PROLOGO
Sasha Lokov
aveva aspettato quel momento per tutta la vita.
Era
andato contro tutto e tutti, e rinunciato ad ogni cosa, per poter essere lì.
La sua
casa, i suoi genitori; persino la sua ragazza, troppo timorosa e spaventata per
volerlo seguire. Molto presto avrebbe lasciato ogni cosa.
Anzi, in
realtà aveva già abbandonato tutto, nell’istante in cui era salito sulla
navetta che dalla base Alekova nel Kazakistan lo
aveva portato insieme ad altri fin sulla stazione spaziale, da dove la nave
coloniale avrebbe preso il volo alla volta di Celestis, la sua nuova patria.
Il suo
essere uno stregone aveva reso più facile la selezione, anche se per riuscire
ad aumentare le sue possibilità di venire scelto si era visto costretto ad
entrare nella MAB; era stato quello ad allontanarlo in maniera definitiva dai
genitori, che di contro lo avrebbero sempre voluto vedere nell’esercito
nazionale russo, come buona parte dei suoi antenati.
E in
effetti, se non fosse stato per la voglia smisurata di far parte di quella
spedizione, probabilmente sarebbe stata quella la sua strada, ma i posti
disponibili per i militari erano molto pochi, e per buona parte prenotati. Di
contro la cronica penuria di maghi nei Paesi di influenza russa e i molti posti
riservati ai membri dell’Agenzia, tra l’essere uno stregone ed il fare parte
della MAB l’ammissione era risultata molto più facile, praticamente una
formalità.
Ora, era
quasi tutto pronto.
La Chelokev non era l’Aurora, ma imbarcava quasi novecentomila
persone, racchiuse in piccoli hangar da dodici posti ognuno raggruppati l’uno
all’altro a formare una specie di gigantesco Cubo di Rubik
nella pancia della nave; al momento dell’arrivo, e del successivo distacco
dalla nave madre, ognuno di quegli scomparti si sarebbe tramutato in una unità
abitativa autonoma, con un proprio sistema vitale e del tutto autosufficiente
sia dal punto di vista energetico che da quello del sostentamento vitale dei
suoi occupanti.
Sasha
era stato assegnato al’Unità Y-2801, una delle più esterne dell’immenso blocco,
subito sopra il ventre della nave, e dei suoi dodici compagni era l’unico
dotato di poteri magici, tanto che, malgrado la giovane età, era stato nominato
caposquadra. Nelle sue mani, fino al ripristino di una nuova istituzione
democratica una volta instaurata una colonia fiorente, avrebbe tenuto il
destino di quel ristretto gruppo di persone.
I Torkov, una famiglia di quattro persone originaria di
Pietroburgo, erano l’unità più numerosa; poi c’erano i coniugi Batchenko, di Baku, Selim e Ludvika, lui azero musulmano lei russa ortodossa, neosposi
alla ricerca di una molto speciale luna di miele e di un altrettanto speciale
ed unico futuro su di un nuovo pianeta. Gli altri erano tutti piuttosto
anonimi, eccezion fatta per il polacco Komski, un
ingegnere informatico, e l’azero Savriv, un oligarca
la cui famiglia aveva fatto i soldi con le centrali estrattive e che si era
conquistato quel posto a forza di generosi finanziamenti al progetto.
Ormai la
partenza era prossima.
Le operazioni
di imbarco erano in corso già da diverse ore, e da poco era arrivata la notizia
che l’Aurora, la sola delle tre navi coloniali a partire direttamente dalla
superficie, era quasi pronta per il lancio, cui avrebbe fatto seguito anche
quello delle sue due navi gemelle.
Sasha
chiamò attorno a sé gli altri occupanti del blocco, scrutandoli uno ad uno con
lo sguardo.
Indietro
non si poteva più tornare, e lo sapevano molto bene.
Avevano
scelto di fare il salto nel buio, e indietro non si poteva più tornare.
Se non
altro, non si sarebbero accorti di nulla; le loro capsule criogeniche li
avrebbero mantenuti in ibernazione per tutti gli oltre cento anni di viaggio
necessari a raggiungere Celestis, dando loro la sensazione, al netto delle
simulazioni e dei molti test già sostenuti, di chiudere gli occhi giusto per
qualche secondo, il tempo di metabolizzare ciò che stava succedendo un attimo
prima di addormentarsi e risvegliarsi.
«Lo so
che siete preoccupati» disse sforzandosi di entrare il più possibile nel suo
ruolo di leader. «Ma abbiamo preso tutti una decisione, e presto ne
raccoglieremo i frutti.
Ci
aspetta un nuovo molto, e per quanto vi sia stato detto, ci sia stato detto già
molte volte, a scanso di equivoci voglio ricordarvelo ancora. Non sarà una passeggiata
quella che ci aspetta. La civiltà non sarà lì ad attenderci, ma ce la dovremo
costruire un pezzo alla volta.
