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Autore: aduial    14/10/2014    5 recensioni
"L’angelo le posò un leggero bacio sulla fronte, sentendo che si
irrigidiva contro il suo petto. Aprì le ali e le richiuse, circondandoli,
isolandoli dal resto del mondo. Poi fissò lo sguardo, in quegli occhi grigi,
elettrici.
Tempesta intorno a loro. Le ali di lui.
Tempesta davanti a sé. Gli occhi di lei."
Seconda classificata al contest "le creature della notte" indetto da passiflora91 sul forum di EFP.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Into the storm
 
Dejara schiacciò la sigaretta a terra. Un ultimo baluginio aranciato brillò nell’oscurità, prima che l’elegante stivale in pelle piombasse su di lui, spegnendolo definitivamente. Con un movimento fluido, l’elfa si sedette sull’altalena, facendola cigolare leggermente e volse la testa intorno a sé, accarezzando con lo sguardo i folti alberi che celavano il piccolo parco dagli occhi indiscreti dei passanti. Chiuse gli occhi, concentrandosi sui rumori che popolavano la notte: macchine che correvano sull’asfalto della strada, passi di gente sul marciapiede, sbuffi di vento che si insinuavano tra le foglie, facendole fremere armoniosamente. Dejara si abbracciò, cercando di trattenere il calore che le dita del vento di novembre provavano a strapparle dal corpo. Sollevò il volto, nel tentativo di ammirare lo splendore del cielo notturno, ma scorgendo solamente un’infinita distesa di inchiostro liquido, senza nemmeno una stella a interromperne la scura monotonia. Solo la luna, quasi piena e gongolante, la osservava in quella snervante attesa.
A un tratto, un rumore nuovo attirò la sua attenzione.
«Sei in ritardo.» constatò con freddezza, prima di voltarsi verso la nuova arrivata. Uno scintillio perlaceo ferì il volto di quest’ultima. «La cosa ti diverte?» frecciò ancora Dejara.
«Io non sono mai in ritardo. Sono gli altri ad essere in anticipo.» rispose pacatamente l’altra, con voce carezzevole. Seta che celava una lama tagliente. Dejara sbuffò, ormai abituata a trattare con creature come lei.
«Dimmi, Lihane, perché mi hai chiamato?»
Liahne si accomodò sullo scivolo, allargando le grandi ali che le fiorivano sulla schiena, pennellate di argento e madreperla, i cui confini si perdevano nell’oscurità, confondendosi con essa. Le sorrise nuovamente, senza alcuna fretta apparente di spiegarle il perché di quella convocazione. Fretta. Una condizione estranea a chi, come loro due, non risentiva del passaggio del tempo. Nonostante i modi bruschi, Dejara sapeva essere paziente, tanto quanto Liahne. Si fissarono per interminabili secondi, nei quali rivissero tutte le guerre che avevano combattuto fianco a fianco, i secoli che avevano trascorso sostenendosi a vicenda e quelli in cui non si erano neppure viste. L’angelo e l’elfa, la reale e la cacciatrice. Diverse, eppure identiche. Due guerriere che si compensavano, ognuna sopperiva alle mancanze dell’altra, ognuna aveva doti che all’altra mancavano.
«Ho, anzi, abbiamo, bisogno di te.» si decise infine a parlare Liahne.
«Di me?» chiese Dejara, scettica, sollevando il sopracciglio destro.
«Delle tue capacità.» si affrettò a chiarire l’altra. L’elfa si alzò, cominciando a percorrere il piccolo cerchio di alberi. I dodici centimetri di tacco che indossava sprofondavano ad ogni passo nel morbido terriccio del parco.
«A che pensi?» le chiese Liahne, guardandola intensamente. Dejara fissò lo sguardo in quello dell’angelo. Il grigio scuro, quasi elettrico, della tempesta si scontrò con quello chiaro e liquido del mercurio.
«Penso che ci dev’essere una fregatura. C’è sempre una fregatura.» borbottò l’elfa, quasi parlando con se stessa.
Liahne aggrottò le sopracciglia, contrariata. «Non ti fidi di me?»
«Ho imparato a non fidarmi e a non dare nulla per scontato quando ci sono di mezzo gli angeli e, da quanto so, tu sei un angelo.»
«È importante» insistette l’altra. Dejara scoppiò in una risata amara: «Andiamo, Liahne. Non è forse sempre importante?»
Liahne abbassò il capo, sconfitta. Si levò in piedi con eleganza, allargando nuovamente le ali chiare dietro di sé. Si voltò un’ultima volta verso l’elfa, mimetizzata con il buio alle sue spalle.
«In caso dovessi cambiare idea, ci vediamo alla Rocca tra una settimana esatta. So che non mi deluderai.» Poi decollò, scomparendo velocemente tra le nuvole scure che andavano addensandosi nel cielo.
Dejara rimase immobile per un paio di minuti, poi si inoltrò tra gli alberi, solo un leggero stormire di foglie a indicare il suo passaggio.
 
Il sole si levava da dietro le montagne, tingendo d’oro le cime. Dejara lasciò vagare lo sguardo, senza essere minimamente toccata dallo splendore del paesaggio. Aveva visto troppe albe per impressionarsi ancora. A volte invidiava gli umani, la cui esistenza era talmente breve da passare quasi inosservata agli occhi degli immortali. Veneravano gli angeli, come se fossero i salvatori, coloro che li avrebbero protetti dal precipitare nel caos, creature divine da adorare e servire. Illusi. Agli angeli non importava delle loro vite, semplicemente il loro interesse coincideva con la sopravvivenza degli esseri umani. Dejara scosse la testa, pensando a come gli uomini rifuggissero le creature d’ombra come gli elfi e si precipitassero nelle trappole dei loro predatori. Come falene attirate da una luce intensa si gettavano tra le braccia degli angeli che li usavano solo per nutrirsi delle loro emozioni, dei loro sentimenti, svuotandoli e lasciandoli gemere per giorni sul letto, in preda al dolore che solo il nulla completo poteva generare. Ma almeno avevano ancora la capacità di stupirsi, di riempirsi gli occhi di nuove meraviglie, ogni giorno. Aprì la porta della sua Aston Martin Vanquish nera, aggressiva ed elegante, lasciandosi scivolare al suo interno. La pelle morbida e avvolgente del sedile la accolse e l’elfa accarezzò il volante con le dita, per poi rientrare nella carreggiata e proseguire per la sua strada.
 
