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Autore: daisyssins    16/10/2014    15 recensioni
"...Le sembrava quasi impossibile non dare “troppo peso” ad una persona come Luke Hemmings, perché certe persone, quando ti entrano dentro, non è che tu possa farci un granché. Lei lo odiava, non aveva mai odiato tanto una persona quanto lui, sapeva chi era, aveva paura di lui, una fottuta paura, perché le ricordava tutto quello da cui stava scappando."
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«Sei strana. E sei bellissima» sussurrò lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, facendo scorrere le dita tra i capelli corti della ragazza.
Phillis sbottò in una breve risata sarcastica, prima di «E tu sei matto.» rispondere divertita.
«Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima.»
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«Luke, ho paura, stai perdendo sangue..»
«Ancora non te l'hanno insegnato, Phillis? Il sangue è il problema minore. E' questo ciò che succede quando cadi a pezzi.»
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La verità ha un peso che non tutti, e non sempre, hanno la forza di reggere.
Trailer Pieces: https://www.youtube.com/watch?v=vDjiY7tFH8U&feature=youtu.be
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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It goes of your life.


Luke tornò a casa che erano ormai le sette di sera passate, sfiancato dalla giornata di duro allenamento.
Michael poteva essere uno dei suoi migliori amici ma, quando si trattava di farli sgobbare, non risparmiava nessuno. Li aveva spinti allo strenuo delle forze, facendoli correre per quelle che a Luke parvero ore, obbligandoli a sostenere decine di flessioni, sfiancandoli con quanti più addominali riuscissero a fare. E, quando erano ormai al punto di non riuscire a muovere un solo muscolo, aveva cominciato l’allenamento vero e proprio.
Luke aveva dovuto ignorare la stanchezza ed il bruciore che sentiva agli arti, ed impegnarsi nel prendere a calci e pugni un vecchio sacco da boxe che, quella sera, proprio non voleva saperne di smuoversi anche solo di qualche centimetro.
“Luke, si può sapere che ti prende?” aveva quasi urlato Michael, avvicinandosi. Il biondo gli aveva lanciato un’occhiata in cagnesco, senza rispondere. L’amico sapeva quanto lo facesse innervosire quel suo atteggiamento da generale di guerra. Era in sere come quelle – si era ritrovato a pensare Luke – che la vera natura di Michael veniva a galla. Sembrava uno psicopatico, con gli occhi fuori dalle orbite e la voce sempre più alta di un’ottava, con un rimprovero pronto sulle labbra per ognuno di loro. Michael era abituato a quel genere di cose, suo padre aveva ingaggiato un’ex marine per addestrarlo sin da quando aveva sei anni, ormai il suo corpo non sapeva neanche più cosa fosse, la stanchezza. Luke si era chiesto, spesso e volentieri, se Michael fosse davvero invulnerabile come sembrava. Lui, dal canto suo, non lo era per niente.
Quella sera aveva girato il viso per sottrarlo allo sguardo da spiritato dell’amico, puntando gli occhi sul pavimento sudicio della palestra, dove sputò pochi attimi dopo per cacciare tutto il proprio nervosismo.
“Niente” aveva risposto con una scrollata di spalle, puntando le proprie braccia sui fianchi ossuti.
Michael aveva riso, ma era una risata brutta, da pazzo.
“Niente? Sai cos’è niente? Niente è quello che stai combinando tu stasera. Svegliati Luke! Non siamo qui a perdere tempo! Cos’è, sei distratto?”.
Luke scosse la testa senza rispondere, e Michael tornò alla carica.
“No, bene, non sei distratto. E allora muoviti!” urlò più forte di prima, un attimo prima che il biondo scaricasse tutta la propria rabbia sul sacco da boxe, desiderando, in quel momento, di poterla scaricare sul suo amico.
Tornò a casa due ore dopo, chiedendosi come davvero fosse riuscito a muovere le proprie gambe per quel kilometro che separava la propria abitazione dalla palestra.
Fece scattare le chiavi nella serratura, e pochi attimi dopo la porta di casa si aprì con un cigolio, introducendo il ragazzo in un atrio buio, illuminato solo dalla luce che penetrava dalle finestre del salotto, poco più avanti.
“Sono a casa” annunciò, anche se, con il poco fiato che gli era rimasto, probabilmente nessuno l’avrebbe sentito. E infatti così fu, e quando fece il proprio ingresso nel salotto, vide sua madre trasalire rumorosamente, per poi accasciarsi nuovamente contro una poltrona quando mise a fuoco la sua figura.
“Ah. Sei tu” disse solamente, aggiustandosi gli occhiali sul naso diritto e riprendendo a rammendare quella che, notò, era una camicia nera. Un indumento che conosceva troppo bene, e che avrebbe preferito non vedere.
Luke annuì con lo sguardo basso, poi lasciò cadere il proprio borsone accanto al divano.
“Lui non c’è?” chiese.
Liz Hemmings ebbe uno scatto, poi “No. È ancora a lavoro” rispose. “Togli quel coso sudicio da lì, ti ho detto che non lo voglio nel mio salotto”.
Luke alzò gli occhi al cielo ma poi fece come gli era stato chiesto.
Si caricò il borsone sulla spalla e, senza aggiungere altro, si incamminò verso la propria stanza. Chiuse la porta alle proprie spalle con un gesto secco, si sedette pesantemente sul proprio letto e, dopo aver acceso il portatile, si prese la testa fra le mani.
Lui quella vita non la voleva.
Non ci era nato, per fare quelle cose.
Sognava di addormentarsi e svegliarsi nel corpo di qualcun altro, o quantomeno ritrovarsi una vita diversa, dove a diciassette anni puoi comportarti come un adolescente normale, senza dover sostenere il peso di scheletri nell’armadio da tenere sempre sotto controllo, con il rischio che, a lasciar loro troppo spazio, prendano il sopravvento su di te.
Sognava di cambiare ma non sapeva neanche da dove cominciare, perché era così che era cresciuto, così che suo padre gli aveva insegnato. E sua madre ogni sera lo guardava sempre con disgusto, perché suo figlio stava diventando, man mano, la fotocopia dell’uomo del quale un tempo era stata innamorata, ma che ora disprezzava.
Luke Hemmings non era cattivo, come molti erano portati a credere.
Ma doveva esserlo per fare sì che nessuno gli si avvicinasse, nessuno ficcasse il naso nei suoi affari.
Dopo aver preso un paio di respiri profondi, il ragazzo prese il portatile, posandoselo sulle gambe. Perse tempo girovagando tra i social network, cercando di raggiungere quel livello tale di stanchezza che ti fa posare la testa sul cuscino e dormire senza pensieri.
La sua attenzione fu catturata da una notifica in particolare, una nuova immagine del profilo postata da Phillis C. Turner. C’era lei, la Turner, con un sorriso a trentadue denti, mentre si dondolava più in alto possibile su un altalena in legno ridipinta di rosso.
Rimase a fissare quella foto per minuti che gli parvero interminabili, mentre un leggero sorriso gli colorava le labbra.
Immaginò quella ragazza mentre si dondolava sempre più in alto, dandosi lo slancio con le sue gambe lunghe. Immaginò la sua risata, i suoi occhi chiari stringersi, le sopracciglia inarcarsi, e gli venne naturale sorridere a sua volta. Poi, quasi per caso, il suo sguardo si concentrò meglio sul cognome della ragazza. Turner.
Spense di scatto il portatile, mentre ogni traccia di ilarità scivolava via dal suo viso. Non doveva mai dimenticare che, per quanto quella ragazza sembrasse innocente, la mela non cadeva mai troppo lontana dall’albero.
 
