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Autore: _Marty01_    19/10/2014    4 recensioni
–Monica...- mi sussurra l’infermiera, almeno, credo che sussurri. Perché non la sento, non sento più nulla. Pure il bip di quell’aggeggio infernale è cessato.
Sorrido, felice.
Sto morendo.
Muoio.
Felice.
Finalmente in pace.
Arrivo Teresa...
Arrivo Stella...
Arrivo mia amata cascina...
E poi il buio.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho sonno.     
Chiudo gli occhi, un sasso tra le mani.     
Sorrido.                 
Mia cara Teresa...

 
Cammino, in silenzio, le mani nelle tasche dei jeans.  
Cammino.   
Il vento che mi accarezza la pelle, le lacrime che mi rigano il viso, il mio nome che riecheggia imperterrito per le strade. C’ho litigato, di nuovo, ancora.     
Corro. 
Le lacrime che cadono pesanti a terra ticchettando come pioggia. Le strade buie  e grigie che sembrano sfrecciare via davanti ai miei occhi.  
Corro, sono libera, sono senza ostacoli, senza regole. E poi un sasso, uno minuscolo sasso grigio, venato di bianco su un lato, piccolo, troppo, per essermi d’intralcio in quella corsa.     
Mi fermo di colpo, le gambe stanche, doloranti, e raccolgo con attenzione il piccolo sasso da terra, quasi fosse qualcosa di prezioso, delicato. Chiudo gli occhi e mi fermo a pensare... Pensare, o meglio ricordare. I pochi raggi di sole di oggi che mi picchiettano sulla pelle bianca.  
Il sole...

 
Era estate, una calda giornata d’estate; il grano ormai maturo nei campi, il fieno secco deposto ordinatamente nel solai della cascina. Rosso... rosso era il colore della cascina, con le ante delle finestre bianche, fresche di vernice. E io ero lì, seduto, in cima alle balle di fieno in solaio, i gattina che ci giocavano dentro. Io ero lì, con i contadini che mungevano le mucche nella stalla, esattamente sotto di me. Tirava vento, ma non quel vento che mi scompigliava i capelli biodi oro, che mi alzava la gonna di tessuto pregiato o che mi faceva bruciare gli occhi azzurro, era un vento piacevole, una brezza leggere, quel poco che bastava per non farti patire il caldo di quel giorno.    
Sorrisi, era in questi momenti che mi sentivo leggiadra, che mi sentivo libera, come tutti loro,come i contadini che lavoravano felici la terra.  

-Ciao!-  mi salutò una ragazzina alle mie spalle. Alta, magra,, la pelle scura, baciata troppe volte dal sole, i capelli castani arruffati in due trecce lunghe e ribelli, gli occhi verdi, di un verde intenso, il colore dell’antigelo. 
–Salve.- la ricambia, educatamente. Lei mi sorrise.
–Mi chiamo Teresa. Tu?- mi domandò.      
–Monica -  risposi, allungandole una mano. Lei mi guardò negli occhi, prima di spostare lo sguardo sulla mia mano ferma a mezz’aria, ad aspettare una stretta che non sarebbe mai stata ricambiata.-Cosa ci fai qui?- domandai, leggermente scocciata. Lei tornò a guardarmi negli occhi, inarcando un sopraciglio.  
–Tu cosa ci fai qui? Io ci lavoro se non l’avessi capito dal grembiule.-sorrise, non era arrabbiata, solo divertita. Un nome risuonò lontano nell’aria, era la mamma di Teresa che la chiamava per andare a lavare i panni sporchi assieme. –Devo andare...- continuò, rotando gli occhi. Le sorrisi, nel modo più sincero che potei. –Tiene.-concluse, stringendomi la mano, lasciata a molleggiare lungo il fianco. La guardai, sbigottita, prima di vederla sparire dietro la madre. Lasciandomi da sola, lo sguardo confuso, una cosa piatta, liscia in mano. L’aprii senza pensarci due volte e quello che vidi mi sorprese ancora di più. Un sasso, un sasso grigio, venato di bianco.    
Sorrisi, l’avrei rivista, e presto.


