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Autore: Hi Fis    20/10/2014    1 recensioni
Cronaca della fine della Seconda Guerra Elfica, così come io l'ho immaginata. Ambientata dopo gli eventi di Skyrim, con la vittoria dell'impero sui Manto della Tempesta, è legata alle mie storie precedenti sul Sangue di Drago, specialmente Le Tre Spade e Tabula Rasa, che contengono elementi necessari per comprendere a fondo questa raccolta.
Genere: Avventura, Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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La storia che vi apprestate a leggere ha come Dovahkiin un Argoniano: se pensate che un uomo lucertola non sia degno di essere un mezzo drago, allora questa storia non fa per voi. Altrimenti, spero che vi piaccia abbastanza da lasciare una recensione :).
Piuttosto che raccontare anni di battaglie campali contro i Thalmor, ho preferito sviluppare questa storia concentrandomi sulla fine del conflitto, usando questo primo capitolo per dare un'idea della situazione a Tamriel dopo gli avvenimenti di Skyrim, cercando ovviamente di attenermi il più possibile al lore. Detto questo, vi auguro buona lettura.



 
"È... strano mio amato: come se si fosse aperta una spaccatura nel mio petto. Proprio qui, dove dovrebbe esserci il mio cuore, c'è invece un buco nero, freddo e vuoto."
"Rahgol."confermò il Dovahkiin, con una quieta voce.
Noi evacuammo.
Memorie di una Guardia Nera- Autore Anonimo.
 
C'è una città, nascosta nelle linee della pietra sotto le sue mani. E un castello dalle alte mura, a custodire solenne la città sotto di esso, illuminata da un pigro sole, velato appena da una curva del granito. Se chiude appena gli occhi, gli sembra perfino di scorgerne i campi, vicino ad una dolce collina...
Costretto a confrontarsi con l'inevitabile, senza vie di scampo, sua maestà imperiale principe Attrebus II Mede, ha un solo modo per fuggire dalla paura: astrarsi e fantasticare, in una caratteristica connaturata a tutti i membri della sua famiglia. Il Principe appare sereno agli astanti, ma solo perché gli è stato insegnato dal suo primo maestro di scherma, quando ancora era un giovane ragazzo, che la stirpe imperiale dovrebbe sempre accogliere la propria morte con grazia: come una pietra in cui è inevitabile inciampare. Attrebus sa però, che nonostante il suo apparente contegno la grazia non sarà mai lontana dal suo spirito come in quel momento.
Una piccola mano femminile si sovrappose alla sua, infrangendo la sua fantasticheria di città nascoste nella pietra. Una mano che Attrebus conosce meglio della propria: la mano di Silandra, sua moglie.
Come aveva potuto fallire in quel modo al suo dovere più importante? Cosa ne sarebbe stato di Silandra, che per amore di Attrebus aveva indossato i colori imperiali, nonostante fosse una Blacksap e una boiche, una degli elfi dei boschi? Era così impotente l'amore di un imperatore? Era davvero solo questo l'uomo che aveva invocato il Rito del Furto dei Bosmer per poterle donare il proprio cuore? Ma cosa avrebbe potuto fare per rimediare al suo fallimento, lui, ultimo discendente della linea imperiale, ma in fondo solo un uomo mortale?
Come aveva potuto permettere che accadesse?
Furono gli occhi di Silandra che lo costrinsero a reagire alla disperazione: di fronte a quelle iridi castane e dolci come il legno, Attrebus non poté almeno non provare a reagire. Con una lieve carezza, il principe scostò il ciuffo ribelle dalla fronte di sua moglie, di quei capelli tra il corallo e il miele che profumavano ancora dei fiori della sua patria: il loro era un matrimonio d'amore, piuttosto che di convenienza politica; un dono raro per un imperatore, specie in quei loro tempi tumultuosi. Con un sospiro, Attrebus si costrinse al presente, alla tenda che, compreso lui stesso, ospitava cinque uomini e cinque donne.
Capi popolo, re, imperatori, legati e principi: ognuno dei presenti possedeva almeno uno di questi titoli. Insieme, loro rappresentavano la totalità delle genti schierate contro il nemico comune, i Thalmor, l'arrogante e tirannico ordine di elfi alti che aveva tramato per assoggettare tutte le genti sotto il loro dominio, per poi distruggere ogni cosa.
