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Autore: Botan    15/10/2008    3 recensioni
Alyson Shohan è una giovane ragazza che sogna in un futuro molto prossimo, di lavorare come ricercatrice presso la famosa società multinazionale chiamata “Umbrella Corporation”. Proprio stamani la giovane ha deciso di far visita allo zio, uno dei tanti dipendenti che lavorano con scrupolosità per garantire a quel colosso farmaceutico una lunga e duratura esistenza. E, proprio stamani, quella stessa giovane smetterà di inseguire il suo sogno per cercare in tutti i modi di avercelo, un futuro. Per quale motivo? … … … Nell’Alveare, laboratorio sotterraneo costruito sotto la movimentata città di Raccoon City, è calato inspiegabilmente il caos. I portelloni automatici della vasta struttura, gli ascensori e tutti gli strumenti elettronici, si sono improvvisamente arrestati. Le urla disperate, e le richieste d’aiuto degli impiegati che lavoravano all’interno dell’arnia, si sono diffuse ovunque. La gente ha iniziato a correre via terrorizzata, accalcandosi alle uscite nella vaga speranza di risalire in superficie e rivedere finalmente il sole. Ma non tutti sanno che quel sole, sfortunatamente, non li riscalderà mai più. (Una storia parallela a quella ambientata durante le scene del primo film di Resident Evil, con un differente drappello di superstiti!)
Genere: Romantico, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Coniglio Rosso

         Coniglio Rosso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 1

________________________________________________

 

 

 

 

 

 

Quanti di voi crederebbero alla mia storia?

 

Probabilmente nessuno. Però, voglio provare ugualmente a raccontarvela. Perché provare, è una delle poche cose che mi sono rimaste in questo momento. Voglio provare a farvi avere questa storia.

Una storia che fino a qualche ora fa, pensavo fosse solo fantasia, immaginazione, frutto di un’idea strana proiettata nel nostro mondo per farci fantasticare. Frutto di una commercializzazione standard legata ai canoni della vita e del commercio.

 

Eppure, contro ogni logica, tutto ciò esiste davvero.

 

Oggi, ore 14 e 45, con la poca lucidità che mi è ancora rimasta, ho la certezza, ragionevolezza, di affermare che gli incubi a volte diventano realtà.

 

Mi chiamo Alyson Shohan, ho 21 anni e studio alla Yale University del New Haven, nel Connecticut. La mia aspirazione principale è quella di diventare una biologa, e, successivamente, entrar a far parte del colosso nazionale di ricerca e sviluppo gestito dall’Umbrella Corporation. Almeno… fino a poco tempo fa’ pensavo fosse questo il mio futuro.

Da piccola ho sempre apprezzato e ammirato con occhi estasiati l’imponente struttura soprannominata “Alveare” per la sua forma che in parte ricorda appunto una grossa arnia.

Mio padre, Michael Shohan, lavorava nel vasto laboratorio sotterraneo dell’Umbrella, creato sotto le fondamenta di Raccoon City. Lo stesso stabilimento dove ora, in questo preciso momento, mi ritrovo a scrivere questa lettera.

Cos’è l’Umbrella? Per quei pochi individui che ancora non conoscono il significato di questa parola, tenterò di dare una breve ma concisa spiegazione:

L’Umbrella è la causa dei miei guai.

 

Pensavo che non avrei mai più toccato un computer, all’inizio di questa folle avventura. Evidentemente mi sbagliavo di grosso, tanto che adesso non so più cosa scrivere. La paura che ho accumulato, comincia a sbiadirsi, forse perché mi trovo in una camera sigillata da una massiccia porta metallica, bloccata a sua volta da un ampio tavolo che ho trascinato a spintoni fino all’ingresso, nonostante quest’ultimo fosse gia chiuso e bloccato da una spranga di ferro. Però, in questi casi la paura ti raffredda il cervello, entri nel panico e cominci a pensare ai minuti che ti legano ancora a questa vita, e che retrocedono rapidamente per portarti a un passo dalla morte.

 

Perchè “gli incubi”, sono dappertutto.

Sono qui, in questo posto, e aspettano soltanto me.

 

Spero che qualcuno legga la mia lettera, spero che la mia testimonianza serva a combattere l’orrore che L’Umbrella Corporation nasconde nelle sue vaste pareti, nei laboratori che ogni giorno mettono a repentaglio la vita dei cittadini di Raccoon City, arrivando perfino a sacrificare i suoi innumerevoli scienziati e l’intero personale che lavora all’interno della struttura, per qualcosa d’incontrollabile. 

 

Avete mai sentito parlare di creature riportate in vita dopo la morte, o esperimenti genetici simili a qualcosa del genere?

Molti potrebbero pensare ai famosi racconti fantascientifici che ci hanno accompagnato durante l’infanzia, il più delle volte, costringendoci a dormire con una banale scusa nel lettone dei nostri genitori.

Quello che sto per raccontarvi si spinge ben oltre il classico nonché celebre“ Frankenstein” di Mary Shelley e… ora capirete il perché.

 

 

Erano le 10 e 20 del mattino, ero in ritardo a causa di un malfunzionamento del pullman sul quale viaggiavo. Forse era il destino che invano tentava di tenermi lontana da un futuro non del tutto roseo.

Mancavano meno di tre isolati all’ingresso dello stabile sotterraneo, così decisi di raggiungerlo a piedi.

Correndo non avrei impiegato un tempo maggiore rispetto alla riparazione  del bus, però… per casualità, la strada sulla quale stavo camminando, era bloccata da un grosso camion completamente steso al suolo, che trasportava prodotti destinati al rifornimento delle industrie farmaceutiche.

Ricordo che sbruffai.

Di solito lo faccio spesso, tanto da arrossire le guance come una bambina che ha appena litigato con i suoi compagni di scuola.

Avanzai, decisa a proseguire nonostante il trambusto, ma fui subito fermata da un’agente di polizia che mi invitò gentilmente a cambiare direzione. Inutile farla franca. Mi avrebbero vista di sicuro se avessi tentato di intrufolarmi in mezzo alla folla. La zona era completamente recintata dalle guardie di Raccoon, e non potevo di certo rischiare una ramanzina dai cosiddetti “signori in divisa”!

Quello fu il secondo avvertimento. Il destino ancora una volta m’ invitò ad indietreggiare, a fare ritorno a casa, magari la mia, situata fuori dalla città.

 

Mi trovo in vacanza dai miei nonni. Mio padre ha preferito mandarmi qui per mia esplicita volontà, piuttosto che raggiungere mia madre, impegnata in un tour presso le migliori università del mondo, come esperta di bioingegneria.

Sarebbe stato il colmo trascorrere la prima settimana di vacanze saltellando da un’università all’altra!

 

Ritornando alla mia avventura…

Ricordo che sbruffai una seconda volta, quasi decisa a cedere, ma, improvvisamente mi ricordai di una stradina fuori città, raggiungibile in pochi minuti, che io e mio padre percorrevamo per arrivare all’Alveare e  fermarci qualche volta ad osservare le meraviglie della natura che circondava quel luogo incontaminato.

Senza pensarci, caricai il mio zainetto rosa e di morbido tessuto sulle spalle, ed inforcai la direzione opposta.