È per
questo che stiamo andando laggiù. Per dare vita ad un nuovo mondo. Con le
nostre mani» quindi rivolse uno sguardo ai due figli maschi dei Torkov, due gemelli di undici anni dai cui occhi traspariva
una grande emozione ma anche molta, moltissima paura. «E se il cielo lo vorrà,
e ne saremo capaci, daremo vita ad un mondo così grande, prospero e pacifico da
non far rimpiangere quello che abbiamo scelto di lasciare.»
A quelle
parole tutti, benché nervosi, parvero tranquillizzarsi, e scambiatisi tra di
loro un ultimo saluto entrarono ognuno nella propria capsula, sforzandosi di
rimanere immobili mentre i portelli si chiudevano e le apparecchiature per il
sostentamento vitale, non senza un certo fastidio, venivano collegate al corpo
dal computer.
L’altoparlante
montato all’interno di ogni scomparto comunicò che il distacco dalla stazione
era imminente, scandendo il countdown per la somministrazione delle sostanze
ibernanti all’interno del corpo, e Sasha ebbe appena il tempo di augurare un
felice ritrovarsi a Celestis un attimo prima che la stanchezza avesse la meglio
su di lui, costringendolo a chiudere gli occhi.
Dentro
di sé, il giovane aveva sempre sognato il momento in cui li avrebbe riaperti, a
viaggio concluso, immaginando con il suo ultimo pensiero di sentire quella
stessa voce che annunciava l’agognato arrivo nella loro nuova casa.
Invece,
il suono che ridestò violentemente Sasha dopo quello che, a dare detta alle
sensazioni, era stato nulla più che un breve attimo di smarrimento, fu il suono
incessante di una sirena, unito ad una terribile sensazione di oppressione che
lo schiacciava senza speranza contro il fondo della capsula.
Dieci Anni Dopo
Travolto dalla più
spaventosa tormenta di neve, vento e ghiaccio che si fosse mai vista,
l’elicottero da trasporto sorvolava non senza difficoltà la sterminata distesa
artica che come una linea invalicabile di alte montagne, interminabili
ghiacciai e steppe congelate tagliava letteralmente in due il continente di Erthea, come era stato ribattezzato dai coloni a memoria di
quella patria natia che da oltre un secolo avevano abbandonato.
Celestis
era un mondo indubbiamente bellissimo, ma dove le forze della natura potevano
arrivare alle loro manifestazioni più cruente ed estreme, dalle blitzstorm dell’oceano occidentale alle tempeste ghiacciate
della catena del Volkof, alcune delle quali infinitamente
più spaventose di quella che il velivolo stava ora faticosamente attraversando,
con temperature che potevano raggiungere gli ottanta gradi sotto lo zero in
pieno giorno e uragani nevosi talmente intensi da oscurare completamente la
vista.
In
cabina di comando, il pilota ed il suo secondo per orientarsi potevano fare
affidamento unicamente sulla strumentazione di bordo, poiché neppure i potenti
fari dell’elicottero riuscivano ad illuminare più in là della fusoliera, tale
era la potenza e l’intensità della tormenta che si stava scatenando tutto
attorno a loro.
«Hind03
a Comando Missione» disse alla radio il copilota. «Mi sentite, Volgorad?»
«Vi
sentiamo, Hind03. La trasmissione è molto disturbata. Qual è lo status della
missione?»
«Abbiamo
lasciato da poco l’insediamento di Lubiana, e in questo momento stiamo
sorvolando le Volkof.
O
almeno, è quello che ci dicono gli strumenti. La tempesta in mezzo a cui stiamo
volando ci impedisce persino di scorgere la linea delle montagne, passo.»
«Ricevuto,
Hind03. Continuate con la missione. Il controllo meteorologico prevede che la
tempesta è concentrata sulla parte centrale della cordigliera. Attraversatela e
vedrete apparire di nuovo le verdi pianure di Erthea.»
«Allora
vi porteremo un mazzo di fiori» sorrise l’operatore. «Hind03, passo e chiudo.»
Nel
mentre, nell’area sedili, il dottor Kodrov sedeva in
disparte, insensibile a differenza dei suoi quattro colleghi ai continui
scossoni e movimenti improvvisi che facevano oscillare e tremare continuamente
il mezzo, preoccupato solo di tenersi ben stretta la scatola metallica che
aveva con sé; la stringeva come fosse stata un tesoro prezioso, lasciando
scivolare di tanto in tanto la punta dell’indice lungo la scanalatura lunga e
stretta del lettore di schede che fungeva da serratura, guardando continuamente
ora l’orologio ora l’inferno bianco che si stagliava oltre l’oblò.
Tutti là
dentro conoscevano bene l’importanza della missione, e del contenuto di quella
scatola.
Il
destino di milioni di persone, per non dire il futuro stesso dell’umanità che a
Celestis aveva trovato una nuova casa, era nelle loro mani.
