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Autore: vannagio    24/10/2014    4 recensioni
Bill capì che doveva scegliere in fretta per cosa preferiva morire. Sarebbe andato fino in fondo per vincere la sua grande partita o avrebbe mandato tutto all’aria per la sottana di una donna dalla testa di vetro soffiato che fischiettava?
[Dedicato a Dragana, per augurarle buon compleanno e bentornata a casa!]
[Prima classificata al contest "La vita è una rete di piccoli, invisibili appuntamenti" indetto da OttoNoveTre]
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”







A Dragana.
Per augurarle buon compleanno e bentornata a casa.




La grande partita




Atto I


C'era un lurido profumo di birra sul pavimento che portava da lui.
Si sa che un uomo quando striscia per terra, capisce meglio quanto puzzano i guai.
E allora lui che aveva perso altre volte, capì d'istinto che era meglio andar via,
non era il caso di sfidare la sorte, c'era una pistola ma non era la sua.



La sfarzosa villa coloniale era una lunga e sfavillante linea bianca ai piedi della collina, come un filo di perle al collo di una bella signora. Ma più la carrozza si avvicinava, più l’edificio prendeva forma, rivelando qualche dettaglio. Da dietro l’ala ovest, ad esempio, facevano capolino le ampie pale di un mulino a vento. L’ala est, invece, avvolta da un’intricata siepe di impalcature, era ancora in costruzione. Probabilmente alla bella signora le sue trenta perle non bastavano.
Il calesse veniva sballottato di qua e di là lungo il sentiero. A Bill sembrava di essere finito dentro a una maraca gigante, in cui le sue chiappe, scosse all’inverosimile contro le pareti e il sedile, scandivano il ritmo a tempo di rumba. Quando il clock clack degli zoccoli sui ciottoli cominciò a rallentare e l’uooooh del cocchiere accompagnò la brusca frenata, non poté fare a meno di ringraziare il Padreterno.
Saltò giù dalla carrozza e atterrò su un viale polveroso, davanti a un enorme cancello in ferro battuto. Alla sua destra e alla sua sinistra, una muraglia bianca si estendeva a perdita d’occhio. Oltre il cancello, la villa.
«Complimenti per gli stivali!», fu il solo saluto che ricevette da una delle due guardie che sorvegliavano il cancello. «Pitone o coccodrillo?».
Una fondina gonfia e pesante come una bisaccia piena d’acqua pendeva dal cinturone dell’uomo che stava ancora adocchiando i suoi stivali, ma quella del suo compare non aveva nulla da invidiarle.
«Pitone», rispose Bill, sorridendo apertamente.
Gli occhietti da maiale della guardia lasciarono gli stivali per soffermarsi sulla sua giacca di coccodrillo.
«Vi piacciono proprio tanto le scaglie, eh, signore?».
L’uomo gli fece cenno di mettersi in coda, dietro a una ventina di persone che attendevano di essere perquisite. Mentre aspettava il suo turno in fila, Bill si guardò intorno. La villa non aveva finestre, le vetrate erano state semplicemente affrescate sulla facciata. Il viale era stato recintato da una rete di uomini che imbracciavano un fucile. E, ci avrebbe scommesso le palle, tutto il perimetro dell’edificio era sorvegliato a vista. Non sarebbe rimasto sorpreso se gli avessero detto che il mulino a vento veniva usato come torre di vedetta. Dunque, l’unico modo sicuro per entrare nella villa era varcare l’ingresso principale. Ed essere stati invitati, ovviamente.
«Questo zio Sam deve essere un tipo paranoico», commentò Bill ad alta voce quando venne il suo turno di essere perquisito.
«Non potete immaginare quanto!», rispose il tizio che gli stava tastando la giacca, probabilmente in cerca di armi. Trovò solo due dadi neri in un taschino interno. Li fece sbatacchiare l’uno contro l’altro. «Questi che sono?».
Bill spostò il peso del corpo da un piede all’altro.
«Per favore, potreste maneggiarli con attenzione? Sono molto… delicati».
L’uomo li fece sbatacchiare un ultima volta, quasi a sfidarlo, poi glieli restituì non senza rivolgergli un’occhiata sospettosa.
«Che ve ne fate di due dadi da gioco in un torneo di poker?».
«Sono i miei dadi portafortuna».
«Nome?», chiese un altro uomo, interrompendo bruscamente lo scambio di battute.
«Bill Maverick».
«Maverick, Bill. Eccovi qui». Mise una spunta in calce a una lunga lista di nomi. «La vostra quota di iscrizione è arrivata stamattina per il rotto della cuffia, appena cinque minuti prima che scadesse il termine di consegna».
Di nuovo lui sfoderò un sorriso largo, tutto denti.
«Sono sempre stato un uomo fortunato».