Dopo ore di guida, quando il sole ormai aveva raggiunto e superato lo zenit, Dejara giunse in vista della Rocca degli Angeli. Un nome altisonante per indicare l’antica torre in cui si riuniva il Conclave degli Anziani, un gruppo di angeli che avevano vissuto tanto a lungo da non ricordare nemmeno quando fossero stati concepiti. L’elfa scrutò torva il familiare edificio che aveva evitato con estremo piacere negli ultimi quattrocento anni. Parcheggiò l’auto nel cortile interno, unica macchia di modernità, che stonava davanti alla maestosa antichità della torre, e smontò, stiracchiando i muscoli indolenziti con un movimento sinuoso.
«Sapevo che saresti venuta, Dejara.» la accolse la voce di Liahne.
«Se non l’avessi fatto, mi sarei sentita in colpa per l’eternità» ribatté l’elfa, avvicinandosi all’altra. Nella luce piena del giorno, l’angelo sembrava quasi risplendere. Dejara ammirò le ali di madreperla, soffermandosi su ogni piuma screziata d’argento, morbidamente ripiegate dietro la schiena, il vestito semplice e candido, la pelle d’alabastro e gli occhi di mercurio colato. La chioma corvina si spargeva sulle spalle sottili, in contrasto con tutta quella lucentezza.
«Non sei cambiata – notò – guardarti è ancora un fastidio per gli occhi.» Liahne rise, cogliendo il complimento nascosto nell’offesa e, a sua volta, osservò l’elfa che le era complementare, con i suoi capelli d’oro pallido e il fisico seducente fasciato di pelle nera e lucida. Le diede le spalle e a Dejara non restò altra scelta che seguirla, attraverso il cortile e gli ampi corridoi di pietra, finchè non giunsero alla camera che le spettava di diritto, quella stanza che molte volte aveva accolto i suoi sogni più dolci e gli incubi più terrificanti.
Liahne fece per lasciarla sola, a riscoprire quel suo piccolo rifugio a cui era stata tanto affezionata, ma l’elfa la fermò.
«Quando mi spiegherete cosa sta succedendo?»
L’angelo sorrise leggermente. «Stasera ci sarà un ballo per inaugurare il ritrovo del Conclave, domani, invece, ci riuniremo per darti le spiegazioni che meriti. Ho pensato che avresti avuto bisogno di un vestito adatto e te l’ho procurato io. È appeso nell’armadio.» Detto ciò se ne andò, spalancando la finestra più vicina e gettandosi nel vuoto, lasciando che le fresche correnti montane la sostenessero. Dejara rimase immobile, indecisa se correre alla finestra e offendere lei e tutti quelli della sua specie o se entrare nella camera e gettarsi sul morbido letto, trovando rifugio in un sonno ristoratore. Si decise per la seconda opzione e sfiorò con la punta delle dita la maniglia dorata, per poi stringerla e abbassarla con decisione. Il fresco profumo di fiori d’arancio le invase le narici, dolce senza essere stucchevole, delicato senza essere anonimo. Ogni stanza della Rocca aveva il suo profumo particolare, tanto che era possibile orientarsi seguendo l’olfatto più che la vista.
Si spogliò degli abiti che indossava ormai da troppo tempo, gettandoli in un angolo con noncuranza. Rimasta completamente nuda, sciolse anche la treccia, lasciando che i morbidi boccoli biondi le scivolassero sulla schiena, fino a sfiorarle i fianchi in una languida e sensuale carezza. Scalza, camminò fino alla grande vetrata rivolta a ovest, senza preoccuparsi del fatto che qualunque angelo in volo avrebbe potuto vederla e la aprì. La brezza fredda dell’autunno inoltrato si insinuò nella stanza, scivolando sulla pelle chiara dell’elfa e facendola rabbrividire. Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio appuntito e distolse lo sguardo dalle vette innevate, chiudendo la finestra e dirigendosi verso l’enorme letto a baldacchino che troneggiava nel centro della stanza. Scivolò nell’abbraccio delle soffici lenzuola di seta, una morbida e gradita carezza sulla sua pelle scoperta, e le tenebre la avvolsero, concedendole un lungo sonno ristoratore.
 
Gli ultimi sprazzi di luce del sole morente fendettero la vetrata della camera, scomponendosi in mille riverberi e riflessi. Liahne entrò, senza fare alcun rumore, consapevole di quanto i sensi dell’elfa fossero sviluppati.
«Ti ho sentita.»
Sul volto dell’angelo si dipinse una smorfia contrariata, subito sostituita da una allegra. «Alzati, è già tardi.» Le fece notare con gentilezza. Dejara si levò a sedere e le lenzuola sgusciarono a terra, senza che l’elfa facesse alcunché per trattenerle.
«Vedo che non hai perso l’abitudine di dormire nuda.» Commentò Liahne, ottenendo solo uno sguardo raggelante in risposta. Dejara si alzò e si diresse verso l’armadio, estraendo un lungo abito blu. Si voltò verso la compagna, con un’espressione sconvolta a distorcerle i lineamenti.
«Ti prego, dimmi che non è questa… cosa!»
Liahne sogghignò, mentre l’elfa si lasciava sfuggire un gemito di disappunto. Rassegnata, si infilò l’abito, che le si disegnò addosso, abbracciando ogni sua curva. Era aderente fino ad appena sotto al sedere, da dove poi si allargava, ricadendo in morbide pieghe sul pavimento lucido. Sulla schiena aveva una scollatura vertiginosa, che si fermava a un passo dall’osceno. Dejara osservò critica la sua immagine riflessa sullo specchio, stirando pieghe invisibili sulle lunghe maniche aderenti e sfiorando impercettibilmente il decolleté nudo.
L’angelo le si avvicinò, avvolta in un abito di chiffon in stile impero di un lussurioso rosso borgogna, e le porse una scatola d’argento finemente intarsiata.
«Indossa questa. È appartenuta a Cleopatra in persona.» Le spiegò, allacciandole al collo una pesante torque d’oro, raffigurante un serpente, preciso in ogni dettaglio, che le si avviluppava intorno al collo.
«È meravigliosa.» Ammise Dejara, avvertendo però un leggero disagio e una sensazione di costrizione e prigionia. Liahne la fece sedere, raccogliendole i capelli in una coda alta e truccandola leggermente. Quand’ebbe finito, si diressero verso l’enorme sala da ballo della Rocca.
 