 

In meno di 15 minuti, il tesserino di riconoscimento con tanto di autorizzazione e firma del mio papà, venne letto da uno degli agenti addetti alla sorveglianza del primo di una lunga serie di portoni a capo della struttura.

Mi accompagnò Alan, un membro dello Special Tactics and Rescue Service, meglio conosciuto come S.T.A.R.S., famoso nucleo operativo che s’impegna a proteggere l’intera costruzione e tutto ciò che essa contiene. Un tempo lui e mio padre giocavano insieme nella squadra calcistica della loro scuola. Avevano all’incirca 9 o forse 10 anni. Ogni volta che Alan mi vedeva entrare mano nella mano con il suo compagno di squadra, tirava fuori dalla tasca un dolcissimo cioccolatino dall’involucro ogni volta colorato, e me lo offriva gentilmente. Perfino adesso che sono cresciuta, continua a porgermene uno. Anche questa mattina, ovviamente.

Lo ringraziai come sempre, sorridendo, dopodichè uscii fuori dall’ascensore principale che mi aveva portato al terzo livello della struttura, ed imboccai il breve corridoio per entrare nella costruzione.

Altre due guardie pattugliavano scrupolosamente l’entrata. Consegnai la tessera magnetica ad uno di loro che la fece scorrere nella fessura adiacente al portone di vetro, e quest’ultimo si spalancò poco alla volta.

Ripresa la card plastificata, mi ritrovai nella sala principale degli uffici.

 

Salutai con un cenno del capo l’addetta alla reception, Kate Lender, e girai un rapido sguardo al mio orologio da polso.

 

- Dieci e quarantanove?! E ora come spiego i miei diciannove minuti di ritardo allo zio? Devo affrettarmi! – dissi bofonchiando tra me e me, con una punta di scompiglio nei movimenti.

 

Mio zio, William Shohan, lavora per L’Umbrella Corporation da qualche anno. Lui si occupa di inserire nuovo personale addetto alla vigilanza, per garantire sicurezza a tutto lo staff presente nell’Alveare. E’ un tipo piuttosto scrupoloso, attento ai minimi dettagli e ai curriculum dei suoi aspiranti “difensori” che decidono di entrar a far parte della società di bioingegneria. Stamani avevo un appuntamento con lui ma, più che appuntamento, si sarebbe potuto chiamare “piccolo incontro familiare tra due persone che non si vedono da circa un anno”.

Sono molto legata a mio zio. E’ un tipo all’apparenza rigido e severo ma chi ha avuto modo di conoscerlo o frequentarlo, penso sia in grado di dichiarare il contrario.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per L’Umbrella, peccato che per quest’ultima non potrei dire la stessa cosa.    

Non vedevo l’ora di riabbracciarlo. Ci eravamo sentiti per telefono il giorno prima dell’appuntamento. Sarei dovuta arrivare alle 10 e 30 in punto nel suo ufficio, perché alle 11 doveva svolgere un nuovo colloquio di lavoro. Chiaramente a causa dei continui imprevisti o casuali fatalità che avevano intralciato il mio cammino, io portavo un ritardo piuttosto notevole.

Cominciai a correre lanciando un’occhiata ai tre ascensori interni che collegavano bene i vari livelli.

Quello centrale era vuoto, ma da lì a poco si sarebbe riempito di persone pronte a viaggiare per la struttura.

Affrettai il passo tanto che i miei stivali di pelle nera produssero un forte scricchiolio al movimento delle gambe. Mi lanciai quasi verso il tragitto, cercando sempre di mantenere il contegno, ma qualcosa urtò il mio piede, così poi da farmi mancare l’equilibrio e cascare.

 

- Ahi! – esclamai serrando forte gli occhi.

 

- Hey ragazzina! Sta più attenta! E’ la mia gamba questa! – disse una voce maschile in tono piuttosto seccato.

 

Alzai il capo.

Un giovane di media statura, alto un po’ più di me, i capelli neri pettinati con diversi ciuffi leggermente rossicci e fuori posto, e due occhi dal taglio tipicamente orientale, sostava dritto davanti a me.

Vestiva in maniera normale, forse troppo disordinata per appartenere allo staff dell’Alveare. Un paio di jeans neri con una fenditura sul ginocchio, delle scarpe da ginnastica, anch’esse nere, e una felpa blu con la zip aperta, dalla quale s’intravedeva una maglietta nera con una di quelle stampa strane, fatte di linee acuminate come artigli, disegnata giusto in petto.

 

La prima cosa che feci, fu quella di rialzarmi. Abbassai lo sguardo. Di solito lo faccio quando mi trovo in imbarazzo, e in quel momento ne avevo tutte le ragioni. I dipendenti dell’Umbrella mi fissarono per brevi istanti, poi ognuno riprese la sua attività dimenticandosi completamente di me.

Sospirai, con il viso che si attenuò ritornando rosa naturale.

 

In seguito, mi girai verso il giovane, che guardava con indifferenza la vasta sala.

 

- Ti chiedo scusa, però… tu potevi usare anche un po’ più di gentilezza! Non l’ho fatto volontariamente, e non ci tengo a farmi male solo per il gusto di farlo.- dissi anch’io con voce un po’ seccata, ma usando sempre un pizzico di diplomazia che caratterizza il mio essere. Quasi subito, un rumore deviò la mia attenzione.- L’ascensore!- esclamai di balzo vedendo le porte scorrevoli iniziare il procedimento di chiusura. Mi affrettai così ad entrare.

 

- Serve anche a me. - dichiarò il giovane con voce da perfetto strafottente.

Come se le mie parole gli fossero sembrate solo un semplice respiro distorto e privo di significato.     

 

Entrammo quasi insieme. Le porte si chiusero ed iniziò la discesa. C’erano circa dieci persone,lì dentro. Si stava un po’ stretti, ma il tragitto non era poi tanto.

Cercai di darmi un’aggiustatina.

Stamani a Raccoon City faceva abbastanza caldo, nonostante fosse appena entrato il mese di Dicembre.

Ho indosso un top di un colore rosa tenue, con delle spalline sottili e un disegno a coniglietto stampato sul petto. Al disopra invece porto una giacchettina di leggera lana bianca, con lunghe maniche che terminano in delicati voilant. Infine, una minigonna in tessuto nero, e in tinta con gli stivali di pelle.

Diedi un’ultima stistematina ai capelli,lunghi e castani, legati da un molle elastico, e aspettai che la tipica musichetta annunciasse l’arrivo al piano selezionato.

Il giovane straniero dagli occhi a mandorla teneva un braccio poggiato alla parete della cabina. Con aria sempre indifferente, sorreggeva con l’altra mano un pacchetto di sigarette mezzo vuoto.

 

- “Antipatico!”- bisbiagliai a voce bassa, quasi impercettibile, fissandolo di soppiatto.

Lui si girò.

 

- Hai detto qualcosa, ragazzina?- chiese sospettoso, destandomi finalmente di un misero sguardo.

 

- Non chiamarmi più ragazzina! E’ la seconda volta che lo fai, e non sei per niente cortese! – gli dissi facendomi avanti per uscire alla svelta dall’ascensore.

