Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: TimeFlies    23/10/2014    20 recensioni
"La sua mente non riusciva mai a stare zitta. O forse non era lei, forse era qualcosa che ne aveva preso possesso. Forse proprio quel qualcosa che lo teneva così legato alla morte. Quel qualcosa che lo faceva urlare quando la Signora Nera si prendeva un’anima da aggiungere alla sua collezione.
[...] Ben si era rabbuiato sentendo quel mormorio, quel sussurro, quel bisbiglio. Li odiava, odiava quando le persone non parlavano ad alta voce perché il brusio nella sua testa copriva le parole che venivano da fuori, dal mondo esterno, dal mondo vivo. E lui si sentiva tagliato fuori. Da tutto e tutti.
[...] Si era chiuso in un mondo di silenzio apparente e voci striscianti. Era un isolamento di cui quasi non si era accorto. Così come non si accorgeva di quasi niente di quello che lo circondava."
-Storia partecipante al contest "Spiriti Maligni" indetto dal gruppo Facebook "La crème de la crème di Efp-
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Silenzio Apparente


                                                             
Silenzio Apparente





Voci. Sussurri. Mormorii. Bisbigli.
Ben ci conviveva da anni, da quando era solo un bimbo. Un bambino innocente, come sono tutti a quell’età. Anche se, dopo la prima crisi, come gli avevano detto di chiamarle, non lo era più. E come poteva essere altrimenti? Vedeva la morte, sentiva la morte, respirava la morte, toccava la morte, viveva la morte.
Da quella volta nel giardino della scuola, Ben era cambiato nel profondo. La sua intera anima era stata sconvolta, distrutta, straziata da quell’ondata di gelo e dolore né fisico né psicologico che l’aveva travolto. Aveva schiuso le labbra, più sorpreso che spaventato da quell’inaspettata sensazione di vuoto. Poi qualcuno o qualcosa gli aveva risucchiato l’aria dai polmoni, l’aveva costretto ad urlare, urlare finché i vetri delle finestre non esplosero in migliaia di schegge affilate, urlare finché la gola non gli andò a fuoco, urlare finché credette di morire lui stesso. Invece no. Non era la sua, di vita, in pericolo. Lo era stata quella di sua nonna, Marlene, che si era spenta per sempre con la stessa facilità con cui una folata di vento o un respiro possono spengere la flebile fiamma di una candela.
Ben sua nonna non la conosceva bene. Anche perché, nella sua semplice mente di bambino, l’aveva etichettata come “vecchia bisbetica”. Di lei ricordava l’odore di mentolo e pasticche per la tosse, i tailleur scuri e le camicette di seta, gli occhi azzurri che lo seguivano in ogni suo movimento, la voce aspra e arrocchita da anni di fumo che lo rimproverava quando faceva cadere uno dei tanti e preziosi soprammobili del castello.
Al funerale rimase in piedi accanto alla madre, le piccole mani unite, la testa china, la camicia che pizzicava, le scarpe che stringevano e le labbra tese in una linea sottile. Una rossa linea che nascondeva un segreto: Ben aveva urlato, Ben aveva capito, Ben sapeva che poco dopo la sua crisi qualcuno sarebbe morto. Ma nessuno della sua famiglia doveva saperlo. O almeno questo fu ciò che decise, da piccolo bimbo di sei anni un po’ cocciuto qual era.
La maestra la pensava diversamente. Infatti, il giorno dopo il funerale convocò i suoi genitori e raccontò loro quello che era successo nel giardino. Ben ricordava con chiarezza impressionante la madre che si copriva la bocca con le mani, le lacrime che le rigavano le guance, i singhiozzi soffocati che le scuotevano il petto.
Il padre s’irrigidì, come faceva sempre quando era nervoso e strinse le labbra, abitudine che aveva passato al figlio. Confortò la moglie passandole un braccio intorno alle spalle e sussurrandole parole dolci e rassicuranti.
Ben ne aveva sentita qualcuna, seduto sulla panca davanti all’ufficio della segreteria dove si era tenuto il colloquio. Aveva le mani strette in grembo, la fronte aggrottata, alcune ciocche di capelli castani che gli andavano sugli occhi.
«Andrà tutto bene, Louise, credimi. Troveremo una cura.» Aveva mormorato suo padre.
Ben si era rabbuiato sentendo quel mormorio, quel sussurro, quel bisbiglio. Li odiava, odiava quando le persone non parlavano ad alta voce perché il brusio nella sua testa copriva le parole che venivano da fuori, dal mondo esterno, dal mondo vivo. E lui si sentiva tagliato fuori. Da tutto e tutti.

Cominciarono, per Ben, lunghi anni di terapie, visite, ricoveri, pastiglie, intrugli vari e tanta, tanta solitudine. Passava da uno psicologo all’altro, da un ospedale all’altro e il tempo per gli amici, la scuola, le relazioni umane al difuori della famiglia scomparve.
I suoi genitori lo facevano studiare con un insegnate privato, il signor Gessen, un uomo dalle sopracciglia folte, labbra sempre tirate in una linea dura, zigomi affilati e occhiali dalla montatura sottile. Dentro di sé Ben lo aveva definito con una sola parola: severo. E aveva deciso che anche il suo viso lo era, così come i suoi completi gessati e la valigetta di pelle scura e consumata che si portava sempre dietro.
Ben lo vedeva nelle pause tra i vari tentativi dei suoi genitori di trovare una cura a quello strano disturbo che il loro bambino si portava dietro come una condanna. Anche perché non aveva fatto niente per meritarsela: semplicemente Ben sentiva, così come si sente il cambio di temperatura quando si entra in una stanza calda dopo essere stati fuori in un pomeriggio d’inverno, la morte.
Poteva percepire se qualcuno stava per morire. Se erano membri della sua famiglia, era come se qualcuno lo scuotesse dall’interno stordendolo e facendolo urlare come se potesse bastare a mettere fine a tutto quello. Ma non bastava mai.
Le sue urla erano così acute che a volte invece che sentirle così come si sente un qualunque rumore, se ne avvertiva solo l’onda d’urto, solo un qualcosa che ti lasciava una sensazione di gelo dentro, come se non fossi più in grado di scaldarti, di provare qualcosa, di sentirti vivo.
Ben gridava anche quando era qualcuno che non conosceva a morire: se erano abbastanza vicini perché potesse sentirlo, urlava e i vetri si frantumavano, le persone si coprivano le orecchie con le mani, i bambini scoppiavano a piangere. E Ben si ritrovava svuotato, esausto, come se quel grido l’avesse privata di ogni traccia d’energia. Spesso crollava in ginocchio con il respiro affannoso e la mente disordinata. E ci volevano ore, giorni prima che tornasse in ordine.

