendendo in giro?
“Che
cosa vuoi dire?” non
aveva intenzione di usare un tono così aspro e basso, eppure
non riuscì a
impedirgli che lasciasse le sue labbra.
“Non
mi hai neanche
chiesto cosa abbiamo fatto io e Anzu tutte queste sere”.
Sì, Yugi lo stava
decisamente prendendo in giro. Cos’è, il litigio
di prima non gli era bastato?
“Grazie,
credo di avere sufficiente
immaginazione per capire cosa fate voi due di
notte…” sibilò. L’immagine di
lei
e del suo Yugi abbracciati,
l’uno
sopra l’altra si affacciò crudelmente davanti ai
suoi occhi. Scacciarla via
richiese un attimo ma era stato sufficiente per farlo quasi sentire
male.
Eppure non doveva: se questa era la decisione del suo amico il suo
dovere era
sostenerlo. Ma almeno Yugi avrebbe potuto dirglielo in modo diverso.
Un
lievissimo color rosa
scuro si andò a poggiare un istante sugli zigomi di Yugi, ma
la penombra della
stanza lo mascherò completamente.
“Che
diavolo…?” balbettò,
aveva davvero pensato che lui e Anzu… “Complimenti
per l’immaginazione, vedo
che ne hai davvero parecchia” rimbeccò Yugi.
“Non stiamo insieme, genio”. Ci
stava provando di nuovo: voleva litigare, farlo apposta, per scuotere
Yami da
quello stato di apatia e ottenere una reazione. Una qualunque.
Gli
occhi di Yami, prima
ridotti a fessure, si spalancarono, brillando come piccole gocce di
acqua
scarlatta. Odiava sbagliarsi o essere contraddetto, ma diamine,
lamentarsi era
l’ultima cosa che aveva intenzione di fare. Sentiva il suo
cuore battere forte
nel petto e si sentiva stupido per questo: Yugi non aveva mica detto
che lo
amava, semplicemente che lui e Anzu non stavano insieme. Tutto come
prima. Ma
il prima che Yami credeva di odiare non doveva essere così
male se l’idea di
perderlo gli era sembrata così orribile. E se la sensazione
di averlo
riguadagnato era così bella.
E
si sentì stupido di
nuovo quando un sorriso sincero, ampio e che non riuscì a
nascondere, si andò a
posizionare sulle sue labbra. E stupido ancora quando con voce quasi
tremante
sussurrò quelle sillabe.
“Davvero?”.
Anzu
aveva ragione. Aveva
sempre avuto ragione. E a volte Yugi si chiedeva perché era
così dannatamente cocciuto
da non darle mai retta e credere all’evidenza. Aveva avuto
ragione: Yami gli
voleva bene, lo amava. E aveva ragione su un’altra cosa
anche: Yugi gli voleva
bene a sua volta. Perché Yugi era così contento
di vedere quel sorriso sul
volto dell’altro, un sorriso solo per lui. Dovuto a lui e
regalato a lui. E si
sentì immediatamente sereno, caldo, come in un abbraccio.
Per l’ennesima volta
i sentimenti del litigio lo abbandonarono. Davvero significava
così tanto per
Yami?
Yugi
sorrise a sua volta,
incapace di rispondere con una battuta come avrebbe fatto in
un’altra
situazione. Invece annuì.
“Davvero”.
Yami
sembrò riscuotersi
dallo stato di torpore in cui la frase di Yugi lo aveva portato e
riacquistò di
nuovo il dominio di sé. Inclinò la testa di lato,
tangibile curiosità radiava
dai suoi occhi.
“Ma
allora che facevate
tutto quel tempo?”.
L’altro
parve un po’
imbarazzato dalla richiesta, il che allarmò di nuovo Yami.
Yugi si aspettava
una domanda come quella, solo che rispondere richiedeva davvero un
grande
sforzo perché la risposta, come per Yami, era nuova anche
per lui. Ma ora più
che mai ben accetta.
“Parlavamo…
“il ragazzo si
avvicinò al letto di Yami e ci si lasciò cadere
seduto sopra, rimbalzando
lievemente sulla superficie elastica e morbida “E dormivamo
anche, o meglio:
crollavamo esausti sul divano. Stare alzati tutta la notte è
difficile…”
aggiunse ridacchiando piano, una mano dietro il collo a giocare con i
propri
capelli.