C'era rispetto tra loro dieci, nonostante le enormi differenze, e in alcuni casi perfino amicizia ed amore, ma raramente tutti loro concordavano su qualcosa allo stesso tempo: Attrebus credeva che quella fosse una fortuna, altrimenti la Seconda Grande Guerra Elfica sarebbe finita troppo presto. Quel conflitto, che durava da quasi dieci anni, era stato un rimedio ai vecchi rancori, messi da parte di fronte ad un nemico insidioso ed astuto: solo quella guerra li aveva riuniti, per la prima volta da troppo tempo, lenendo gli errori della loro storia passata.
Nonostante il terrore strisciante che tutti i presenti provano in quel momento, il fatto che non si accusassero a vicenda fu per l'imperatore prova di quanto salda e vera fosse la loro alleanza:
"Cosa credi che farà?" chiese quietamente Attrebus alla donna rettile al suo fianco: Nascondi Artigli fece ticchettare le unghie sulla pietra mentre ponderava la sua risposta all'imperatore degli uomini.
Figlia del re di Argonia, terza in linea di successione al trono della radice, Nascondi Artigli era una Saxhleel, un'Argoniana dalle scaglie brune come l'autunno e dagli occhi d'oro, alta e longilinea. Era una Sarpa, una razza degli Argoniani contraddistinta da lunghi lembi di pelle tra i polsi e la vita, che le permetteva di planare nel vento: nella Palude Nera quelle "ali" erano state il modo più nobile per spostarsi di ramo in ramo, ma qui, nelle isole di Summerset, la patria ancestrale degli elfi alti, erano diventate solo un intralcio che Nascondi Artigli celava quasi sempre sotto una semplice stola di fine tessuto. Come Attrebus, anche l'Argoniana era molto giovane, ma al contrario dell'imperatore, Nascondi Artigli guidava con sicurezza le armate con cui era emersa dalla sua palude natia: possenti guerrieri Naga, illusori Saxhleel, spie ed assassini fedeli solamente a lei, che per la prima volta erano usciti dalla Palude Nera e si erano mostrati ad uomini ed elfi.
Attrebus e Nascondi Artigli erano stati i primi membri di quel consiglio di guerra e avevano condiviso in quegli anni così tanto che non solo Attrebus non era più stupito dai bracciali d'argento che Nascondi Artigli portava anche sulla lunga coda, o dal suo semplice gusto nel vestire, ma la familiarità tra loro era tale da aver fatto cadere in disuso persino il protocollo: niente più maestà imperiale e principessa, o la verbosa sequela di titoli. Si comprendevano intimante ormai, come fanno gli amici, e ad Attrebus sarebbe mancata la sua testardaggine, quando e se Nascondi Artigli fosse tornata alla sua patria: quel luogo venefico e inesplorabile da chiunque non fosse Argoniano.
"Dopo dieci anni, questo errore ancora si persevera...." rispose Nascondi Artigli.
Il suono della sua voce, con la pronuncia sibilante che non accennava a scomparire nemmeno dopo dieci anni, assomigliava alla sabbia che scorre sulle rocce: roca e lievemente metallica.
"...Conosce forse il pesce i pensieri dell'aquila? Che cosa sa il ragno della linfa dell'albero? Il Sangue di Drago ed io possiamo assomigliare nella forma, ma la nostra sostanza differisce come quella di ragno ed aquila."
"E tuttavia, tra noi sei quella ad essergli più vicina..." disse Silandra: non c'era amicizia tra la consorte imperiale e la principessa scagliosa. Ognuna considerava l'altra un male necessario, anche se per ragioni quasi opposte.
"Su questo c'è da dissentire, imperatrice. Tutto ciò che mi è noto, è già stato condiviso con questo consiglio. Non è mai stata mia la chiave per dischiudere la natura del Sangue di Drago, ma solo per la restituzione dei territori della Palude Nera ai Saxhleel..."
Una concessione di poco conto in fondo per Attrebus: in cambio delle truppe sotto il comando di Nascondi Artigli, i territori conquistati dalla dinastia imperiale e le città costruite ai margini della Palude Nera ai tempi di Tiber Septim erano passati in mano agli Argoniani, con la promessa però di mantenere aperti i commerci con l'impero degli uomini.
"Questa Khajiit pensa che se fosse al posto del Sangue di Drago probabilmente mozzerebbe i nostri arti, aprirebbe i nostri ventri e ci lascerebbe ad una tortuosa morte..." interloquì Dra'Khaj Krin con una risata dall'altra parte del tavolo: Dra'Khaj Krin, letteralmente Ghigno del Deserto nella lingua Khajiit.