 

L’atteso suono arrivò, e le porte si aprirono. Un via vai di persone mi apparve contro. Tutti impegnati nei loro ruoli, tutti indaffarati a svolgere le proprie mansioni...Tutti dediti all’Umbrella.

Uscii alla svelta gettando un’ultima occhiata all’orologio.

Ero in evidente ritardo.

 

- “Speriamo che lo zio sia di buonumore stamattina!”- dissi mentalmente.

 Dopo aver girato l’angolo, vidi la porta del suo ufficio, proprio di fronte a me.

Incalzai nel passo, dimenticandomi completamente del giovane scostumato incontrato poco fa.

Il cuore mi batteva forte. Ero visibilmente tesa ma felice di poter riabbracciare una persona cara.

 

Diedi un colpetto alla porta con il dorso della mano destra. Sentii una voce piuttosto forte esortarmi ad avanzare.

Girai il pomello, ed entrai. Lo zio era seduto dietro la sua scrivania stracolma come sempre di pratiche da firmare e visionare.

Distolse lo sguardo dal monitor del computer con il quale stava lavorando e, non appena mi vide, inarcò le sopracciglia all’insù, sorridendo di gioia.

 

- Alyson! – esclamò balzando in piedi.

Corsi da lui abbracciandolo, lasciando scivolare lo zainetto rosa sulla moquette blu che rivestiva il pavimento.

 

- Sei diventata ancora più alta! Se continui così finirò per sentirmi basso…- disse con voce ironica, poi sospirando continuò- Voi donne state evolvendovi sempre di più! Chissà noi poveri uomini dove andremo a finire di questo passo…

 

- Forse ad accudire bambini e a sbrigare le faccende di casa!- risposi io prontamente.

 

Scoppiammo a ridere. Lo ricorderò per sempre. Fu uno dei tanti momenti felici passati insieme. Mi abbracciò ancora una volta, così forte da permettermi di sentire il profumo della sua camicia bianca. Commentai sulla fragranza. Un po’ speziata, ma intensa. Ridacchiammo ancora.  Poi qualcosa interruppe il nostro chiacchiericcio.

 

- Avanti!- enunciò mio zio al suono di uno schiocco alla porta.

Ci sciogliemmo dall’abbraccio, proprio nel momento in cui l’uscio si aprì ed io… gridai.

 

- TU?!?- gridai, per l’appunto, vedendo il viso orientale del giovane teppista maleducato, far capolino dalla fessura.- Mi hai seguita fin qui?!

 

- Chi, io? Ma sei matta? – ribatté prontamente lui, spalancando la porta.- Potrei dire la stessa cosa di te, dato che anticipi le mie mosse.

 

- Si dà il caso che questo signore è mio zio! Quindi non metterti strane idee in testa!

 

- Senti…-ribatté il tizio, quasi a voler troncare la discussione- non sono qui per discutere con una ragazzina… ho un colloquio di lavoro e quindi, se non ti dispiace, vorrei svolgerlo in assoluta tranquillità. E’ possibile?- mi disse, quasi seccato dalla mia presenza.

 

Gettai uno sguardo all’orologio. Erano le 11, e quel ragazzo aveva terribilmente ragione.

 

Sbruffai. Potevo non farlo specialmente in un momento simile?

 

- Piccola – disse lo zio accostando il capo vicino al mio orecchio - non ci metterò molto. Nel frattempo puoi andare a trovare Zeus se vuoi… oggi non è di servizio, e lo troverai decisamente in forma rispetto all’ultima volta che lo hai visto.- affermò facendo riferimento al “cucciolo” di dobermann con cui giocavo ogni volta che facevo visita all’Alveare.- E tu ragazzo, non cominciamo con le insubordinazioni, altrimenti non ci sarà posto per te all’Umbrella Corporation!- proferì poi rivolgendo un’occhiata allo straniero, che a sua volta annuì con svogliatezza.  

 

Sorrisi silenziosamente, felice di quella ramanzina. Il tizio se l’era pienamente meritata.

Mi chinai verso terra per raccogliere lo zaino e mi apprestai subito ad uscire.

Il ragazzo restò sulla soglia della porta. Ci fu un breve contatto causato volontariamente da parte mia, un po’ per vendicarmi della sua boriosa arroganza.

 

- E non sono una ragazzina!- gli dissi girando la testa verso di lui e incurvando la fronte con dispetto.

 

- Se non mi dici il nome, ti chiamerò così.- rispose senza tanti preamboli, e con un lieve sorriso. Successivamente girò di spalle, puntando dritto mio zio.

 

Avrei tanto voluto strangolarlo! Quel suo modo di fare da persona sgarbata e troppo presuntuosa, non mi andava affatto a genio. L’Umbrella non poteva assumerlo! Mio zio non poteva affidargli la sorte di migliaia di persone che lavoravano lì dentro! Tentai d’immaginare una scena alquanto comica, giusto per sdrammatizzare ed alleviare la sua odiata presenza, in cui lo straniero veniva sbattuto fuori con un bel calcio piazzato nel fondoschiena, dallo zietto. Sogghignai mentalmente.

 

Chiusi la porta in silenzio, anche se un po’ per la rabbia, avrei tanto voluto sbatterla fino a farla tremare. C’erano troppe persone in quel settore, e non potevo di certo dare nell’occhio.

 

Inforcai il corridoio delle camere contenenti gli animali da esperimento. Odiavo quel posto.

Una volta da bambina tentai di liberare un paio di conigli dalle loro gabbie, poi, però, fui scoperta e il papà mi castigò severamente. Un mese senza vedere il mio Zeus!

Zeus, appunto, è uno dei tanti cani a guardia dell’Alveare.

Il dobermann è un cane temuto dalla maggior parte della popolazione, viene considerato una delle razze più aggressive e feroci in circolazione. Però lui, lui no, è diverso. Siamo cresciuti insieme. Una volta mi persi in uno dei tanti corridoi dell’edificio. Piangevo a dirotto. Lui con calma afferrò un lembo di stoffa del vestitino rosso che indossavo quel giorno, e mi invitò a seguirlo.

Incredibile ma… mi ricondusse da mio padre!

Da quel giorno, diventammo grandi amici. Volevo portarlo a casa con me, dargli la libertà, ma lui faceva parte dell’Umbrella. Era di proprietà dell’Umbrella. Così come lo sono tutti i dipendenti che vi lavorano senza conoscere i pericoli e le ambiguità che questa immensa compagnia offre in contratto. Una delle cose che l’Umbrella dovrebbe imparare, è che la vita non si compra, né si “altera”.

 

Dopo un lungo tragitto, entrai nell’area riservata alla cura dei cani.

Gabbia numero 5, in fondo alla parete.

Zeus era lì. Drizzò le orecchie non appena sentì i miei passi. Scattò in piedi agitandosi con frenesia. Corsi verso di lui.

Infilai una mano attraverso la fessura della gabbia, coccolandolo dolcemente con una carezzino all’orecchio. L’addetto alla manutenzione mi raccomandò prudenza, tuttavia lui non poteva sapere lo speciale rapporto  che c’era tra me e quel cane, quindi annuii semplicemente.

