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Autore: whiteblankpage    23/10/2014    6 recensioni
Sara tanto tempo prima, chissà dove e chissà in quale occasione, aveva letto l’espressione “passare da una stella cadente all’altra”. Poi aveva incontrato Chiara, i suoi capelli prima biondi, poi rosa, poi di nuovo biondi, i suoi occhi azzurri ed il suo cd dei Joy division, ed aveva capito esattamente il significato di quell’espressione.
Genere: Romantico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mezzanotte e i passanti si tengono a distanza. Chiara aspetta con le quattro frecce, Sara che aspetta di cadere incendiando il cielo come un meteorite.
 
Sara tanto tempo prima, chissà dove e chissà in quale occasione, aveva letto l’espressione “passare da una stella cadente all’altra”. Poi aveva incontrato Chiara, i suoi capelli prima biondi, poi rosa, poi di nuovo biondi, i suoi occhi azzurri ed il suo cd dei Joy division, ed aveva capito esattamente il significato di quell’espressione. Chiara, ventitré anni e precedenti per detenzione di droga, aveva passato la sua vita passando da una stella cadente all’altra, da un progetto morto prematuro all’altro, da una delusione alla successiva. Era un susseguirsi di cose troppo complesse e grandi da spiegare, aveva una collezione di cicatrici, di quelle interne che non vedi ma sono le più dolorose, ed un patologico bisogno di attenzione, amore, carezze e ‘io non me ne vado neanche se mi cacci’. Perché Chiara non avrebbe mai cacciato nessuno. Lo aveva già fatto suo padre con lei e quella era stata la cicatrice numero uno.
Sara aveva partecipato a così tante manifestazioni per i diritti degli omosessuali da aver perso il conto, ascoltava All my loving dei Beatles almeno una volta al giorno ed era innamorata di un disastro naturale con i capelli rosa. Da grande avrebbe voluto fare la dottoressa, poi sua madre le aveva regalato un cane ed aveva deciso che curare gli animali era decisamente più importante che assistere gli esseri umani, quindi a venticinque anni aveva capelli di un banalissimo castano chiaro, occhi nocciola, gambe lunghe, un viso da bambina e lavorava in uno studio veterinario, era sottopagata e tornava ogni sera a casa puzzando di gatto. Ma era felice. Le piaceva il suo lavoro. In casa aveva due gatti salvati dalla strada, Degas e Zafòn, e poi c’era Chiara. Da cosa l’avesse salvata ancora non lo aveva capito, ma quando la guardava negli occhi capiva che doveva essere qualcosa di grande.
Era mezzanotte e tre. Chiara stava aspettando Sara fuori dallo studio, le quattro frecce ed un bisogno di nicotina da far paura, aveva finito le sigarette e cazzo era nervosa da morire.
Sei minuti dopo Sara aprì lo sportello dal lato del passeggero, si buttò sul sedile e se lo chiuse dietro voltandosi a sorriderle. E Chiara si sentì come quella volta da bambina, quando i suoi l’avevano portata a vedere i fuochi d’artificio per la prima volta.
«Ciao».

E pensa: sei più bella adesso mentre sfiorisci, sei come i fondali oceanici che resteranno sconosciuti, di ritorno dai tuoi viaggi di quattro anni.
 
Nell’aria c’è ancora la lite di poche ore prima ma Sara sente già l’odore della pasta che prepareranno una volta a casa e delle loro piccole abitudini, ed è troppo stanca per infierire. Chiara non parla, tace come dopo ogni lite, come ogni volta che ha paura che lei se ne vada. Sara posa la mano su quella di Chiara, stretta sul cambio. L’altra la guarda un secondo, neanche sorride ma tutto sembra essersi riassestato, come dopo un terremoto.

Pensa: Guarda qui ci sono tutti i miei punti deboli, guardami mi lascio dietro degli spazi bianchi.
 
Chiara non vorrebbe, non dovrebbe essere sempre l’animale ferito, l’anello debole, quella che cede, piange e sta zitta un sacco di tempo mentre l’altra aspetta, è forte e regge il peso di entrambe, ma proprio non ce la faccio. Lo dice anche Ed Sheeran “What didn’t kill me, it never made me stronger at all”, e se lo dice Ed è vero.
«Parlami. Ti prego» Sara sta stringendo la tracolla della borsa, ha le nocche bianche e gli occhi puntati sulla strada.
Chiara continua a guidare, si morde le labbra.
«Ti va di andare a San Marco, domani?»
E a Sara basta. Basta la sua voce, perché sa che ci vuole tempo con lei, con i suoi punti deboli, con i suoi spazi bianchi ed i silenzi interminabili. E sa che Chiara, quando vorrebbe dire qualcosa di importante, finisce sempre per parlare di cose inutili.
 
Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa.
Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà.

 
La prima volta che hanno fatto l’amore Sara se la ricorda, porta quel pomeriggio nella tasca dei jeans ogni giorno, dentro al portafoglio, sotto il cuscino e negli occhi di Chiara. E sa con certezza di essersi innamorata di Chiara nell’istante in cui le ha sbottonato i jeans ed ha visto quegli occhi azzurri riempirsi di lacrime e l’ha sentita balbettare delle scuse. E sa di amarla perché Chiara si sente in colpa per ogni singolo sentimento che sfiora la sua sfera emotiva, e continua ad amarla perché è giusto così, anche se a Dio e a sua nonna non sta bene. E sa di amarla perché quel giorno Chiara ha ricacciato indietro le lacrime, si è spogliata e le ha detto che era la sua prima volta con una ragazza, perché suo padre le aveva sempre detto quanto fosse disgustosa e contro natura l’omosessualità e lei aveva finito quasi con il crederci.
«E’ facile» le aveva detto Sara, sorridendole.
Chiara aveva annuito e si era scostata una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
«Va bene anche se non è facile. Con te va bene tutto».

Nonostante il flusso costante di gente senza lavoro, di compro oro compro oro, respirando lentamente Chiara celebra la sensazione della primavera finalmente in arrivo e del suo treno al binario uno.
 

Il ricordo più bello di Chiara è Sara. Sara che la stringe contro il suo petto, che profuma di buono e le sussurra il primo ‘ti amo’ della sua vita. Sara che le presenta la madre sorridendo, che non si vergogna, le dice che è bellissima anche in pubblico, in treno, sull’autobus, anche quando ci sono i bambini che ascoltano e ridacchiano.
Venezia le piace, è diversa dall’Umbria, non c’è tutto quel verde e non ci sono gli ulivi, e al posto dei gatti in giro ci sono i gabbiani, che la mattina in Campo S. Margherita fissano i banchi del pesce per ore, ci sono i canali che la riflettono insieme a Sara, e c’è la libreria dell’Acqua alta che le fa pensare che c’è ancora qualcosa di bello nel mondo, e sì le piace proprio. Anche quando c’è il carnevale e ci sono tutte quelle persone che spingono, stanno tra i piedi e ti chiedono indicazioni, anche quado piove e le pietre delle chiese lacrimano su uno sfondo plumbeo. Le piace perché non c’è suo padre, non c’è sua madre e non ci sono i suoi compagni di classe del liceo, le piace perché non la conosce nessuno e se non ti conoscono non possono farti alcun male. Le piace perché c’è Sara che si prende cura delle sue ferite, che la conosce ma non le fa mai male. O almeno, non troppo.
Sara è anche la sua paura più grande, perché se avesse buon senso se ne andrebbe, e forse dovrebbe lasciarla lei, essere meno egoista, ma poi pensa “se ami qualcuno lascialo andare” un cazzo. Lei Sara al massimo la abbraccia più stretta perché se va via anche lei è la fine.
Ha ricominciato a studiare da poco, ha scelto architettura e frequenta la Ca’ Foscari; ha addirittura fatto amicizia con due compagni di corso ed una ragazza che studia Giurisprudenza ma vorrebbe fare la ballerina. Fa un respiro lento, profondo. Il binario è affollato, tira un po’ di vento ed ha preso una paio di chili ma i jeans neri lo nascondono benissimo.
Sta ricominciando. È un processo lento, e non è facile. Ma Venezia le piace e lei ce la sta facendo.

E pensa: Sara sei ancora più bella la sera quando sei stanchissima, sei ancora nella mia memoria interna, sei l’interpretazione dei sogni che non riesco a ricordarmi.
Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia.



Alcune sere Sara è così stanca da andare a dormire senza cena. Si toglie le scarpe, si fa una doccia calda e striscia nel letto cacciando Degas. Ha le gambe magre e lunghe, sembrano fatte apposta per scappare ma non va mai troppo lontana. Chiara le si stende a fianco, la bacia e le sorride contro il collo.
«Quanto sei bella» mormora contro i suoi capelli castani.
Sara spegne la luce, cerca le labbra di chiara, il suo sapore, le sue mani tremanti e i suoi fianchi spigolosi.
«Puzzo di gatto».
«Non è vero».
Forse si tratta semplicemente di dimenticare le cose brutte, le parole, le ferite e le ginocchia sbucciate, di spegnere la luce e smettere di condannarsi per qualsiasi cosa. Forse, pensa Sara, si tratta semplicemente di dimenticare tutto ciò che non sia Chiara.
 