Il salone che il fantomatico zio Sam aveva scelto per il torneo di poker era stato arredato come l’interno di un vecchio saloon. Le pareti e il pavimento erano stati rivestiti con assi di legno umide, sbilenche e imbarcate, il cui lurido aroma di muffa e birra stagionate si diffondeva nell’ambiente e si mescolava al suono metallico di un clavicembalo stonato. I cinque tavoli da poker erano stati sparpagliati al centro del salone, mentre gli spettatori erano stati fatti accomodare sulla balconata, alla quale si accedeva tramite una piccola scala scricchiolante. Dietro il bancone in mogano, mensole stracariche di bottiglie di ogni forma e colore, un cameriere vestito da oste e un lunghissimo specchio che triplicava le dimensioni della sala. La fila di sgabelli era occupata per metà da quelli che, a giudicare dalle facce rosse, gonfie e arcigne, parevano bevitori incalliti o cowboy dall’animo irascibile. Bill non poté fare a meno di chiedersi se anche loro facessero parte dell’arredamento. E in tal caso, cosa ancora più importante, dove cazzo fossero finite le puttane, dato che mancavano solo loro per completare il quadro.
Decise di approfittare dell’alcol gratis e di farsi un goccio, così si diresse al bancone e ordinò un boccale di birra. Fu un leggero fischiettare a distoglierlo dai suoi affari (bere a piccoli sorsi, lanciando occhiate curiose alle lampadine elettriche del lampadario appeso al soffitto - gli avevano detto che la villa dello zio Sam era il primo edificio dello stato a essere illuminato interamente dall’elettricità): si trattava di un motivetto che aveva già sentito da qualche parte, anche se non ricordava dove. Bill seguì la melodia con lo sguardo, fin quando non ne individuò la fonte, qualche sgabello più in là, in un paio di labbra di un rosso acceso.
Lo dicevo io che mancavano solo le puttane!
Non si poteva certo dire che fosse brutta, ma la prima immagine che gli venne in mente osservandola fu quella di un’oca. Era avvolta in un abito di piume nere e bianche. Ne aveva perfino in testa, di piume, per tenere i boccoli biondi legati in un’acconciatura complicata. Se ne stava appollaiata su uno sgabello come se stesse covando e ogni volta che un uomo le si avvicinava, ridacchiava nascosta dietro al ventaglio o arruffava le piume del petto e della gonna per mettere in mostra le tette strizzate nel corpetto e le gambe accavallate. Per tutto il resto del tempo fissava la folla con sguardo vacuo, giochicchiando col ventaglio o fischiettando distrattamente.
Era girata nella direzione opposta, perciò non lo vide arrivare.
«Mi chiedo come si possa lasciare da sola una così bella miss».
Lei sussultò, presa alla sprovvista. Tanto che, nel vederselo comparire di fronte all’improvviso, si dimenticò di arruffare le penne. E anche quando si fu riavuta dallo spavento, ci mise un po’ a recuperare la sua frivola naturalezza. Agitò violentemente il ventaglio, come un’oca impettita, con gli occhi ancora sgranati.
«Vi sembra il modo di comportarsi, questo? Che genere d’uomo arriva alle spalle di una gentildonna senza annunciarsi?».
Bill sorrise nel suo solito modo, largo e tutto denti.
«Il genere d’uomo che sa muoversi furtivamente, suppongo. Vi chiedo scusa, miss. A mio discolpa posso solo dire che la vostra avvenenza mi ha letteralmente abbagliato, facendomi dimenticare per un istante le buone maniere».
Lei lo fissò con un sopracciglio inarcato per qualche secondo, poi lo sguardo critico si ammorbidì come caramello caldo. «Scuse accettate». Gli porse la mano guantata, che Bill baciò prontamente. «Il mio nome è Annabelle Bransford. Con chi ho il piacere di conversare?».
«Bill Maverick, per servirvi».
Annabelle fece per rivolgergli uno dei suoi sorrisi alla melassa, ma gli angoli della sua bocca non si erano ancora arricciati all’insù che le sue labbra si storsero in una smorfia. Si strinse nelle braccia, rabbrividendo.
Bill non si fece scappare l’occasione. «Ma voi state tremando! Ecco, prendete». Si sfilò la giacca e gliela adagiò sulle spalle. «Va meglio, così, non è vero?».
Annabelle annuì. Il ventaglio tornò a danzare pigro e sereno lasciando intravedere di tanto in tanto un sorrisino rosso. E lui capì che quella era una donna dalla testa di vetro soffiato, che bastava soffiarle in un orecchio per scompigliarle tutti i pensieri, che con un gesto se la sarebbe portata a letto e che per un fiore si sarebbe lasciata sposare.
«Grazie, Signor Maverick, voi siete un uomo molto galante».
«Di nulla, miss. Quello che non capisco è come possa esservi un’aria così fresca in una villa senza finestre!».
«Merito del condotto dell’aria». Annabelle indicò una griglia appesa al soffitto, dalla quale effettivamente fuoriuscivano continui sbuffi d’aria che facevano agitare i festoni e danzare i cristalli del lampadario. «L’ha progettato lo zio Sam in persona, con l’ausilio del suo architetto. Il condotto attraversa tutta la villa e arriva in ogni stanza. L’aria viene pompata dentro attraverso un meccanismo azionato dal mulino a vento. Immagino che l’abbiate notato, prima di entrare».
«Sì, in effetti era difficile non vederlo».
Bill stava ancora fissando la griglia sul soffitto, quando lei tornò a scrutarlo con sguardo critico.
«Voi non siete di queste parti, vero, signor Maverick?».
Lui annuì.
«Sono venuto da molto lontano a posta per partecipare al torneo».
«Oh, uno straniero che arriva Da Molto Lontano. Non ci sono mai stata, che posto è? È piacevole da visitare?».
«Non saprei, miss. Negli ultimi tempi non riuscivo più a viverci serenamente, ma sono un uomo dalle particolari esigenze, quindi forse la mia opinione non fa testo. Voi, invece? Cosa mi dite di Queste Parti?».
Annabelle si imbronciò e arruffò le penne.
«Una noia mortale». Poi sfarfallò le ciglia e sorrise. «Fino ad ora».
«Oh, voi mi lusingate, miss. Ma non sono sicuro di potervi credere».
«Invece potete eccome! Il mio uomo mi trascura e non mi porta da nessuna parte».
«Vi assicuro che Nessuna Parte è assai sopravvaluta, non c’è nulla di interessane da visitare, ma se mi indicate il vostro uomo forse potrei insegnargli come si tratta una donna».
Annabelle aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotta da un colpo di tosse. Un signore elegante, dai lunghi baffi a manubrio, era salito sul palchetto dell’orchestra, fermandosi accanto a una piccola cassaforte, e aveva messo a tacere l’intera sala con un semplice cenno della mano. Lo zio Sam. Accanto a lui, una specie di Buffalo Bill in pensione.
«Benvenuti, miei graditi ospiti e formidabili avversari. È con immenso piacere che dichiaro aperta la quinta edizione di quello che ormai tutti in città chiamano affettuosamente “Il torneo annuale di poker dello zio Sam”!». Le urla di giubilo da parte del pubblico furono inevitabili e questa volta furono necessari più di un gesto della mano e molta pazienza per azzittirle. «Sapete benissimo come funziona: cinque tavoli, venti giocatori, si continuerà a giocare fin quando non ne rimarranno solo quattro, che accederanno alla partita finale e tenteranno di aggiudicarsi…», indicò la piccola cassaforte posta al suo fianco, «…il malloppo in palio. Inutile dire che è severamente vietato barare. Il qui presente sceriffo Wilson si occuperà della sicurezza e si assicurerà che nessuno tenti di imbrogliare». Vedendosi salutare dalla folla con un caloroso applauso, lo sceriffo Wilson alias Buffalo Bill non poté astenersi dal dondolare sui talloni con aria soddisfatta. «Bene!», esclamò lo zio Sam, riprendendo possesso della ribalta. «I giocatori possono recarsi al bancone per ritirare le fiches. Ciò detto, sapete che sono un uomo dalle poche parole, per cui bando alle ciance. Che inizi lo spettacolo!».
La folla esplose in un boato di gioia.
«È lui», sussurrò Annabelle.
«Prego?».
Bill dovette chinarsi su di lei, perché lo scrosciare degli applausi era assordante.
«L’uomo al quale volevate insegnare come si tratta una donna», spiegò pazientemente Annabelle, facendosi aria col ventaglio. «È lui il mio uomo. Lo zio Sam».
Dire che ci rimase di merda era dire poco.