"... ma questa Khajiit teme che lui abbia molta più fantasia di così." concluse con gli occhi verdi ridotti a due fessure.
Ribelle, terrorista ed eroina, Dra'Khaj Krin aveva fra tutti i presenti il passato più colorito e disonorevole, ma come leader di Ahzirr Traajijazeri, Coloro che prendono giustamente con la forza, era stata un incubo per i Thalmor anche durante il periodo in cui Elsweyr, terra natale dei Khajiit, si era trovata sotto il dominio straniero.
Grazie all'inganno, nell'anno 115 della Quarta Era i Thalmor si erano assicurati il dominio su Elsweyr, terra di deserti e foreste: in segreto, con un potente incantesimo avevano nascosto le due lune ai Khajiit. Per il popolo degli uomini gatto, che vedono nei cicli delle lune la sopravvivenza della loro razza, quella era stata una perdita intollerabile, tanto da spingerli a sottomettersi ai Thalmor pur di riavere Masser e Secunda nel loro cielo. Per quasi un secolo, grazie a quel falso manto di salvatori e protettori, i Thalmor si erano assicurati la fedeltà dei Khajiit, fino a quando il Dovahkiin non aveva svelato l'inganno, nascondendo il sole di Elsweyr per un giorno e dando inizio ufficialmente alla Seconda Grande Guerra Elfica: da quel momento, Fusozay Var Dar, Uccidere senza scrupoli, era stata l'unica legge a cui i Khajiit si erano attenuti verso i Thalmor.
Personificazione di quel desiderio di vendetta collettivo, e rappresentante dei Khajiit in quel consiglio di guerra, era una Dage, una Khajiit degli alberi, che in piedi non sarebbe arrivata all'anca di nesuno di loro, tanto era piccola di statura. Per di più, Dra'Khaj Krin non poteva nemmeno alzarsi in piedi, perché costretta dal suo ruolo e dalle usanze del suo popolo a portare i ciuffi di pelliccia di tutti i suoi seguaci annodati alla sua. Tuttavia, quel goffo insieme di pelo intrecciato, che le impediva perfino di muoversi liberamente e richiedeva cinque uomini robusti per venire spostato, nascondeva appena la magia della Khajiit: c'erano più sortilegi distruttivi tra i piccoli artigli di Dra'Khaj Krin che in un intera città di elfi alti e anche se i suoi metodi erano stati disgustosi in più di un'occasione e quello stesso consiglio di guerra stentava a frenare il suo desiderio di vendetta, i suoi risultati contro i Thalmor erano stati tali da rendere impensabile cacciarla da quel tavolo.
"La vostra sagacia è inopportuna in questo momento di crisi, signora dei Khajiit. O è forse con questa vostra sagacia che vorreste sfuggire al nostro fallimento?"
Fu Tibdan Morvain della casa di Redoran a parlare questa volta: un Dunmer, un elfo scuro di Morrowind. Tibdan era il più anziano tra tutti loro e probabilmente il più anziano di molti altri: pochi, perfino fra gli elfi, raggiungevano la sua veneranda età, che non gli aveva solo reso i capelli bianchi come la neve, ma gli aveva persino scolorito la pelle color cenere e gli occhi color sangue della sua gente. Tibdan era vecchio, oltre la definizione stessa del termine, ed era sopravvissuto a molte altre guerre e leggende: Attrebus non era mai riuscito a capire cosa pensasse davvero quell'elfo, che manteneva un contegno riservato e rispettoso in qualunque circostanza, preferendo il noioso, ma necessario compito di amministrare e gestire la loro molteplice armata piuttosto che le battaglie sul campo. Sembrava impossibile conciliare questa persona posata, ma severa, ai pettegolezzi che lo tacciavano di essere uno dei più grandi praticanti viventi della negromanzia e della manipolazione degli spiriti dell'Oblivion, nonostante a Morrowind simili pratiche fossero state proibite da molte ere.
"Questa Khajiit pensa rispettosamente che anche il nobile Redoran stia facendo lo stesso, mascherandosi dietro alla sue rughe..." rispose Dra'Khaj Krin facendo le fusa: "...Ma non siete altrettanto abile."
Se lasciati a loro stessi, Attrebus sapeva che quei due avrebbero potuto cominciare una schermaglia in piena regola, dove, pur mantenendo un tono fermo e ossequioso, sarebbero volati tali insulti e minacce velate da farlo invecchiare precocemente: non c'era amicizia ne stima tra Dra'Khaj Krin e Tibdan.