Forse si tratta di fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa.
Ma poi Sara stava pensando ad altri volti di ragazzini morti a Caserta, ancora all’interpretazione dei sogni, ai rumori di fondo e alla magia che tutto sia senza senso.

 
Sara odia il telegiornale. Chiara è ossessionata dalle previsioni del tempo e da C.S.I. e a cena non si discute, il telecomando è in suo potere. Hanno comprato le tende nuove, sono di quelle doppie, una ocra ed una rossa, ed il salotto adesso è più caldo ed accogliente. Hanno comprato anche una caffettiera e qualche piatto quadrato, così per cambiare e perché il caffè faceva schifo.
Chiara ha ricevuto una telefonata da sua madre quella mattina. Dice che le manca e che ha voglia di vederla. Dice che adesso ha capito, che le manca veramente tanto, è la sua bambina. Scoppia a piangere e a Chiara tremano le mani.
«Perdonaci» ed in quel “perdonaci” non sente neanche un po’ la presenza di suo padre.
È tardi. Sono passati quattro anni. In quattro anni quante occasioni ci sono? Di pentirsi, di chiedere scusa, di fare una telefonata. Quanti treni si possono prendere in quattro anni? E quante volte si può morire, in quattro anni? Ma tutto questo non ce la fa proprio a dirlo.
«Ok» mormora soltanto. La saluta, riaggancia e quello sembra un po’ un addio. Sarà perché fa male, come un addio.

E adesso dal loro osservatorio astronomico su una scala antincendio Chiara le ha detto che è pulita che ha smesso, non c’è alternativa al futuro.
Rientrano in casa e appena dentro si sentono benissimo i rumori e le voci degli altri appartamenti ma è tutto perfetto, è tutto perfetto.

 
Chiara ha chiuso con tante cose. Con i suoi genitori, con il senso di colpa per la sua omosessualità, con il caffè non decaffeinato e con la droga. È pulita, per quanto si possa essere puliti in questo mondo. Sara ha vomitato quando ha saputo che sniffava, e lei ha pianto così tanto da farsi venire il mal di testa e la gola secca. Ma adesso è pulita, glie lo giura, le prende la mano ed il sorriso di Sara è la ricompensa per tutte le rinunce passate e future.
«Ho freddo, rientriamo?» suggerisce Sara, stringendosi nella sua sciarpa ricamata con i colori dell’autunno. Dalla scala antincendio si vede Venezia che brilla, silenziosa e bella da morire.
Rientrano in casa intirizzite dal freddo, Sara mette a bollire l’acqua per il tè e Chiara ride perché i vicini stanno nuovamente scopando rumorosamente, mentre quelli al piano di sopra guardano la tv ad un volume inconcepibile e Carla, la vecchietta dell’appartamento davanti al loro, probabilmente dorme beata con l’apparecchio acustico spento. Si sente il suono del fornello acceso e Sara che canticchia Scendi giù di Mannarino. Chiara la raggiunge in cucina, l’altra le dà le spalle. Le circonda la vita con le braccia e posa il mento sulla sua spalla, chiudendo per un attimo gli occhi. Non parla, come quando ha paura di rovinare tutto.

Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa.
Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà.
Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia.

Forse si tratta di fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa.
E padre eterno che sei così reazionario, che dal finestrino atterrando guardi Venezia dall’alto, hai visto il loro non era un amore poi tanto diverso.

 

 
Sono passati due anni e Sara non è ancora andata via.
Chiara ha ancora i suoi silenzi e Sara le sue proteste per i diritti degli omosessuali. Hanno comprato i cuscini del divano ocra e rossi, per abbinarli alle tende, almeno due venerdì al mese vanno al ristorante cinese e almeno due venerdì al mese Sara fa la sua espressione disgustata mentre Chiara ordina due porzioni di gelato fritto, tutte per lei.
Forse, pensa Sara prima di andare a dormire, si trattava solo di accettare la vita. 





Questa è in assoluto la mia prima coppia slash su efp. E' una song-fic, ispirata a Le ragazze stanno bene delle Luci della centrale elettrica. Non so quante di voi conoscessero o apprezzassero questa canzone, ma credo che la storia possa essere letta, amata o odiata indipendentemente dalla canzone. 
E...non so cosa dire.
Preferisco lasciare a voi la parola, vi affido la mia dolce Chiara e quela forza di Sara, sperando che vi siano di buona compagnia. 
Un bacione, Giuls.


 
 
  
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