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Autore: Callie_Stephanides    19/10/2014    12 recensioni
[Kaijū!AU] Dopo la morte dell’amico e copilota Bucky, Steve Rogers ha abbandonato la divisione S.H.I.E.L.D. e il progetto Jaeger. Quando tuttavia la minaccia dei Kaijū, creature mostruose vomitate dalla faglia atlantica, insidia la baia di New York, il colonnello Fury non esita a richiamarlo: l’umanità decimata ha infatti bisogno di qualcuno che la protegga.
O che la vendichi.
(…) “Non posso guidare uno Jaeger senza Bucky.”
“No, non può farlo senza rabbia. Cosa pensa della vendetta, Capitano?”
“È solo un altro modo di chiamare la sconfitta.”
“Il colonnello Fury ritiene piuttosto che sia la giustizia, se la incoraggi con mano pesante. Il tempo delle carezze è finito. Fuggire è un lusso che non possiamo concederci.” (…)
[ATTENZIONE! Il contesto narrativo è mutuato dal film Pacific Rim, ma la collocazione geografica delle vicende e i protagonisti appartengono al MCU]
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nick Fury, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: Incest
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I think I’m just breathing, that’s all.
And there’s a difference between breathing and being alive.
― John Boyne, The Absolutist

XIII.
L’ultima guerra

L’area centrale della base di Manhattan somiglia a un abete la notte di Natale e, soprattutto, produce più decibel del Super Bowl.
Tecnici sciamano come api impazzite, mentre Fury, incollato agli schermi, bestemmia con insospettabile creatività.
“Si può sapere che succede?” borbotta Barton, la camminata sbilenca di chi abbia accusato la ripassata di Emmet Frost (1) più di quanto non sia disposto ad ammettere. Tony accenna alle proprie spalle, dove una furibonda Natasha calcia via quel che resta del loro prezioso Jaeger – una turbina e un paio di dadi.
“Ma… Oh, merda…”
“Bravo merlo: ti sei fatto stendere e pure fregare il cavallo come il perdente di un film western da due soldi.”
Clint aggrotta le sopracciglia e lo allontana con una spinta, ma la verità è sotto gli occhi di tutti, né c’è modo d’ingentilirla: il vichingo caratteriale li ha fregati.
“Prendila così: senza un copilota, brucerà come un cerino e…”
Bruce gli mena un colpo sulla spalla quando Thor è quasi a portata di lingua. Per la prima volta da che lo conosce, gli legge in viso un’incazzatura norrena: abbastanza da riporre nel fodero il sarcasmo.
“Pronti a uscire con Mjolnir? Perché Ironman freme dalla voglia di rubarvi la scena.”
Ironman?” domanda scettico Rogers.
“Un prototipo monoposto assemblato per noia. Sai com’è, Capitano: c’è chi nasce grosso e chi nasce intelligente.”
“Allora qualcuno ha sbagliato a puntare la sveglia,” è la secca replica: e Tony non sa se apprezzarne il sarcasmo o mandarlo dove nessuno vorrebbe veder sventolare la bandiera d’America.
“Ehi, soldatino! Non credere che…”
“Lascia perdere,” lo richiama Bruce, indicando gli schermi alla loro destra. “È cominciata la fine del mondo.”
Dalla faglia, ribollente di schiuma verdastra, sono appena emersi i mostri più grossi che abbia mai visto. “Non ha leccato il francobollo… Quel maledetto sociopatico ci ha disegnato un bersaglio addosso.”

*

L’Armageddon è rosso, bianco e ulula.
Darcy schiaccia i palmi contro le orecchie, ma il caos è ovunque; monta come una marea, la travolge e cancella, quasi fosse una spugna ingorda, quanto le ha permesso di respirare in mesi di coprifuoco, sirene, schianti.
Ha poco più di vent’anni, una famiglia di affetti distratti, legati dall’abitudine e da due, tre frasi di circostanza – polpettone? bella giornata, non ti pare? hai visto chi sarà il nuovo giudice di X-Factor?
Nata dopo l’apertura della faglia atlantica, ha imparato a contare gli anni come doni e a venerare gli Jaeger. È cresciuta con la morte ad alitarle sul collo, eppure non ha mai dubitato d’essere viva, perché vedeva i colori, sognava, s’innamorava e non aveva paura di pretendere la costoletta più grassa nei rari giorni in cui la mensa dello S.H.I.E.L.D. nutriva uomini e non ruminanti.
Nella sua testa, la fine sarebbe stata un’esplosione di fuochi d’artificio, un quattro luglio dell’umanità vittoriosa: parate, bandierine, il bacio di un pilota come nell’istantanea di un’era in bianco e nero.
Invece no: l’Armageddon puzza di gomma bruciata, sudore e gesso.
L’Armageddon è una ragazzina-coniglio raggomitolata sotto un tavolo, mentre il mondo cade a pezzi.
 
“Darcy… Dammi la mano.”
 
Jane si sporge nella sua direzione e le accarezza la spalla. “Non possiamo restare qui… Sembra che sia proprio sopra di noi.”
Darcy mastica un silenzio rabbioso e desolato. La lingua le pare all’improvviso troppo grossa, la saliva malta. Le eroine delle serie che ama trovano sempre una battuta brillante con cui liquidare il pericolo: ora si accorge della mediocrità dello script, della scontata banalità di un eccezionale da recita parrocchiale.
Dal soffitto si stacca un grosso frammento d’intonaco, scoprendo il labirinto della rete elettrica. Tra il rosso, il giallo, il verde schizzano scintille di un bianco brillante. Pensa al Natale, alle lanterne distribuite lungo il vialetto di una casa che non vedrà più, perché tutto il mondo è casa – l’ha imparato presto – e ora finirà.
“Com’è successo?”
Jane l’afferra per il polso, la trascina oltre una barricata improvvisata e corre lungo la guida fluorescente che illumina il corridoio.
“Non lo so, Darcy. È la prima volta che i Kaijū attaccano la base di Manhattan.”
Passa il dorso della mano sulle palpebre. È piano di graffi e brucia, ma a colpirla è il fatto d’aver perduto del tutto il contatto con la realtà: dopo lo schianto, il suo sguardo si è spento.
 