Che Bill sarebbe arrivato in finale era al di fuori di ogni dubbio. Ed era altrettanto al di fuori di ogni dubbio che tra gli ultimi quattro giocatori rimasti in gara ci sarebbe stato anche lo zio Sam. I primi giri erano serviti per studiarsi reciprocamente, ma adesso era arrivato il momento di mettere le carte in tavola.
Annabelle era in piedi dietro lo zio Sam, fischiettava il solito motivetto familiare e gli massaggiava le spalle, come un allenatore che prepara il pugile al prossimo round. Di tanto in tanto però lanciava mezzi sorrisetti all’indirizzo di Bill, accarezzando voluttuosamente la giacca di coccodrillo che portava ancora addosso. E lui che conosceva le donne dalla testa di vetro soffiato, capì che lei non amava stare col perdente, che era sempre pronta a saltare sul carro del vincitore ed andare via.
Anche dello zio Sam aveva capito alcune cose.
Che nonostante la camicia di fattura francese, il panciotto di seta, l’orologio d’oro che pendeva dal taschino e la giacca d’alta sartoria, non era cresciuto nell’agiatezza. La pelle del suo viso e delle sue mani era dura, scura e segnata dal sole e dal vento come la crosta dura di una vecchia sella. Le spalle larghe e il fisico possente davano l’idea che lo zio Sam sarebbe stato capace di trainare un aratro a mani nude.
Che la sua giacca all’altezza delle ascelle era troppo gonfia per non nascondere una rivoltella.
Che da come stringeva le carte in una mano e accarezzava il braccio di Annabelle con l’altra, teneva a vincere la partita tanto quanto era intenzionato a tenersi stretto la sua donna.
E soprattutto che, da come stava scrutando i suoi avversari, lo zio Sam non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a usare la rivoltella che nascondeva sotto la giacca per freddare chiunque avesse intenzione di fregarlo al gioco o fregargli la donna.
Così, mentre il sergente Jones scopriva la doppia coppia sudando freddo, il reverendo Goodman rivolgeva una mezza preghiera al Signore prima di mettere giù il suo tris di otto e lo zio Sam mostrava il full con un tris di J con un guizzo di orgoglio negli occhi, Bill capì che doveva scegliere in fretta per cosa preferiva morire. Sarebbe andato fino in fondo per vincere la sua grande partita o avrebbe mandato tutto all’aria per la sottana di una donna dalla testa di vetro soffiato che fischiettava?
Trattenendo il respiro, mise le carte in tavola.
E un oooooh di esclamazione si levò dalla balconata.
«Full con tris di Q. Il signor Maverick si aggiudica la partita!», annunciò lo sceriffo Wilson.
Il sergente Jones scosse la testa, il reverendo Goodman imprecò come se non ci fosse un domani, il pubblico proruppe in un applauso ammirato, Annabelle sorrise languidamente e Bill si gettò sulle fiches scoppiando in una risata fragorosa. Risata che per poco non lo strozzò, quando si ritrovò improvvisamente la canna di una rivoltella premuta contro il naso.
«Non così in fretta, straniero».
La sala precipitò nel silenzio più assoluto. Il reverendo Goodman si fece il segno della croce, mentre Annabelle sgranava gli occhi, terrorizzata. Lo sceriffo Wilson si guardò intorno, come in cerca di aiuto. Poi dovette tornargli in mente il piccolo dettaglio che era lui il tutore della legge lì dentro, così si precipitò al loro tavolo.
«Sam, porco di un cane, cosa stai facendo? Metti giù quella pistola, il ragazzo ha vinto lealmente!».
«No, invece. Ha barato. L’ho visto con questi occhi».
Nonostante la pistola puntata contro, Bill non poté fare a meno di mettere in mostra i denti in un sorriso largo.
«Un giocatore professionista dovrebbe accettare la sconfitta con sportività».
La calma negli occhi dello zio Sam era glaciale.
«Controllagli le maniche, Wilson. Ha barato, ti dico».
«Sam, ragiona. Non ho mai visto nessuno riuscire a nascondere le carte nelle maniche di una camicia. Ci vuole una giacca per questo genere di cose, lo sanno tutti».
«Controllagli le maniche», ripeté lo zio Sam con calma implacabile.
Lo sceriffo Wilson obbedì riluttante.
«Alzati in piedi, figliolo. E porgimi i polsi».
Bill fece come gli era stato detto senza protestare, perché quello era il tempo giusto per arrendersi. Borbottando parole incomprensibili, lo sceriffo Wilson gli slacciò i gemelli d’argento che tenevano chiusi i polsini della camicia e…
«Porco di un cane, che mi venga un colpo!».
Due carte, un tre e quattro, caddero sul pavimento.
Lo zio Sam scattò in piedi, rovesciando la sedia. Annabelle fece appena in tempo a scansarsi indietro con un verso stridulo per non essere presa in pieno.
«Quali sono le tue ultime parole, straniero?».
La pistola era di nuovo puntata contro il naso di Bill.
«Sam». Lo sceriffo Wilson poggiò una mano sulla sua spalla. «Vuoi davvero freddarlo davanti a tutti?».
Lo zio Sam rivolse un’occhiata nervosa alla folla di gente che si accalcava sulla ringhiera della balconata per assistere alla scena.
«Lascia che lo porti in cella», insistette Wilson. «Gli faremo un processo e verrà condannato».
«In vero, ci sarebbero cose più importanti delle quali discutere», si fece avanti il reverendo Goodman.
«Parole sante!», esclamò il sergente Jones. «Quest’uomo è arrivato in finale barando. Ciò significa che tutto il torneo non è valido, deve essere rifatto».
Lo zio Sam abbassò la pistola.
«Non dite assurdità! Non si può rifare il torneo!».
Un altro degli sconfitti prese coraggio.
«E chi lo avrebbe deciso?».
Lo zio Sam avanzò di un passo verso di lui con aria minacciosa.
«Io, piccolo impertinente».
Lo sceriffo Wilson lo trattenne di nuovo per una spalla.
«Sam, è chiaro che qui la cosa va discussa con calma e tranquillità. Sospendiamo il torneo per qualche ora e chiudiamo il ragazzo al sicuro in una stanza, tanto questo posto non ha le finestre, non può mica attraversare le pareti come un fantasma, dico bene? Metti due guardie a sorvegliarlo se ti fa sentire più tranquillo. Ma prima dobbiamo risolvere questa brutta gatta da pelare. Vuoi che la buona fama del tuo torneo venga infangata così?».
Il reverendo Goodman annuì.
«Mi sembra una proposta ragionevole».
Lo zio Sam sospirò pesantemente, poi rinfoderò la pistola. Due fischi secchi e un paio di scagnozzi emersero dalla folla come per magia.
«Chiudetelo nel mio ufficio».
I due sgherri afferrarono Bill per le braccia senza tante cerimonie. Annabelle osservava la scena con un’espressione incredula sul viso. L’eccitazione dovuta a tutti quegli accadimenti improvvisi aveva acceso le sue guance di rosso e arruffato le penne del suo vestito. Un’oca con una giacca di coccodrillo. Prima di essere trascinato via, Bill le sorrise mettendo in mostra i denti.
«Posso riavere la mia giacca, miss?».
Sotto gli occhi di ghiaccio dello zio Sam, lei arrossì vistosamente e gliela restituì.




