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Autore: _Marlena_    16/10/2014    3 recensioni
Percepivo sotto le mie mani che la sua pelle stava andando sempre più a fuoco.
Mi sorpresi quando sentii che stava ricambiando il bacio. Inizialmente fu calmo, quasi timido, poi schiuse le labbra e tutto il suo sapore fu sulle mie labbra. Sapeva di caldo e di miele.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
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Aveva la pelle ambrata.
I capelli castani.
Gli occhi invece erano di un colore incredibile. Il contorno dell’iride sembrava il cielo di notte, mentre più si andava verso la pupilla, più tutto diventava limpido come il mare di Ostia, di un azzurro splendente.
Era nostra serva da qualche mese.
Mi ero innamorata di lei da quando mio marito l’aveva portata a casa dal mercato degli schiavi di Roma.
L’esercito aveva conquistato le regioni orientali che si affacciavano sul Mar Mediterraneo e molte donne, bambini e uomini erano stati portati nella nostra patria per diventare schiavi.
Il forte vince sempre sul debole.
In questo caso, però, mi sentivo io la debole.
Appena entrò in casa nostra, mio marito se la portò a letto.
Lo odiai per questo. Non perché non ci fossi io nel suo letto, ma perché lei non era nel mio di letto.
Il giorno dopo venne spedita nella nostra villa. Evidentemente non soddisfaceva abbastanza le sue aspettative e ritenne che non dovesse essere la sua concubina.
Da allora mi recai sempre più spesso in campagna.
Almeno non ero costretta a vedere quell’uomo che per nulla amavo, che usava la mia dote solo per divertirsi e che tornava a casa spesso ubriaco dopo i suoi banchetti. Lui non amava me, io non amavo lui. Non l’avrei mai sposato, ma fui costretta da mio padre.
Quando arrivai alla villa, lei era lì, intenta a pulire.
Appena mi vide si fermò e mi guardò negli occhi con curiosità.
«Mea domina» mi disse, le guance leggermente arrossate.
Quello era il suono più bello del mondo, la sua voce. Non parlava perfettamente latino, l’accento siriano era ancora forte. Lo amavo.
La feci diventare la mia ancilla personale. Si curava di me, mi aiutava a prepararmi, mi assisteva in tutto.
Mi toccava sempre con delicatezza. I suoi polpastrelli, ogni qual volta che mi sfioravano, mi mandavano in estasi.
Ogni volta che ci toccavamo, però, notavo che le sue guance si arrossavano e i suoi occhi guardavano verso il basso.
Decisi che era perché si vergognava e aveva timore di me.
Ma volevo che lei fosse mia.
Così un giorno, mentre ero nuda, seduta in un catino piuttosto grande e lei mi stava lavando, la chiamai.
«Mea domina» rispose, guardandomi con fare interrogativo. Pensava che avesse sbagliato qualcosa e che stessi per punirla.
Invece le feci segno di avvicinarsi a me e lei così fece, posando la spugna che stava usando per insaponarmi.
Presi il suo viso tra le mie mani e posai le mie labbra sulle sue.
Non mi importava quello che poteva pensare, a me importava solo che non ero ormai più in grado di resisterle.
Restò per qualche secondo immobile.
Percepivo sotto le mie mani che la sua pelle stava andando sempre più a fuoco.
Mi sorpresi quando sentii che stava ricambiando il bacio. Inizialmente fu calmo, quasi timido, poi schiuse le labbra e tutto il suo sapore fu sulle mie labbra. Sapeva di caldo e di miele.
La lasciai andare dopo un lungo bacio.
Lei era rimasta ferma, sorrideva con gli occhi chiusi. Mi beai di quella vista.
Quando incontrai nuovamente il mare che aveva dentro gli occhi, capii che il suo imbarazzo nel toccarmi non era dovuto al fatto che io fossi la sua padrona, ma perché si era innamorata di me, come io lo ero di lei.
Passò qualche tempo, tra viaggi dalla campagna alla città e baci rubati mentre eravamo sole, prima che entrasse nel mio letto.
A confronto, quello che succedeva con mio marito, quando succedeva, era niente.
Durante quelle notti, oltre ai nostri respiri affannati ed eccitati, al rumore dei nostri corpi che si toccavano, lei ripeteva solo due parole: mea domina.
Ero sua, ormai ero completamente solo sua. Io possedevo lei, lei possedeva me.
E proprio durante una di queste notti, mio marito arrivò alla villa.
E ci vide.
La prese e la tirò giù dal letto, mentre io cercavo di coprirmi.
Lei mi guardava con le lacrime agli occhi.
E io la guardavo con le lacrime agli occhi mentre lui la picchiava.
Ma non potevo fare niente.
La portò via. La portò via da me per sempre.
Qualche giorno dopo tornai in città e seppi che quel giorno, nel pomeriggio, ci sarebbe stato un gioco gladiatorio. Una schiava siriana sarebbe entrata nell’arena assieme alle belve.
Quel pomeriggio quindi uscii e mi avviai da sola fuori città, lungo le rive del Tevere.
Cercavo una cosa in particolare, una pianta dalla quale anche gli animali stavano alla larga.
Trovai finalmente quello che stavo cercando. Una piccola pianta dalle radici bianche.
Mi accovaccia e avvicinai il naso all’arbusto. Aveva un odore nauseabondo.
Sfiorai le foglioline che crescevano lungo il fusto a macchie rosse.
Dei piccoli frutti verdi spuntavano dalla pianta.
Li presi tutti.
E me li misi in bocca, iniziando a masticarli.
Mi stesi per terra ed aspettai, pensando a quei capelli, a quella pelle, a quegli occhi che avevo amato così intensamente per così poco tempo.






N.d.A.
Salve a tutti! Questa storia è stata scritta in un'ora scarsa. Sapete, quando avete un'ispirazione e dovete per forza prendere carta e penna e scrivere? Ecco, questo è stato il mio caso.
La "domina" muore perchè mangia della cicuta, pianta velenosissima, che paralizza e porta alla morte. Il fatto che gli animali non la mangiano è vero, poichè nemmeno loro sono immuni alla tossina. Invece gli uccelli riescono a mangiarla.
La villa, invece, non è la villa come la intendiamo noi, ma è la casa di campagna degli antichi romani.
Ringrazio già da ora chi ha aperto la storia e l'ha letta, chi recensisce, positivamente o negativamente che sia, credo sia sempre bello ricevere una recensione.
  
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