Game over.
 
“State bene, per fortuna.”
 
Il professor Selvig sembra intero, benché coperto da una polvere biancastra che lo fa somigliare a un grosso clown triste. “L’intero settore H è collassato. Ho temuto il peggio.”
Qualcuno le offre una coperta, una tazza di brodaglia calda – tè? Camomilla? – parole che dovrebbero suonare rassicuranti, ma che non comprende. Ce n’è solo una che rimbalza ossessiva in una testa mai tanto piena: perché?
“Eravamo nell’area F6. Hanno calcolatori più potenti. Quando c’è stato l’impatto, i portelloni a tenuta stagna ci hanno protetto.”
Darcy annuisce. È così che va la vita vera: incontri la morte e scopri di dover correre in bagno. Non ti metti in posa, non vendi battutine da cabaret, non offri alla camera il profilo migliore. Non te ne frega niente, perché si muore una volta sola e si muore male.
“Il Tesseract è scomparso,” dice Selvig. “Di sicuro, però, non è la notizia peggiore della giornata.”
Darcy arriccia le labbra. Polvere, ruggine, sale: la paura non ha mai un buon sapore ma questo terrore fa particolarmente schifo. “Preferisco non sapere niente. È già troppo così.”
Jane torna ad accarezzarle i capelli, incurante della sua espressione assente, forse persino infastidita. Il loro è un affetto brusco, privo di contatto e pieno di contraddizioni; quest’improvviso calore la costringe a pensare alla scena strappalacrime di un film. Non vuole essere una vittima, un numero, un fiore, un orsacchiotto consumato dallo sbrodolare di una candela da veglia. Se è destino che questo giorno sia Storia, vorrebbe almeno vestire una parte che ricordi qualcuno.
O che qualcuno dimentichi.
“Avevi ragione tu,” sussurra. “Per corrergli dietro, dovevo proprio avere una gran fretta di morire.”
Gli schermi tornano a monitorare la faglia e lo Jaeger che protegge i Kaijū dagli attacchi – disperati – dell’aeronautica militare. Nessuno lo chiama per nome, eppure Darcy ha compreso comunque: e di una stupida cotta resta solo la vergogna.

*

L’ultima volta in cui ha indossato la plug suit c’era Bucky al suo fianco e l’ottimismo superficiale di troppe vittorie anestetizzava la paura. Allora credeva che niente avrebbe potuto mettere il punto a una vita di alti sempre più alti, invece la parabola era già in discesa. Cadere dalle stelle è stato più doloroso del previsto, eppure è qui è ora è pronto.
La guaina aderisce al corpo come una seconda pelle.
Chiude gli occhi, respira un odore chimico ch’è anche la sua madeleinette (2).
La voce di Bucky gli accarezza il cuore, gli riempie gli occhi di nebbia salata (ancora), ma, come un vento provvidenziale, soffia via le nubi dell’incertezza.
“Thor, credo che tu debba cedere il posto a un altro pilota. Clint… Saresti disponibile?”
Barton annuisce. Non hanno mai testato la loro compatibilità, ma, come gli ha insegnato Fury, la fine rende semplice ogni scelta. Rischiano di non sopravvivere comunque: tanto vale congedarsi con una colossale scommessa.
“No, Mjolnir mi appartiene,” grugnisce Odinson. “Come l’uomo che dobbiamo chiamare nemico.”
Steve anticipa la replica dell’altro, prima che la verità nutra parole di cui non hanno bisogno: l’ultima guerra è cominciata, la loro deve finire. Sono diversi, ma sono compagni. L’uomo che ha fatto il possibile per tenerli uniti sta morendo, come la città che devono salvare.
Steve sente più che mai il peso della fama che gli è stata cucita addosso: era una bandiera; deve essere un leader.
“Se queste sono le premesse, sul serio, è meglio che resti a terra. Il tradimento di tuo fratello non è un problema famigliare, ma una questione di sicurezza nazionale e…”
“Tu credi che la viltà del sentimento possa impedire alla mia mano di colpire?”
Sono davvero le parole di un altro tempo, echi di battaglie combattute a fil di lama, le cosce impastoiate da fango e neve. Tuttavia nessuno ride: la cupa dignità di quegli accenti veste anzi alla perfezione la notte di un’umanità prossima all’estinzione.
“Se devo ucciderlo, per liberarlo, io lo ucciderò. Questo è tutto l’amore che posso dargli.”
Stark accenna un applauso. “Candidati all’Olivier (3) di quest’anno, Conan… Secondo me rischi pure di vincerlo.”
Thor ignora la provocazione e non gli scolla gli occhi di dosso: non è una preghiera, né una supplica, non somiglia a un ordine e ne eguaglia l’intensità. Thor gli ha imbandito il cuore con un’onestà pericolosa, perché gli impone l’onere e il rischio della scelta. Sta a lui l’ultima parola – e mai aggettivo gli è parso altrettanto calzante.
“Sicuro di poter affrontare il drift?”
“Come la prima volta in cui ho pilotato Mjolnir.”
Steve guarda Clint, poi Tony. La leadership non è un grado, né la vanità colorata di un pugno di mostrine. Scopri di poteredovere – quando gli altri ti ascoltano e si fidano del tuo buonsenso.
A te, però, rimane la parte peggiore: non dovrai tradirli mai.
“D’accordo, la squadra resta quella decisa dal colonnello.”
“Meraviglioso! Sicché dovrei aspettare che…”
“No, Clint: eri un cecchino una volta, vero?”
Barton si strofina la nuca. Dei suoi anni da sniper è rimasto un soprannome e forse l’imbarazzo di troppe vite sgranate da un proiettile.
“Se i Chitauri, come ha detto Tony, sono pronti a invadere New York, qualcuno dovrà pur occuparsi della disinfestazione.”