Atto II


La ragazza fischiettava un motivo che faceva pressappoco così...
E allora lui che conosceva le donne, capì che lei voleva andarsene via,
che con un gesto te la portavi a letto e per un fiore si lasciava sposare.



Con la mano libera, Bill afferrò la bottiglia di scotch che era stata lasciata incustodita sulla scrivania dell’ufficio dello zio Sam, ne tracannò un bel sorso e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. Le manette che tenevano il polso destro legato al bracciolo tintinnarono allegramente come a volerlo cullare. Si spolverò la giacca e chiuse gli occhi, mentre l’aria che fuoriusciva dalla griglia del condotto dell’aria gli solleticava il viso e asciugava il sudore che gli aveva appiccicato i vestiti addosso.
Tutto sommato non sono messo così male.
Non fece in tempo a finire di pensarlo, che il fischiettare familiare di qualcuno, oltre la porta, gli fece sgranare li occhi.
Due colpi secchi.
Due ouch ovattati.
Due tonfi sordi.
Poi la porta si aprì.
«Miss, siete una donna dalle mille sorprese!».
Annabelle gli puntava contro una pistola grande poco più del suo palmo. Ai suoi piedi i corpi dei due scagnozzi che avrebbero dovuto sorvegliare la porta dell’ufficio giacevano privi di sensi.
Bill non riuscì a trattenere un sorriso. «Vi assicuro che quella pistola non è necessaria». Fece tintinnare le manette. «Come vedete sono assicurato alla poltrona e la poltrona è assicurata al pavimento. Il vostro caro zio Sam non lascia nulla al caso».
«Puoi smetterla con la recita, adesso. So chi sei. Ti ho riconosciuto subito, ho buona memoria per le facce».
«Certo che lo sapete. Sono Bill Maverick, ci siamo presentati giusto qualche ora fa, non ricordate?».
Lei ridacchiò come un’oca vanitosa, ma quasi subito il sorriso mieloso cambiò forma, storcendosi in un’espressione dura e determinata.
«C’è una cosa che non sai di me». Parve pensarci su un attimo. «A dire il vero ci sono tante cose che non sai di me».
Bill accavallò le gambe sulla scrivania, sinceramente curioso.
«Davvero?».
«Davvero. Una delle cose che non sai di me è che anche io sono una straniera, anche io vengo Da Molto Lontano. La Regina di Cuori ti dice nulla? Sono stata sua suddita per molto tempo e lì le altre ragazze mi hanno parlato tanto di te. Una mi ha anche mostrato una tua foto. Quella che si trova sul volantino della taglia che pende sulla testa di Bill La Lucertola».
Sotto quelle piume di oca si celava una piccola volpe, allora. Forse aveva fatto un piccolo errore di valutazione sul suo conto. Bill nascose la sorpresa dietro a un sorriso tutto denti.
«Ho capito subito che eri una puttana, dalla prima occhiata».
Annabelle lo colpì col cane della pistola sul mento e il dolore gli esplose in faccia come una piccola granata.
«Ahia, cazzo, andiamo! Lo hai ammesso tu stessa, perché prendersela tanto?».
«Perché una puttana è pur sempre una signora. Stammi a sentire, adesso, figlio di puttana. Di là stanno ancora litigando sul da farsi, questo ci darà un bel po’ di tempo. So chi sei e so perché sei qui».
«Sì, per barare a un torneo, ma mi è andata male».
«Non trattarmi da oca, ne ho abbastanza di uomini che mi trattano da oca. Tu sei Bill La Lucertola, e se quello che la gente dice di te è vero, non ti disturberesti mai a partecipare a un torneo di poker per vincere quattro spiccioli. Ma il fatto è che tutti qui in città sanno che lo zio Sam è nato contadino. Che un contadino, anche se si arricchisce, rimane pur sempre un contadino. Che come tutti i contadini, lo zio Sam non si fida delle banche. Che quindi ha nascosto una camera blindata da qualche parte in questa immensa villa. Che nella camera blindata è custodita una collana di trenta perle che vale sette milioni di dollari. E se tu sei qui, vuol dire che la voce è arrivata anche a te. Tu vuoi quella collana, ne sono certa».
Bill scoppiò a ridere, buttando la testa indietro.
«Quella tua bella testolina deve essersi surriscaldata parecchio nel mettere in piedi una teoria così elaborata!».
Annabelle rimase seria.
«A questo punto hai due opzioni. Opzione numero uno: mi porti con te in quella camera blindata, tu prendi la collana, io mi riempio le tasche di soldi e poi mi aiuti a scappare da questo posto illesa. Opzione numero due: ti denuncio allo zio Sam, e a quel punto l’accusa di essere un baro sarà l’ultimo dei tuoi problemi, perché se c’è qualcosa che i contadini odiano quasi quanto i banchieri sono i ladri. Prima che tu faccia la tua scelta, però, sappi che io so esattamente dove si trova la camera blindata e il mio aiuto potrebbe facilitarti di gran lunga la missione».
Bill assottigliò lo sguardo.
«Non capisco. Se sai dove si trova la camera blindata, perché non ripulirla tu stessa. Perché chiedere aiuto a me?».
«Perché so dove si trova la camera blindata ma non la chiave per aprirla. Perché, a differenza tua, non sono in grado di scassinarla. E perché mi risulta impossibile scappare da questo posto. Hai idea di quanti uomini ci sono a guardia della villa? Se solo provassi a mettere un piede fuori dalla porta, mi riacciufferebbero in un batter d’occhio. Ma tu sei un mago della fuga, no? Avrai sicuramente elaborato un piano per fuggire senza lasciare traccia dopo aver recuperato la collana. Be’, io voglio far parte di quel piano. Voglio andarmene e non tornare mai più».
Bill si accarezzò il mento, con aria pensierosa. Poi sorrise e agitò le manette.
«Spero che tu abbia qualcosa per aprire queste».
Annabelle estrasse una forcina dai capelli, tenendo sempre la pistola puntata contro di lui.
«Basta chiedere».