Gli psicologi lo definivano un caso complesso, una rarità. A volte gli dicevano che era stato lui a crearlo, era lui che diceva a se stesso di urlare perché una qualche parte del suo cervello aveva un problema. Con lui non scendevano nei dettagli ma Ben li aveva sentiti dire ai suoi genitori che dovevano sottoporlo a terapie d’urto. A Ben quelle parole non piacevano, però era sempre stato un bambino ubbidiente e avrebbe fatto di tutto per far felice sua madre, per vederla sorridere, per sentirle dire: «Bravo Ben, sono tanto orgogliosa di te.»
Molto presto, Ben scoprì che “terapia d’urto” era solo un modo carino di definire l’elettroshock. E non gli ci volle molto per decidere che non gli piaceva proprio per niente. Cominciò ad odiare i dottori che lo facevano sdraiare sul lettino, che stringevano le cinghie sui suoi polsi e sulle sue caviglie, che gli collegavano tutti quegli elettrodi, che gli dicevano di stare calmo e rilassarsi. Li guardava sempre male e cercava di farlo il più a lungo possibile, almeno fino a quando la corrente non si diramava nel suo copro con gelida velocità e lo lasciva senza fiato. Però non urlava. Durante l’elettroshock non aveva mai urlato. Lo faceva per sua madre, non voleva vederla soffrire, non voleva che stesse male. Eppure la vedeva piangere lo stesso, Louise piangeva, dimagriva, non mangiava, aveva sempre freddo, non riusciva più a fargli da madre. E quando lui si risvegliava dopo aver perso i sensi quando staccavano, finalmente, la corrente dell’elettroshock, lei non era abbastanza forte da tranquillizzarlo, da rassicurarlo, da dirgli che stava andando tutto bene, che sarebbe guarito.
Suo malgrado, Ben si scoprì più freddo nei suoi confronti: quale madre non riesce a stare al fianco del figlio quando lui ha più bisogno? Se prima s’infilava nel letto tra Louise e il padre in cerca di un po’ di calore, un po’ di contatto umano, ora preferiva raggomitolarsi nel suo letto con il cuscino stretto al petto e la testa piena di sussurri, voci, bisbigli, mormorii che lo accompagnavano fino a quando non si addormentava. Spesso con le guance bagnate.

Raggiunta l’adolescenza, i medici decisero di interrompere la terapia. Ben ne fu felice, o meglio, lo sarebbe stato se non fosse diventato apatico, chiuso in se stesso come in un guscio protettivo ma fragile. Aveva sviluppato una fobia per la corrente elettrica, cosa che non lo aiutava di certo a sentirsi di nuovo normale né a superare il trauma continuo che viveva ogni giorno.
Sua madre lo lasciò pochi mesi dopo la fine della terapia. Quello fu probabilmente l’urlo peggiore, quello più straziante e devastante che uscì dalle sue labbra. Quando finalmente cessò, Ben crollò privo di sensi. Suo padre lo trovò rannicchiato su se stesso sul pavimento di fredda pietra del castello. Un minuto dopo, giusto in tempo perché Ben riprendesse conoscenza, una domestica entrò di corsa nella stanza dicendo che Louise era stata trovata morta nella sua stanza. Si era suicidata, si era tagliata le vene perché non sopportava ciò che aveva permesso ai medici di fare al suo unico figlio, al suo piccolo Ben. Proprio Ben che in quel momento aveva più bisogno di lei, proprio Ben che non aveva più appigli, proprio Ben che era ad un passo dal precipitare nel baratro. Come Marlene. Come lo sconosciuto all’ospedale. Come la zia Julia. Come Louise.

Kristen era giovane, curiosa di natura, gentile e sensibile, tanto che il padre l’aveva soprannominata “fiorellino” riferendosi al suo essere fragile. Come sua madre, Isabelle, morta quando Kristen era piccola per colpa della malattia che non perdona, della malattia che lascia tanti figli orfani, tante donne e tanti uomini vedovi, ma soprattutto tanti cuori distrutti.
Kristen però era forte e nonostante la corporatura minuta e l’indole buona, a volte troppo, si era ripresa e aveva trascinato su con sé anche il padre, salvandolo da un oblio di alcool, fumo e cupa disperazione. Aveva preso la situazione in mano quando, una notte, suo padre era tornato a casa completamente ubriaco e le aveva toccato il viso e le aveva detto: «Isabelle… Credevo fossi morta.»
In quel momento, Kristen aveva deciso che non avrebbe lasciato che la sua vita andasse a rotoli, decise che avrebbe lottato per sé e per il padre, decise che si sarebbe rimessa in piedi. E lo fece.
Fu proprio quello a farla diventare donna prima del tempo: a soli diciassette anni Kristen cucinava, stirava, lavava, faceva la spesa, si occupava dei conti e delle bollette. Il padre le diceva sempre di lasciar fare a lui perché era lui il genitore, ma lei insisteva e lui cedeva sempre. Così come aveva fatto alla morte della moglie.
Kristen lo odiava un po’ per questo: l’aveva lasciata sola ad affrontare una cosa più grande di lei, l’aveva lasciata da sola a regolare  con il Diavolo i patti che lui stesso aveva stretto, l’aveva lasciata sola e adesso non poteva biasimarla se lei aveva perso la stima nei suoi confronti, la sua fiducia.