Appena oltrepassato il pesante portone di quercia, l’intenso profumo di rosa le avvolse, quasi stordendole.
«Hanno fatto le cose in grande.» commentò Dejara, ammirando le rose di un rosso cupo e sanguigno che si arrampicavano sulle colonne di marmo e sugli archi di pietra. Il colore scuro dei fiori era compensato dalla limpidezza dei lampadari di cristallo, le cui gemme pendevano dal soffitto, illuminando la stanza di mille sfaccettature e giochi di luci e di colori. Dall’alto della scalinata potevano vedere i completi scuri degli uomini e le corolle colorate degli abiti femminili, che aprivano i loro petali, tingendo il pavimento marmoreo di sgargianti sfumature. Alcune coppie di angeli svolazzavano a mezz’aria, sfoggiando le grandi ali, nessun paio identico all’altro, mentre elfi, vampiri e tutte le altre creature che non potevano volare li osservavano con un misto di invidia e ammirazione. Con la grazia che solo i secoli potevano conferire, scesero i gradini, attirando gli sguardi dei più giovani in sala e quelli affamati degli uomini, che si soffermavano sulle curve ben disegnate dagli abiti che indossavano. Appena misero piede sulla pista da ballo, la folla si divise per farle passare, finchè non arrivarono al tavolo del buffet per servirsi un calice di champagne.
«Incuti ancora timore, Dejara.» notò Liahne, con il divertimento che le incrinava appena la voce.
«Non ti è passato per la mente che potresti essere tu il problema, vero?» ribatté l’elfa, tranquilla, portando con eleganza il calice di cristallo alla bocca. Non aveva ancora finito di parlare che un giovane angelo dai caldi occhi nocciola si avvicinò a Liahne, chiedendole educatamente di ballare. Lei si lasciò sfuggire una risata civettuola, che sapeva di scherno nei confronti dell’elfa, per poi farsi condurre via, verso l’alto. Dejara osservò il connubio creato dalle ali di perla e argento di lei con quelle bronzee di lui e decise che erano davvero un pessimo abbinamento.
 
«Non balli?» una voce calda e profonda la riscosse dai suoi pensieri. Una voce che sembrava un’ombra carezzevole e avvolgente che le sfiorava la pelle, facendole scorrere brividi di piacere lungo la schiena scoperta.
«Non ho trovato un cavaliere.» rispose lei in un sussurro che trasudava seduzione. Una mano grande e calda le percorse il braccio, fino a raggiungere la sua mano, per farla voltare verso di sé. Dejara annegò in uno lago di lapislazzuli, solcato da sottili venature di ghiaccio. Una volta ripresasi dall’impatto con quegli occhi tanto intensi da destabilizzarla completamente, lo guardò, soffermandosi sulle spalle larghe e forti, sui capelli talmente neri da sembrare quasi blu e sulle ali, nelle quali si fondevano mezzanotte e tempesta. Ali fatte per confondersi nell’oscurità della notte.
«Allora bisogna rimediare.» Rispose lui, ipnotizzante, sfiorandole la mano in un bacio leggero e allacciandole le braccia dietro il proprio collo. L’elfa si lasciò sollevare dalle mani forti che le si erano posate sui fianchi sottili, sostenendola e guidandola. Le coppie già in volo si scostarono per far spazio alle grandi ali scure del suo cavaliere, scrutandolo con espressione di venerazione e terrore. Solo in quel momento Dejara si rese conto delle ondate di potere e pericolo che l’angelo emanava. Sorrise tra sé, consapevole del fatto che, per quanto lui potesse essere potente, lei non era sicuramente da meno e non sarebbe stata una preda facile. L’angelo la guardò intensamente, come se le avesse letto nel pensiero e lei capì di essere stata scelta, designata come sua pari da quella creatura antica e potente che con decisione e delicatezza la teneva tra le braccia.
Dejara ancorò gli occhi a quelli di lui.
«Frequento quest’ambiente da abbastanza tempo da conoscere tutti gli invitati. Tranne te. Perché?» si arrischiò a chiedere lei.
«Non è necessario che tu lo sappia ora.» Fu l’unica risposta che ottenne, un soffio di tentazione e peccato nel suo orecchio.
«Io credo di sì - lo sfidò l’elfa – e potresti cominciare con il dirmi come ti chiami.»
L’angelo sospirò, scuotendo la testa, rassegnato e sconfitto dalla caparbietà della sua compagna. Era elettrizzato. Da quando era venuto al mondo, in pochi avevano avuto il coraggio di sfidarlo e nessuno tra questi aveva osato guardarlo negli occhi. Planò con leggerezza, sempre sostenendo delicatamente l’elfa, finchè non ebbero entrambi posato i piedi a terra. Fece per lasciarla andare, ma lei si aggrappò più saldamente, le unghie che quasi penetravano nella carne solida delle sue spalle.
«Non credo sia il luogo più adatto per parlare.» Gli spiegò con voce dolce, miele dorato nel quale si celava il veleno più letale. Con uno sguardo malizioso la strinse nuovamente, facendo scivolare le mani sulle natiche fasciate dalla stoffa cobalto.
«Solo parlare?» le chiese.
Si arrischiò a guardarla nuovamente negli occhi di piombo fuso, che ora sembravano crepitare di elettricità, rabbia a stento trattenuta. La voce di lei guizzò nuovamente, come una lama di acciaio lucente.
«Sì, solo parlare.» Gli rispose, artigliandogli il petto.
Con una risata divertita, la sollevò nuovamente, uscendo dalla grande portafinestra e atterrando nel giardino notturno. I suoni della festa giungevano ovattati in quella piccola oasi di pace, note di un’armonia ignorata dai due che, dimentichi di tutto il resto, si fronteggiavano, con il volto a pochi centimetri l’uno dall’altra.
 