Bill era chino sulla porta della biblioteca, stava usando la forcina di Annabelle a mo’ di grimaldello. Lei invece continuava a tenerlo sotto tiro con la sua pistola tascabile. A quanto pareva la piccola volpe travestita da oca non si fidava di lui.
«Com’è che non abbiamo incontrato nessuna guardia per i corridoi?».
«La sorveglianza è stata tutta convogliata intorno al perimetro della villa e nel salone dove si tiene il torneo, nessuno degli ospiti può entrare o uscire dalla stanza senza il permesso dello zio Sam. Credo che lui parta dal presupposto che se tiene tutta la gente fuori o tutta dentro e non ci sono finestre dalle quali sgattaiolare, è inutile sorvegliare i corridoi».
«Tu però sei uscita dalla sala».
«Ma io non sono un’ospite».
La serratura fece clack e la porta si spalancò da sola. Bill entrò e si guardò in giro con aria scettica.
«Davvero la camera blindata si trova qui dentro?».
«Siediti su quella poltrona, dove posso vederti», disse invece Annabelle sempre con la pistola spianata. «E sì, la camera blindata è davvero qui dentro. Il passaggio segreto si aziona sollevando un libro ben preciso dallo scaffale».
Bill, che si era seduto sulla poltrona come gli era stato ordinato, sbuffò.
«Che banalità».
Nel frattempo Annabelle era corsa verso gli scaffali per consultare le coste dei vari tomi e cercare quello che avrebbe attivato il meccanismo. La stanza era grande il doppio del saloon e gli scaffali in mogano, dalle cornici finemente intagliate, occupavano le quattro pareti fino al soffitto. Un soffitto affrescato con motivi egizi.
«Potresti dirmi il titolo del libro. Potremmo fare più in fretta, se fossimo in due a cercare», le propose.
«E tu potresti espormi il tuo piano per uscire incolume da qui», replicò lei senza staccare gli occhi dai volumi polverosi.
Bill rise. Già, Annabelle non si fidava affatto. E il sentimento era reciproco. Lui però cominciava ad annoiarsi.
«Non c’è nemmeno un camino, di inverno si gelerà qui dentro», commentò.
«Di inverno l’aria che esce dal condotto di aereazione diventa calda. Nel mulino c’è una specie di caldaia a carbone che riscalda l’aria prima che venga pompata dentro al condotto».
Bill fischiò.
«Ingegnoso».
«Trovato!», esclamò Annabelle.
Nel medesimo istante in cui lei estraeva il libro dalla mensola, un rumore di ingranaggi metallici e carrucole riempiva la stanza. Lo scaffale sulla parete opposta a dove si trovava il libro cominciò a spalancarsi per metà, come una porta segreta, svelando così un immenso portone di metallo. Nel vederselo comparire di fronte, a Bill brillarono gli occhi.
«Pensi di riuscire a scassinarla?», chiese Annabelle.
«Stasera mi sento particolarmente fortunato». Ghignò verso di lei. «E il che è tutto dire, dato che sono sempre fortunato».
Il sistema di chiusura del portone della camera blindata era a combinazione meccanica. Bill accostò l’orecchio alla superficie metallica e ghiacciata rabbrividendo appena, a quel punto cominciò a giochicchiare con la manopola. Era così concentrato sul suo udito e sui rumori più impercettibili che lo circondavano, da percepire il diaframma di Annabelle che si estendeva e ritraeva a ogni respiro, il ticchettio dell’orologio in fondo alla stanza e un tarlo che - cric cric cric - sgranocchiava il legno dello scaffale più vicino. Quando udì il click del primo fermo che scattava, si asciugò il sudore sulla fronte e si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto. Impiegò ben cinque minuti per trovare la combinazione e aprire il portone. Ciò fatto, si alzò in piedi e con un mezzo inchino invitò Annabelle a entrare.
«Dopo di voi, miss».
Lei però scosse la testa, pistola sempre alla mano.
«No, dopo di voi».
Lui sospirò.
«Donna di poca fede!».
L’interno della camera blindata ricordava un po’ il caveau di una banca, metallico, freddo e asettico, con le cassette di sicurezza ordinatamente incolonnate lungo le pareti. L’unica eccezione era costituita dalla parete di fronte al portone, al centro della quale faceva bella mostra di sé una teca di vetro infossata nel muro. Una teca di vetro che conteneva un semplice ma elegante filo di perle bianche e scintillanti.
Annabelle si avvicinò al vetro con sguardo trasognato.
«Trenta perle naturali di Baroda. Lo zio Sam le comprò per regalarle a sua madre, ma poco dopo lei morì e da allora nessuno le ha più indossate».
Bill le rivolse un’occhiata sospettosa.
«Ancora non capisco come sia possibile che lui ti abbia fatto vedere dove si trova la sua camera blindata».
«Voleva impressionarmi, probabilmente. E poi mi ha sempre sottovalutata».
«Come sei finita qui?».
Annabelle distolse lo sguardo dalla collana per portarlo su Bill, poi fece spallucce.
«Ho lasciato la Regina di Cuori in cerca di una vita migliore, ma come hai detto tu, si vede lontano un miglio che sono una puttana, so fare solo questo, e così sono finita in un altro bordello. Lo zio Sam mi ha trovata lì. Dopo aver fatto l’amore con me, ha vinto una partita e… sai, come tutti i giocatori d’azzardo è un tipo parecchio superstizioso, così si è convinto che gli portavo fortuna. Mi ha comprata dal bordello e mi ha portata qui».
«E allora perché vuoi andartene? Lo zio Sam è straricco. Okay, non ha fatto di te una donna onesta, ma io darei via il culo per venire mantenuto a vita da una vecchia bagascia ricca».
Annabelle lo fulminò con lo sguardo.
«Perché non vedo la luce del sole da un anno, due mesi, tre settimane e due giorni. Non volevo questa vita, non volevo fare la mantenuta, volevo essere libera. Altrimenti sarei rimasta con la Regina di Cuori, non credi?».
«Oh, be’…».
«Lascia perdere, tu non devi capire, devi solo attenerti al piano».
Aprì la teca e prese il filo di perle. Bill scattò come una molla.
«Ehi, ehi ehi. Io mi attengo al piano. Tu, invece?».
«La avrai quando avremmo messo parecchie miglia tra noi e questo posto, non sono mica stupida come un’oca!».
Il sorriso di Annabelle era maligno, mentre faceva sparire la collana, perla dopo perla, tra le piume che incorniciavano i suoi seni. Bill sospirò, fissando nostalgico la profonda scollatura del corpetto dal quale straripava tanta carne bianca e soffice.
«Metterla lì è un ulteriore invito a rubarla, miss».