La curiosità era probabilmente il suo più grande pregio e il suo più grande difetto. La spingeva ad avventurarsi praticamente ovunque e intraprendere ogni sorta di impresa. Si diceva di farlo solo per passare il tempo, perché amava vedere qualcosa di nuovo il più spesso possibile, ma nel profondo della sua anima sapeva che lo faceva per fuggire dal peso delle responsabilità, del dolore, del rancore.
Fu proprio seguendo questa sua indole curiosa che accompagnò il padre al castello dove lavorava come giardiniere. Era stata lei a trovargli quell’impiego, era stata lei a portare il suo curriculum al datore di lavoro, era lei che lo svegliava tutte le mattine perché riuscisse ad arrivare in orario.
Quando Kristen si trovò davanti quell’imponente costruzione di pietra grigia, rimase incantata ad osservarla, immaginando principesse, principi, draghi, streghe e sortilegi, perché in fondo in lei c’era ancora una parte di lei che si rifiutava di crescere, una parte di lei che non voleva abbandonare un’infanzia incompleta, una parte di lei che voleva ancora vivere senza preoccupazioni che fossero più grandi di un taglietto fatto con la carta o della perdita di un elastico per capelli.
Varcò la soglia col padre. All’ingresso, ad accoglierli, c’era un uomo alto, pallido, con folti capelli scuri pettinati all’indietro e un’espressione seria e impassibile. Le sue labbra si storsero in quello che voleva essere un sorriso quando strinse la mano a suo padre e poi a lei.
«Buongiorno Karl, sempre puntuale, bene. E questa bella signorina chi è?» Chiese l’uomo studiandola con profondi occhi neri.
Kristen accennò un sorriso, anche se si sentì accapponare la pelle. «Io sono Kristen, la figlia di Karl.»
L’uomo fece un cenno col capo. «È un piacere conoscerti, tuo padre parla spesso di te.»
«Spero non le dispiaccia se l’ho portata, ma non volevo lasciarla in casa da sola…» Disse Karl con voce bassa, quasi provasse un timore reverenziale verso quell’uomo alto, pallido e nello stesso tempo molto, molto cupo.
«Ma figurati.» Il padrone di casa si rivolse alla ragazza, che non poté trattenersi dal rabbrividire. «Sentiti libera di girare per il castello. Va pure dove preferisci, ogni stanza è a tua disposizione. Ti chiedo solo di non provare ad entrare in quelle chiuse.»
Kristen annuì vivamente, come spaventata dalla possibile reazione dell’uomo di fronte ad un suo rifiuto. «Certo. La ringrazio.»
Il padrone di casa le fece un altro di quei suoi sorrisi storti prima di andarsene, le spalle rigide, la testa china, i passi che quasi non si sentivano sulla pietra fredda del pavimento. Kristen non sapeva perché, ma provava pena per quell’uomo, come se potesse percepire tutto il dolore che aveva provato. E che probabilmente provava ancora.

Voci. Quelle dannate voci. Ben non aveva un momento di silenzio. Mai. Neanche di notte. Le sentiva, nei sogni, negli incubi, nel vuoto nero del buio. A volte erano una compagnia gradita nelle lunghe ore di solitudine che passava nel castello. Altre erano come coltelli che gli scavavo nel cervello ferite dolorose al punto che temeva di impazzire. In realtà credeva già di esserlo, ma non fino in fondo.
Passava le sue giornate a guardare il paesaggio fuori dalla finestra, seduto sul davanzale interno, nella sua stanza. La sua vita era fatta di silenzio, almeno all’esterno, perché dentro di sé era pieno di voci, sussurri, mormorii, bisbigli. Continuamente. La sua mente non riusciva mai a stare zitta. O forse non era lei, forse era qualcosa che ne aveva preso possesso. Forse proprio quel qualcosa che lo teneva così legato alla morte. Quel qualcosa che lo faceva urlare quando la Signora Nera si prendeva un’anima da aggiungere alla sua collezione.
Ogni volta che provava a concentrarsi su una voce in particolare per capire cosa stava dicendo questa spariva, lasciando dietro di sé solo una sensazione di vuoto e un retrogusto amaro e metallico che Ben aveva imparato a conoscere fin troppo bene: era lo stesso che sentiva ogni volta che riusciva smettere di urlare, quando la sua gola bruciava e si sentiva svuotato, devastato.
Ben non era mai stato vanitoso, non gli era mai importato niente di come appariva, di come lo vedevano gli altri. Per questo e perché non riusciva a concentrarsi sugli abbinamenti -o forse non voleva farlo- si vestiva sempre nello stesso modo: jeans consumati e scoloriti e magliette semplici. Aggiungeva una felpa quando sentiva freddo, ma doveva arrivare a tremare per accorgersene.
Si strinse le ginocchia al petto, come a voler tenere insieme i pezzi di sé, della sua anima straziata e della sua mente disorientata e confusa. Non parlava mai, erano anni che aveva smesso di usare le corde vocali. Neanche i domestici sentivano la sua voce da tanto, troppo tempo. Comunicava con piccoli cenni anche con suo padre.
Si era chiuso in un mondo di silenzio apparente e voci striscianti. Era un isolamento di cui quasi non si era accorto. Così come non si accorgeva di quasi niente di quello che lo circondava.
Proprio per questo sussultò quando sentì qualcuno schiarirsi la gola. Era vicino. Troppo vicino. Si voltò di scatto e vide una ragazza che aveva più o meno la sua età, con lunghi capelli castani e profondi occhi marroni. Lo guardava con aria incuriosita e lui per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Chi era quella ragazza? Perché era lì? Era una visione? Ben non lo sapeva, a dirla tutta sapeva poco o nulla del mondo esterno, ma era sicuro che quella giovane donna fosse decisamente fuori posto lì, nella sua stanza.