L’incarico
da portare a termine era talmente vitale che, con il benestare dell’Agenzia e
delle autorità di Volgorad, si era deciso di
procedere con la missione nonostante l’allerta meteorologica per possibili
tempeste nella zona dei Volkof, che puntualmente si
erano verificate, ma questo, continuava a ripetersi il dottore, non avrebbe
impedito a quella scatola di raggiungere Kyrador.
Il
pilota ed il copilota facevano del loro meglio per tentare di mantenere stabile
l’elicottero, ma neppure la più violenta delle tempeste terrestri era
paragonabile a ciò che stavano attraversando in quel momento, ma per fortuna le
nuove mappe satellitari si stavano rivelando incredibilmente accurate,
abbastanza da permettere al pilota automatico che lavorava in parallelo con gli
operatori umani di fare agilmente lo slalom tra le vette fino a ritrovarsi, ad
un certo punto, a volare in una zona apparentemente priva di rilievi, come
immersi all’interno di un sudario senza fine.
«Meno male,
ero stufo di fare lo slalom» sorrise il pilota
Il suo
secondo rispose con la medesima espressione, ma dopo poco un trillare della
strumentazione catturò i suoi pensieri.
«Che
succede?»
«Sto
rilevando qualcosa.»
«Di che
si tratta?»
«Si
direbbe una fonte di energia. Qualunque cosa sia, è dritta davanti a noi. Aspetti,
ora controllo.»
L’analisi,
però, non risultò chiarificatrice, poiché la risposta risultò alquanto vaga.
«Il
computer la classifica come campo magico.»
«Forse è
una emanazione naturale. Non sarebbe la prima volta.»
«Però
qui la classifica come artificiale.»
«Non
capisco, non abbiamo antenne o ripetitori in quest’area, e tanto meno qualche
centrale estrattiva.»
Poi, la
situazione cambiò drammaticamente.
All’improvviso
una specie di onda d’urto investì l’elicottero, sollevandolo violentemente di
alcuni metri, e subito dopo i due piloti videro tutta la strumentazione andare
in tilt, a cominciare dal pilota automatico.
«Ma che
diavolo succede?» strillò il capitano afferrando la cloche
«Non lo
so, il sistema elettronico è andato in tilt!» ribatté terrorizzato il suo vice
cercando inutilmente di riavviarlo.
Il pilota
tentò faticosamente di riacquistare il controllo del velivolo, ma le correnti e
il vento erano talmente forti che l’elicottero oscillava in tutte le direzioni
sballottato qua e là dalla tormenta.
«Maledizione,
non riesco a tenerlo!»
Il copilota
allora si attaccò alla radio, sperando che fosse ancora operativa.
«Mayday! Mayday! Hind03 a base! Siamo in avaria! Tutta la strumentazione
fuori uso! Condizioni meteo proibitive! Non riusciamo a gestire il velivolo!»
Ma il
peggio doveva ancora venire.
Come un
cancro che divora un corpo al sopraggiungere di una seconda, violenta onda d’urto
il danno, dai sistemi elettronici, si diffuse rapidamente anche a parte di
quelli analogici, e quelle poche funzionalità ancora operative, a cominciare
dal pilotaggio manuale, iniziarono a loro volta ad andare in avaria.
«Niente
da fare, andiamo giù!»
«A tutto
l’equipaggio, prepararsi per atterraggio di emergenza!» esclamò via altoparlante
il copilota prima di spingere tutte le levette di una consolle davanti a lui.
«Sistemi di sopravvivenza e anti-collisione attivati!»
Quando anche
le pale ed il rotore si furono fermati l’ultima speranza per evitare la
tragedia, oltre al lancio della radio-boa aerea di segnalazione, fu per il capitano
lo spezzarsi le braccia facendo forza sulla cloche per cercare si portare l’elicottero
quanto il più possibile a livello orizzontale.
Se non
altro, intorno non si vedevano montagne, e per interminabili istanti il
velivolo seguito a precipitare verso il basso a velocità sempre maggiore, fino
a che il faro di posizione, miracolosamente ancora attivo, non giunse da un
momento all’altro ad illuminare per un istante la superficie.
Sembrava
un ghiacciaio. Il pilota ed il copilota ebbero appena il tempo di vederlo, poi
tutto cessò in un assordante rumore di metallo accartocciato.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi con una nuova storia.
Non la chiamo ancora “breve” perché in
realtà non ho la minima idea di quanto lunga potrebbe diventare, ma in ogni
caso non credo arriverà al livello di “Megonia”.
Questo nuovo racconto, ambientato ad Eyban
nel momento immediatamente successivo all’arrivo dei primi coloni, serve a
raccontare un altro avvenimento di grande importanza nella storia di Celestis,
ma la cui reale portata in realtà diventerà evidente solo in un secondo tempo
rispetto agli eventi che si stanno attualmente dipanando nella storia
principale.
A presto con il primo capitolo!^_^
Carlos Olivera