*

Maria Hill siede muta al suo fianco: le labbra sigillate come una ferita, gli occhi freddi fissi a uno schermo che gli ricorda il peggior errore di calcolo di una lunga, controversa carriera.
“Coulson potrebbe cavarsela: il voltaggio di una M26 (4) porta di rado al decesso.”
Maria non muove un muscolo: era una matricola, quando è nato lo S.H.I.E.L.D.; l’ha cresciuta e limata come un’arma, senza immaginare che il filo del suo disprezzo avrebbe potuto tagliarlo – no, non è disprezzo, forse è paura. L’incredulità di saperlo scoperto e fallibile come tutti.
“E noi?”
Il cielo di New York è petrolio: non un’eclissi, ma lo sciame elettrico nato in un altro mondo per spedirli all’Altro mondo.
“Dobbiamo vendicarlo: è tutto quello che ci rimane.”
Maria contrae le dita nel palmo, poi abbozza un sorriso. Aspettano nell’ombra, loro due, mentre il mondo si sgretola e il cielo cade.
Alla fine dei giochi, in fondo, c’è sempre bisogno di qualcuno che raccolga i pezzi.

*

XIV.
Un mare senza sole

È il primo drift senza Loki e fa male: un dolore nutrito dall’assenza e dalla consapevolezza che non ci saranno nuove guerre insieme. Ora è lui, la sua guerra: il mondo degli Odinson è già finito.
Steve merita appieno una fama leggendaria; ha metabolizzato il suo ritmo dopo pochi istanti e muove ora il lato sinistro di Mjolnir come se non avesse fatto altro nell’ultimo lustro.
“Questa era la parte di Bucky, di solito. Diceva che non era adatta ai bravi ragazzi come me.”
La sua voce spezza il silenzio all’improvviso, piena di una dolcezza malinconica che condivide pur recitando tutt’altro copione. Probabilmente i dolori dell’uomo sono finiti, pensa. Ci crediamo isole in balia dei marosi, invece siamo la punta di un continente fin troppo popoloso.
“Immagino che Loki lo gradisse per le stesse ragioni.”
Steve piega il capo nella sua direzione, quasi a lasciargli intendere che sì, in un’altra circostanza gli avrebbe menato una pacca sulla spalla, ma nella cella di comando ogni movimento è l’eco di un’intenzione e nulla può essere lasciato al caso. Nemmeno l’incoraggiamento affettuoso di un amico.
“Vorrei dirti che tutto andrà per il meglio e che riusciremo a riportarlo dalla nostra parte, ma…”
Steve tace e non glielo rimprovera: quanto mostrano i visori non può essere descritto a parole, solo combattuto e cancellato.
Il Budapest HW e uno dei due Kaijū vomitati dalla faglia sembrano fusi in un’unica, grottesca creatura. Come cavi divelti, sottili peduncoli collegano il grugno del mostro alla cella di controllo dello Jaeger. Loki è ora il copilota del nemico: un drift perfetto e il peggior tradimento che potesse immaginare.
“Fratello!” ruggisce e carica con tanta forza il blocco braccio-gamba del lato destro che Mjolnir rischia di rovesciarsi. Steve ingoia una sommessa imprecazione e si sforza di stargli dietro, ma è difficile sperare in un lieto fine: per aumentare la sincronia dovrebbe viverlo dentro – e lì no, non entrerà più nessuno.

*

“Com’è la situazione, Brucie?”
 
La trasmissione è disturbata dalla tempesta di ioni provocata dall’ultima dilatazione della faglia e la voce di Tony lo raggiunge come un crepitio gracchiante, che non conserva nulla del vellutato sarcasmo cui è abituato. Resta pur sempre una mano tesa sull’abisso in cui guardano tutti, ormai.
“Clint e Natasha sono su un caccia diretto a New York, assieme a una squadra di agenti operativi di primo livello. Senza uno Jaeger, l’unico contributo che possano dare è coordinare il piano d’evacuazione dei civili rimasti.”
“Povero Bourbon… Spera sempre di leggere in una certa testa rossa la dichiarazione d’amore del secolo e ora gli tolgono anche questa soddisfazione.”
Bruce accenna un sorriso: è il grande dono di Tony, questo; la ragione per cui gli Avengers, come li chiama Fury, sono l’ultima possibilità del mondo.
 
Cogliere il lato grottesco di ogni situazione, per quanto disperata, scivolare con il sarcasmo tra le cuspidi di una trappola mortale chiamata ‘paura’: non è forse un’arma invincibile?
 
“E da te?” chiede. “Come vanno le cose?”
Tony esita. La familiarità che ormai li unisce trasforma l’intervallo nell’istantanea di una smorfia tirata. “Una coppia di Kaijū e il Budapest in difesa. All’attacco due biondoni che, al momento, sembrano avere qualche problema di coordinazione. Vorrei non doverlo dire, ma mi farebbe proprio comodo la mano di un amico.”
Bruce abbassa lo sguardo. È un riserbo stupido – lo sa – perché Tony non può vederlo, né l’ha mai giudicato: Tony, anzi, è forse il solo che di un uomo apprezzi le debolezze più delle virtù. È dal vizio che discende l’identità, gli ha detto una volta. Ci vuole coraggio a riconoscersi nelle imperfezioni e nei limiti.
“Non posso farlo, lo sai. Ho già provato una volta e…”
“Mi sono permesso un paio di modifiche, caro. Se non hai riserve sul verde, fossi in te, un giretto di prova lo farei.”
Verde?”
“Dicono che porti bene.”