Kristen aveva vagato a lungo nei corridoi di pietra fredda del castello, abbastanza a lungo da decidere che quel posto le piaceva, molto. Ci avrebbe vissuto volentieri, soprattutto dopo aver visto i meravigliosi giardini che lo circondavano. Non aveva incontrato nessuno, a parte i domestici, ma loro erano di poca compagnia, se ne rese conto in fretta.
Le sembrava strano che in un castello così grande vivesse solo un uomo, senza moglie, senza figli. Solo. Come lei.
Si strinse nella felpa e proseguì, rabbrividendo un po’ per il vento che entrava dalle finestre nel corridoio un po’ per il freddo che ispirava il padrone di casa: non era nei dintorni, ma lei aveva impressa nella mente l’immagine dei suoi occhi neri così bui da sembrare pozzi senza fondo.
Passò davanti ad una porta socchiusa e si fermò: in quel corridoio tutte le stanze erano chiuse e lei sapeva di non dover neanche provare ad aprirle. Eppure quell’unica camera aperta esercitava su di lei un grande fascino. Si avvicinò con titubanza ed alzò una mano sulla maniglia. Fece un respiro profondo prima di aprirla. Quello che si ritrovò davanti la lasciò senza parole, non tanto per la bellezza della stanza, che a dirla tutta era decisamente semplice, minimalista, ma perché non si aspettava di trovarci un ragazzo.
Era seduto sul davanzale interno della finestra, rannicchiato su se stesso come se avesse paura di qualcosa. Aveva i capelli castani molto scompigliati. Alcune ciocche gli andavano sugli occhi, ma lui non sembrava curarsene.
La ragazza si schiarì la gola per richiamare la sua attenzione. Lui si voltò di scatto verso di lei trattenendo il respiro. I suoi grandi occhi da cerbiatto con le iridi di un azzurro profondo erano fissi su Kristen e lei pensò che fosse lo sguardo che un animale in trappola rivolge al proprio cacciatore.
«Ehm… Ciao. Io sono Kristen, la figlia del giardiniere.» Disse timidamente.
Il ragazzo non fece niente, rimase lì a fissarla come se fosse stata chissà quale mostro. Kristen deglutì e provò a sorridere.
«Tu sei il figlio del padrone di casa… giusto?» Chi altro avrebbe potuto essere? Fino a poco prima credeva che l’uomo che l’aveva accolta all’ingresso fosse completamente solo ma quel ragazzo gli assomigliava, aveva gli stessi lineamenti sottili, la stessa pelle pallida, così chiara da sembrare bianca.
Lui annuì appena stringendosi di più le ginocchia al petto.
«Oh… Bene… C-come ti chiami?» Domandò Kristen.
Il ragazzo strinse le labbra prima di sillabare “Ben” senza emettere alcun suono. Kristen lo considerò un po’ strano, ma non commentò: non le sembrava gentile. «È un piacere conoscerti.» Aggiunse lei.
Lui inclinò appena la testa di lato e la studiò per qualche secondo. Kristen si sentì quasi messa a nudo di fronte a quella figura magra e spaurita, come se avesse potuto vedere i suoi demoni, i suoi pensieri, i suoi rancori per il padre. D’istinto si strinse le braccia al petto.
Il ragazzo schiuse appena le labbra come incuriosito e lei provò tenerezza vedendolo così ingenuo, così interessato, così stranito. Sorrise d’istinto mentre lui drizzò appena la testa, quasi sorpreso.
«Posso… Ehm, posso entrare?» Chiese Kristen stupendosi del suo stesso coraggio.
Le labbra del ragazzo si serrarono e fece per scuotere la testa, lo sguardo cupo, la fronte aggrottata. Poi sembrò ripensarci e annuì, un movimento appena accennato. Kristen sorrise appena e varcò la soglia. Lui s’irrigidì e deglutì con fare nervoso: quanto tempo era passato dall’ultima volta che qualcuno era entrato in quella stanza? Qualcuno che non fosse una domestica?
«Quanti anni hai Ben?» Volle sapere Kristen osservandolo.
Il ragazzo esitò prima di mimare un “diciassette” con le labbra. Kristen sorrise di più.
«Anche io, sai?» Replicò.
Lui assunse di nuovo quell’espressione incuriosita e schiuse appena la bocca: sembrava voler dire qualcosa, però si tratteneva, per un qualche motivo che la ragazza non si spiegava. Dovette ammettere con se stessa che le sarebbe piaciuto sentire la sua voce. Chissà se era roca, profonda, leggera, flebile…

Kristen tornò tutti i giorni al castello per settimane intere. E ogni giorno, puntuale come un orologio, saliva nella camera di Ben e gli parlava per ore raccontandogli di tutto: di sua madre, dei rancori per suo padre, della scuola, dei lavori che faceva in casa, degli amici… Era come se Ben fosse stato il suo personale psicologo capitatole davanti per caso proprio nel momento giusto, quando temeva di aver accumulato troppa tensione per riuscire ad andare avanti, a fingere con suo padre che stesse andando tutto bene, che lei fosse ancora forte e intoccabile.
Anche se Ben non diceva assolutamente niente, Kristen sapeva che la ascoltava, la capiva, e soprattutto non la giudicava né la allontanava. Le sorrideva quando la vedeva entrare, la stava a sentire con aria attenta, si stringeva le ginocchia al petto quando parlava di qualcosa di doloroso, la salutava con un altro timido sorriso quando se ne andava. E Kristen si avvicinava a lui ogni giorno di più, sia fisicamente sia sentimentalmente.
Ogni volta si sedeva sul pavimento un po’ meno lontana, sempre meno, sempre meno… Finché un giorno lui non le fece cenno di accomodarsi sul davanzale interno della finestra accanto a sé. Quando lei lo fece, s’irrigidì per un attimo, ma poi si rilassò e un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso.
Parlarono per ore e ore. O meglio, lei parlò. Ben rimase ad ascoltarla in perfetto silenzio, sollevando le sopracciglia di tanto in tanto e osservandola con quei suoi occhi così azzurri.