 

- Ciao cucciolo! – dissi al mio Zeus, sorridendo. - Ti trovo bene, sei in perfetta forma, complimenti!- esclamai scherzando.

 

 

Erano le 11 e 20 o forse qualche minuto in più.

Zeus cominciò ad abbaiare fortemente.

Quello fu il primo avviso.

 

Nel frattempo mi ero accovacciata sul pavimento, aspettando che “mister simpatia” terminasse il suo colloquio. Udendo il frastuono scattai in piedi quasi spaventata. Voltai il capo in direzione della porta. “Forse sarà entrato qualcuno”, pensai frettolosamente. Eravamo io e l’addetto ai cani, in quella stanza.

Guardai il mio cucciolo dritto negli occhi, e capii subito che qualcosa di strano sarebbe successo da lì a poco.

Il resto dei cani drizzò le orecchie, cominciando ad abbaiare furiosamente.

 

- Buoni, buoni! – gli intimò il delegato. Ciò nonostante, continuarono ad ululare sempre più forte.

 

- Zeus, calmati! Sta calmo!- dissi al cane, cercando di rassicurarlo, tuttavia nemmeno le mie parole servirono a molto. Raccolsi lo zainetto da terra, ed entrai nella confusione più totale.

L’intero squadrone di cani presenti nella camera, abbaiava vorticosamente, muovendosi impazzito e facendo oscillare perfino le gabbie che li tenevano prigionieri.

 

- Ragazza, non puoi stare qui! Esci fuori!- mi ordinò il delegato. Voltai di spalle annuendo a fatica, ma la mia attenzione passò rapidamente sulla spia luminosa posta in cima all’ingresso della porta, che cominciò a lampeggiare di rosso. A quel colore, seguì poi un assordante suono.

 

- L’allarme! E’ scattato l’allarme! Forse un incendio! Presto, fuori!- gridò l’uomo con fare incalzante.

Ci dirigemmo all’ esterno, immettendoci nella sala principale. Decine di persone correvano tra i corridoi. Molti di loro parlavano di semplici esercitazioni antincendio, altri invece gridavano in preda al panico.

 

- Che ne sarà dei cani?!chiesi frettolosamente girandomi verso l’addetto. Ma lui non c’era più. Dileguato dalla paura di quell’allarme.

 

Mi trovavo al centro di una folla impazzita, terrorizzata, come se una violenta scossa di terremoto avesse distrutto l’edificio mandando in panico l’intera popolazione di un mondo sotterraneo.

Ero spiazzata. Confusa. Prendere l’ascensore per scappare sarebbe stato inutile, erano completamente gremiti di persone che tentavano di entrarvi, quasi rimanendo incastrate tra le porte scorrevoli. Mi sollevai sulle punte cercando di vedere mio zio. Urlai il suo nome. Speravo in una vaga possibilità di incontrarlo o udire una risposta. Dovetti arrendermi. Il caos regnava sovrano nell’intera area. La mia voce fu coperta dal frastuono degli altri addetti.

Quale avvenimento era riuscito a scuotere così tanto l’Alveare?

Cos’era successo di così grave, all’interno della struttura?

Tentai di muovermi, di correre in qualsiasi direzione, “tentai”. Venni fermata al primo passo. Diversi dipendenti dell’Umbrella mi spintonarono, involontariamente.

Caddi a terra, picchiando con violenza il suolo. Ciò nonostante, quello si presentò come l’ultimo dei miei problemi.

Un grosso armadietto fatto di ferro spesso e massiccio, iniziò ad oscillare, spintonato accidentalmente dalla folla impazzita.

Non feci in tempo a sollevare il capo che intravidi una pila di soprabiti staccarsi dai supporti e venirmi addosso.

Fui accecata da quegli innumerevoli tessuti, e l’unica cosa che riuscii a sentire in quel preciso e confuso attimo, fu soltanto il suono di un pesante tonfo, che mi avvolse completamente.

Impiegai poco a capire. L’armadio mi era finito addosso, intrappolandomi al suo interno.

Inutile urlare. Non sarebbe servito a nulla.

Dovevo ritenermi fortunata. Una fortuna nella sfortuna!  Vista la situazione, quel colosso avrebbe potuto schiacciarmi con la sua massiccia mole di ferro se le ante non si fossero aperte prima dell’impatto.  Invece…ancora una volta il destino o la semplice fatalità, diede una spinta alle assi tanto da farle spalancare.

Fu un brutto momento, che per mia fortuna, venne sminuito da qualcosa di più ambiguo.

Oltre al suono stridente e continuo dell’allarme, udii in sottofondo un leggero fruscio, simile a una bomboletta d’aria compressa, che avvolse la sala.

Man mano che il rumore aumentava, viceversa, le urla dei dipendenti diminuivano, come spegnendosi. Vista la mia situazione, l’udito rimase il mio unico senso attivo in quel momento. Il buio totale della prigione metallica, mi tolse la vista, la voce mi mancò, le mani tremavano, e la gola diventò completamente arida.

 

 

Non so per quanto tempo rimasi lì sotto. Il fragore dei passi affrettati, le urla, i suoni che sentivo, poco alla volta si fecero lontani. Probabilmente persi i sensi, quasi soffocata da tutto ciò.

Aprii gli occhi forse una decina di minuti più tardi. Mi ripresi confusamente, ero stordita, scossi il capo pensando di trovarmi tra le pareti della mia stanza, nel mio morbido ed accogliente letto, però l’odore ristagnante di ferro umido, mi fece svegliare da quell’ennesimo sogno, riportandomi con forza alla realtà.

 

Cercai di liberarmi da quel groviglio di stoffe, sollevai le braccia all’insù, e le mie mani urtarono una liscia parete di metallo.

L’aria che stavo respirando, cominciò a marcire. Dovevo liberarmi alla svelta, altrimenti sarei soffocata.

 

Strinsi le mani a pugno e cominciai a battere facendo appello a tutte le mie forze. Accompagnai i movimenti delle braccia con urla e grida stridenti, nella speranza che qualcuno mi sentisse, venendo magari in mio aiuto.

Purtroppo però dall’altro lato il silenzio regnava sovrano. “Forse sono scappati tutti”, pensai cominciando a tossicchiare.

 

La prima regola in questi casi è impedire che il panico ti raggiunga, solo così quel briciolo di ragione potrà restare lucida.

 

Smisi di picchiare contro l’asse di ferro. Per l’ennesima volta, non sarebbe servito a nulla.

Tentai di sollevare l’armadietto, di spingerlo verso l’alto, ribaltandolo. Portai le gambe contro la parte superiore, ed iniziai a premere. Interruppi il movimento dopo circa un minuto, per respirare quell’ultimo filo d’aria rimasto.

Visto che i primi tentativi risultarono vani, decisi di abbattere quella gabbia sfondandola a suon di calci. La suola delle mie scarpe poteva resistere all’urto e forse fracassare il fondo dell’armadio. Picchiai con forza, stringendo i denti. Dovevo farcela. Quella, presumibilmente, era la mia ultima possibilità. Dopodichè non avrei avuto più aria pulita da respirare.