"Cough... Cough... Cough... Temo che stiate dimenticando qualcosa..." li interruppe Idgrod la Giovane, tra un colpo di tosse e l'altro: il clima delle isole di Summerset non le aveva giovato affatto.
Figlia di Idgrod Ravencrone, regina delle regine di Skyrim, Idgrod la Giovane era una donna del Nord, ma piuttosto lontana dalle turbolenti e passionali personalità tipiche dei suoi compatrioti: donna nel fiore degli anni, Idgrod possedeva una calma saggezza superiore alla sua età e un animo compassionevole, uniti ad un'intuizione ed una chiarezza di pensiero che tutti i presenti avevano imparato a rispettare. Idgrod era inoltre una veggente, dote che aveva preso dalla madre ormai troppo anziana per partecipare a qualunque guerra, e le sue profezie, spontanee ed incontrollabili, li avevano salvati e guidati più di una volta in quegli anni.
I guerrieri del suo seguito, uomini e donne che avevano seguito Idgrod in quella terra da Skyrim per sete di battaglia e gloria, la consideravano la loro sciamana, un titolo che la donna del Nord aveva fatto suo con un sorriso, e anche se il clima di Summerset aveva indebolito il suo naturale vigore, non c'era scontro a cui la principessa di Skyrim non partecipasse con il suo fidato arco.
"... vi state tutti preoccupando della sua reazione. Ma io temo cento volte di più la madre." concluse Idgrod con un ultimo colpo di tosse.
"Per le sabbie... temo tu abbia appena raddoppiato il peso dei miei anni, principessa del Nord." gemette Azhri Shaddam dall'altra parte del tavolo, stropicciandosi la barba bianca ed esternando ad alta voce ciò che tutti i presenti avevano appena realizzato.
Hel Ansei Azhri Shaddam era la dimostrazione che non è la propria fede personale ad essere davvero importante a Tamriel: ciò che importa è la divinità che si sceglie di seguire. Per quanto infatti il vecchio sacerdote Yokudan dalla pelle ormai cotta dal sole indossasse solo abiti che si era fabbricato da solo, osservasse il digiuno settimanale assieme ai suoi guerrieri di Hammerfell e pregasse sempre almeno tre volte al giorno, Azhri Shaddam era a capo dell'ordine religioso devoto al culto di Raymon Ebonarm, Dio della guerra e compagno di tutti i guerrieri. Hel Ansei, Santo della Spada, era il titolo che gli era stato dato in patria per onorarlo: Azhri era infatti uno degli ultimi veri canta spada del suo popolo, un'antica arte degli Yokudan creduta persa nel succedersi delle ere. Grazie ad essa, Azhri Shaddam, e quelli come lui, potevano cantare all'esistenza una spada a partire dalla propria anima: queste lame, chiamate Shehai, non erano comuni strumenti di morte, poiché essendo forgiate dall'anima del guerriero che la impugnava, permettevano di superare i limiti del proprio corpo, dando un vigore sproporzionato a colui che riusciva a brandirla. Per questo, pur essendo già venerabilmente anziano per un uomo, era attorno ad Azhri che le famiglie nobili di Hammerfell si erano strette durante la loro resistenza contro i Thalmor, quando il predecessore di Attrebus, Titus II Mede, aveva accettato il Concordato Oro Bianco alla fine della Prima Grande Guerra Elfica, abbandonando al loro destino coloro che come Azhri Shaddam non avevano voluto piegarsi.
"Perché tremi vecchio? Tra tutti noi, sei quello che ha più speranze di sopravvivere." brontolò Gortwog gro-Urdag, Orsimer delle montagne, con la sua voce bassa e cupa.
Capo di un popolo senza patria, Gortwog era l'unico fra loro ad indossare armi ed armature, che sosteneva di non togliersi nemmeno per giacère con una delle sue mogli: le sue due asce di oricalco gli pendevano dalla cintura, assieme al suo elmo, unica concessione al protocollo imperiale. Anche per un orco, Gortwog era brutto: quattro zanne gli sbucavano dalla labbra, e la sua pelle verdastra era butterata di cicatrici e scorie della fucina. Tuttavia, non c'era arma del loro esercito che prima o poi non fosse passata sotto le mani esperte degli Orsimer di Gortwog: solo gli orchi infatti sapevano riparare armi, armature e macchine d'assedio così velocemente.