Dejara si sciolse dalla prigionia di quelle braccia muscolose e si incamminò lungo il sentiero di candida ghiaia, racchiuso da due folti siepi di gelsomino, i cui bianchi fiori spandevano nell’aria la loro dolce fragranza. Lui la seguì in silenzio, finchè non giunsero su di un piccolo ponte di legno, posto su uno specchio d’acqua nel quale si riflettevano quelle stelle che dalla città non erano visibili. Il gelido vento delle montagne spirò, trapassando per un istante la bolla che circondava la Rocca, creata per trattenere un tepore primaverile nei terreni circostanti. L’angelo istintivamente allargò le ali, per proteggere la sua compagna dal freddo, ma lei non vi badò, intenta ad ammirare le increspature leggere sulla superficie dell’acqua e le ninfee bianche che su di essa galleggiavano pigre.
«Aldhean.» Ruppe il silenzio che gravava su di loro. Lei si voltò, una domanda inespressa negli occhi.
«È il mio nome.» Le spiegò.
Lei annuì brevemente. «Dejara.»
«Non sei a tuo agio qui, vero?» le chiese l’angelo, quasi esitante. Dejara si sciolse i capelli, troppo a lungo costretti alla rigidità dall’elastico che Liahne aveva utilizzato per raccoglierli. Una cascata di boccoli che alla luna sembravano quasi brillare si riversò sulla sua schiena, una marea d’oro pallido nella quale lo sguardo avrebbe potuto perdersi per ore. Con il sollievo dipinto sul volto, l’elfa gli rispose: «È tutto così ordinato, ogni cosa ha un suo posto ben definito, ogni persona ha un suo ruolo. È per questo che mi tengo alla larga dalla Rocca il più a lungo possibile. Io detesto essere controllata e avere regole da seguire. Qui persino le piante non possono uscire dagli schemi ed è una cosa che non sopporto.» Aveva il fiato corto per la confessione appena fatta, lo sguardo inchiodato sul volto cesellato di Aldhean.
Con uno scatto repentino l’angelo la trasse a sé e spiccò il volo, salendo sempre più in alto. Appena usciti dalla bolla di calore, il freddo li aggredì, mordace, feroce ,tagliente. Dejara si strinse di più a lui, nel tentativo di proteggersi dalle dita gelate che tentavano di penetrare sotto i suoi vestiti, strappandoglieli di dosso. Dopo forse un minuto di volo, atterrarono in una radura nel bosco, la Rocca era solo un piccolo punto luminoso in lontananza. Aldhean la circondò delicatamente con le braccia e con le ali, dandole il calore di cui aveva bisogno.
«Questo luogo ti è più congeniale?» mormorò, sorridendo al suo cenno d’assenso. Nella prigione delle sue ali, Dejara si sentì al sicuro come non le succedeva ormai da secoli e si concesse di chiudere gli occhi, appoggiando la guancia sul petto di lui. Ma la sensazione di benessere si trasformò presto in soffocamento e claustrofobia e l’elfa si divincolò nel tentativo di liberarsi, a costo di esporsi agli attacchi del vento del nord. Una volta libera, però, si rese conto che la colpa non era di Aldhean, bensì della torque che Liahne le aveva allacciato al collo solo qualche ora prima e che ora tentava di strangolarla, avviluppandosi sempre più strettamente al suo collo.
Dejara cadde in ginocchio sulla neve, posatasi solo qualche giorno prima sulla cime, tentando di strapparsi di dosso il sontuoso ornamento. Aldhean giunse in suo soccorso e, solo grazie allo sforzo combinato di entrambi, l’elfa fu finalmente libera. Allora si permise di guardare l’aspide dorato che si contorceva tra le mani dell’angelo, cercando una via di fuga, finchè non riuscì a piantare una delle sue zanne acuminate nella tenera carne del dorso della mano destra. Aldhean fu costretto a lasciarlo, tenendosi la mano ferita, mentre gocce vermiglie precipitavano a terra, macchiando irrimediabilmente il candore della neve. Non appena toccò il suolo, il serpente si raggomitolò nuovamente su se stesso e tornò a essere una torque, immobile e innocua.
L’elfa si precipitò verso l’angelo e gli prese la mano tra le sue. Aldhean le sorrise, rassicurante, mostrandole come la ferita si fosse già rimarginata, lasciando solo una leggera cicatrice biancastra causata dal veleno, che avrebbe impiegato un po’ per essere cancellata del tutto. In lontananza risuonò un ululato, ma i due non se ne curarono, consapevoli di emanare sufficiente potere da spaventare un intero branco di lupi, che non avrebbero osato nemmeno avvicinarsi alla radura nella quale si trovavano. Dejara si avvicinò alla splendida collana che giaceva sulla neve, una macchia d’oro brunito sul pallido manto che ricopriva il terreno. La prese cautamente tra le dita e, stringendola forte, aspettò che Aldhean si avvicinasse a lei, afferrandole i fianchi per sollevarsi in volo e tornare alla Rocca.
 
La bella elfa si lanciò all’interno della sala, la bionda chioma ribelle e sconvolta. Ciononostante in pochi le fecero caso, visto che l’avevano vista allontanarsi con Aldhean e si erano fatti un’idea piuttosto chiara su quello che poteva essere successo tra i due. Sgusciò tra le coppie danzanti con l’agilità della predatrice che in effetti era, come una fiamma guizzante e sinuosa, inafferrabile e seducente. Afferrò la sua preda per il polso chiaro e la trascinò dietro una tenda di pesante broccato carminio.
«Si può sapere che ti prende?» le chiese Liahne, piuttosto scocciata.
«Si può sapere perché hai tentato di uccidermi?» la scimmiottò Dejara, la furia a malapena trattenuta che le faceva tremare le mani affusolate. L’angelo la guardò, confusa. L’elfa immediatamente si rese conto che la confusione che le leggeva negli occhi era sincera e si affrettò a spiegarle l’accaduto. Al termine del racconto, la mente di Liahne lavorava frenetica alla ricerca di una spiegazione, esaminando gli avvenimenti con freddezza e meticolosità. Dejara non si sarebbe aspettata nulla di meno da una guerriera come lei.
«La torque era nella mia stanza, ma io non ricordo di avercela portata – ammise alla fine Liahne – l’ho trovata lì e ho pensato di essermi semplicemente dimenticata della sua esistenza, dopotutto erano anni che non venivo alla Rocca. Inizialmente, avevo in mente di indossarla, ma poi ho pensato che ci sarebbe stata d’incanto con il tuo vestito.»
Un pensiero colpì Dejara, un’illuminazione repentina le attraversò la mente. «Quindi non ero io la vittima designata, ma tu.» Dedusse. L’altra annuì sovrappensiero, per nulla turbata dall’aver scoperto che qualcuno avesse tentato di ucciderla, d’altronde erano state addestrate alla freddezza e al calcolo. Completamente concentrate nei loro pensieri non badavano più alla musica e al chiacchiericcio assordante, dai quali erano separate solo da una tenda. Innanzi a loro vedevano la matassa intricata che era quel mistero e nei loro animi ardeva il desiderio di dipanarla, di svolgerla fino a trovarne il capo. Liahne guardò Dejara per qualche secondo, soffermandosi sulle ombre che le pieghe del broccato e le fiamme delle candele le disegnavano sul volto assorto.
«Domani mattina il Conclave si riunirà e cominceremo le indagini.» La informò. L’elfa ricambiò lo sguardo, scettica. «Sono invitata?» L’altra rispose con un sorriso tirato, come se improvvisamente il peso dei secoli le fosse piovuto sulle spalle, e un breve cenno d’assenso. Dejara fece per andarsene, ma ebbe un ripensamento e si bloccò, senza voltarsi indietro. Le parole le uscirono a fatica, come se fosse estremamente difficile per lei pronunciarle.
«Ah, Liahne. Sei ciò di più simile a un’amica che ho in questo mondo, quindi… cerca di non morire.»
Un istante dopo l’angelo si ritrovò a fissare la stoffa morbida e pesante. «Anche tu.» rispose, certa che l’elfa l’avesse sentita, nonostante la confusione che le attorniava.
 