Sapeva
che c’era
dell’altro, come spiegazione non era neanche lontanamente
sufficiente per tutte
le cose che voleva sapere, ma Yami non voleva insistere di nuovo. Si
avvicinò e
si mise a sedere poco distante da Yugi, le mani sulle ginocchia,
aspettando
pazientemente stavolta che ricominciasse. La domanda ‘di cosa
parlavate’
ovviamente aleggiava nell’aria, il più giovane
sarebbe stato uno sciocco a non
afferrarla, ma ci stava arrivando ed era contento che questa volta Yami
si
mostrasse meno precipitoso.
“Come
sai ci consociamo da
tantissimo tempo, Anzu è come una sorella per me…
e quando ho bisogno di un
consiglio so che posso sempre contare su di lei”. Una breve
pausa.
“Puoi
sempre contare anche
su di me…” mormorò Yami. Era difficile
capire se animato anche da gelosia per
essersi visto preferire la ragazza, ma era sincero. E forse ferito
perché non
era stato in grado di aiutare Yugi questa volta, qualunque fosse il suo
problema. L’altro però sorrise e poggiò
la sua mano sulla spalla di Yami, in un
gesto di fiducia.
“Lo
so, e ti ringrazio. Ma
questa volta non potevi aiutarmi…”
un’altra pausa, la mano si andò a posare sul
copriletto. Non aveva ancora deciso quanto volesse essere esplicito o
dettagliato nel suo racconto, certo non aveva intenzione di
descrivergli per
filo e per segno tutti i problemi che aveva avuto da quasi
un anno a quella parte a causa della sua
sessualità. Descrivergli che
aveva cominciato a dubitare, a farsi delle domande, ad accorgersi che un anno a quella parte era esattamente
lo stesso periodo di tempo per cui aveva conosciuto Yami. Mese
più, mese meno.
E non intendeva riferire delle litigate con Anzu, l’unica che
sapesse, per
tutte le volte che lei gli aveva sbattuto in faccia la
realtà, stanca dei suoi
no, e lui aveva negato ancora. Ormai aveva quasi superato tutto,
mancava un
ultimo scoglio e anche se non aveva immaginato di portare a galla la
verità
proprio adesso, in fondo rimandare non sarebbe servito a nulla.
Così
Yugi decise di
mettere da parte tutto il bel discorso che aveva già
preparato nella sua mente
e invece si girò verso di Yami, lasciando che da quel
momento fosse l’istinto a
guidare le sue parole.
“Io
ti piaccio?”.
Le
guance dell’altro si
tinsero lievemente di rosso, Yugi non l’avrebbe mai notato se
non fossero stati
così vicini, eppure la cosa gli faceva piacere: anche Yami
era umano allora.
Yami annuì sorridendo, era già dentro fino al
collo; non aveva intenzione di
comportarsi anche da ipocrita.
“Direi
di sì” rispose.
Sì,
non si sarebbe
aspettato nessun altra risposta da Yami. E allora perché
aveva chiesto? Forse
gli faceva semplicemente piacere sentire quelle parole… e
non appena l’ebbe
ammesso, Yugi sentì un altro tassello del puzzle andare a
incastrarsi
perfettamente dentro di sé, l’immagine finale
finalmente sempre più nitida.
“E
mi ami…” più
un’affermazione che una domanda, anche il suono di quelle
parole sulle sue
labbra era piacevole. Quasi come ascoltarle.
“Sì”
come ti ho detto prima. Non cambio idea in
così poco tempo. Ma non
lo disse, Yami era semplicemente curioso di sapere dove Yugi voleva
arrivare.
Non osava immaginarlo.
“Mi
dispiace…”. Ecco,
quelle erano le parole che Yami aveva temuto, ma era preparato anche a
quello,
anche se non poté impedire ai suoi occhi di abbassarsi un
poco e a un piccolo
sorriso amaro di affacciarsi sul suo volto. Era più che
ovvio che Yugi non
potesse ricambiare, c’era un fattore fondamentale
perché una loro eventuale
relazione potesse funzionare, e il fatto che Yugi appartenesse alla
sponda
sbagliata eliminava definitivamente quel fattore.