 
Erano passate settimane da quel giorno, dal giorno in cui avevamo litigato. Ci capita spesso, molto, ma alla fine niente di non risolvibile con una buona pizza e naturalmente una visita alla vecchia cascina di Teresa.  Non è sua nel vero senso della parola, ci abitano ancora i suoi genitori, che la custodiscono quasi fosse una figlia. Non c’è più traccia però del bel vecchio rosso e bianco che la caratterizzava, adesso è solo legno, legno e distese di erba e fieno.    
La osservo da lontano, intimorita dai ricordi che si aggirano tra quelle mura.  
–Ragazze!- ci urla Maria, la madre di Teresa.  
“Ragazze”. Sorrido. Non avrebbe mai smesso di chiamarci così, neanche adesso, adesso che abbiamo quasi quarant'anni.... E pensare che mi sembra ancora ieri la mia infanzia, la mia adolescenza. A volte ho persino paura di girare l’angolo della strada e trovarci il padre di Teresa, intento a portare l’asino al mercato per venderle per quei pochi spiccioli che gli bastavano per vivere. E come se non avessi pensato niente, eccolo lì, il padre di Teresa, che ci viene incontro, un sorriso sgargiante in viso, incorniciato da qualche ruga, i capelli argentei, ricoperti di farina.   
–Ciao.-dice- Mi date una mano coi cavalli ragazze?-  mi guarda,  inarcando un sopracciglio e facendomi un sorrisetto complice. Come se non sapesse che sono i miei animali preferiti...   
-C’è  Stella? – domando, mentre Monica mi tira una spallata.    
–Certo. Allora che fai?-risponde. Lo guardo, incamminandomi davanti a lui.  
Stella. La mia stella, quanto mi era mancano, quanto mi mancano i momenti insieme a lei, le passeggiate per i campi, per le risaie, le lunghe cavalcate sulle sponde dei fiume... La prima volta che la vidi....          

 
Era una calda notte autunnale, la luna che splendeva alta nel cielo blu illuminato dalle stelle. Mi trovavo nella stalla, un bellissima stalla, era stata appena dipinta d’azzurro, un azzurro stupendi, quasi celeste che dava un senso di calma, di pace...     
–Come la chiami?- mi domandò Teresa, intenta a leggere il libro che gli avevo appena regalato.“Racconto di due città” si chiamava. 
–Che ne dici di Sofì?- tentai. Lei sporse la testa dal libro, scrutandomi come se avessi detto una cosa terribile.    
–È semplicemente orribile.- rispose. Accarezzai dolcemente il manto dell’animale che mi scrutava di fronte. Liscio, senza nodi, nero, a macchie bianche,la criniera soffici e candida, come la coda.   
–Backy?-riprovai. Lei riprese a leggere non curante il suo libro. Quasi non mi avesse sentito. Alzai gli occhi al cielo, indignata, quando una stella, o meglio, una stella cadente, mi sorvolò, lasciandosi dietro una scia argentea di fumi e polveri. Sorrisi mentalmente a quello spettacolo. A quei tempi non era raro vederne una. Meno inquinamento luminoso, meno lampioni,luci e negozi, solo quel poco che bastava.  –Stella- dissi.-La voglio chiamare Stella. Che ti piaccia o no!-conclusi, il libro che mi arrivò in testa, rimbalzandomi addosso e finendo in mezzo alla paglia. –A me mi piace.- rispose Teresa, alzandosi e posandomi le briglie in mano.   
–Io... nonsosellareinsella.-dissi, tutto ad un fiato,quasi non capendo neanch’io.  Il viso che mi diventava via via sempre più paonazzo.   
–come scusa?Tu cosa?!- mi urlo quella. La fissai, lo sguardo cruce, prima di mettermi a ridere, imitata da lei.   
–Vieni con me.-disse, scomparendo dietro la porta, le briglie ancora in mano. E fu così che mi ritrovai, neanche un’ora dopo, a galoppare un cavallo, il mio cavallo, Stella. La luna che si alzava alta nel cielo, la mia mano pretesa verso il suolo, che accarezzava il grano maturo, la mia risata che riecheggiava per il campo. Un sasso che mi ballava in tasca.


Il pranzo trascorse tranquillo. Il rumore delle posate che tentennano sui piatti, il fregante odore dei cereali e del risotto che proviene dalla cucina che ci stuzzica il palato. Fisso il piatto vuoto, in silenzio, lo sguardo perso in una crepa della porcellana, gli altri che ridono e scherzano.   
–Come sta Stella?- mi chiede Teresa,  un certo punto, la bocca piena. 
–Bene- rispondo, spostando lo sguardo su di lei, sui suoi occhi vispi de allegra, leggermente offuscati da qualcosa. Qualcosa che io non posso ancora capire.    
–Ti ricordi quando queste due litigarono per la prima volta, caro?-fa Maria, una risata trattenuta in gola. Abbasso nuovamente lo sguardo. Chissà cosa avrà pensato per tirare fuori un argomento così...   
–Come poterlo scordare tesoro... Era... Inverno. Sì, proprio inverno.- sorride il padre di Teresa, intrecciando la sua mano con quella della moglie. Sorrido anch’io, già... Inverno.                   
 