*

“Dobbiamo separarli; l’unico modo per abbattere almeno un Kaijū è impedire a tuo fratello di comunicargli la sua strategia d’attacco.”
Steve non riconosce la propria voce, né crede che l’altro lo stia ascoltando: Thor stringe i denti con tale violenza che lo vede schiumare sangue attraverso il casco. La sincronia è stabile attorno al sessantacinque per cento: sono al limite e non può concedersi il lusso di sbagliare. Non un’altra volta.
Inspira e cerca nella memoria un’ancora cui aggrapparsi per non precipitare nella spirale mortale del loop. Deve lasciare alle spalle la paura, l’incertezza, la rabbia, la sacrosanta voglia di prendere a calci l’egoismo sentimentale di un compagno che comprende e, in fondo, giustifica.
“Thor, resta con me,” sussurra. “Non possiamo perdere questa mano.”
“È vero, ma io perderò tutto comunque.”
“L’abbiamo scelto nel momento in cui siamo saliti su uno Jaeger per diventare servi del mondo.”
Thor tace, poi, all’improvviso: “Credi in Dio?”
“Sì.”
“Io no. L’ho invocato su Jotunheim e ho trovato solo silenzio.”
 
Loki ha estroflesso le fruste del Budapest: l’elettricità che le attraversa anima il metallo sino a dare l’impressione di fissare serpi nerastre.
 
“Non importa, perché Lui crede in te.”
Thor schiude le labbra, ma non replica. I suoi occhi, tuttavia, sono di chi ha compreso e ringrazia.
“Piede sinistro arretrato,” lo sente mormorare. E di seguito, con più decisione: “Ora capirai perché si chiama Mjolnir.”
“Non vedo l’ora.”

*

Se ti chiedono quale sentimento si opponga all’amore, non parlare mai dell’odio. Non essere tanto ingenuo, scontato, superficiale: l’odio brucia altrettanto, forse persino di più.
L’odio è una metastasi dell’amore: la forma ultima del sentimento che divora come un cancro.
L’opposto dell’amore è l’indifferenza, perché solo dimenticando chi ami gli impedisci di tenerti in scacco, gli sottrai il potere che esercita su di te, l’infinita possibilità di farti male.
Loki lo sa, ma non basta comunque: vuole ucciderlo, perché non ha altra speranza di cancellarlo dal proprio orizzonte.
Lo ama
(lo ama lo ama)
e lo odia con tanta forza da sentire quel veleno corroderlo dentro.
Se solo non fossero cresciuti come fratelli, avrebbe avuto almeno il sollievo di un rifiuto e ricominciato, da qualche parte. L’egoismo del vecchio, invece, ha eliminato ogni scelta: Thor non potrà mai smettere di volergli bene, ma solo come una piccola cosa morbida affidata alle sue braccia.
Le loro emozioni non s’incontreranno mai ed è questo il suo inferno.
Un’improvvisa scarica elettrica lo fa sussultare e gli ricorda che non è più uno ma uno tra i molti.
Le terminazioni nervose del Kaijū dialogano con la sua rete neuronale attraverso la ragnatela di silicati in cui è avvolto. Probabilmente somiglia alla fragile preda di un ragno, quando invece è una falena che aspetta solo di spiegare le ali polverose.
“Dodici gradi a sud est.”
Conosce tutte le mosse di Thor, ogni debolezza. Ha studiato al suo fianco le strategie che avrebbero dovuto assicurare loro la vittoria e che adesso galleggiano nella sua memoria come schegge di una zattera chiamata ‘ieri’.
È l’unico pilota dello Jaeger, eppure in compagnia di mille fantasmi. Uccidendo Thor – ne è certo – ammazzerà anche quello stupido di Loki, ma va bene così. È l’unica vittoria che riesca a concepire.
“Aumentare il voltaggio.”
L’artiglio con cui culmina il tentacolo dell’ospite penetra l’interstizio tra la seconda e la terza vertebra cervicale. Sono davvero uno, ora: un mostro bicefalo per un desiderio altrettanto mostruoso.
 
Amami per quello che sono, non per quello che ti hanno raccontato.
Amami perché non sono un Odinson.
Odiami come se fossi la tua ultima ossessione.