“Mi
dispiace di averti
trattato così…” continuò
Yugi. Non di non
ricambiarmi? No, tieni a freno i pensieri…
“Non
devi scusarti, è
colpa mia, non avrei mai dovuto dirti niente. Dimentichiamo questa sera
e-“
“No!”
le iridi color mora
di Yugi si fissarono nelle sue, scuoteva il capo piano
“E’ colpa mia, sono io
che sono stato un idiota tutto questo tempo, che non mi sono mai
accorto che
tu…”.
“Non
dovevi accorgertene…”
“Che
non mi sono mai
accorto che io, anche
io…”.
Che
cosa? Adesso Yami
sentiva chiaramente i battiti del suo cuore rimbombare dentro la sua
gabbia
toracica. Qualcuno lo facesse stare zitto. Eppure il suo corpo non
ascoltava:
perché le punte delle dita avevano cominciato a formicolare?
E se fosse stata
un’altra delusione? Se si riempiva di aspettative la caduta
sarebbe stata solo
peggiore, allora perché non riusciva a calmarsi?
“Avrei
dovuto dirtelo
prima, ma sono un codardo quando si tratta di cose personali, lo
sai”. Yami
sorrise, l’altro continuò “Era di questo
che parlavo con Anzu tutte le sere, a
un certo punto ho sentito il bisogno di starti lontano, come se dovessi
difendermi perché era colpa tua se mi sentivo
così… strano, diverso” Yugi
sperava davvero di non ferirlo con le sue parole, sempre che le sue
azioni non
lo avessero già fatto tempo prima. Si sentiva tremendamente
male per essersi
comportato in quel modo, ma era l’unica cosa che gli era
venuta in mente a quel
tempo. “Lei aveva già capito tutto sai?
È passato più di un mese dalla prima
volta che mi ha detto che tu mi amavi”.
Gli
occhi di Yami erano
diventati così grandi che Yugi ridacchiò sotto i
baffi. “Ti ho tenuto nascoste
tante cose, volevo capire se era vero, se anche dopo tutto quello che
ti facevo
tu ti saresti ancora preoccupato, mi avresti… voluto bene
ancora” una pausa.
“Ti chiedo scusa. Mi sono comportato da schifo nei tuoi
confronti”.
“La
colpa è anche mia, se
te ne avessi parlato prima o se non ti avessi assillato così
magari non saresti
arrivato a questo punto…” mormorò Yami.
No, Yugi non credeva di meritare Yami:
aveva ferito, calpestato e maltrattato i suoi sentimenti in
così tanti modi che
si sentiva male solo a pensarci. E tutto questo per dimostrare a se
stesso che
cosa? Che di Yami non gli importava niente? O che di Yami gli importava
tantissimo, e sperava che nonostante tutto, lui non lo lasciasse andare?
Questa
volta fu Yami a
rompere il silenzio, gli eventi avevano preso una piega inaspettata, e
capiva
le emozioni e i pensieri che in quel momento stavano facendo a botte
nella
testa di Yugi. Il senso di colpa lo divorava, i suoi occhi erano chiari
come un
libro aperto. Possibile che non capisse che erano tutte sciocchezze? Il
passato
è passato, chi se ne importa di quello che aveva fatto Yugi,
una sola cosa
importava adesso, e lampeggiava nella mente di Yami come
l’insegna luminosa di
una pizzeria in pieno centro. Aveva una possibilità. Sorrise
rivolto verso
l’altro, che teneva ancora la testa bassa, immerso nei suoi
pensieri.
“Yugi,”
lo chiamò e
aspettò che il ragazzo incrociasse i suoi occhi nei suoi
prima di porre la sua
domanda, in tono forse un po’ sardonico.
“Io
ti piaccio?”.
Il
ragazzo dagli occhi
viola deglutì. Si era preparato a questo momento. Solo
mentalmente però, non
psicologicamente, e sembrava che le parole facessero una fatica
tremenda a
uscire dalla sua bocca in quel momento.
“Io
credo… credo di sì.