Kristen. Era bella, pensava Ben ogni volta che la vedeva entrare, ogni volta che gli sorrideva, ogni volta che parlava. Era bella con le mani screpolate e arrossate dai detersivi. Era bella con i vestiti spiegazzati. Era bella con i capelli disordinati. Era bella con le lentiggini sul naso. E Ben amava starla a guardare. Avrebbe potuto farlo per ore, anche perché quando c’era lei, le voci nella sua testa sembravano calmarsi, diventavano meno rumorose, meno invadenti.
Aveva deciso che era una compagnia piacevole e che poteva entrare nella sua stanza quando voleva, non l’avrebbe cacciata. Mai.
L’unica cosa che temeva era avere una crisi davanti a lei: era terrorizzato all’idea di vederla trasalire, di vederla correre via da lui lasciandolo di nuovo in balia delle sue dannate voci.

«Ho sentito dire dai domestici che passi molto tempo col figlio del mio datore di lavoro…» Le disse una mattina sua padre mentre Kristen preparava la colazione.
Lei bloccò di colpo e si voltò verso di lui con una strana sensazione di freddo nel petto. «È vero.»
Karl si passò una mano sul viso. «Io non voglio che tu lo faccia Kristen.»
«Perché no? Ben è un bravo ragazzo e sto bene con lui.» Rispose lei poggiando la tazza che aveva in mano sul tavolo. 
«Lo sai cosa dicono di lui, giù in città?» Le chiese il padre con tono stanco.
«No, non lo so e non mi interessa.» La sensazione di gelo si amplificò.
«Dicono che sia posseduto, che abbia contatti col Demonio in persona.» Rivelò Karl.
Kristen scosse la testa. «Ben è un ragazzo perfettamente normale. Non ha niente che non va.»
In realtà Ben aveva ben poco di normale: non parlava mai, non mangiava mai, era capace di passare ore e ore seduto sul davanzale a guardare il paesaggio.
Il padre la guardo con aria preoccupata e tesa. «Io ti voglio bene, Kristen, e voglio che tu sia felice. Ci sono tanti ragazzi nella tua scuola, perché non esci con loro? Perché perdi tempo con un povero pazzo come lui?»
Kristen strinse i pungi così forte da conficcarsi le unghie nei palmi. «Ben non è pazzo papà, è un bravo ragazzo e io gli voglio bene. Non smetterò di vederlo.»
Lui irrigidì le spalle. «Sono tuo padre e sono io a decidere cosa è giusto e cosa no per te. Ben non è assolutamente giusto.»
«Non m’importa di cosa pensi tu. Mi sono affezionata a Ben e voglio continuare a stare con lui, con o senza il tuo permesso.» Insistette Kristen con la voce resa tremante dalla rabbia.
Karl si alzò in piedi facendo rovesciare la sedia. «No! Smetterai di vederlo! Tu sei mia figlia, io dico cosa devi fare, non tu. E non lascerò che ti rovini con uno come lui. È pazzo Kristen. Sua madre si è suicidata perché non sopportava di vederlo, non sopportava il suo unico figlio. Suo padre l’ha chiuso in quel castello perché non facesse del male a nessuno. È pericoloso e tu non lo vedrai più.»
«Chi ti da il diritto di dirmi cosa fare? Sarai anche mio padre, ma da quando è morta la mamma non sei più lo stesso. Se non ci fossi io saresti ad ubriacarti in chissà quale bar. Sono io che ti ho trovato l’impiego al castello, sono io che ti sveglio tutte le mattine, sono io che pulisco e cucino ogni giorno. E sono grande abbastanza per decidere con chi uscire. Quindi smettila di insistere perché non ti ascolterò, continuerò a vedere Ben anche se non lo vorrai.» Sbottò Kristen sentendosi gli occhi lucidi.
Karl impallidì di colpo, come se qualcuno gli avesse pugnalato il petto, e rimase a guardare la sua unica figlia che se ne andava grandi passi dalla cucina sbattendosi la porta alle spalle.