Attrebus stesso aveva dovuto imparare che se c'era da chiudere una breccia o aprirne una nuova durante un assedio, era agli Orsimer che doveva rivolgersi: da sempre inoltre, la prima linea dell'esercito imperiale era costituita da orchi berserker, anche se in questa guerra, con troppi fronti aperti nello stesso tempo, barbari di Skyrim, guerrieri di Hammerfell e Naga li avevano affiancati con gioia.
Questo però non significava che Gortwog fosse fedele in modo particolare ad Attrebus o quel consiglio di guerra: come l'Orsimer gli aveva spiegato con i suoi modi spicci, schierarsi contro i Thalmor era l'unico modo per garantire la sopravvivenza della sua gente, ormai sparsa in piccole enclavi in tutta Tamriel: gli orchi erano un popolo di paria e difficilmente venivano accettati al di fuori delle loro roccaforti.
Attrebus sperava però, che una volta finita quella guerra la situazione potesse cambiare: era già stato emanato un editto che garantiva l'indipendenza alle enclavi di orchi più grandi e l'esenzione delle tasse per le roccaforti che si reggevano da più di un secolo in un dato territorio. Gortwog non aveva mai commentato quelle decisioni dell'imperatore, ma dietro i suoi occhi color palude, la sua mente brillante doveva certamente approvare: altrimenti, non avrebbe mai passato così tanto tempo ad ascoltare e discutere senza mulinare le sue asce.
"L'adulazione non ti si addice, capo Gortwog: anche gli Ansei temono i draghi. Come abbiamo già discusso in passato, non è abbandonando il valore della propria vita che si ottiene la vittoria."
"Bah... questo giorno non è diverso dagli altri: siamo in guerra e morire fa parte delle certezze di ogni nostro giorno. Sarà solo molto più glorioso di quanto avessi immaginato." rispose l'orco.
"Solo su questo mi sento di concordare." ribatté Azhri con un lieve sorriso, quasi invisibile dietro la sua barba color delle nuvole.
"...Cielo, a volte mi sembra di avere a che fare con dei ragazzi alla loro prima battaglia." si lamentò Gondard Vandergroet, con la sua voce stranamente acuta.
Vandergroet era un Bretone grassoccio e basso, che preferiva sempre indossare fluenti vesti da mago: nonostante la sua pelata incipiente e il suo doppio mento rendessero facile sottovalutarlo, Gondard non era in quel consiglio solo a causa della sua carica. Per quanto legato personale della regina di Wayrest infatti, egli era stato all'inizio della guerra solo uno dei tanti ambasciatori inviati dalle città- stato di High Rock, patria ancestrale dei Bretoni, mezz'elfi con una forte propensione per la magia e l'avventura. In pochissimo tempo, Vandergroet si era assicurato la superiorità su tutti i suoi connazionali e non solo manteneva il posto a quel tavolo da quasi otto anni, nonostante più di un attentato alla sua vita da parte dei suoi stessi sottoposti ansiosi di conquistarne il prestigio, ma in quel consiglio la sua abilità di fare le domande più scomode era preziosa, per quanto forse non apprezzata a dovere.
Perfino Attrebus rispettava Vandergroet e in parte lo temeva perfino: aveva sempre ritenuto labile la fedeltà di quell'ometto strano e pieno di contraddizioni, ma esperto conoscitore della natura di uomini ed elfi. L'imperatore si era fatto l'idea che l'ambasciatore non amasse quella guerra e ne auspicasse una fine rapida e decisiva, ma qualcosa continuava a sfuggirgli, perché il taumaturgo ed alchimista Bretone sembrava sempre perseguire strani obbiettivi politici, paralleli, ma raramente coincidenti, a quelli del loro consiglio di guerra.
"...Miei signori, ha ancora senso dibattere di cosa potrebbero fare il Sangue di Drago e la sua consorte? Non è forse molto più importante pensare a cosa potremmo fare noi, membri di questo consiglio?"
"Cosa proponi, ambasciatore Vandergroet?" chiese Nascondi Artigli.
"Dire di cominciare arrestando la guardia personale del Sangue di Drago..."
Il rumore del pugno che si abbatté sul tavolo lo zittì, mentre tutti loro si voltarono verso l'ultimo taciturno membro di quel Consiglio:
"Stai forse suggerendo di completare il nostro tradimento?" chiese una voce molto fioca.
La domanda era stata posta senza alcuna inflessione particolare, ma non fu un caso se Gortwog si scostò da Vandergroet: se Shasara si fosse avventata sull'ometto, nessuno voleva mettersi fra loro.