Il rumore ritmico dei tacchi sulla pietra fredda rimbombava nel corridoio vuoto. Finalmente avrebbe avuto le risposte che cercava, finalmente avrebbe saputo che cosa inquietava così tanto Liahne e il Conclave, chi aveva tentato di ucciderla, perché era stata convocata alla Rocca e aveva la sensazione che avrebbe scoperto anche chi fosse veramente Aldhean. Certo, però, non si aspettava di trovarlo addirittura alla riunione del Conclave. Appena entrata nell’ampia sala si sentì trafitta da quelle lame di un azzurro impossibile e le cercò tra i volti conosciuti, incatenandovisi una volta che le ebbe trovate. Si sarebbe ferita, perché è quello che succede quando si danza troppo vicino a un’arma, ma il dolore sarebbe stato piacevole e avrebbe gioito di ogni stilla di sangue perduta a causa loro.
A fatica distolse lo sguardo, concentrandolo sui membri del Conclave, in particolare su Redelas. Il più antico, il più saggio, il più potente. Il Primo. Le rivolse un sorriso bonario, ma Dejara sapeva benissimo quanto quell’angelo, dall’aspetto molto più amabile di molti altri, potesse essere pericoloso. Era l’unico a mostrare qualche segno di vecchiaia, nelle piccole rughe ai lati della bocca e degli occhi, nei fili argentei tra i capelli castani. Nonostante l’aria serena, l’elfa poteva notare l’opaco velo di preoccupazione che gli adombrava gli occhi verdi. Al suo fianco vegliava Althea, la sua consorte, un’elfa antica quasi quanto lui. I secoli non avevano segnato il suo fisico longilineo, né la scura carnagione o i lunghi capelli ricci e corvini. Gli occhi profondi, talmente scuri che non si distingueva l’iride dalla pupilla, scintillavano come opali mentre scrutavano la bionda cacciatrice. A un cenno di Redelas, Dejara si accomodò al suo posto, vicino a Liahne. In molti mormorarono con disapprovazione al suo passaggio e l’elfa sapeva benissimo perché: non si era inchinata di fronte al Capo del Conclave. Liahne la osservò scuotendo il capo rassegnata, mentre un sorrisetto divertito di sfida sbocciava sulle labbra della bionda. Redelas le fece l’occhiolino, ammirandone la personalità decisa e indipendente, che non si sarebbe inchinata di fronte a nessuno. Dejara ricambiò, piegando leggermente il capo in segno di rispetto.
«Bene, Dejara, – iniziò il Capo – tu sei l’unica tra noi che ancora non conosce lo stato delle cose. Credo, però, che sia compito di qualcun altro iniziare. Aldhean, prego.» Lo invitò a proseguire, stiracchiando le ali sulle quali erano dipinte tutte le sfumature del bosco, dal verde tenue a quello brillante, dal muschio allo smeraldo. Aldhean si levò in piedi, scendendo dallo scranno sul quale era seduto e portandosi al centro dell’anfiteatro, da dove tutti potevano vederlo e sentirlo. Ma fu solo a Dejara che si rivolse.
 
«Devi sapere che, quando un angelo è stanco dell’eternità che si ritrova a vivere, può decidere di addormentarsi. Sceglie un luogo isolato in cui trascorrere in pace degli anni, dei secoli, o persino dei millenni. Questo è quello che abbiamo deciso di fare io e il mio gemello, Tàmain. Il nostro rapporto era qualcosa che andava oltre la comprensione degli altri, fossero essi angeli, elfi, vampiri, umani,… Eravamo talmente legati che sentivamo tutto ciò che percepiva l’altro. Ma eravamo anche l’uno l’opposto dell’altro. Io sono fatto per vivere nella notte, lui per risplendere nella luce più fulgida e splendente. La consapevolezza di essere perfetto lo portò a desiderare il potere assoluto sul mondo e su tutti gli esseri viventi. Era accecato da questa sua brama, come Lucifero nel suo delirio di onnipotenza, al punto di paragonarsi a Dio e a tentare di elevarsi nel più alto dei cieli prima di venire scaraventato nell’Inferno più oscuro e profondo. Ma nessuno di noi era Dio e aveva il potere di provocare la caduta di Tàmain. Prima ti ho detto che scegliemmo di addormentarci, ma in realtà fui io a scegliere, nella speranza di portare anche lui nel sonno eterno. E così fu. Però, come vedi, ora mi sono risvegliato e abbiamo ragione di credere che anche Tàmain si sia risvegliato con me. Dobbiamo fermarlo prima che recuperi nuovamente tutti i suoi poteri e che si muova alla conquista del mondo. È questo il motivo per cui abbiamo riunito il Conclave e i più forti guerrieri di ogni razza, abbiamo creato un esercito potentissimo per fronteggiarlo.»
 