 
 
 
“Phillis, svegliati, siamo in ritardo!” urlò Lucy, prima di investire l’amica con una cuscinata in pieno viso. Phillis scattò a sedere e si guardò intorno frastornata, prima di mettere a fuoco l’amica in preda ad una crisi isterica.
Si alzò lentamente, stirando i muscoli indolenziti, e ancora mezza addormentata sfilò dalla propria borsa i vestiti di ricambio che aveva portato la sera prima.
“Sai quanto me ne importa…” sbuffò poi, sfilandosi il pigiama per indossare un paio di jeans neri ed una maglia viola, insieme alle sue solite All Star del medesimo colore.
“Tu sei matta se pensi che oggi io prenderò anche parte alla lezione della prima ora” dichiarò poi, mentre Lucy passava a scurirsi le ciglia chiarissime con una dose più che abbondante di mascara.
“Oh no, tu ci sarai mia cara!” rispose l’amica, con la voce un po’ distorta a causa della smorfia che aveva assunto per truccarsi. “Ho bisogno di te, nel caso quella di psicologia decidesse di interrogarmi”.
“Non ti interrogherà” ribatté Phillis sbadigliando.
“Ma se lo facesse? No, non esiste, tu entri con me”.
“Sì, contaci”
“Infatti è quello che sto facendo. Le amiche si vedono nel momento del bisogno!”
“E questa dove l’hai letta, su TeenFashion o cosa?”
“Sì, esatto, quello della scorsa settimana. L’inserto sul make up estivo era troppo carino!”
Phillis alzò gli occhi al cielo, ridacchiando. “Sei un caso perso, Lucy. Comunque io psicologia alla prima ora non riesco ad affrontarla, accettalo” riprese.
“Dai Phil, fallo per me! Che ti costa sederti e fare finta di seguire? Non hai mai fatto tante storie… non è che sarà l’influenza di Hemmings?”
Lucy portò una mano a tapparsi la bocca un attimo dopo aver pronunciato quell’esatta frase, voltandosi ad occhi spalancati verso l’amica. Era fatta così, lei, neanche se ne rendeva conto. Diceva tutto quello che le passava per la testa, dava aria alla bocca e, semplicemente, non aveva filtri. Era una persona molto schietta, al punto che, a volte, poteva risultare offensiva.
“Scusami Phil, davvero, non volevo…” mormorò dispiaciuta, abbassando la mano. La bionda si strinse nelle spalle, indossando un sorriso di circostanza.
“Nessun problema” affermò. “E comunque, tu sei matta se credi che la professoressa mi lascerà stare in un angolo a fare i comodi miei” aggiunse poco dopo, afferrando il proprio zaino.
Lucy a quella frase esultò, mentre si affrettava a seguire l’amica, perché poteva voler dire solo una cosa: quella battaglia l’aveva vinta lei.
 