La nobile Shasara, che aveva rinunciato al suo cognome, era un'elfa alta, dalla pelle d'oro e dai capelli del colore dell'argento che le ricadevano morbidi sulla schiena: nella sua gioventù, Shasara era stata una delle grandi artisti del suo tempo, una poetessa, una scultrice e una pittrice. Ma poiché si era pronunciata in pubblico contro il regime dei Thalmor, ai tempi in rapida ascesa, per cento cinquanta anni, le decadi della sua prima giovinezza, era stata chiusa nel buio in catene, lasciata a marcire nelle sadiche mani dei peggiori carcerieri Altmer; e questo nonostante lei fosse l'unica figlia vivente di sua eccellenza lord Naarifiin, cancelliere supremo dei Thalmor. Per un secolo e mezzo, suo padre aveva condannato Shasara al buio e alla miseria, fino a quando, durante la prima offensiva nelle Isole di Summerset, le truppe guidate dal Dovahkiin avevano espugnato il castello dove era stata dimenticata.
Ormai una donna tra gli elfi, Shasara aveva finalmente rivisto il sole.
In quel buio passato in catene, l'elfa aveva perduto la sua arte, trovando però qualcosa d'altro: una furia più fredda dell'inverno a cui attingeva senza pietà. Sfigurata dai decenni di tortura, Shasara si era fatta tatuare un drago sul volto, come pegno di fedeltà verso l'unica persona che sapesse calmare il suo animo. Shasara, la regina d'inverno, come era chiamata da alcuni, che dopo la sua liberazione aveva radunato tutti i dissidenti e i ribelli che ancora esistevano tra gli Altmer: non erano molti, per lo più bande di patrioti male armati che ricorrevano alla guerriglia per opporsi ai Thalmor, ma poiché anche il più infimo degli elfi alti è uno stregone assai abile, erano una forza da non sottovalutare e la loro conoscenza del territorio delle isole di Summerset era stata senza prezzo per Attrebus e le forze imperiali.
L'unico occhio color del tramonto di Shasara era fisso su Vandergroet ora, in attesa della sua risposta: Gondard dovette deglutire prima di poter rispondere, ma quando lo fece, la sua voce era ferma:
"Io sono pronto a fare molte cose, nobile Shasara. Sì, sono pronto ad essere disprezzato e accusato di tradimento, perfino. Quello che però non sono pronto a fare è rinunciare alle responsabilità verso i nostri subordinati. Cosa succederà a questo esercito se dovesse perdere le sue dieci teste in una volta? Che ne sarà degli uomini che ci hanno seguito fino a qui?"
"Sei un codardo, ambasciatore Vandergroet?" sibilò Nascondi Artigli.
"Mi considero un uomo pragmatico, principessa. Credete forse che questa armata possa sopravvivere se la sua furia e quella delle sue guardie fossa scatenata? Abbiamo attirato sulle nostre teste una tempesta, ma non resterò inerme ad aspettare che il fulmine ci colpisca..."
"Tu sottovaluti la sua guardia, ambasciatore Vandergroet. E ti dimostri ingrato. L'hai dimenticato? Le Guardie Nere non vincono le guerre, ma ne cambiano le sorti. Ci siamo affidati alla loro forza per anni... chi fra i nostri generali ubbidirebbe ad un simile ordine?"
"Mio signore, le vostre Blade potrebbero..." protestò Vandergroet.
"Per quanto l'intero ordine delle mie guardie personali non desideri altro che mettersi alla prova contro le Guardie Nere fin dal giorno in cui il Sangue di Drago le istituì, la fedeltà che l'ordine delle Blade mi tributa non è abbastanza da garantire la loro vittoria."
"Siete caduto anche voi nel misticismo dunque?"
"Attento Gondard..." lo ammonì Silandra.
"Perdonatemi mia signora, ma..."
"Deve essere difficile per un uomo come voi comprendere certe cose ambasciatore, dato quanto i vostri compiti vi costringano nelle retrovie..." lo interruppe quietamente Tibdan, sorprendendoli tutti. "Ma posso assicurarvi che le storie che si raccontano sulle Guardie Nere sono tutte vere."
"Sciocchezze."
Tibdan fece il più piccolo dei sorrisi, incrociando le dita sotto il mento:
"Non ho bisogno di vederle all'opera, per convincermene..."
"Vi facevo più saggio... elfo." disse con Gondard con un'espressione di disgusto sul viso.