Una mattina Kristen entrò nella sua stanza con una borsa di stoffa a tracolla. Ben inclinò la testa di lato incuriosito e anche un pochino teso.
Kristen posò la borsa a terra e rimase a distanza da lui, gesto che lo innervosì ancor di più: aveva paura di lui? Lo temeva? Ben non era sicuro di riuscire a sopportare una cosa del genere, lei era l’unica cosa bella che aveva.
La ragazza aveva lo sguardo fisso sul pavimento, le braccia strette al petto, le spalle tese. «Io so cosa sei Ben.» La sua voce era poco più di un sussurro.
Ben si strinse ancor di più le ginocchia al petto e, per l’ennesima volta, desiderò scomparire. Kristen sapeva cos’era. Lei sapeva quale strana e orribile creatura si nascondeva dentro quel copro magro e pallido.
«Sei un Farshee.» La pronuncia di Kristen si fece un po’ incerta sull’ultima parola ma Ben quasi non lo notò: quella ragazza così gentile, così cordiale, così intraprendente poteva avergli appena dato la risposta ai dubbi e alle domande che lo perseguitavano da una vita intera.
Farshee. Non suonava come una malattia. E probabilmente non lo era. Quella era una parola che Kristen aveva usato per definire Ben stesso, non qualcosa che aveva. Questo voleva dire che lui non era umano, non era come suo padre, come sua madre, come le persone che sentiva morire. No. Lui era qualcos’altro. Qualcosa di diverso, di strano, di sbagliato forse.
Farshee. Sembrava piuttosto innocuo però. Forse Ben non era un mostro come aveva sempre creduto di essere, forse era solo un po’ diverso, solo un po’ più… complesso.
«Io non voglio farti del male Ben, okay? Io… voglio aiutarti.» Kristen si chinò e prese dei libri dalla borsa. «Sono stata in biblioteca e ho cercato delle informazioni sul soprannaturale. Mi ha insospettita il fatto che tu non mangi mai, eppure non sembri stare troppo male, e il fatto che non parli come se non avessi voce. E… mio padre ha detto che alcuni ti credono posseduto dal Diavolo e che questo è il motivo per cui sei stato rinchiuso qui. Ma io so che non è vero. Ho trovato delle informazioni interessanti riguardo alle Banshee e continuando a leggere ho scoperto che esiste anche la versione maschile. Il Farshee appunto. Conosci le Banshee, Ben? Sono donne che urlano quando muore qualcuno. Sentono che sta per succedere e appena arriva la morte… gridano.» Mentre parlava, si avvicinava al ragazzo con passi lenti, misurati come se avesse avuto a che fare con un animale che poteva spaventarsi e quindi fuggire da un momento all’altro.
Si fermò di fronte a Ben e aspettò che fosse lui a dirle cosa fare: non voleva forzarlo, non voleva obbligarlo a fare niente. Non voleva perderlo.
Lui allungò una mano e sfiorò la pietra su cui era seduto, gesto che aveva ripetuto da qualche mattina a quella parte per invitarla a sedersi e lasciar uscire le parole e la rabbia repressa.
Kristen sorrise appena e prese posto accanto a lui, i libri sulle gambe, lo sguardo basso, le labbra strette. «Tu… senti delle voci, vero? Voci continue, ininterrotte… Solo nella tua testa, giusto?»
Ben spalancò gli occhi e schiuse le labbra: nessun medico gli aveva mai chiesto una cosa del genere, tutti credevano che lui sentisse le voci da fuori, che la sua testa fosse solo un gran caos che non riusciva ad analizzare le informazioni come faceva una mente normale. Kristen invece lo aveva capito, lo aveva ascoltato, aveva ascoltato quel suo silenzio così apparente e falso. Aveva fatto quello che molti consideravano inutile, stupido. E poi aveva passato del tempo in biblioteca, da sola, per cercare quei libri, per leggerli, per trovare le informazioni giuste. Giusto. Essere giusto.
Riuscì ad annuire, una sola volta, senza staccare gli occhi dalla ragazza che gli stava accanto e che stava concentrando buona parte delle sue attenzioni solo su di lui.
«E quando qualcuno è sul punto di morire tu… Ecco, tu lo senti e urli, dico bene?» Continuò con voce incerta guardandolo di sottecchi.
Ben distolse lo sguardo e fece cenno di sì con la testa. Si mordicchiò il labbro inferiore, abitudine che aveva preso proprio da Kristen: lei lo faceva quando parlava di qualcosa di sbagliato, qualcosa che doveva essere stato fatto in un altro modo. Perché lui doveva essere stato fatto in un altro modo.
«Ma non è una cosa che controlli, giusto Ben? Succede e basta, tu ti ritrovi a farlo senza averlo precedentemente scelto, mmh?» Aggiunse Kristen.
Lui sospirò appoggiando la schiena al muro e annuendo. I jeans che indossava avevano un buco all’altezza del ginocchio da cui si poteva vedere una piccola porzione di pelle pallida, candida come la neve che spesso Ben vedeva dalla finestra della sua stanza, nei lunghi pomeriggi invernali passati in solitudine perenne. Prima di lei.
«Ho ragione allora, sei un Farshee. Ma non preoccuparti, ho preso tanti libri, vedrò ti trovare qualcosa che potrà aiutarti. Non c’è una cura, però… qualcosa faremo, okay?» Chiese Kristen trovando finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Okay”, pensò Ben. E avrebbe voluto dirlo, ma la sua bocca non voleva collaborare. Schiuse le labbra in attesa che un suono ne uscisse, però rimase deluso. Così come una piccola parte di Kristen rimase delusa, glielo lesse negli occhi, da quella mancanza di parole dette a voce alta, non solo tramite gesti. E Ben sapeva perché: lei si era impegnata tanto e lui non riusciva neanche a pronunciare poche lettere.
Abbassò lo sguardo, mortificato. Poi si ricordò di annuire, un gesto appena accennato, come i primi che le rivolgeva.
Kristen cominciò a leggere i libri ad alta voce fermandosi ogni tanto perché lui potesse “dirle” se quello che c’era scritto corrispondeva alla sua realtà. Trovarono persino un brano sull’elettroshock. Nel sentirlo nominare Ben spalancò gli occhi e si strinse contro il muro, come per fuggire da una minaccia inesistente. Kristen sollevò una mano e lo tranquillizzò con parole dolci.
Ma dopo non riuscì a trattenersi dal chiederlo: «Ti hanno fatto l’elettroshock Ben?»
Al cenno d’assenso si lui si coprì la bocca con le mani, come aveva fatto sua madre anni prima. «Mio dio Ben! Ma è orribile! E i tuoi genitori l’hanno permesso?» Lui affondò i denti nel labbro inferiore e puntò lo sguardo verso il pavimento.
Kristen fece un respiro profondo. Fu come se tutta l’aria gli fosse stata risucchiata dai polmoni. «Scusa, non avrei dovuto chiedertelo… Pensavano di fare bene… D’altra parte quando un figlio sta male, si devono prendere decisioni difficili. A volte.»
A Ben sembrò quasi che parlasse per esperienza. Ma lei era giovane, non aveva figli. Eppure qualche volta sembrava una donna vissuta, da come parlava, da come muoveva le mani, dai termini che usava. Era cresciuta troppo in fretta. Come lui.
Kristen riprese a leggere. Ogni tanto le tremava la voce, ma s’imponeva di andare avanti, di continuare. Per lui. Faceva tutto quello, sopportava tutto quello solo per lui, per quel ragazzino magro e pallido che non parlava mai e sembrava sempre in fuga da qualcosa. O qualcuno. Forse da se stesso, o forse da quello che c’era nella sua mente.