I primi colpi andarono a vuoto ma non mi arresi. Continuai in piccole riprese da cinque calci ciascuno. Man mano che picchiavo, aumentavo la pressione delle gambe, e alla fine sentii il primo cedimento. Continuai a scalciare, senza sosta, senza fermarmi, fino a che un raggio di luce sfolgorante non m’investì il viso.

Finalmente ero libera. Mi fermai a riprendere fiato, respirando una ventata d’aria nuova. Diedi un ultimo colpetto, il più forte, e l’asse di metallo finalmente volò via.

Quando uscii dalla prigione di ferro, lo spettacolo che vidi fu agghiacciante.

Decine di corpi erano sparsi sul pavimento. Alcuni accalcati alle vetrate del portone principale, altri accasciati davanti agli ascensori come se fossero un mucchio di giocattoli rotti.

Portai le mani alla bocca, in preda allo sgomento. Tra i tanti corpi intravidi quello di Kate, l’addetta al banco informazioni. Corsi senza pensare verso di lei.

 

- Kate! Kate!- urlai.

Tentai di scuoterla, le tolsi alcuni ciuffi di capelli biondi dal viso. Continuai ad urlare il suo nome, invano. Era svenuta?

Mille domande affollarono la mia mente, quale situazione nefasta aveva avvolto l’Alveare? Un incendio? Impossibile, tutto era intatto, niente di bruciato, o in fiamme.

Adagiai il capo di Kate al suolo, e andai in direzione dell’entrata principale. Tentai di aprire la porta per chiedere aiuto, una volta all’esterno sarebbe stato tutto più facile, almeno così pensavo. Provai a spingere più volte, ma l’ingresso era sigillato. Nonostante ci fosse la corrente, molte cose, come i computer, erano in tilt, bloccate. Feci un mezzo giro e raggiunsi gli ascensori. Pigiai il bottone ad ognuno di loro, e aspettai l’apertura della prima porta disponibile. Passarono alcuni secondi, l’ansia salì rapidamente, buttai uno sguardo al pannello situato sopra agli ascensori e con incredulità vidi le luci installate per la segnalazione del piano, lampeggiare simultaneamente.

 

- Impossibile!- dissi a voce bassa- Tutto il sistema è in arresto! Tutto è sigillato!?continuai alzando la voce.

I battiti del mio cuore cominciarono ad aumentare. Per la rabbia picchiai violentemente le mani sulla porta metallica del terzo ascensore. Mi sentivo in trappola. Tanta fatica per liberarsi da una piccola prigione, per poi apprendere di essere rinchiusi in una gabbia ancor più grande della precedente, e soprattutto centinaia di metri sotto terra. 

Mi gettai nello sconforto. Ero sola in mezzo a decine di persone probabilmente… morte? No, impossibile! Eppure… Nessuno di loro dava segni di vita. Mi gettai su un uomo di mezza età, tentando di svegliarlo, ma come con Kate, non ricevetti nessun segno positivo. Sarei morta anche io? Ma soprattutto, dov’era mio zio?! Saettai lo sguardo sulla sala, non riuscivo a vederlo, forse era scappato? Probabilmente era in salvo, ma non avevo nessuna certezza. Tentai di rassicurarmi, tentai… ma invece, l’unica cosa che ottenni, fu il pianto.

Scivolai lentamente al suolo. Scoppiai a piangere. 

Ero disperata, avrei preferito restare nel piccolo armadietto, protetta da tutto quel caos, però, all’improvviso udii un rumore.

Un’agente di polizia stava avanzando verso di me, a passo molto lento, con movimenti rilasciati e il capo chino.

Il cuore si fermò, diventando quasi più leggero.

-“Forse è ferito!”- mi dissi mentalmente, andando in suo aiuto. Cercai di sorreggerlo avvolgendogli il braccio intorno al mio collo.- Coraggio, l’aiuto io!- dissi speranzosa e quasi eccitata nel vedere una persona viva.- Lei sa cos’è successo? Dobbiamo dare subito l’allarme!  Sta bene? E’ ferito? –  gli domandai incalzante e ricolma di contentezza.

 

Sentii un rumore strano provenire dalla sua voce. Come un gorgoglio, un suono imprecisabile, qualcosa di significato incomprensibile. Il suono aumentò, fino a trasformarsi in un ruggito.

Fissai l’agente in viso non appena lui sollevò la testa.

La sua bocca era sporca di sangue, i denti completamente rossi, pieni di residui gelatinosi impigliati tra le fessure, senza contare l’alito… Un odore di marciume, qualcosa d’indescrivibile, una puzza impregnata da un forte ed aspro tanfo.

Mi spostai sugli occhi. Completamente privi di vita. Le pupille dilatate, il bulbo oculare bagnato di rosso, e la scarsa presenza di lucidità mi fecero raggelare.

Sobbalzai. Mi strinsi nelle spalle.

Cominciai ad allentare la presa, e quell’uomo iniziò a farmi veramente paura. Era malato?

Continuava a muoversi impacciatamene, anche se la forza di certo non gli mancava. Infatti, iniziò a stringermi il braccio intorno al collo. Sempre più forte. Repentinamente tentai di scansarlo, ma fui bloccata dal secondo arto che mi investì con una forza tale da farmi cadere al suolo. Cascammo entrambi.

Mi dimenai immediatamente, divincolandomi dalla presa. Riuscii ad alzarmi, ma fui presto riacciuffata per le gambe.

Scalciai con tutta la mia forza, urlando aiuto. Colpii il suo volto direttamente in pieno, e scappai via.

Vidi il corpo di Kate, alzarsi da terra. Mi gettai in quella direzione, gridando il suo nome.

 

- Kate, Kate! Alzati presto!- la esortai. – C’è un uomo, forse è impazzito! L’Alveare è tutto bloccato! – continuai agitata, aiutandola a tirarsi su.

 

Sentii una seconda stretta simile a quella di prima, avuta con il dipendente pazzo. Vidi gli occhi di Kate privati della stessa vitalità. Con pupille completamente imbiancate e spente, viso biancastro.

Si aggrappò a me spalancando la bocca come volesse mordermi.

Indietreggiai subito, slegandomi dal suo forte abbraccio.

Indietreggiai ancora una volta finché le mie spalle urtarono una fredda parete.

Vidi Kate alzarsi lentamente, seguita subito dopo da altre tre persone. Puntai lo sguardo su loro. Sembravano tanti burattini, con lo stesso movimento lento e cascante. Poco alla volta si “rianimarono” tutti i corpi sparsi sul pavimento del piano.

Rimasi immobile, incapace di muovermi, la paura stava lentamente accerchiandomi, di sicuro tutte quelle persone non avevano ottime intenzioni!

Prima che il cerchio umano avrebbe sbarrato la mia strada, mi lanciai lateralmente, correndo verso sinistra. Notai che tra me e gli altri individui c’era una maggiore rapidità e scioltezza nei movimenti, correndo li avrei sicuramente distanziati. E così feci. Aumentai il passo vertiginosamente, avanzando all’impazzata, corsi per l’intero corridoio, corsi a lungo fino a fermarmi, sfinita.

Voltai il capo all’indietro. Ero sola. Non si udivano né suoni strani, né il rumore di passi sordi.