*

“Stark, si può sapere quanto deve durare ancora il balletto? I nostri radar dicono che là dentro brulica di spazzatura pronta a intasare la baia dell’Hudson.”
Monocolo bercia come se avesse perso anche l’altro occhio; chiunque abbia dato uno sguardo al campo di battaglia, almeno, saprebbe che sono in una drammatica situazione di stallo: uno Jaeger è troppo poco persino contro un Kaijū di categoria quattro, figurarsi se a fronteggiarlo è il cugino cattivo, con l’ausilio di un traditore sociopatico.
“Siamo sotto organico ed io non posso far altro che distrarre il secondo mostro, colonnello; se le fosse passato di mente, sono farcito di polonio e uranio.”
“Ho un’ottima memoria, Stark, e mi sembra di ricordare che qualcuno abbia lamentato la mia scarsa propensione ad approvare iniziative suicide.”
“Lei è il tipo che pretende di avere sempre ragione, vero? Perché non s’immola dopo un bel discorso carismatico e… Devo interrompere la comunicazione: c’è una locusta gigante che vuole conoscermi.”
Imbandire la recita del superuomo è persino divertente: la verità è che i suoi occhi non riescono ad abbandonare la ferita ribollente della faglia, le sue profondità che non sono più un mistero e fanno per questo quasi più paura.
Il monoposto PalladiumIronman, come l’ha ribattezzato – fende la superficie ferrosa dell’oceano. Il Kaijū che lo osserva a distanza, come un leone sazio cui non manchi la voglia di correre, è una chimera dagli inquietanti occhietti giallastri.
Tony non è un vero pilota, né un eroe, solo un uomo pieno di soldi e di genio, che non poteva fregarsene della sorte del mondo. Ecco perché combatte. Ecco perché rischia una vita troppo amata.
“Capitano, senza un corpo da trascinare all’inferno, non posso tappare il buco,” grida – prega – nell’auricolare. “Se continuate ad assecondare la diva, qui crepiamo tutti.”
Rogers replica dopo un minuto lungo un secolo. “Sforzati almeno d’essere originale, Stark, e, soprattutto, spiegami come, se il fronte è indivisibile.”
“Che vuol dire ‘indivisibile’?”
“Che in qualche modo stanno driftando e si muovono insieme.”
Tony deglutisce a fatica. “Quanto ci vuole perché un pilota si bruci?”
Non vorrebbe chiederlo, non a chi di sicuro si è posto la stessa domanda prima di salutare la bandiera.
“Più di quello che credi,” è la risposta.
Troppo, perché non senta il bisogno di parlare con Pepper un’ultima volta e sussurrarle ‘ti amo’.

*

No, non finirà bene.
Non rientrerà alla base, questa volta.
Non contemplerà soddisfatto l’ennesima carcassa.
Non solleverà due dita per salutare la vittoria.
Non troverà mai il coraggio di visitare quella tomba e chiedere scusa.
Loki riesce ad anticipare tutte le loro mosse; il Kaijū, cui è legato da un colloso tessuto neuronale alieno, copre ogni angolo cieco. Il pesante martello che arma Mjolnir non riesce a procurare alcun danno all’avversario: sono impotenti e abbastanza esperti entrambi da sapere quale fine li attende.
Forse rivedrà Bucky. Forse sarà solo nero.
Quale sia l’ultimo punto, tuttavia, non intende arrendersi.
“È stato un grave errore, il mio,” dice Thor. “Di nuovo ho peccato di orgoglio.”
Gli artigli del Kaijū raggiungono la corazza dello Jaeger e ne grattano la superficie, producendo un suono acuto quanto un urlo.
“Perché dici questo?”
“Perché Loki non ha mai avuto bisogno del drift per leggermi dentro.”
“Allora varrà anche l’opposto.”
“No: io non so chi sia davvero.”
È una confessione, la sua, e di quelle che regali sull’orlo della fossa.
Steve vorrebbe trovare le parole giuste, raccontargli quanto una perdita atroce gli ha insegnato: non conosciamo nemmeno noi stessi. Sono proprio gli altri, anzi, il mistero che rende tanto intensa e dolorosa la vita.
“Thor non è…”
E poi uno schianto, cui segue un’inaspettata sensazione di leggerezza.
Steve scuote il capo, stordito. La morsa del mostro si è allentata e il flusso d’ossigeno nella cella di comando torna regolare.
“Un altro Jaeger?” chiede Thor, indicando la massa scura che muove decisa in direzione di Loki.
Il sistema d’illuminazione esterno è stato danneggiato. I sensori a infrarossi dipingono l’orizzonte di un deprimente tono verdastro.
Verde, però, è anche il colore della speranza.
 
“Steve, Thor? Mi ricevete? Occupatevi dell’ultimo Kaijū rimasto: a Loki penserà Hu.L.K.”
 
La partita è ancora aperta e, dall’occhiata che gli restituisce Thor, hanno un unico obiettivo: giocarla fino in fondo.

*

XV.
Non esistono solo rovine

New York è una città fantasma. Negli occhi di Natasha – occhi sempre affamati, mai spaventati – Clint legge lo sconcerto di chi ha già vissuto certe scene e metabolizza lo sfregio dei simboli come un’offesa personale.
Dove sono nata, gli ha confessato, i nomi cambiano sotto il fuoco delle rivoluzioni. T’insegnano che nulla è sempre la stessa cosa, che non devi affezionarti troppo a un’idea. È bello, invece, un Paese che cresce contando le stelle (5).
“Sei silenzioso.”
“Anche tu.”
“Io lo sono sempre.”
Stira le labbra – il sorriso sornione che gli ha assicurato decine di donne, ma non l’unica che desiderasse davvero (lei). “Non è come durante il drift, vero?”
Natasha osserva lo skyline oltre il vetro pressurizzato, le colonne di fumo che salgono dai grattacieli espugnati e combusti dal fuoco alieno. “I tuoi pensieri sono rumorosi,” mormora al suo orecchio, prima di sfiorargli lo zigomo con un bacio.
“E questo? Come devo interpretarlo?”
Natasha sorride, sgancia una mitraglietta dalla guida metallica e si lancia nel vuoto. Prova a prendermi, Occhio di Falco: è il suo saluto di commiato.
Clint sferza una foresta di parabole per falciare mezza dozzina di fastidiose formiche aliene.
Sarà una giornata più interessante del previsto, benché dicano che il tempo sarà grigio, con frequenti rovesci di stronzi.