Aldhean tacque, tornando a sedersi e lasciando la sala nel silenzio più completo. Dejara, così come Althea e gli altri elfi presenti, poteva sentire i cuori battere con furia, allo stesso modo in cui i vampiri potevano percepire lo scorrere più rapido del sangue che veniva pompato con forza nelle vene. La mente della cacciatrice elaborava le informazioni, una dopo l’altra,finchè non giunse all’unica conclusione sensata.
«Sa che ci stiamo organizzando contro di lui.» Decretò, con voce chiara.
Decine di sguardi interrogativi si posarono su lei, lievi come ali di farfalle e, allo stesso tempo, pesanti come blocchi di granito.
«Pensateci. Lui è solo e sa che non può batterci tutti riuniti contro di lui. L’unica possibilità che gli rimane è tentare di eliminarci uno a uno con l’astuzia.»
«La torque maledetta…» sussurrò Liahne al suo fianco.
«Sì, e tutti gli altri incidenti che hanno colpito i nostri guerrieri nell’ultima settimana.» Confermò Redelas.
Un concitato brusio riempì la sala, trasformandosi ben presto in un’accozzaglia assordante di voci e rumori. Un unico grido, lanciato da un vampiro che aveva fatto irruzione nella sala, gelò tutti i presenti: «Arrivano!»
Nel silenzio carico di tensione che si era venuto a creare, un giovane angelo dai tratti femminei e dalle ali chiare, di un azzurro pastello che ricordava i fiordalisi e il cielo primaverile, si fece coraggio e, con voce tremante, osò chiedere: «Che significa “arrivano”? Pensavo avessimo un solo nemico da affrontare.»
Il vampiro, ancora ansimante e sconvolto, spiegò: «Attratti dalla brama di potere, angeli, elfi, vampiri e appartenenti a tutte le razze si sono uniti a Tàmain. Ha creato un esercito di potenza pari, se non superiore al nostro.» Man mano che parlava, la voce gli saliva di tono, fino a diventare quasi stridula.
Tutti si voltarono verso Redelas, in attesa di ordini, di un consiglio, di qualunque cosa potesse aiutarli.
«Preparatevi alla battaglia.» Fu il comando del Capo del Conclave.
 
Ci sono dei momenti in cui ci si sente completamente soli al mondo, come se tutte le persone, vicine e lontane, di ogni razza, lingua e cultura, fossero sparite. I rumori svaniscono, i sensi si atrofizzano, la mente sprofonda nell’oblio. È allora che restano solo i colori. Striature di rosso e arancio che solcano il cielo, inseguendosi, cercando il predominio l’uno sull’altro, mentre i raggi più chiari del sole morente cercano di farsi spazio, aprendo luminose ferite tra le nubi più scure. E poi c’è un punto, unico e solitario, in cui i colori caldi sfumano nel blu, annunciatore della notte, che avanza, ingoiandoli. Le vette si tingono di rosa, spiccando ancora più maestose, risaltando sulle pennellate d’indaco e cobalto. Un ultimo bagliore si riflette sulla neve, scintille di luce prima dell’oscurità. E il sole scompare oltre l’orizzonte.
 
Dejara osservava la linea scura che spiccava nel candore opalino della neve. L’esercito nemico, accampato, come una fiera superba che aspetta il momento giusto per balzare e divorare la sua preda. La leggendaria arroganza degli angeli aveva portato Tàmain a dar loro il tempo necessario per prepararsi, certo della vittoria che ben presto avrebbe stretto tra le mani. Una notte era tutto ciò che era stato loro concesso. Una notte d’attesa, d’ansia, d’esaltazione e di paura. I guerrieri si armavano, ognuno evocando il potere che il destino aveva loro concesso. Gli angeli richiamavano energia pura, che si liberava sotto forma di frastagliate e letali saette, i vampiri snudavano le zanne, nell’attesa di conficcarle nelle carni dei loro avversari, smaniosi di assaggiare il sangue che sarebbe loro zampillato in bocca e ognuno si affrettava, nell’ultimo disperato e frenetico tentativo di trovare qualcosa che lo mantenesse in vita. Solo gli elfi conservavano la calma. A loro era stato dato il potere di controllare gli elementi, le forze ancestrali della vita e, nel silenzio e nella meditazione, cercavano di riallacciare quel rapporto a lungo sopito.
«Ti godi lo spettacolo?»
«L’ultimo prima della fine.»
Redelas le si avvicinò, scrutandola attentamente. «Non sei turbata all’idea di morire.»
Un’affermazione, non una domanda. Dejara sorrise amaramente. «Il tempo non lascia segno su di noi, ma le battaglie sì. La morte mi è stata vicina troppe volte perché io mi spaventi ancora sapendola al mio fianco. Il segreto è essere soddisfatti della vita che si ha avuto.» Ribatté, appoggiandosi al parapetto e percependo tutte le irregolarità della pietra sotto i palmi.
Redelas distolse lo sguardo dall’elfa, per concentrarlo sull’orizzonte infuocato dal quale il sole scivolava inesorabilmente via, sostituito dalla marea oscura che saliva da est.
«La guerra obbliga la gente a fare scelte che mai dovrebbe essere costretta fare e ci sono scelte che si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante*
Dejara si voltò, confusa, in cerca di spiegazioni, ma l’angelo le aveva già dato le spalle e l’unica cosa che poté fare fu perdersi tra le morbide onde di smeraldo e foresta delle sue ali.
 
Un vago chiarore a oriente preannunciava l’alba, che, lenta, vorace e voluttuosa allungava i veli delle sue vesti sulla Rocca e tutto ciò che la circondava. Aldhean si avvicinò all’elfa che con i suoi capelli pallidi spiccava tra la folla. Accarezzò con lo sguardo il fisico scattante, fasciato di morbida pelle nera, le braccia agili, lasciate nude dalla tenuta da cacciatrice e la chioma, ribelle e voluminosa, costretta in una disordinata treccia che le si posava su una spalla. Fece scorrere le mani sulle sue braccia d’alabastro, percependo ogni suo brivido, mentre le sussurrava languidamente in un orecchio.
«Non avrai freddo, vestita così?»
L’elfa sorrise, sprezzante. «Credimi, sarò davvero l’ultima persona ad avere freddo, oggi.»
L’angelo le posò un leggero bacio sulla fronte, sentendo che si irrigidiva contro il suo petto. Aprì le ali e le richiuse, circondandoli, isolandoli dal resto del mondo. Poi fissò lo sguardo, in quegli occhi grigi, elettrici.
Tempesta intorno a loro. Le ali di lui.
Tempesta davanti a sé. Gli occhi di lei.
Poi la lasciò libera di andare, spiccando il volo senza più guardarla.
 