Dopo un po’, suo malgrado, Ben si perse ad osservare i riflessi dorati che la luce del sole creava sui capelli di Kristen, la curva del suo collo, le ombre che le ciglia le disegnavano sugli zigomi, i movimenti fluidi e veloci delle labbra...
«Ben? Ehi Ben? Ci sei?» Solo dopo un po’ il ragazzo si rese conto che Kristen lo stava chiamando.
Sbatté le palpebre un paio di volte e si concentrò sulla ragazza. La guardò in attesa che parlasse cercando di incitarla a dire qualcosa con lo sguardo.
«Ho trovato qualcosa che potrebbe aiutarti.» Picchiettò col dito sulla pagina di un libro. «Qui dice che puoi imparare a controllare i tuoi poteri. Non completamente, però puoi riuscire ad avere una vita più… normale. Basta che tieni le voci nella tua testa sotto controllo. Fino ad ora le hai lasciate libere di condizionarti, di rovinarti, di farti sentire escluso e strano. Però adesso puoi mettere fine a tutto questo. E, se lo vorrai, io ti aiuterò. O almeno posso provarci.»
Ben spalancò gli occhi e schiuse le labbra. Si sentiva… bene? Rassicurato? Speranzoso? Dentro il suo petto aveva un miscuglio di tante emozioni diverse. Non era la prima volta che provava qualcosa del genere, ma per la prima volta in tutta la sua vita erano emozioni positive, piacevoli.
Sorrise sentendosi bene, quasi in pace con se stesso e con le voci nella sua testa. Annuì vivamente e allungò una mano come a voler toccare Kristen. Contatto fisico… Per lui era quasi sconosciuto. Un po’ come il suono della propria voce.
Kristen gli prese la mano e la strinse con un sorriso sinceramente felice ad illuminarle il viso. Ben si irrigidì a quel contatto strano, inaspettato: la pelle di lei era calda, un po’ ruvida, ma rassicurante. Quella di lui era fredda, liscia, morbida come quella di un bambino. Gli venne spontaneo ritirare la mano da quella stretta, ma si trattenne: in fondo non lo voleva, in fondo gli piaceva, in fondo Kristen gli piaceva. Tanto.
«Ce la farai Ben, vedrai.» Mormorò la ragazza senza smettere di sorridere.
“Ce la faremo”, pensò Ben ricambiando il sorriso.
I loro occhi si incontrarono. Azzurro e marrone. Cielo e terra. Prima di allora si erano scambiati brevi occhiate, in quel momento invece i loro sguardi sembravano incatenati da quello che pareva un legame più grande di loro, più forte di loro, più duraturo. Più permanente.
Ben sussultò quando si ritrovò con le labbra di Kristen premute sulle sue. Non aveva mai baciato nessuno prima di allora e di sicuro non si aspettava che sarebbe successo quel giorno. Né mai. Non visto ciò che era.
Non aveva la minima idea di cosa fare, così lasciò che fosse lei a guidarlo: la bocca di Kristen accarezzava delicatamente la sua, come se avesse a che fare con qualcosa di delicato, di fragile, qualcosa che poteva andare in mille pezzi in ogni momento.
Dopo un po’ Ben chiuse istintivamente gli occhi per godersi quello strano quanto meraviglioso momento.
Kristen si scostò da lui, si allontanò un po’ e si morse un labbro. Ben vide le sue guance tingersi di rosso e si rese conto che anche le sue si erano colorate nello stesso modo. Erano anni che il sangue non dava colore al suo viso.
«Kristen…» La sua voce suonò flebile e roca dopo tutto quel tempo passato in silenzio.
Si sorprese di se stesso: dove aveva trovato il coraggio di parlare? Aveva passato notti intere a fissare il soffitto della sua stanza mimando con le labbra il nome della ragazza, immaginando il suono che avrebbe avuto una volta uscito dalla sua bocca, cercando di ricordare il meglio possibile i movimenti che aveva fatto lei quando l’aveva detto per presentarsi. Ma Ben non credeva di essere in grado, sia fisicamente sia psicologicamente, di dirlo ad alta voce, di parlare, di comunicare senza usare i gesti, per una volta.
Kristen lo guardò con gli occhi spalancati per qualche secondo prima di sorridere. Si vedeva che era stupita, sorpresa, incredula. «Ben… Tu… tu hai parlato… Oh mio Dio…»
Lui sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Eppure, sotto quell’apparente disagio, c’era una strana sensazione che Ben era abbastanza sicuro di non aver mai provato. Gioia. Allungò una mano e le sfiorò una guancia, come aveva visto fare a suo padre con sua madre. Kristen arrossì di nuovo e mise una mano sulla sua.
«Andrà tutto bene… Okay Ben? Tutto bene…» Sussurrò la ragazza.
«Okay.» Rispose lui.
Kristen si mise a ridere, cosa che confuse un po’ Ben. Quando lei gli gettò le braccia al collo, si irrigidì un po’, ma trovò quasi subito quel calore e quella vicinanza piacevoli così ricambiò la stretta anche se in modo poco convinto: temeva di sbagliare, di fare un errore, di fare male. Di farle male. Però nello stesso tempo c’era una vocina nella sua testa, flebile, leggera, che quasi non si sentiva in mezzo alle altre, che gli diceva di stringerla, di tenerla con sé, di non lasciarla mai andare. E Ben pensò che poteva farlo. Che l’avrebbe fatto.