*

Quando ha costruito il prototipo Hu.L.K., Bruce sognava ancora: amava una donna, voleva difenderla e avrebbe volentieri immolato la vita alla sua sicurezza.
Gli Jaeger erano un’arma vincente, ma la rara combinazione che li animava ne lasciava intuire anche la peggiore debolezza: se guidi con il cuore, devi trovare qualcuno la cui anima possieda il tuo stesso ritmo. Se sei solo, là dentro, non avrai altro limite che il cielo.
Sulla carta sembrava una verità inoppugnabile. Nella carne, la Storia gli ha tatuato il marchio di Caino e l’ha lasciato marcire.
 
Bruce ha il fiato corto, la vista appannata. Più del riscatto, cerca una prova della propria umanità; la insegue – di nuovo – sul campo di battaglia, rovina di una razza che altri hanno condannato all’estinzione.
Cerca il ragazzo che immaginava cattedrali di elettroni e l’uomo che sapeva farla godere; cerca il camice bianco, la pelle nuda, i cieli azzurri di una memoria che somiglia a un’illusione. E sente in sé crescere la rabbia: l’infinita, sacrosanta indignazione dell’agnello davanti al filo della lama.
 
“Mi ricevi, Loki?”
 
Una precauzione inutile: il canale che dovrebbe garantire il coordinamento della squadra tace – ma quell’Odinson, in fondo, quando mai ne ha fatto parte?
La voce della verità bisbiglia incrudelita al suo orecchio, mentre il Budapest incombe. Intorno solo mare schiumante e, sullo sfondo, una cortina di fumo vermiglio – pinnacoli, guglie e sbuffi di un arancio rosato con cui la Morte aggiusta la sua tela.
Stringe la presa attorno alla cloche. Il punto di forza del monoposto Hu.L.K. sono le braccia meccaniche in vibranio. La sua debolezza, un sistema operativo troppo lento per adeguarsi alle manovre d’emergenza – lo era, almeno: ora se n’è occupato Tony e si nota.
 
“Steve? Il primo Kaijū è inutilizzabile; il Palladium ha ancora bisogno di un lasciapassare, perciò sbrigatevi ad abbattere l’altro bestione, intesi?”
 
Gli risponde uno sfrigolio sgradevole, tutto da interpretare. Mjolnir, del resto, lacrima olio come un soldato suderebbe sangue.
Il Budapest è irriconoscibile: privo di un braccio, tranciato dalle pinze dell’Hu.L.K., è ancora incrostato dai filamenti viscosi che lo univano al mostro. Al posto della cellula di comando pulsa un bubbone bluastro.
Loki era davvero un genio, pensa. Ha innestato il Tesseract nello Jaeger per aumentarne l’autonomia energetica e ridurre l’impatto delle radiazioni sul pilota.
 
“Loki? Sei in ascolto?”
 
Ma è morto di sicuro, non può essere altrimenti: nessuno conosce gli effetti di un allodrift tanto prolungato e…
 
Lo Jaeger schizza in avanti e colpisce il fianco del monoposto con una violenza tale da rovesciarlo. Bruce inghiotte una bestemmia – era cattolico, un secolo fa; ora si accontenterebbe di evitare un’altra croce – e ne arpiona il braccio.
C’è chi è nato per combattere, chi per pregare, chi per difendere, chi per sperare. E chi per arrabbiarsi, ‘fanculo, perché non è giusto: ha passato l’ultimo lustro a pregare di morire per cancellare un errore commesso in assoluta buonafede,  e chi ha davanti, ora?
Il traditore di tutti.
Per noia, dolore, orgoglio, non gli interessa: Loki sta sputando anche sulla memoria di Betty.
 
“Io sarò Dio,” bisbiglia, rauca, una voce irriconoscibile – se la sente nella testa, nel cuore, nello stomaco. È veleno, ma è anche il pungolo di cui aveva bisogno: la scintilla del suo privato incendio.
“Dio è morto da una trentina d’anni, non te l’hanno fatto sapere?”
E rovescia il Budapest quasi fosse un inutile straccio.

*

Si trascina tra i detriti come un’ombra, il pugno chiuso attorno a una massa sfilacciata di tentacoli lanosi. Della bambola – un tempo, forse, la sua bambola preferita – resta una testa mozza. Della famiglia in cui è cresciuta, probabilmente, nemmeno quello.
Natasha solleva il visore termico, dopo aver esplorato l’angusto perimetro in cui si muove la bambina. La strada è crepata in più punti, vomitando fanghiglia color merda e taglienti schegge d’asfalto, ma il vicolo, ove decenni prima barboni e cani randagi riparavano alla ricerca di un hot dog rancido, è rimasto miracolosamente intatto.
La bambina non parla e non piange: la scrutano gli occhi affilati della memoria e nemmeno l’immagina.
Gli altri (quelli fortunati) possono illudersi che i mostri siano alti come palazzi e minaccino l’uomo all’improvviso. Chi è nato a Volgograd, tuttavia, racconterebbe tutt’altra storia.
Natasha controlla il caricatore – leva, doppio scatto, movimenti fluidi, guidati dall’abitudine.
La bambina ha smesso di muoversi: potrebbe farle saltare la testa e non lo saprebbe nessuno. Le offrirebbe comunque una vita migliore di quella che attende l’orfana della follia di un’ora.
Eppure si accontenta di studiarla – lei, le sue gambette impolverate, il macabro trofeo che chiama ‘infanzia’ – poi scruta il cielo, o meglio il pantano cromatico che ne ha occupato il posto.
“Trovati un riparo, se t’interessa restare viva.”
La bambina annuisce, forse sorride: ha incontrato un mostro e non l’ha riconosciuto.
Anche i Kaijū servono a qualcosa, pensa Natasha, prima di cercare una nuova preda.