La battaglia iniziò quando il sole già brillava nel cielo, riempiendo la neve di abbaglianti riverberi. Dejara si voltò indietro, sollevando lo sguardo sul terrazzo della Rocca e scorgendovi Redelas, Althea e tutti il resto del Conclave. Avevano mandato avanti loro a combattere, celandosi dietro l’illusione della salvezza. Ma se avessero perso, non aver preso parte alla battaglia non avrebbe salvato le loro vite. Riportò lo sguardo avanti a sé, osservando Liahne, splendente e luminosa come una dea guerriera, che lanciava l’ordine dell’attacco. Gli angeli e i vampiri si scagliarono in avanti, cozzando contro gli avversari. Il sangue di quelli che erano stai amici, fratelli, compagni tinse ben presto la neve di vermiglio. Gli elfi di entrambi gli schieramenti restarono immobili per istanti interminabili. Poi, la prima lingua di fuoco saettò nell’aria tersa, infrangendosi contro una parete di solida roccia. Come rispondendo a un unico ordine, anch’essi si unirono alla battaglia, richiamando a sé le forze primitive degli elementi.
Dejara si accucciò, incurante del freddo. Sapeva di essere in netto vantaggio su chiunque altro a quelle temperature. Chiuse gli occhi e appoggiò le mani sulla neve gelida. Lo sentì quasi subito. Il richiamo di quel potere rarissimo, che solo lei poteva vantare. Il freddo le intorpidì le membra, ma lei non se ne curò. Come una fiera troppo a lungo intrappolata, il potere le scorse nelle vene, bloccando il sangue che ormai non le serviva più, aggredendo ogni cellula del suo corpo per prendere il sopravvento. Ma l’elfa lo domò, trattenendolo sotto il suo controllo e incanalandolo nelle mani. La temperatura scese ancora e il ghiaccio cominciò a dipanarsi sul terreno innevato, espandendosi dal suo epicentro: Dejara.
Allora l’elfa si alzò, incamminandosi con grazia laddove la battaglia imperversava più violenta. In molti tentarono di attaccarla, ma, a un suo minimo cenno, il ghiaccio sbocciava dal terreno, risalendo su per gli arti del malcapitato aggressore, divorandolo completamente, trasformandolo in una gelida statua, per sempre bloccato in una muta espressione di terrore.
Raggiunse Liahne, unendosi a lei in una danza mortale. Gli opposti: il calore incandescente delle saette e il gelo più assoluto e totale. Con Dejara al suo fianco, l’angelo ritrovò un po’ della sua allegria.
«Era necessario congelarlo completamente?»
«Che ti aspettavi dalla Dama di Ghiaccio?»
«Già, la Dama di Ghiaccio, colei che rischia dove gli altri non osano.» La prese bonariamente in giro, estraendo una spada dal fodero sulla schiena e facendola roteare per colpire alcuni vampiri. Poi schizzò verso l’altro, volteggiando con eleganza per scansare i lampi che saettavano nel cielo. Dejara si ritrovò circondata da elfi del fuoco, che cominciarono a scagliarle contro fiamme aranciate. Una riuscì a superare la sua difesa gelata, ustionandole il braccio, dove rimase inciso un segno rossastro. L’odore di carne bruciata si sparse nell’aria, mentre gli elfi, galvanizzati dal piccolo successo, si apprestavano ad attaccarla nuovamente. Una pioggia di saette cadde su di loro, uccidendoli. Dejara guardò in alto, scorgendo Aldhean che le rivolgeva un occhiolino complice, prima di girarsi e abbattere un angelo dalle ali rosse come il tramonto che aveva ammirato la sera prima. Una voce profonda e sprezzante tuonò sul campo di battaglia, sovrastando il clangore delle lame, i crepitii delle saette e le urla di dolore.
«Fratello! Non sono forse già troppi ad essere morti, quest’oggi?»
Un angelo si innalzò in volo, indicando i cadaveri riversi sulla neve macchiata di scarlatto. Le ali e le vesti candide e pure, i capelli dorati. Sarebbe potuto sembrare il ritratto dell’innocenza, se non fosse stato per il ghigno arrogante che gli deturpava le labbra. Aldhean lo fissava, alla sua stessa altezza. Negli occhi rimpianto, affetto e determinazione. I combattenti si erano fermati, osservando i gemelli, identici nei tratti, opposti nei colori, che planavano in una zona sgombra. Sarebbe stato l’ultimo scontro, quello decisivo. Un grido belluino si levò nel silenzio, echeggiando tra le cime. Poi, tutto intorno, si scatenò nuovamente il caos.
Indifferenti, Aldhean e Tàmain continuavano a studiarsi in silenzio, mentre Dejara li osservava assorta. Con la coda dell’occhio, vedeva, anche se a malapena la notava, la carneficina in atto. A pochi metri da lei un angelo veniva privato delle ali con un grido straziante, messo a tacere velocemente da un taglio netto alla giugulare.
Tàmain mosse le labbra dalla piega crudele, chiedendo al fratello di seguirlo, di unirsi a lui in quell’ambiziosa e folle corsa al potere supremo. In quell’istante Dejara capì: Tàmain non avrebbe mai ucciso il fratello. Aldhean non era stato ferito abbastanza in profondità da morire, solo tagli superficiali risaltavano sulla pelle, volti solo a indebolirlo. I seguaci di Tàmain non si erano accaniti su di lui come sugli altri e la spiegazione poteva essere solo una: lo voleva vivo a qualunque costo. Ma perché?
Il suo ragionamento fu interrotto dall’attacco, violento e improvviso, di un vampiro, che le saltò addosso, trascinandola nella neve con lui. Mentre si rotolavano a terra, Dejara evocò una lama di ghiaccio che le sbocciò dalle mani, conficcandosi nel petto del suo assalitore. Se lo scrollò di dosso, senza badare alla macchia di sangue che le imbrattava il corpetto, e concentrò nuovamente la sua attenzione sui gemelli, che ancora non avevano smesso di fissarsi negli occhi, forse cercando risposta a quelle domande inespresse che avevano incise nel cuore.
 