Ansimando mi guardai attorno.

Mi trovavo in uno dei corridoi dell’Alveare. La prima cosa che mi venne in mente, fu l’ufficio di mio zio. Si trovava dalla parte opposta, raggiungerlo avrebbe significato lanciarsi nelle mani del destino. Il salone principale era invaso di gente, tutte con l’idea fissa di uccidermi. Una bella prospettiva…

Forse però, in quella stanza avrei trovato le risposte ai cento quesiti che mi ronzavano in testa, e forse anche il fratello di mio padre.

Deglutii quasi a spintoni, e ritornai indietro, silenziosamente. Ci fu la voglia di non farlo, di restare lì, scovare un nascondiglio o un’uscita, però la speranza di ritrovare lo zio, cancellò ogni mio dubbio.

Infondo, possedevo dalla mia parte rapidità e scioltezza.

Qualità preziose che però dopo poco vennero meno.

 

A circa venti metri, intravidi uno strano gruppo di persone, con le stesse caratteristiche di quelli incontrati prima.

Sobbalzai. Con delusione mi voltai indietro intenta ad allontanarmi. Sembrò tutto troppo facile, e, infatti, ci fu qualcosa che bloccò il mio passaggio.

 

- AAAH!!!!! – urlai a squarciagola.

Davanti a me c’erano una decina di persone che mi fissavano con grandi occhi spenti. Alcuni di loro avevano gli abiti completamente macchiati di sangue, ad altri, invece, mancavano arti o parti del viso che presentavano evidenti morsi. Fu uno spettacolo agghiacciante che difficilmente potrò cancellare dai miei ricordi. Aveva tutto l'aspetto di un film.

 

Mi misi a correre come una matta, lasciandomi alle spalle quella massa raccapricciante di gente. Svoltai a destra, evitando così di finire nell’atrio principale, anch’esso ricolmo da quegli strani esseri. Fu tutto così improvviso.

Mi lanciai d’innanzi alla porta di una camera di sicurezza. Lì sarei stata al sicuro.

Sentivo i passi di quelle figure, farsi sempre più vicini, volevo entrare, ma, mi serviva un codice, e alla svelta. Inserii sul tastierino accanto alla porta, una combinazione di numeri a caso. Il primo tentativo andò a vuoto. Digitai un secondo numero, ricavando però lo stesso risultato. Quante probabilità avevo di azzeccare la combinazione esatta?

Una su un milione! Praticamente impossibile!

Poi, ebbi un attimo d’incertezza. Sfilai lo zainetto dalle spalle, lo aprii ed afferrai un piccolo astuccio di stoffa. Infilai le dita all’interno, ed estrassi un taccuino. Si trattava della lista completa di codici che mio padre adoperava quando lavorava presso L’Umbrella, per accedere alle camere blindate. Nella grande azienda, a differenza dello zio, lui era uno scienziato, e si occupava di tutto il materiale da esaminare, controllare ed archiviare, nei vari esperimenti prodotti dall’ente di bioingegneria.

Iniziai a sfogliarla rapidamente, fino a trovare la pagina riguardante quel settore. Il fruscio di suoni lamentosi si faceva sempre più assordante, tanto da farmi perdere la concentrazione. Divorai con lo sguardo i vari numeri delle camere fino a trovare il codice della stanza numero 127. Digitai in fretta quella serie di cinque numeri, e poi provai a spingere la porta.

Non si aprì.

Il cuore danzava un ritmo tutto suo. Non potevo più controllarlo. L’angoscia s’impadronì dei miei movimenti, le dita diventarono rigide, provai ancora una volta, più lentamente, respirando più lentamente. Numero dopo numero, tasto dopo tasto il polpastrello del mio indice sudato, tremava. E poi…L’uscio si aprì. Non ci speravo più.

Scattai all’interno con il cuore in gola, richiusi istantaneamente la pesante porta d’acciaio, e mi accasciai a terra, in preda allo sconforto. La massa senza vita che mi stava alle calcagna, inforcò il corridoio, li sentii strusciare lentamente vicino alla porta blindata. Iniziai a respirare affannosamente, mi rannicchiai al suolo, pregando. Continuarono il loro cammino, gli esseri, procedendo nel corridoio, e, solo quando si furono allontanati, il mio corpo sprofondò in uno stato di rilassatezza. Scoppiai quasi a ridere, ero ancora viva, possibile? Scossi il capo toccandomi il volto, i capelli, e infine la giacchetta di lana, che accarezzò le mie dita con la sua morbidezza. Nonostante tutto, ero lì, viva. Viva ma, per quanto tempo ancora? Mi drizzai su. Cercai di fare mente locale, di analizzare ogni minima stranezza, o soluzione. Nulla mi portò alla risposta sperata. Possibile che fosse una candid camera? In altre situazioni, forse sì, ma tutto era troppo reale, troppo perfetto e spaventoso per poterlo essere.

Quando sollevai il capo volgendo gli occhi alla stanza, ci fu la sorpresa.

Alquanto gradita.

Un telefono, sul tavolo proprio di fronte alla porta, mi fece sorridere.

Mi alzai affannosamente, afferrandolo. Cominciai a comporre il numero di mio padre, l’unico che ricordai in quel momento, con il sorriso stampato sulle labbra. Quando terminai la serie di numeri, sentii il primo squillo. Con l’aiuto del mio papà, e soprattutto la sua voce calma e rassicurante, mi sarei sicuramente tranquillizzata. Battei sul pavimento il piede destro, con frenesia. Fremevo in una risposta. Volevo mio padre, avevo bisogno della sua presenza, così come desideravo uscire da lì, al più presto possibile. Non pensavo ad altro. Volevo ad ogni costo abbandonare quel posto. 

Saettai lo sguardo in aria, impaziente come sempre, e al quinto squillo ci fu segnale di risposta.

Inarcai la fronte, stavo per gridare “papà” quando la linea venne meno.

Mi si fermò il fiato, e le parole soffocarono in bocca. Un senso di vuoto mi riempì lo stomaco, di certo non per fame, ma per delusione.

Riattaccai subito, riprovando rapidamente a comporre il numero, ma stavolta la linea del telefono non diede nessun segno. Feci nuovi tentativi, continuando a pregare. Quel telefono era troppo importante per me, non potevo arrendermi.

 

Un’altra delle cose che caratterizzano il mio carattere è senz’altro l’impazienza. Sono un tipo piuttosto impaziente, difficilmente riesco a resistere quando si tratta di ricevere qualcosa, oppure di partire per un viaggio, o ancora di ricevere una visita, una risposta…

 

Dopo molteplici sforzi, capii che l’intero sistema telefonico della struttura, era oramai fuori uso. In preda alla rabbia, diedi un calcio al tavolo, facendolo tremare. Ero al sicuro tra le quattro mura di una camera di sicurezza senza uscita, eccetto quella principale, che per nessuna ragione avrei più riaperto.