Sì” annuì, e fu come se un peso si
fosse tolto dal suo cuore, un altro tassello
del puzzle, tanti tasselli, presero il loro posto. L’immagine
ancora più
nitida. Yami rifletté prima di porre la sua seconda domanda:
forse stava correndo
troppo, guidato dall’euforia e dalla mancanza di logica e
razionalità che solo
le notti insonni riescono a dare, insieme a un’incredibile e
inspiegabile
adrenalina. Avvicinò la sua mano a quella di Yugi e la
sfiorò, quasi timoroso
di toccarla, come se tutte le volte che si erano toccati o perfino
picchiati
nell’ultimo anno, non fossero mai esistite e lui lo stesse
toccando per la
prima volta. Le dita di Yugi si alzarono un po’, catturando
delicatamente
quelle di Yami e allacciandole alle sue, gli occhi di entrambi fissi
sulle loro
mani.
“E…
mi ami?” sì era sicuramente
troppo veloce come richiesta, ma l’impazienza aveva avuto la
meglio su ogni
prudenza e alle sei del mattino Yami pensò di potersi
concedere un attimo di
avventatezza, per quanto la paura della risposta era
tutt’altro che svanita.
Yugi era pensoso, guardava le loro dita, carezzava il palmo di Yami col
proprio
pollice, taceva.
“N-non
ne sono sicuro…” fu
il meglio che riuscì a dire, una domanda simile se
l’era posta solo poche
volte, fermandosi sempre al semplice ‘mi piace’.
Eppure non capiva il perché di
quel sorriso sul volto di Yami: non l’aveva appena ferito?
Yugi chiaramente non
capiva che un ‘forse’ assomiglia molto
più a un ‘sì’ che a un
‘no’. Il sorriso
del giovane si trasformò in un sorrisetto.
“Mi
faresti provare?”
sussurrò.
“Provare
cosa?” cosa
voleva fare? anche il cuore di Yugi aveva preso a battere forte, e non
se n’era
reso conto fino ad adesso perché troppo concentrato a
pensare ai suoi sensi di
colpa. Yami si stava avvicinando a lui, spostò la mano
allacciata a quella di
Yugi davanti a sé, e la strinse piano con l’altra,
carezzandola con il pollice
proprio come aveva fatto l’altro prima, sempre fissando Yugi
negli occhi.
“Provare…se
mi vuoi bene” solo
quello era più che sufficiente per ora.
“E’
una cosa di cui poi mi
pentirò?” scherzò Yugi, ridacchiando
nervosamente. Yami si unì alla sua risata.
“No,
non credo” spero di no
avrebbe voluto dire. Ma non
voleva cominciare a dubitare anche lui. Yugi annuì piano.
“D’accordo
allora”.
Anche
questa probabilmente
era stata un’idea stupida, ma Yugi aveva dato il suo consenso
e sarebbe potuta
essere l’unica occasione di Yami, non sapeva quanto
l’altro potesse essere
pronto o disposto a una relazione: accadeva tutto troppo in fretta.
Anche se
Yugi gli aveva detto che erano mesi che ci rifletteva e…
Forse era meglio
rimandare i rimorsi e le preoccupazioni a dopo. Lentamente, quasi
timoroso di
invadere lo spazio dell’altro, Yami si avvicinò a
Yugi, attento a qualunque
segno dell’altro. Se Yugi si fosse ritratto o avesse cambiato
idea
all’improvviso allora anche Yami avrebbe fatto altrettanto,
senza nemmeno
pensarci.
Restarono
immobili per
qualche secondo, a così poca distanza che poteva sentire il
respiro di Yugi
sulla propria pelle, e il battere forte del suo cuore, come il suo.
Yami
allungò a mano e sfiorò il volto
dell’altro, carezzando delicatamente il suo
zigomo, la sua guancia, percorrendone la superficie con il pollice, e
andando
infine a prendere il suo mento fra le dita, in una stretta priva di
forza,
sollevandolo piano. Gli occhi color mora di Yugi si stavano
socchiudendo, le
iridi rosse di Yami risposero allo stesso modo e si ridussero piano
piano a
fessure, mentre le sue labbra si avvicinavano lentamente a quelle di
Yugi.
Nel
momento in cui si
sfiorarono avevano entrambi chiuso gli occhi. Non c’era
nessuna pressione in
quel bacio, nessuna fretta o violenza, era un contatto semplice,
delicatissimo,
forse molto timido. E decisamente strano. Eppure il pensiero di stare
baciando
un ragazzo non sfiorò la mente di Yugi neanche per un
istante, era come se
fosse qualcosa che aveva aspettato da sempre e non c’era
nulla di sbagliato in
quel gesto. Non stava baciando un ragazzo, stava baciando Yami. E
quella era
l’unico cosa a cui riusciva a pensare. E le sue dita
formicolavano, il suo cuore
batteva, era come se il suo stomaco facesse su e giù dentro
di lui e sentiva
calore, calore ovunque. Come prima, come in un abbraccio. E gli ultimi
tasselli
del puzzle cominciavano a mettersi al loro posto, a riempire tutti gli
spazi
vuoti.