La neve stava scendendo lenta dal cielo, ricoprendo quei pochi buchi di terra rimasti illesi dalla bufera del giorno precedente.   
–Non puoi averlo perso davvero Tere?!-urlò una ragazza, urlai io. La voce frustata per l’accaduto. 
–E allora? Era solo uno stupido coso.- ribatté lei, mettendosi le mani in una tasca del grembiule e estraendole del mangime.   
–E allora?!-esclami, più che arrabbiata. –Quello era il “coso” che Tu mi avevi regalato!- 
Il sapore pungente del granturco e egli avanzi del pranzo mi arricciò il naso. Il maiale che grugniva davanti a quell’odore. .Fango.- lo chiamò Teresa, allungandogli una mano.-Fango qui.- continuò.  
La guardai, le labbra increspate in una smorfia. –Ma allora non te ne importa assolutamente niente! Vero?!- 
-Fango!-fu la sua sola risposta, rimproverando il maiale che nel mentre si rotolava in mezzo al fango.    
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma non volevo che mi vedesse piangere, non per lei, non per quello. –Sei un egoista Teresa!-urlai, le lacrime che non riuscivo a trattenere che mi rigavano il viso. 
 –Monica io...- mi fisso, incredula, era la prima volta che piangevo davanti a lei. Mi voltai, senza pensarci due volte, sbattendomi la porta del porcile alle spalle. Me ne andai... il mio nome che riecheggiava nell’aria... Me ne andai, le mucche libere per i campi, mucche da latte, bianche,  a chiazze nere, che muggivano al mio passaggio...
 

-Già...-mi rianima Maria. –E solo per uno stupido sasso.- se non ricordo male.-sorride, rivolgendomi uno sguardo fugace. 
Sorrido.   
Già...      
Stupido.    
Stupido sasso grigio.
 
 
-Monica...-mi riscuote una voce. Il bip di una macchina mi rimbomba nelle orecchie. L’odore di acre, di detergente, di medicine, di pulito che mi irrita il naso. Quattro pareti, bianche, spoglie, con un soffitto grigio.   
–Monica.- ripete la voce.-Sono io...-       
Lo so chi sei, vorrei rispondere, vorrei, ma non posso, perché adesso non sono altro che un sacco vuoto, una giovane nelle spoglie di una vecchia acida e raggrinzita, incapace di muoversi, di parlare, neanche di respirare se non ci fossero queste macchine, queste maledette macchine che mi condannano alla vita. 
–Cosa fai oggi di bello?-mi domanda l’infermiera. Come se io potessi risponderle. Ricordo, ecco cosa faccio, ricordo. Ricordo quei giorni lontani, in qui la gente veniva lasciata morire in pace, senza condannarla a una vita che non è vera vita, ma solo vita apparente. Un tempo in qui non esistevano tutte queste macchine a complicarti la vita. 
Ricordo.  
Perché non posso fare altro che ricordare, adesso che Teresa non c’è più. Perché Teresa è morta, anni fa. È morta, d’infarto. Soffriva di cuore e non me l’aveva mai detto. È morta. In pace. Sdraiata per quei campi che aveva sempre amato. È morta, come Stella, come la cascina. È morta. 
–Monica...- mi sussurra l’infermiera, almeno, credo che sussurri. Perché non la sento, non sento più nulla. Pure il bip di quell’aggeggio infernale è cessato.
Sorrido, felice.
Sto morendo.    
Muoio.     
Felice.  
Finalmente in pace. 
Arrivo Teresa...    
Arrivo Stella...
Arrivo mia amata cascina...
E poi il buio.




AnGoLiNo PeR mE.
Salve a tutti. Premetto che il testo era per la scuola, ma, visto che la proff se ne scordata mi è venuta l'idea di pubblicarlo ;)
Comunque. Spero di non avervi annoiato per la lunghezza e che si capiscano i flashback e anche il testo. Ringrazio tutti quelli chesono riusciti ad arrivar fin qui. ^.^
Baci
Marty 
   
 
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