“Eravamo talmente legati che sentivamo tutto ciò che percepiva l’altro”
 
Ripensò al discorso di Aldhean, cercando una soluzione o anche solo il più pallido e fioco barlume di un’idea che le permettesse di risolvere la situazione. La sua mente lavorava febbrilmente. Quand’ecco che qualcosa sfiorò i confini della sua coscienza, qualcosa che c’era, ma non si faceva afferrare. Con un gemito di frustrazione, si accasciò sulla neve, tenendosi la testa tra le mani.
 
“In realtà fui io a scegliere, nella speranza di portare anche lui nel sonno eterno. E così fu.”
 
Il loro rapporto era così profondo che dipendevano l’uno dall’altro. Risollevò lo sguardo sui due combattenti, che avevano iniziato a duellare con delle spade. Il turbinio e il clangore delle lame riempiva l’aria invernale, come se il rumore della battaglia che infuriava si fosse spento. Ogni tanto si fermavano per pochi secondi, per riprendere fiato. Fu allora che la vide. Una sottile linea biancastra e frastagliata adornava la mano destra di Tàmain: una cicatrice.
La consapevolezza la colpì, forte come un pugno alla bocca dello stomaco. Era l’unico tentativo che poteva fare. Ma se non avesse funzionato, tutto sarebbe stato perduto.
La scelta spettava solo e soltanto a lei, l’unica ad aver intuito qualcosa.
 
“La guerra obbliga la gente a fare scelte che mai dovrebbe essere costretta fare e ci sono scelte che si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante.”
 
Redelas aveva ragione. Per quanto avrebbe portato il peso di quella scelta, forse dettata solamente dalla disperazione e dalla volontà di salvare coloro che continuavano a combattere, di non vedere più compagni e amici morire per essere stati irretiti dalla luce di un angelo troppo ambizioso? Si chiese se Redelas l’avesse sempre saputo, se avesse già capito che il destino l’avrebbe messa di fronte a quella scelta fatale. Ma chi era lei per poter prendere una decisione del genere? Se si fosse sbagliata, per loro non ci sarebbe più stata alcuna speranza.
 
“La Dama di Ghiaccio, colei che rischia dove gli altri non osano.”
 
Lei era la Dama di Ghiaccio.
 
I due gemelli si erano fermati e, ansanti, si scrutavano. Il sangue scivolava dalle piccole ferite che adornavano il corpo di entrambi. Dejara si levò in piedi, piano e, con lei, dal terreno ghiacciato, nacque una lama lucida e tagliente, lì, vicino a dov’era il suo obbiettivo. Chiuse gli occhi, rassegnata, poi li riaprì di scatto, una decisione nuova le brillava nello sguardo. Ad un cenno secco della sua mano, la lama di ghiaccio saettò in avanti e colpì. Il sangue sgorgò, lacrime vermiglie che presto si trasformarono in un fiume impetuoso, inondando la neve. Aldhean, incredulo, strabuzzò gli occhi e si strinse le mani alla gola, nel vano tentativo di trattenere quel liquido vitale che, denso e viscoso, gli scivolava tra le dita.
Tàmain lanciò un grido disperato, mentre un’identica ferita mortale andava dipingendosi sul suo collo, spegnendo la sua voce e trasformandola in un gorgoglio indistinto. Entrambi i gemelli caddero a terra, mentre due uguali rose di sangue aprivano i petali sotto i loro corpi. Attoniti e increduli spettatori, i combattenti dei due schieramenti si fermarono. La battaglia era finita.
 
Dejara chinò il capo. Vittoriosa eppure sconfitta. Era pienamente consapevole che l’unico motivo per cui era riuscita nel suo intento era perché Aldhean non si sarebbe mai aspettato un attacco alle spalle, sferrato da qualcuno che combatteva al suo fianco. Non sarebbe mai riuscita a uccidere Tàmain ed era ricorsa all’unica arma che le era rimasta: il tradimento. In molti l’avrebbero condannata, biasimata, disprezzata, ma lei era pronta a prendersi le sue responsabilità. Nessuno l’avrebbe elogiata o ringraziata per aver fermato il massacro di cui quel giorno era stato testimone. Anzi, forse una persona ci sarebbe stata.
Liahne atterrò vicino a lei.
«Sai già che sarò l’unica a dirtelo, ma hai fatto la scelta giusta.»
Non un’emozione traspariva sul suo volto fiero e segnato dalla battaglia, ma Dejara sapeva che la capiva. Perché da secoli combattevano insieme, perché da secoli condividevano le scelte davanti alle quali la vita le metteva. Ma non quella volta. In quella decisione Dejara era sola.
«Avrei fatto la stessa cosa, se solo avessi capito.»
Il sole calava oltre le montagne, portando via con sé i colori della guerra: il vermiglio del sangue, il bianco della neve, l’argento delle lame, il nero delle divise, l’arcobaleno delle ali angeliche, mentre la notte avanzava, stendendo un velo misericordioso di oscurità e oblio, che cancellasse gli orrori di quella giornata.
Con lo sguardo fisso nel tramonto, Dejara sospirò.
«Lo so.»
I remember what I must do, even if it makes me the villain of my on story.**
 
 
 
*Paolo Giordano.
** Josephine Angelini in "Trial by fire"


Qualche riflessione...

 

Questa storia partecipa, tra gli altri, al contest " Donna non sol, ma torna musa a l'arte" e ho utilizzato come prompt la favolosa poesia di Alda Merini "A tutte le donne". Per chi non la conoscesse, eccola qua:

 

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso             
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l'emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d'amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d'amore.

 

Magari lo vedo solo io, ma da questa poesia traspare la presenza di uno spettacolare spirito guerriero, di una donna forte, disposta a combattere per quello in cui crede e per difendere gli altri, senza pensare alle conseguenze. Leggendola,  ho subito pensato a Dejara, alla sua determinazione nel fermare il massacro che la battaglia stava provocando, anche a costo di venir tacciata come traditrice.  Sarà anche fredda, razionale e acida, ma è disposta a fare la parte della cattiva per salvare gli altri. Se non è amore questo!

   
 
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