Annabelle gli andò vicina facendo ondeggiare le piume sui fianchi. Bill poteva sentire i seni di lei che premevano contro il suo petto, un dolce aroma di rose che gli solleticava le narici e la canna della pistola tascabile che gli premeva contro le palle. Annabelle gli porse un piccolo sacco di iuta e lui lo prese deglutendo a vuoto.
«Ho le mani impegnate, saresti così gentile da riempirlo tu per me?».
«Nessun problema, miss».
Bill aveva quasi riempito il sacco di banconote, quando tutto cominciò ad andare storto.
Annabelle teneva ancora la pistola puntata contro di lui, ma lanciava continuamente occhiate ansiose alle sue spalle, quasi si aspettasse da un momento all’altro che l’esercito dello zio Sam piombasse su di loro. Non che avesse torto, ma Bill stava prendendo in seria considerazione l’idea di approfittare dei nervi a fior di pelle di Annabelle per metterla fuori gioco nel modo più indolore possibile. Sia per lui che per lei. Non voleva beccarsi una pallottola nello stomaco, ma al tempo stesso non voleva rovinare quel bel faccino. Sarebbe stato un gran peccato!
«Hai sentito?», chiese lei all’improvviso.
«No, cosa?».
«Un rumore».
Incauta come una principiante, Annabelle gli voltò le spalle, fissando il portone aperto della camera blindata con occhi sgranati. Ecco, ci siamo! Pronto a saltarle addosso, Bill fece cadere il sacco colmo di banconote per avere le mani libere, proprio mentre Annabelle muoveva un passo in avanti e poggiava il piede su una mattonella del pavimento che sporgeva di qualche millimetro rispetto alle altre.
«Annabelle, aspetta!».
Lei impiegò un secondo di troppo per girarsi.
Click.
Il peso del piede aveva fatto rientrare la mattonella nel pavimento, schiacciandola come un pulsante. Di nuovo, gli ingranaggi metallici ripresero a cigolare intorno a loro e prima che potessero veramente rendersene conto - STOMP - il portone della camera blindata si era chiuso con loro dentro.
«NOOOO!!».
Annabelle si fiondò contro la porta e picchiò più volte i pugni sul metallo, senza però ottenere alcun risultato. Si voltò verso di lui con gli occhi di una preda braccata.
«Aprila, che aspetti! Bill, mi stai ascoltando?».
Quel tipo di portone poteva essere aperto solo dall’esterno, erano fottuti. Ma in quel momento non era la via di fuga sbarrata a preoccupare Bill. Il cigolare metallico delle carrucole infatti non era ancora cessato. Come a volergli dare ragione, una campana cominciò a suonare. Furono costretti a tapparsi le orecchie, perché lo scampanellio rimbombava tra le pareti della camera blindata amplificandosi a dismisura e diventando sempre più insopportabile per i loro timpani. Era come se qualcuno stesse usando la sua testa per suonare il Gong.
«Dov’è? La vedi?».
Bill si guardò intorno, fin quando non la individuò in alto, in un angolo. Doveva esserci un sistema meccanico di carrucole nelle pareti che faceva muovere la campana, come quello usato nelle chiese.
«Lì, spara lì!».
Annabelle prese la mira e premette il grilletto. La detonazione dello sparo esplose in tutta la sua potenza e non fece che peggiorare la situazione acustica. Il proiettile mancò la campana di poco, rimbalzò sulla parete e sfrecciò a pochi centimetri dal braccio di Bill.
«Oh, cazzo, scusami tanto!».
Un altro sparo. La campana cadde per terra con un dliiin dloaaan sbilenco. E finalmente fu il silenzio.
Annabelle respirava affannosamente e stringeva la pistola fino a farsi sbiancare le nocche. Bill si lasciò cadere sul pavimento, le orecchie che ronzavano ancora per gli spari, per il rimbombo delle campane e per il tom tom tom del cuore che stantuffava sangue su per le arterie.
«Sistema di…», biascicò Annabelle, tra un respiro incespicante e l’altro. «Sistema di allarme… lo zio Sam saprà… c’è qualcuno qui… adesso».
Bill si infilò un dito nell’orecchio, tentando di far smettere il fastidioso ronzio. Fin quando non si rese conto che non erano le sue orecchie a ronzare. O meglio, non solo.
«Le carrucole! Sono ancora in funzione!».
Annabelle scosse la testa, terrorizzata.
«Cosa? Non può essere!».
Qualcosa lo solleticò sulla mano. Bill abbassò lo sguardo e notò una manciata di granelli che si erano raccolti nel suo palmo. Fu in quel momento che le vide. In alto. Due feritoie per ogni parete. Dalle quali fuoriusciva…
«Sabbia!».
Annabelle strillò.
Il getto si intensificò all’improvviso, il tempo di tirarsi in piedi lui e di afferrare il sacco con le banconote lei ed erano già sommersi fino ai polpacci. Annabelle si strappò la gonna di piume di dosso per essere libera di muoversi, rimanendo in corsetto e mutandoni.
«Come usciamo da qui?».
Se Bill era soprannominato la “La Lucertola” un motivo c’era. Scalò le pareti, sfruttando le strette scanalature delle cassette di sicurezza come appigli. Quando fu arrivato abbastanza in alto, si tuffò all’indietro esibendosi in una capovolta a mezz’aria e si aggrappò al volo all’asse orizzontale del grosso lampadario. Si issò a sedere su di essa con la sola forza delle braccia e da lì tolse la grata che chiudeva il condotto dell’aria.
Annabelle, sommersa fino alla vita dalla sabbia, lo osservava col naso all’insù e gli occhi fuori dalle orbite.
«Come faccio a salire lassù? Non sarò mai in grado di fare una cosa del genere!».
Bill la fissava dall’alto, esitante. Annabelle capì al volo.
«Non osare, figlio di puttana! Ricorda che la collana ce l’ho io, se mi lasci qui, le perle rimarranno con me e avrai fatto tutto questo per nulla».
Nonostante ciò, Bill si prese ancora qualche attimo per pensarci su. La sabbia nel frattempo le era arrivata quasi alla gola. Annabelle aveva le lacrime agli occhi e le braccia protese verso l’alto.
«Bill, ti prego!».
«D’accordo, d’accordo, non ti agitare». Sfilò la cintura dai passanti dei pantaloni, una cintura lunghissima, tanto lunga che era stata avvolta intorno alla cinta almeno tre volte, e gliela lanciò a mo’ di corda. «Afferra la fibbia!».
Annabelle non se lo fece ripetere due volte, la sabbia che le sfiorava il mento. In una mano stringeva il sacco con i soldi, con l’altra acchiappò la fibbia che penzolava davanti alla sua faccia. Non appena le sue dita si furono chiuse intorno al metallo, Bill cominciò a tirarla su.
«Se non fossi in bilico su un lampadario ti prenderei a sberle», disse lei.
«Grazie, Bill, per avermi salvata. Prego, Annabelle, non c’è di che».
Qualche attimo dopo erano accucciati dentro il condotto dell’aria. Sotto di loro, la camera blindata era completamente sommersa di sabbia.