A quel punto, non sapevo più che fare. Mi guardai intorno, spaesata. L’ambiente era freddo, quasi spoglio di calore. C’erano due librerie piene di libri, fascicoli e fogli di carta, messe una accanto all’atra. Mentre sulla parete opposta, si trovava una piccola vetrinetta contenente microscopi di nuova generazione, microscopi a forza atomica, microtomi, bisturi e derivati vari. Una marea di materiale assai utile nelle ricerche e sperimentazioni, ma nulla di sufficientemente concreto per me. O quasi.

Precisamente, la mia attenzione cadde sul computer riposto sopra il tavolo, poco lontano dal telefono senza linea.

Scostai la sedia dalla grande scrivania, e decisi di sedermi proprio davanti al monitor.

Di solito, gli scienziati o i ricercatori dell’Umbrella, ricopiavano i testi più importanti o le ricerche più riservate, all’interno dei numerosi computer al servizio della compagnia. Una volta creata la password, accedere alle informazioni riservate, diventava pressoché impossibile, eccetto per una come me, s’intende.

Sono cresciuta usando il pc di mio padre. Uno dei primi modelli, che lui col passar del tempo, aveva sostituito con qualcosa di più tecnologico. Mi reputo un’esperta nell’uso di queste potenti macchine, anche se spesso e volentieri, ci litigo frequentemente a causa di piccole incomprensioni che accadono con l’utilizzo quotidiano di questi cervelli elettronici.

Avendo accesso ai file protetti dell’Umbrella, sicuramente sarei riuscita a capire la causa di quel raccapricciante scempio di persone, avvenuto poche ore fa nell’Alveare sotterraneo. Ovviamente non speravo che la tragedia fosse dipesa proprio dall’Umbrella ma… un qualcosa nella mia mente mi suggeriva di indagare.

Senza indugiare, spinsi il bottone d’accensione posto sul davanti della macchina, e lo schermo cominciò ad illuminarsi.

Saltai quasi dalla sedia, per la felicità, finalmente una cosa buona e apparentemente funzionante, poteva forse ridarmi la volontà di continuare a sperare.

Non appena l’intero sistema si fu avviato del tutto, iniziai la mia ricerca partendo dalle cartelle meno sospette. Man mano che avanzavo nel controllo, gettavo di tanto in tanto una fulgida occhiatina al portone per sentirmi più tranquilla e proseguire.

Tra i vari documenti, nulla mi apparve pressoché strano. Dopotutto, il materiale importante non poteva certo trovarsi in fascicoli pubblici, e alla mercè di qualsiasi dipendente. Alzai il livello di screening, gettandomi nei meandri più nascosti del sistema. Tra i vari reportage, video e foto, nulla sembrò colpire particolarmente la mia attenzione. Possibile che l’Umbrella fosse una società “pulita”? Così pulita da ripulire anche i propri computer? Cercai di riflettere.

Poi capii.

Iniziai a frugare nei vari cassetti della scrivania. Doveva senz’altro esserci un cd contenente i progetti più importanti della ditta.

Continuai a frugare ribaltando i tiretti, senza la benché minima traccia di quello che stavo cercando.

Mi fermai un attimo, cercando di comprendere.

Sollevai il capo, guardandomi intorno. Nulla attirò la mia attenzione. Ripresi la ricerca, rovistando a vuoto tra i vari scomparti, analizzando attentamente i diversi oggetti che mi finivano tra le mani, fino a ché un quaderno per gli appunti, non mi scivolò a terra, sotto il tavolo. Mi chinai in giù, portandomi a gattoni sul pavimento, e recuperai il blocco. Nell’alzarmi dal suolo, intravidi una sporgenza proprio sotto il tetto del tavolo. Poggiai il quaderno a terra, e allungai la mano verso di essa. Sembrava quasi come una toppa di legno, una specie di tassello incollato alla tavola. Cercai di staccarlo, tirando con forza, e poco dopo venne via. Esaminai lo strano oggetto, dipinto dello stesso bianco della piccola scrivania, notando il marchio dell’Umbrella, grande e imponente, situato sull’angolo destro.

Lo strano tassello, per certi versi mi ricordò le tipiche custodie per cd, quelle sottili e abbastanza piatte.

Provai ad aprirlo, un po’ titubante ma incuriosita. La parte superiore venne via con poca facilità, e l’interno rivelò un cd-rom completamente sconosciuto. Lo staccai dalla custodia, rigirandolo tra le dita. Nessuna etichetta o scritta ne specificava il contenuto o anche solo la marca.

Forse, si trattava del famoso disco pieno di informazioni segrete?

Per scoprirlo bastava fare soltanto una cosa: Provarlo.

 

Lo poggiai nel lettore, introducendolo all’interno del computer. Il disco cominciò a ruotare velocemente, e il monitor si colorò di blu.

 

“Il contenuto di questo cd è autorizzato unicamente al personale dell’Umbrella Corporation, pertanto, i dipendenti o chiunque non sia munito di autorizzazione all’utilizzo di tale disco, è immediatamente obbligato ad interromperne la lettura.”   

 

Disse una voce computerizzata.

Incurante di tale messaggio, proseguii nella mia ricerca che però trovò subito il primo ostacolo.

 

“Inserire password per accedere ai file riservati 

Dichiarò la voce astratta.

 

La prima parola che mi venne in mente, fu Umbrella. Troppo facile per una chiave d’accesso, tuttavia provai lo stesso.

 

Password errata”

 Ribatté la voce.

 

Storsi le labbra, e riprovai nuovamente, questa volta provando con una nuova parola.

Alveare.

 

Password errata”

Ribadì il suono.

 

Sbruffai pesantemente, continuando la digitazione di varie parole.

Tutte le volte però che premevo il tasto d’invio, sentivo lo stesso messaggio di negazione.

 

Password errata”

 

Password errata”

 

Password errata”

 

Continuai per un bel po’, abituandomi al suono freddo e diretto della voce elettronica.

Decisi di fare un ulteriore tentativo, e mi preparai ad immettere un nuovo codice. Accidentalmente però, mi partì il tasto di invio ancor prima di comporre la parola.

Predisponendomi al solito tono negativo, attesi la sentenza, quasi sicura del verdetto.

 

Password esatta”

 

“Accesso diretto ai file privati dell’Umbrella Corporation

 

“Attendere prego”

Disse il segnale computerizzato.

 

Sgranai lo sguardo, puramente sconcertato, e restai immobile.

Nessuna password?! Che trovata geniale! Chi l’avrebbe mai detto?!

 

“Benvenuto nella schermata iniziale”

Enunciò la voce.

 

Gettai uno sguardo alle varie sezioni d’accesso, tra cui le sequenze video, che m’incuriosirono abbastanza da decidere di visionarle. Cliccai sull’icona video, e mi apparvero una decina di filmati, dalle dimensioni piuttosto piccole.

Aprii subito il primo, tralasciando i convenevoli.

Le prime immagini che vidi, furono una gabbia e dei conigli.

Un uomo in camice bianco, uno dei numerosi scienziati al servizio dell’Umbrella, iniettò una sostanza bluastra sulla spalla destra dell’animale etichettato dal numero 18, dopodichè la proiezione terminò. Non capii bene il senso di quelle immagini, così passai appresso.

Lo stesso coniglio, questa volta fu sottoposto ad alcuni test, da parte mia sicuramente incomprensibili, in seguito, dopo poco venne rinchiuso in una gabbia, isolato dagli altri esemplari.