Passarono ore a parlare di tutto. Anche Ben prese parte a quella conversazione solitamente ad una voce e, anche se con poche parole, commentava, raccontava, rispondeva, domandava. Si sentiva parte di qualcosa, si sentiva accettato, si sentiva adeguato. Si sentiva giusto.
Descrisse a Kristen tutta la sua vita, non era un granché lo sapeva, ma era liberatorio parlarne con qualcuno, mettersi a nudo, raccontarsi, lasciare che tutto quello che aveva represso in quegli anni uscisse finalmente fuori. E Kristen lo ascoltava come aveva fatto lui per settimane, lo incitava con piccoli sorrisi, gli stringeva la mano quando parlava di qualcosa di difficile, lo sosteneva semplicemente standogli accanto. E lui le era infinitamente grato per quello. E per i libri. E per la sua pazienza. E per il tempo che aveva passato con lui come se fosse stato un bambino solo e senza amici. In realtà Ben era proprio quello: un bimbo cresciuto troppo in fretta e che si era ritrovato da solo nel mondo degli adulti senza esservi assolutamente preparato.
Quando finì di parlare, Kristen gli prese una mano tra le sue e la strinse, come a volerla scaldare, come a voler far sparire quel gelo che lo attanagliava da una vita. Come a volerlo far sentire veramente vivo.
«Non hai avuto una vita facile… Mi dispiace tanto Ben, davvero: sei un ragazzo meraviglioso, meriteresti molto più di questo.» Mormorò scuotendo appena la testa.
«Anche… anche tu.» Sussurrò lui.
Lei sorrise debolmente. «A me va bene così. Sono felice di quello che ho.»
«Non di tuo padre…» La voce di Ben fu poco più di un bisbiglio.
Kristen si irrigidì e strinse le labbra. «Lui… lui è pur sempre mio padre Ben, non posso fare altrimenti. In fondo gli voglio bene.»
Lui annuì appena, sentendosi mortificato e dispiaciuto. «Okay.»
La ragazza ritrovò il sorriso. «Non preoccuparti per me. Sto bene. E tra poco starai meglio anche tu.»
Ben la guardò e ricambiò il sorriso, anche se in modo poco convinto.
«Senti… Che ne dici se facciamo due passi? Ho visto i giardini dalla finestra e mi piacerebbe andarci. Magari puoi guidarmi tu…» Propose Kristen.
Il ragazzo annuì. «Sì, v-volentieri.» La sua voce era ancora incerta, ancora flebile ma ogni volta che parlava acquisiva un po’ di sicurezza in più.
Si alzarono dal davanzale, Ben con fare dubbioso, Kristen decisamente più a suo agio. Rimise i libri nella borsa e fece per mettersela a tracolla, ma il ragazzo la fermò mettendole una mano sul braccio.
«Lasciala pure qui... C-così sarai più… co-comoda.» Balbettò.
Kristen fece cenno di sì con la testa. «D’accordo. Grazie.»
Lui fece un piccolo sorriso timido che lei ricambiò. La ragazza allungò una mano verso di lui che s’irrigidì per un attimo prima di prenderla e stringerla.
Avevano appena raggiunto il centro della stanza quando Ben si sentì attraversare da un’onda di gelido dolore né fisico né mentale. Pensò subito ad una crisi: qualcuno stava per morire. E lui stava per urlare.
Percepì l’aria che gli veniva risucchiata via dai polmoni lasciandolo completamente senza fiato. La sua schiena s’inarcò come se l’avessero colpito con violenza da dietro. Spalancò gli occhi cercando disperatamente di riprendere aria. Le voci nella sua testa divennero sempre più forti e insistenti, coprivano i suoi pensieri, le sue stesse sensazioni.
«Ben!» La voce di Kristen era terribilmente allarmata. Disperata.
Lui provò a parlare, a voltarsi verso di lei, a farle anche un minuscolo cenno, però il suo corpo non gli rispondeva più. Si ritrovò a terra, sdraiato in modo scomposto sulla pietra fredda. Fissava l’alto soffitto della stanza senza vederlo. Aveva la gola chiusa, non riusciva a respirare, si sentiva i polmoni in fiamme, la mente offuscata ed incredibilmente rumorosa. Ed era terrorizzato. Non aveva mai provato nulla del genere, le crisi che aveva avuto fino a quel momento erano meno intense, meno forti, meno devastanti. Si sentiva come attraversato di nuovo dalla corrente dell’elettroshock. No… Non di nuovo, no…
Non avrebbe retto ancora a lungo, lo sapeva. Voleva fuggire, lasciarsi dietro quella sofferenza e liberarsi una volta per tutte dei suoi problemi, della sua solitudine, di quella condanna a cui la sua mente lo costringeva ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Ma c’era qualcosa che lo tratteneva, qualcosa… Qualcuno. Ed era proprio quel qualcuno che gli stringeva la mano, che cercava di farlo rinvenire e nello stesso tempo provava a capire cosa stesse succedendo come fermare quella forza che lo stava consumando dall’interno.
Poi all’improvviso finì tutto. Esattamente come era iniziato, inaspettatamente finì. Lasciandosi dietro solo una sensazione di vuoto, di sollievo. Di silenzio.
La mente di Ben non era mai stata così silenziosa, così calma, così quieta. Non c’era più neanche una voce, nemmeno il più flebile sussurro, nemmeno il più leggero mormorio, nemmeno il più fragile bisbiglio. Era tutto sparito. Completamente. E lui si sentì completamente in pace, con se stesso e con l’intero universo. Ben si sentiva calmo, rilassato, sereno. Si sentiva… silenzio.
E poi non sentì più niente.

E Kristen sentì l’aria che le veniva tirata fuori a forza dai polmoni, sentì il suo corpo irrigidirsi, sentì milioni voci, mormorii, bisbigli, sussurri nella sua mente. E urlò. Urlò e i vetri esplosero in mille schegge affilate, gridò e tutto il mondo sembrò scomparire. E quando riuscì finalmente a smettere, a riprendere fiato, in bocca aveva un sapore, un retrogusto amaro e metallico che, si rese conto, sapeva di morte.










SPAZIO AUTRICE: Questa storia si discosta un po' dal mio stile, sia perché di solito scrivo usando la prima persona, sia perché è la prima cosa drammatica che scrivo quindi forse non avrò reso bene il sentimento.
È il primo contest a cui partecipo, mi ha attirata soprattutto per il tema, "spiriti maligni", e appena ho letto la traccia ho avuto questa... illuminazione, diciamo.
Mi è piaciuto moltissimo scrivere questa storia, sperimentare qualcosa di nuovo e diverso. Alla fine è risultata più lunga di quanto doveva essere inizialmente, ma solo così sono riuscita ad inserire tutto quello che volevo e a farla come avevo pensato. Ne sono soddisfatta e mi ci sono affezionata più di quanto credessi.
Spero che questo racconto vi sia piaciuto e che vi abbia fatto emozionare almeno un po'.
Gruppo che ha indetto il contest: La crème de la crème di EFP.
  
Leggi le 20 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: TimeFlies