 
 
 
 
L’ultima campanella di quella giornata era suonata e, adesso, Phillis era preda del nervosismo più totale.
Il non aver incontrato Luke Hemmings neanche una volta, in quella giornata, aveva favorito il suo umore tranquillo per le sei ore che erano trascorse. L’unica volta che l’ansia aveva fatto capolino era stata durante la pausa pranzo, appena prima di entrare in mensa e appurare che lì, di Hemmings o dei suoi amici, neanche a parlarne.
La ragazza aveva sospirato di sollievo prima di seguire di buon grado Lucy – che aveva cominciato a ciarlare di ogni singola lezione frequentata quel giorno – in fila per il pranzo. Aveva accettato la propria razione di pasticcio di maccheroni senza fiatare, ritrovandosi però come al solito quasi digiuna alla fine della pausa. Aveva salutato Lucy prima di avviarsi verso l’aula nella quale avrebbe affrontato le restanti due ore, quelle di filosofia, perché lei e l’amica si separavano in quel momento. Dopo l’ultima ora, la rossa sarebbe tornata tranquillamente a casa, mentre Phillis aveva l’inconveniente delle ripetizioni da affrontare.
Si era diretta verso la classe di filosofia dopo aver abbracciato l’amica, mentre un leggero strato di ansia iniziava ad impossessarsi di lei, messaggero di ciò che sarebbe arrivato alla fine di quelle ore scolastiche.
Verso le due meno dieci aveva chiesto di uscire dalla classe e si era rintanata nel bagno, infilandosi le cuffiette e sedendosi contro una vecchia sedia in legno scheggiato lasciata lì a marcire.
Le note di “Pieces” dei Sum41 si erano diffuse nella sua mente, riuscendo a tranquillizzarla almeno in parte. Aveva passato quei dieci minuti a canticchiare, cercando di rilassarsi, almeno fin quando la campanella non suonò, decretando la gioia di molti e la paura di una sola persona.
La ragazza si lasciò sfuggire un sospiro, prima di avviarsi alla solita aula in disuso del secondo piano.
Tranquilla, Phil. Tranquilla. Niente paura.
Erano le parole che, come un mantra, si ripeteva nella testa.
Ma come poteva imporre al proprio stomaco di non rivoltarsi, all’ansia di non accanirsi contro di lei?
Si diede mentalmente della stupida, arrivando al secondo piano e avvicinandosi con un’aria da funerale alla classe, quando un rumore dal bagno dei ragazzi la fece bloccare.
Lei voleva allontanarsi, lo giura, ma i piedi presero da sé la decisione di avvicinarsi quanto bastava per osservare la scena.
“Mi hai stufato, Clifford”.
Quella voce.
Luke Hemmings era lì, con le mani tra i capelli, ad urlare come se in quella scuola fosse stato presente solo lui. E Michael Clifford lo osservava con le sopracciglia inarcate, in un’espressione annoiata che – Phillis poté constatare – innervosiva parecchio il biondo.
Hemmings prese a macinare i metri in quel piccolo bagno, camminando avanti e indietro.
“Non devi dimenticare chi è che comanda qui, Mike” ribadì il ragazzo. “Sei il mio migliore amico, ma ci sono cose più importanti dell’amicizia”.
“Oh, io lo so” si decise a rispondere Michael. “Ed è proprio per questo che mi comporto così. Non puoi permetterti di essere mediocre, Luke. Ne va della tua vita”.
Probabilmente in quel momento Phillis si lasciò scappare un verso spaventato, lasciò che parte della paura che le attanagliava lo stomaco si manifestasse, ma non se ne accorse. Seppe solo che sentì la propria bocca spalancarsi istintivamente, mentre due paia di occhi si posarono su di lei.





Hi!
Non dirò molto di questo capitolo, perché ho cominciato a scriverlo ieri sera e l'ho finito oggi e nonostante questo non mi piace.lol
Però stiamo, piano piano, entrando nel caro Angst di cui la storia è piena, e chiedo scusa se vi sto confondendo le idee ma presto - più o meno ahah - arriveranno dei chiarimenti!
Io ringrazio Letizia25 e cliffordsjuliet che hanno recensito lo scorso capitolo, e chiunque segua o preferisca(:
Alla prossima!

-Daisyssins
  
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