Aprii il terzo.

Una siringa piena di liquido verde, penetrò sullo stesso coniglio protagonista degli alti due filmati, e, una volta terminata l’iniezione, l’animale fu reintrodotto nel recinto gremito di conigli interamente bianchi. Andai avanti esaminando il resto dei video, la maggior parte simili ai precedenti.

Chiusi la sezione dei filmati, lasciandomi dietro la perplessità, ed entrai in una nuova cartella contenente un unico documento audiovisivo.

Lo aprii. Partirono delle immagini, dopodichè apparve il marchio della famosa azienda di bioingegneria, e ritornò la stessa voce computerizzata, che m’introdusse nella ripresa.

 

“Il T-virus è in grado di rianimare le cellule morte di ogni singolo individuo che deciderà di sottoporsi all’iniezione del farmaco. Tale prodotto è capace di risvegliare l’organismo, riportandolo al pieno della sua funzionalità, sia esteriormente che internamente. Il T-virus è considerato un’elisir di giovinezza, capace di ripristinare ogni tessuto o cellula invecchiata.

Il T-virus è considerato una potente cura verso alcune forme di malattie rare o difficilmente curabili. L’Umbrella ha creato in massicce quantità, una gran dose di fiale, capace di distruggere o ripristinare qualsiasi forma di organismo. Tuttavia, il prodotto è ancora in fase di sperimentazione.

 

Quando il suono si concluse, iniziarono le prime sequenze.

Quello che vidi, fu terrificante. Il terminale mostrò vari esperimenti condotti da diverse equipe di scienziati, alle prese con poveri animali, sottoposti ai test più orribili e disdicevoli che questo mondo potesse sviluppare. Mutazioni o combinazioni tra specie di topi o insetti diversi, alterazioni forzate del dna di una scimmia, creazioni di piante artificiali, dalla struttura robusta ma filiforme, creme per il viso, per il corpo… tutto ricavato da questi tremendi esami. Provai subito disgusto, e mi toccai il viso. Anche io, come tante altre persone, usavo una crema dell’Umbrella.Mi venne quasi da vomitare. Mi portai una mano alla bocca.

Rimasi disgustata e delusa. La delusione fu il primo sentimento che mi avvinghiò. Sentii il futuro sbriciolarsi tra le mani, svanire.

Possibile che l’Umbrella Corporation nascondesse un simile arsenale di variazione genetica?

Forse, quelle persone lì fuori erano impazzite a causa di qualche esperimento fallito? Qualche procedura errata, o chissà cos’altro di orribile… Scossi la testa. Azzardai centinaia di ipotesi, tutte folli, ma fattibili da quanto appena visto.

Iniziai a pormi mille domande. Dov’era mio zio? E i membri della S.T.A.R.S.? Sarebbero intervenuti? Mi avrebbero liberato? Sarei riuscita a fuggire, oppure sarei diventata anch’io una cavia da esperimento?

Una cosa era certa… non avrei più studiato per lavorare all’Umbrella.

Continuai a leggere i documenti contenuti nel dischetto, decisi di farne una copia, e cominciai a frugare tra i vari armadietti, alla ricerca di qualche cd vuoto.

Dopo averlo trovato, iniziai il procedimento di back up, che terminò poi in pochi minuti. Nel frattempo, lanciai un altro sguardo alla porta. Spinsi il pesante tavolo, posto al centro del salone, in direzione dell’entrata, fino a sbarrarla del tutto. Abbassai la sbarra di ferro utilizzata per sigillare ulteriormente la porta, e ritornai in direzione della piccola scrivania. Ora sì che stavo al sicuro!

Ripresi entrambi i dischi, li infilai nello zainetto. Una copia sarebbe finita nelle mani di qualche persona competente, mentre l’altra l’avrei regalata a mio padre, per poterla esaminare con attenzione. Ero più che sicura che lui, anche se scienziato, di quella orripilante questione non ne fosse a conoscenza.

A quel punto, e vista la situazione, decisi di scrivere. Il piano brulicava di esseri dalle manie omicide, non potevo uscire dalla stanza blindata, ero al sicuro, ma intrappolata in quattro mura.

Afferrai la tastiera, e così, iniziai il racconto.

 

Questo è tutto. È passata circa un’ora, da quando ho cominciato la narrazione. Lì fuori tutto è tranquillo. Apparentemente tranquillo. La fame si fa sentire, più che altro è la tensione nervosa a provocarmi questa reazione.

Io non ho più nulla da aggiungere, in questo scritto ho racchiuso ciò che penso, le mie paure, angosce, la vergogna che provo per una società all’apparenza carina e innocente, ma che nasconde la verità occulta nei meandri più profondi delle sue fondamenta.

Spero che questa lettera riesca a fermare l’Umbrella Corporation, spero che la mia testimonianza possa fermare un’industria che poco alla volta, sta rivoluzionando la vita umana, spero che io riesca ad uscire da questo posto, ed inviare la mia deposizione alle giuste persone. Desidero poter riabbracciare la mia famiglia e ripren………………………………………………………………………...

                                                                                                                        

- Cosa…?!- esclamò Alyson osservando il monitor del computer, in preda a un calo d’energia. Fu lesta di mano a salvare il file prima che il sistema intero non venisse meno.

 

Il pc si spense così come le luci e l’intero apparato elettrogeno.

Il sistema di sicurezza della camera blindata si disattivò, sbloccando in questo modo pericolosamente la porta.

 

- La S.T.A.R.S.! Forse… forse è qui!- La giovane Alyson si alzò di scattò dalla sedia. Il buio della camera la inghiottì completamente. Saettò il capo fra le quattro mura, tentando di trovare un appiglio. Indietreggiò nel buio urtando la gamba della sedia, e quest’ultima cadde a terra producendo un forte tonfo.

 

- Non vedo nulla! Maledizione!- disse iniziando a rovistare nei cassetti adiacenti alla piccola scrivania. Riuscì ad intravedere un oggetto dalla forma lunga e tonda, paragonabile quasi ad una torcia tascabile. Lo afferrò mettendolo subito in funzione. Un fascio di luce saettò brillantemente per la camera. Quel posto faceva ancora più paura se illuminato dalla flebile luce di una pila elettrica. Alyson si avvicinò silenziosamente alla porta, con il cuore in gola. Raccolse lo zainetto da terra, caricandolo sulle spalle. Non aveva nessun senso restare chiusi lì dentro, protetti solo da una spranga di ferro e un tavolo, senza energia elettrica che bloccasse il pesante portone. Infilò la pila tra i denti, liberando così la mano destra, che utilizzò poi per spostare il tavolo.

Tirò il più lentamente possibile, stando attenta a non causare il benché minimo rumore. Una volta creato il giusto varco sufficiente a permetterle di passare, aprì la soglia, gettando il fascio di luce all’esterno.

Saettò lo sguardo nelle possibili direzioni, con fare assai prudente. Si adagiò una mano in petto, mentre un forte senso di calore le assalì il corpo.

Deglutendo silenziosamente, la ragazzina fece il primo passo.

 

   
 
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