*

Dopo mesi di lontananza, la Norvegia gli pare ancora più brulla – più brutta. Il cielo slavato, l’erba bruciacchiata e stenta, che agonizza tra pietra e salsedine, accendono la nostalgia per altre coste e colori che non evochino solo fantasie di nebbia.
Quando lui gli viene incontro, tuttavia, niente importa, perché è di nuovo a casa. È al sicuro.
Loki ha tredici anni, il timbro di un estraneo, un pudore inedito, pieno d’orgoglio e maldestro come solo lungo il confine degli anni struggenti tra l’infanzia e l’adolescenza.
“Sei cresciuto.”
“E tu sei sempre più grosso.”
Lo abbraccia e scopre che ha dimenticato come: non sa più bene chi sia, né in che modo maneggiarlo. Ha lasciato un bambino e chi ne ha preso il posto ha occhi freddissimi.
“Non stringere così, mi fai male!”
Invece no: doveva tenerlo più forte, più vicino, più tutto.
Prima che fosse troppo tardi.
 
Steve ha gli occhi pieni di lacrime e non ha bisogno di chiedersi perché: gli basta volgere il capo e specchiarsi nello sguardo di Thor, nella nebbia che ne ha inghiottito l’azzurro.
Il tasso di sincronia è salito di nuovo, il Kaijū fa meno paura, le possibilità di cavarsela hanno quasi scavalcato la virgola dopo lo zero.
“Avrei voluto che ci fosse un altro modo,” mormora. “Ma…”
“Mio fratello è morto davanti al fiordo di Jotunheim,” è la risposta – e Thor la sputa via, come un boccone incastrato in gola; un boccone molesto e velenoso. “Ora, forse, potrò piangerlo in pace.”
Tutt’intorno è silenzio. Ce n’è tanto che, quando Mjolnir fracassa infine la testa del Kaijū, gli pare quasi d’avvertirne il grido incredulo.

*

XVI.
Il penultimo sogno

“Finalmente ragioniamo!”
Tony sperava in un passaggio più preciso – la carcassa gli è piovuta addosso come la bomba sparata da un buon calcio piazzato – ma l’Armageddon è coreografico solo nei film. La realtà è questione d’equilibri precari e fortuna – culo, anzi: serve culo.
Il monoposto Palladium si lascia avvolgere da una massa inerte, gocciolante ammoniaca e fluidi di cui preferisce ignorare la composizione. La faglia è là, schiuma la sua bava verdastra e pare quasi sfidarlo.
 
Dai, stupido umano: vediamo se hai il coraggio.
 
Non sono stupido ed essere umano è proprio quanto mi garantisce la forza di rifilarvi la supposta. Non ti piacerà, ti prevengo: siamo tutti gelosi di certe verginità.
 
Non vede l’ora di berciarlo sul muso di Thanos – sul muso di uno qualunque dei suoi molesti fuchi.
Un ultimo respiro.
Un ultimo pensiero – lei.
Tornerà e faranno l’amore, tanti bambini con la bocca larga e mille efelidi, la lingua lunga e un cervello da Nobel.
Oppure non tornerà, ma le avrà regalato il mondo: quanti uomini ti sposano davanti all’altare del cuore con una simile pietra al dito?
Highway to Hell,” ordina all’interfaccia digitale, perché gli AC/DC sono meglio di Caronte, se c’è da tuffarsi all’inferno.

*

Il fumo satura l’aria al punto che ogni boccata somiglia a una cucchiaiata di merda. Clint tossisce, ma sa che potrebbe evitarsi il disturbo: è circondato da formiche aliene, ha il braccio destro spezzato in almeno due punti e un’ultima palla.
Potrebbe piantarsela in testa e togliere al nemico la soddisfazione di prenderlo vivo, ma preferirebbe segnare almeno un altro centro: andarsene come un falco, non come un passerotto.
Un chitauro piove dall’alto di una pensilina sbilenca e gli punta contro un’arma che ha imparato a conoscere – a temere. Clint solleva il braccio sinistro, ma è così lento che può anticiparsi la fine senza quasi pensare: non riuscirà a mirare.
L’unica consolazione che gli resta è che, quando arriverà il game over, sarà già marmellata.
 
“Sei un disastro.”
 
La testa del nemico rotola sino ai suoi stivali impolverati, mentre un’alta colonna di fumo sale a est, oltre una cordigliera di spettrali grattacieli.
 
“Credevo che dovessi trovarmi tu.”
 
Natasha s’inginocchia al suo fianco, impolverata, sudata, pallida – bellissima.
“Ce la fai a rialzarti?”
Annuisce, ma sta mentendo: lo sa anche lei, tanto da offrirsi come stampella.
“Stark è entrato nella faglia: ora dobbiamo solo aspettare.”
Clint sputa via un grumo di sangue nerastro.
 
Dammi un bacio, vorrebbe dirle. Baciami e chissenefregadellafinedelmondo. Vorrei corteggiarti come una signora, portarti a cena fuori in un bel posto e raccontarti chi sono senza che tu possa leggermelo in testa, ma non ho abbastanza tempo per essere l’uomo che meriti.
 
Quando raggiungono la banchina di Clifton, tuttavia, scopre che no, si sbaglia di grosso: però la bacia comunque.

*

Dunque è finita, finalmente. Forse.
Sorride, anche se il sangue rappreso gli incrosta le labbra e tira sulla pelle.
Sorride, nel calor bianco di un dolore mai sperimentato prima, ma che ringrazia, perché lo spegne lo spegne lo spegne.
Thor scava tra i detriti a mani nude e può concedersi d’ignorarlo; accarezza l’agonia del suo guscio e non deve più preoccuparsene.
Il buco del coniglio è tiepido e accogliente: morire è come nascere, in fondo.
L’ultima resa.