Le
labbra di Yugi erano
morbide, umide per il tanto parlare, screpolate per il freddo di quei
giorni di
febbraio, e dolcissime da toccare, anche solo sfiorare, come stava
facendo
adesso. Non osava spingersi più in là, forse
stava già forzando Yugi, ma era un
contatto che aveva desiderato da quasi un anno e finalmente lo stava
sperimentando. Cosa che non avrebbe mai immaginato. Inaspettatamente,
Yami
sentì una pressione sul suo collo, una mano che lo spingeva
con più forza verso
quelle labbra, sempre delicatamente, ma guidata come da un bisogno.
Yugi
inclinò la testa di lato, appena un po’, per
lasciare che la bocca dell’altro
avessero più facilmente accesso alla sua.
Non
ci voleva un genio per
capire che quello che stava succedendo non gli dispiaceva neanche un
po’, Yugi
ne era consapevole, e adesso che aveva provato la sensazione delle
labbra di
Yami sulle sue voleva sentire quella pressione ancora un po’
di più, un po’ più
a lungo, un po’ più vicino. Non aveva ancora
deciso come rispondere alla sua
domanda, ma intuiva che di quel passo, il suo
‘forse’ aveva buone probabilità
di trasformarsi in un sì.
Sorridendo,
Yugi si scansò
riluttante dalle labbra dell’altro, giusto il tempo per
respirare un attimo e
poterlo guardare negli occhi, come se lo stesse osservando adesso per
la prima
volta. La persona che viveva con lui da più di un anno, la
persona che non
sapeva cucinare neanche un uovo sodo, che riusciva a imparare un libro
intero
in una giornata ma poi la stessa sera era pronto a sfidarlo a una
maratona di
videogiochi. La persona che aveva incolpato per tutte le sue crisi
degli ultimi
mesi, che aveva odiato, senza riuscirci, e che aveva appena baciato.
Per la
prima volta. Yugi allungò la mano e scansò con le
dita una ciocca di capelli
biondi, arruffati, dagli occhi di Yami. Non si era mai reso conto di
quanto
quegli occhi fossero belli, brillavano quasi, anche se
l’altro era stanco e
assonnato. E brillavano per lui. Piano, Yugi depositò un
secondo bacio sulla
sua bocca, poteva diventare una dipendenza, era così
morbida. Ma era una
dipendenza piacevole, decisamente.
Yami
sorrideva, con quel
suo ghigno un po’ sornione che Yugi a volte trovava irritante
e canzonatorio,
eppure l’unico aggettivo a cui riusciva a pensare ora era
adorabile. Poi Yami
si portò una mano alla bocca e tentò di
mascherare uno sbadiglio, difficile a
farsi visto quanto erano vicini. Yugi ridacchiò.
“Ti
sei già stufato di
me?” sussurrò.
“Non
dirlo neanche per
scherzo” rispose Yami, dandogli una leggera pacca sulla
testa.
“Mi
spezzi il cuore
così…”.
“C’è
del nastro adesivo in
cucina, se vuoi aggiustarlo…” Yami strinse le
spalle. L’altro inarcò un
sopracciglio.
“Che
ci fa il nastro
adesivo in cucina?”.
“Non
ne ho idea” sbadigliò
“forse sei sonnambulo e ce lo hai portato
tu…”.
“Non
sono sonnambulo!”
ribatté Yugi.
“Come
faccio a fidarmi?”.
Yugi
si distese sul letto,
sprofondando la testa nel tessuto. Non si era reso conto di quanto
avesse sonno
anche lui, ma quel materasso era così morbido che non
l’avrebbe lasciato per
nulla al mondo, non prima di una buona dormita. Chiuse gli occhi e si
raggomitolò sul cuscino. “Dovresti controllarmi
mentre dormo…” mormorò. Yami
trattenne un altro sbadiglio e si accasciò sul letto anche
lui, vicino a Yugi.