"Ora basta Vandergroet!" Sbraitò l'imperatore: "Comprendo che la paura possa attanagliare anche il vostro spirito, ma state superando il limite: se non siete in grado di controllare il vostro animo, andatevene." Attrebus era forse giovane e più inesperto di altri, ma non era membro del consiglio solo per rappresentanza: raramente aveva però dovuto imporsi così violentemente su uno di loro. Sembrò che Vandergroet fosse stato schiaffeggiato: Attrebus sapeva che avrebbe pagato quel suo eccesso, ma doveva assolutamente impedire alla paura del Bretone di diffondersi.
"...Principessa Idgrod, possiamo forse contare su una vostra visione per mostrarci la via?" chiese l'imperatore, prima che Vandergroet ritrovasse la parola.
"Temo di no: come sapete vostra maestà imperiale, esse mi vengono dai nove Dei, non posso evocarle a mio piacimento. E mi duole ammettere... cough cough cough... che non sono sicura di volere una visione in questo momento, quando la nostra situazione appare così disperata. Se la nostra sorte è certa, qual è il senso del cercare una visione profetica?"
"Allora mi resta una sola cosa da fare."
"Attrebus..." lo implorò sua moglie, aggrappandosi alla sua veste.
"L'ambasciatore Vandergroet ha ragione, Silandra. Dobbiamo impedire al fulmine di colpirci. Mi assumerò la responsabilità di questo fallimento e chiederò perdono personalmente al Sangue di Drago. Come recipiente del patto tra questo consiglio e lui, è giusto che sia solo io a ricevere la colpa."
"Molto coraggioso, mio signore... ma temo che non potrò permettervi di farlo da solo." disse Azhri.
"Hel Ansei..."
"Sono davvero desolato mio signore, ma permette che mi spieghi. Al contrario dell'ambasciatore Vandergroet qui, non ho vergogna ad ammettere la mia paura: sono troppo vecchio per cose del genere. Ma se vi lasciassi diventare il solo bersaglio della furia del Sangue di Drago, se vi lasciassi diventare il nostro capro espiatorio, allora sarei anche un codardo. E il Drago non ama i codardi."
"Concordo con Hel Ansei... " disse Tibdan: "La nostra più certa via di scampo è accettare uniti la responsabilità del fallimento. I membri di questo consiglio hanno condiviso la propria sorte per un tempo breve, ma sarebbe un errore separarsi ora."
"E se anche si scegliesse la fuga, non esiste luogo dove un Drago non possa arrivare." sibilò Nascondi Artigli.
Attrebus non poté protestare una seconda volta, perché Idgrod lo interruppe ancor prima che pronunciasse una sillaba:
"Mio Imperatore... cough cough, vi prego: non ci ordinate di infangare il nostro onore scegliendo di abbandonarvi in questo momento. Piuttosto che presentarmi a mia madre con una simile vergogna sulle spalle, preferirei... cough cough cough... senza dubbio la morte."
"E se davvero è venuto il nostro momento di cadere, marito, allora non c'è altro luogo in cui vorrei essere."
"Vaba Maaszi Lhajiito." miagolò Dra'Khaj Krin: "È bene fuggire quando è necessario. Ma se non c'è luogo in cui andare, allora questa Khajiit attaccherà: puoi nasconderti dietro di lei, Vandergroet."
"...Temo, signora dei Khajiit, che il riparo che potreste offrirmi non sia abbastanza ampio." rispose il Bretone, passandosi una mano sul ventre sporgente.
"Significa forse che non intendete più fuggire?"
"Significa, mia signora, che mi riservo il diritto a provarci mentre il Sangue di Drago calerà su di voi."
"Bah...dovreste imparare ad essere come noi Orsimer: meno attaccati alle cose mondane. Come la vita." interloquì Gortwog.
La risata di Dra'Khaj Krin li stupì tutti:
"Questa Khajiit pensa che avresti potuto essere un Khajiit interessante, Gortwog."
"Per la barba di Malacath, assolutamente no! Ho visto come vi pulite voi gatti. Disgustoso."
Per la prima volta in quel consesso, anche Tibdan rise: un lieve rumore secco, che l'elfo si affrettò a celare dietro un colpo di tosse.
Suo malgrado, anche l'imperatore si scoprì a sorridere: erano alle soglie del loro annientamento, ma sembrava l'avrebbero affrontato assieme. Attrebus ringraziò mentalmente gli Dei per questo.
"È nel momento in cui la spada sta per trafiggerti il cuore che il cielo sembra più azzurro." recitò Azhri con un una luce divertita negli occhi.