Stavano strisciando dentro i condotti dell’aria da almeno dieci minuti.
«Sei sicuro di sapere dove andare? Questi cosi ricordano tanto un labirinto», chiese Annabelle.
«Tranquilla, ho lasciato una scia di molliche di pane».
«Ti sembra il momento di scherzare? Ormai lo zio Sam avrà allertato tutti i suoi uomini, se non troviamo subito un modo per uscire dalla villa, siamo fregati. Credo che sia giunto il momento di espormi il tuo piano di fuga, Bill».
Continuò ad avanzare senza risponderle.
«Bill, andiamo!».
Lui sospirò, ma senza fermarsi.
«Se te lo dico, ti arrabbierai».
«Prometto di non arrabbiarmi».
Si fermarono a una specie di incrocio. Bill lanciò un’occhiata a destra, una a sinistra, poi scelse di svoltare a sinistra.
«E va bene. Il mio piano di fuga consisteva nel… be’, a dire il vero, il mio piano di fuga è stato scombussolato dal tuo arrivo nell’ufficio dello zio Sam».
«E questo che vorrebbe dire?».
«Che al momento sto improvvisando».
«COSA?!».
«Shhhhhh, fa’ piano, vuoi che ci sentano? E poi avevi promesso che non ti saresti arrabbiata!».
«Certo che mi arrabbio! Facevo affidamento proprio sulla tua mirabolante abilità di scappare. Avevamo un accordo, noi due. Dovevi dirmi che il piano non c’era!».
«Mi tenevi sotto tiro con una pistola e minacciavi di denunciarmi, che diavolo avrei dovuto fare?».
«Dirmi la verità!».
«Non mi avresti creduto!».
«Bill, sei un figlio di…». Ma si bloccò a metà dell’insulto. «Non ti sembra che faccia improvvisamente più caldo, qui dentro?».
Si fermò senza avvertire e lei andò a sbattere contro il suo sedere.
«Ehi, toglimi questo culo secco dalla faccia!».
Bill si sfilò i guanti e tastò le pareti del condotto con i palmi delle mani. Sì, erano tiepide. E anche l’aria che gli entrava nei polmoni stava diventando sempre più calda e secca, lo faceva sentire come se stesse respirando sabbia bollente.
«Ho un brutto presentimento, Annabelle».
«Cioè?».
«Quella caldaia che si trova nel mulino… Hai idea di quanto tempo impieghi a riscaldare per bene l’aria?».
«Non saprei, una decina di minuti? Perché mi fai questa doma-hia! Cazzo, il pavimento scotta!».
Nello stesso momento una folata di aria bollente investì in pieno il viso di Bill.
«Dobbiamo uscire di qui, subito!».
Strisciarono il più velocemente possibile, ignorando le scottature che il metallo del condotto e l’aria calda producevano sulle loro mani e sui loro visi, fin quando non trovarono una grata. Bill la sfondò con una manata e si calarono giù usando di nuovo la cintura. Erano finiti in una specie di salottino.
«Non posso crederci!», esclamò Annabelle. «Voleva farci arrosto!».
«Avrà visto la grata sfondata nella camera blindata e avrà fatto due più due».
«E adesso?».
«E adesso venite con noi».
Annabelle e Bill si voltarono contemporaneamente, trovandosi a tu per tu con le pistole spianate di tre scagnozzi dello zio Sam.
Adesso sì che erano davvero fottuti.