“Sai
che non è una cattiva
idea?” mormorò “Lasciami un
po’ di spazio” ridacchiò. Yugi
aprì gli occhi
ridacchiando a sua volta e scosse la testa deciso “Neanche
per sogno”. Yami
si avvicinò all’altro allora, una
piccola parte di lui ancora timorosa di stare invadendo gli spazi di
Yugi o di
forzarlo, ma l’altra aveva intenzione di rimanere al gioco e
giocare alla sua
maniera. Strinse un braccio attorno al ragazzo e lo tirò a
sé: adesso sì che il
letto di Yami era della grandezza giusta per tutti e due.
“Peggio per te
allora…” rispose.
Peggio?
Il braccio di Yami
intorno alla sua vita e il suo viso così vicino al proprio
sembravano a Yugi
tutto fuorché peggio, non riuscì neanche a
pensare a quanto tutto ciò potesse
sembrare sdolcinato, chiuse semplicemente gli occhi, rilassandosi in
quell’abbraccio.
“Buonanotte”
sussurrò.
“O
buongiorno…” fu la
risposta, ma Yugi era già sprofondato
dall’abbraccio di Yami a quello di
Morfeo. Anche se adesso sapeva perfettamente quale dei due fosse
più
accogliente.
-
Nonostante
le serrande
abbassate e la stagione invernale, la luce entrava prepotentemente
attraverso
le fessure delle finestre, bianca e brillante, proprio come a
mezzogiorno,
colpendo i suoi occhi e facendogli tremare le palpebre. Molto
probabilmente
l’orario era esattamente quello. Come mai aveva dormito
così tanto fu la prima
domanda che si affacciò alla mente di Yami, ma la buona
memoria non gli serviva
solo per studiare: ricordava perfettamente la sera precedente,
ricordava chi
stava ancora tenendo stretto, la stessa persona che evidentemente
dormiva
ancora, con la testa probabilmente poggiata sopra il suo braccio. Anche
con gli
occhi chiusi Yami poteva sentire la pressione di Yugi sul suo arto, ma
non era
qualcosa di cui avesse intenzione di lamentarsi. Ancora assonnato,
aprì a
malapena gli occhi, quel poco che bastasse per indagare con lo sguardo
la
stanza, debolmente illuminata, e cercare il verde elettronico del
display della
sua sveglia.
10.12
Invece
no, non era
mezzogiorno. Le iridi rosse spostarono la loro attenzione
dall’orologio al
ragazzo accanto a lui. Sorrise piano. Poteva restare lì
ancora un po’.
Yami
non era l’unico a non
essere più addormentato. Un altro paio di iridi erano
socchiuse, appena
pigramente aperte, ma viola, dello stesso colore delle more.
Allora
era tutto vero,
tutto quello che era successo poche ore fa: lo sbraitare, il litigio,
la presa
di coscienza, le scuse, Yami…
Yami
era vero, lì accanto
a lui. A dirla tutta era anche comodo... Se non fosse stato
così assonnato,
probabilmente Yugi si sarebbe messo a ridere. C’era qualcosa
di bello in tutto
questo: non sentiva nessun peso, nessun groppo in gola, nessun senso di
colpa.
Non c’era nulla di cui si pentisse, eppure nel giro di poche
ore aveva
stravolto la sua vita più di quanto avrebbe potuto farlo in
mesi interi.
Com’era quel detto? Cambiare tutto perché non
cambi niente? In fondo non era
del tutto falso: avrebbero continuato le loro vite, studiare,
scherzare,
sicuramente litigare ancora, vivere sotto lo stesso tetto. Sempre loro
due in
fondo. Però qualcosa era cambiato sicuramente, nel suo modo
di vedere Yami, nel
suo modo di vedere se stesso.
L’ultimo
pezzo andò a
sistemarsi con disinvoltura nella cornice di tasselli,
l’immagine ora era
finalmente chiara, non sicura: il futuro non è mai sicuro,
ma non c’era più
nebbia ad avvolgerla. Yugi aprì gli occhi ancora un
po’, tanto da poter
guardare il viso di Yami e scansare con le dita una ciocca di capelli
dal suo
volto, lasciando scoperte due iridi rosse, seminascoste dalle palpebre,
che lo
fissavano dolcemente. Sorrise. Il resto dell’immagine
l’avrebbero scoperto
insieme.
Owari