"...Eloquentemente posto, santo del deserto." sibilò Nascondi Artigli.
Shasara invece serrò i denti corrugando la fronte e il drago tatuato sul suo viso sembrò chiudere le ali:
"Voi tutti parlate con falsa speranza. Cercate di trovare un appiglio per non affogare nel nostro fallimento. Di farvi coraggio, pregando sul fondo delle vostre anime che possa fare la differenza. Un'illusione simile non è degna di noi..." disse con una voce piena di rabbia e di sofferenza. I sorrisi si spensero sui volti di tutti mentre Shasara parlava, cercando di staccare al meglio le parole, nonostante gli sfregi che le erano stati inferti.
"Noi non siamo bambini che hanno smarrito un pugno di monete che non ci appartenevano... avevamo un compito. Un impegno semplice e chiaro, che avevamo giurato tutti di mantenere, nel bene e nel male. Credete che le nostre patetiche scuse possano restituire ciò che i Thalmor gli hanno preso? Credete che le nostre vite possano valere qualcosa, ora? Capite molto poco il Dovahkiin."
Shasara stava tremando ora, visibilmente:
"Io maledico la nostra debolezza. Mi ha dato tutto. Luce e vita: avrei voluto morire prima di deluderlo. Qualunque punizione possa cadere su di noi, qualunque disgrazia... non sarà abbastanza."
E detto questo, Shasara iniziò a piangere: nemmeno il suo corpo sfregiato dalle torture e la sua anima indurita dal buio potevano arginare il suo rimorso. Nessuno dei presenti osò provare a consolarla: avrebbe loro strappato le ossa dal corpo e tuttavia, tutti i loro volti si fecero gravi come il suo e assieme attesero, in rispettoso silenzio, che succedesse qualcosa. Un ruggito o un pinnacolo di fuoco, un messaggero spaventato con notizie di morte: qualcosa, che sapevano, doveva arrivare.
 
 ***
 
Quando accadde, non fu un Urlo, ma una voce umana, rassegnata ed imbarazzata. Erano solo quattordici le persone in tutta la loro armata che potessero interrompere una sessione di quel consiglio di guerra, ma Attrebus non fu stupito da chi entrò nella tenda: era così ovvio in fondo.
"Miei Signori...." disse l'uomo del Nord dopo essersi prostrato di fronte a loro: "Il capitano delle Guardie Nere chiede di voi." riferì senza incontrare i loro sguardi.
Il generale Hadvar veniva da Skyrim, e vestiva i colori della Legione Imperiale fin da prima della ribellione di Ulfric Manto della Tempesta. Non era il più abile dei condottieri su cui Attrebus potesse contare, ma Hadvar il Fortunato aveva quel soprannome per una sua dote unica: anche quando costretto a ritirarsi di fronte alle truppe nemiche, riusciva sempre a strappare un beneficio dalle sue sconfitte. Un talento davvero peculiare, a cui doveva probabilmente parte della sua scalata nei ranghi dell'esercito, oltre ad aver combattuto a Skyrim assieme al Sangue di Drago.
Dall'ultima volta che Attrebus l'aveva visto, l'aspetto del suo generale fortunato era cambiato radicalmente: sembrava fosse stato picchiato selvaggiamente e la sua divisa era ammaccata ed infangata. Lo stesso Hadvar riusciva a stento a reggersi in piedi, favorendo il lato destro del corpo.
"Che cosa vi è successo, Hadvar?"
L'uomo del Nord fece uno stretto sorriso dolorante, a mala pena visibile sotto il labbro spaccato e insanguinato.
"Per il capitano Scudo di Drago mancavo di solerzia nell'obbedire ai suoi ordini..."
"E da quando i capitani danno ordini ai generali?" chiese severo Vandergroet.
Il generale del Nord sembrò farsi un po' più pallido mentre fissava l'ambasciatore Bretone:
"Credevo lo sapeste mio signore: un membro infuriato delle Guardie Nere può dare ordini anche agli Dei..."


Angolo dell'autore:
Volendo essere del tutto sinceri, avevo questa storia in mente da diverso tempo, e Tabula Rasa e Le Tre Spade sono state il mio tentativo di metterla da parte: è un pezzo che desidero raccontare la sconfitta del regime Thalmor, ma per mancanza di tempo non sono mai riuscito a farlo prima. Spero che questa storia vi piaccia, ed ogni recensione sarà ben accetta.
Al prossimo capitolo.
  
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