*

Epilogo.
Il drift perfetto

Maria Hill lo fissa ironica, lo sguardo concentrato sulle mostrine che gli decorano il petto e gli danno, teme, l’aria di un pupazzo da parata.
No comment,” mugugna. “Il Presidente vuole complimentarsi e non ho altri completi.”
“Nuovi gradi in arrivo?”
Fury si stringe nelle spalle e spia lo schermo sul quale ancora sfilano le immagini di una New York assediata, devastata, eppure redenta dall’eroismo di un improbabile manipolo d’eroi.
“Per quel che m’importa…”
La Hill abbozza un sorriso. “Coulson è uscito dal coma, Stark non intende farle causa per averlo ripescato dopo diciannove ore e Barton è stato dimesso ieri sera.”
“Clint? Non credevo che fosse ridotto tanto male.”
“Sul campo ci ha rimesso appena un braccio, infatti. Poi ha baciato la Romanoff.”
“Capisco… Se non altro è vivo.”
“Già… Una volta tanto, solo buone notizie.”
“La migliore è che abbiamo chiuso il buco. Ammesso che non trovino in futuro un altro modo per tornare.”
“E se capitasse?”
Fury indossa di malavoglia il cappello dell’uniforme – un pirata che abbia rubato i vestiti al soldatino modello: ecco cosa sembro. “Squadra vincente non si cambia,” borbotta.
 
Chissà che alla Casa Bianca non sappiano fare almeno un Martini decente…

*

La miracolosa stranezza di essere vivi
(un anno dopo)

“Ehi, Steve: c’è posta per te.”
 
Sam Wilson è il primo amico che possa davvero chiamare tale dopo aver scelto di riprendere la carriera militare. È stata una decisione difficile, più dolorosa del previsto, ma catartica, in qualche modo: ha incontrato sul campo tutti i propri fantasmi e li ha salutati con il sorriso.
Ora può respirare di nuovo.
 
“Posta? Ma chi scrive ancora su carta?”
“Il figlio di Odin?” ironizza Sam. “Questo tuo amico si chiama davvero Thor Odinson?”
“Tra le matricole è registrato un certo Dick Small (6), perciò converrai con me che in giro c’è di peggio…”
Wilson solleva i palmi. “Punto, set, partita. Ricordami di mandare dei fiori a mia madre, come ho un paio d’ore libere.”
“Non mancherò.”
 
Thor ha scelto una carta color avorio, dalla filigrana serica e spessa: un autentico lusso, degno dell’erede di un’immensa fortuna economica – agli occhi di un mondo che titola per credenziali bancarie, quasi un principe di sangue reale.
Ma Thor è soprattutto qualcuno che ha perduto troppo, perché assegni al denaro un qualunque valore.
 
«… Nostro padre l’ha diseredato. Le ultime parole che gli ha rivolto sono state: ‘Avresti dovuto morire tra i ghiacci del fiordo’. Loki gli ha riso in faccia.»
 
Steve solleva lo sguardo e fissa il soffitto. Le parole di Thor trasudano rabbia, ma soprattutto tristezza.
 
L’erba cattiva dura più dei fiori, vero Bucky?
 
Ma ne vale la pena?
 
«Gli ha comunque procurato il miglior avvocato disponibile sul mercato, pur di evitare che finisse davanti alla Corte Marziale. Credo l’abbia fatto per nostra madre, per non spezzarle il cuore.»
 
E anche per te, Thor: perché ti vuole bene.
 
«Non sono mai andato a trovarlo. Nell’ultimo anno ho provato solo a dimenticare.»
 
A dimenticarlo. Lo so: ci sono passato.
 
«Ho pensato che se me lo fossi trovato davanti, nemmeno un vetro avrebbe potuto impedirmi di ammazzarlo. Lo odio, lo odio, lo odio. Se fosse morto, sarei riuscito a perdonarlo? Magari il dolore avrebbe lavato via tutto il resto.»
 
Steve stringe i denti, arreso a un’emozione che non è dato chiamare. È comodo pensare alla morte come a un punto fermo; impossibile credere che sia invece un buco nel cuore di chi rimane.
Un buco che non smette mai di sanguinare.
 
«Mi ha portato via tutto l’amore e Jane ha compreso: ci siamo lasciati da buoni amici, perché non avevo più niente da darle. Sono tornato a casa e tento di ricominciare ogni giorno. Poi penso a lui, chiuso in una cella, e mi accorgo che la mia vita è come la sua: senza sbarre, ma un carcere comunque.
 
Thor
 
P.S. Spero che il mio inglese sia migliorato: è la lingua in cui Loki scriveva i suoi diari (l’ennesima cosa che ignoravo di lui). Leggerli, dal primo all’ultimo, sarà il nostro ultimo drift insieme.
Quello perfetto.»
 
L’acqua gocciola da una doccia semiaperta, il cuore batte lento, la polvere delle ore si posa silenziosa: è vita. È ora.
 
“Diamoci una mossa. Ho bisogno di una birra.”
 
Con piacere, Stewie. Offri tu?


Fine

Note:
(1) Doppia citazione: Emma (da cui Emmet) Frost, la Regina Bianca di X-Men, fa il suo esordio come personaggio cinico e manipolatore, caratteristica richiamata dal nome che porta. Ma frost, in inglese, vuol dire tanto gelo quanto fallimento, elementi, questi, che appartengono inequivocabilmente a Loki.
(2) O petite madeleine, il dolce caro a Proust citato ne À la recherche du temps perdu, di cui rappresenta il catalizzatore.
(3) Il più prestigioso riconoscimento teatrale inglese (di fatto, dunque, probabilmente il più importante al mondo).
(4) Pistola Taser d’uso militare.
(5) Il (chiaro) riferimento è alla bandiera americana.
(6) In inglese suonerebbe come Cazzetto.

   
 
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