Atto III


Il giocatore con la sua rivoltella teneva d'occhio chi voleva imbrogliarlo,
chi nascondeva nella manica un asso o chi guardava la sua donna fischiar.
E allora lui che conosceva la vita, pensò per cosa preferiva morir
e tra una donna e la sua grande partita, lui scelse l'uomo che voleva imbrogliar!



Erano tornati al punto di partenza, nell’ufficio dello zio Sam. Mentre aspettavano di andare incontro al loro destino, in piedi, al centro della stanza, circondati da tre sgherri armati fino ai denti, Annabelle si accostò a Bill.
«Dimmi che stai elaborando un piano, ti prego», bisbigliò.
«Non ti preoccupare, miss», rispose lui. «Hai presente il detto “Ho messo le ruote a mia nonna, adesso è un carrello?”».
«Sì».
«Praticamente l’ho inventato io».
L’occhiata scettica di Annabelle valeva più di mille parole.
«Comincio a pensare che la tua fama sia solo fumo negli occhi».
La replica di Bill venne bloccata dalla porta che si apriva. Passi lenti e calcolati. Lo zio Sam era arrivato. Si diresse alla scrivania senza degnarli di un’occhiata. Prese un pesante bicchiere di cristallo e ci versò dentro due dita di scotch, rivolgendo loro le spalle.
«Oh, grazie, Sam. Mi ci voleva proprio un sorso di scotch, adesso», disse Bill. «L’ho assaggiato quando ero ammanettato alla poltrona e devo ammettere di non aver mai bevuto nulla di così buono prima d’ora».
Annabelle era sbiancata all’improvviso. La sua faccia sembrava dire “Ti sembra il caso di fare lo sbruffone?”. Intanto lo zio Sam si era voltato lentamente, un’espressione indecifrabile sul viso. Tenendo gli occhi fissi su Bill, bevve un sorso dal bicchiere per poi posarlo accanto alla bottiglia.
«Sam. Tesoro», disse Annabelle. «Mi ha minacciata, mi ha costretta a farlo! Ti giuro che non c’entro nulla in tutta questa storia. Perché mai avrei dovuto tradirti? Qui con te ho tutto quello che ho sempre desiderato».
Lo shock ebbe uno strano effetto su Bill. Lo fece scoppiare a ridere istericamente. Non si era mai fidato di lei, ma chissà perché il suo ego maschile ci era rimasto male.
«Questa sì che è buona! Sam, ero ammanettato alla poltrona e non avevo nemmeno un cavatappi con me. Mi spieghi con cosa avrei mai potuto minacciarla?».
Per salvare il salvabile, Annabelle provò a rindossare la maschera della donna dalla testa di vetro soffiato. A Bill scappò una mezza risata. I suoi boccoli biondi pendevano flosci e sbilenchi ai lati del viso. Le piume in cima alla testa si erano ripiegate su loro stesse. Il trucco colava dagli occhi come lacrime nere. Senza contare che in quel preciso istante aveva addosso solo il corpetto e i mutandoni merlettati. Tuttalpiù poteva assomigliare a un’oca spennata.
«È Bill La Lucertola!», strillò in preda al panico. «Un ladro professionista, c’è una taglia sulla sua testa. Chiedi allo sceriffo Wilson, digli di informarsi e vedrai che dico la verità! Cercavo solo di smascherarlo, ma la situazione mi è sfuggita di mano».
Bill roteò gli occhi, esasperato. «Per favore, sta’ zitta, ti stai rendendo ridicola. Sam, ascoltami. È stata una sua idea, posso assicurartelo. La mia unica colpa è di avere un debole per le belle donna. Cioè, guardala…», disse ammiccando. «Tu mi capisci, no? Come potevo resisterle? E se non mi credi…». Strappò il sacco di iuta dalle mani di Annabelle e lo lanciò ai piedi dello zio Sam. «Ci sono i tuoi soldi lì dentro. E non è mica finita qui!». Si rivolse ad Annabelle con un sorrisetto tutto denti. «Tu permetti, non è vero, miss?». Lei lo fulminò con un’occhiataccia, ma non fece resistenza, così Bill infilò le dita nella sua scollatura e ne estrasse la collana di perle. «Se avessi costretto con la forza questo zuccherino ad aiutarmi, perché mai avrei affidato il bottino a lei, uhm?».
Lo zio Sam non rispose. Si avvicinò a Bill calpestando il sacco di iuta, prese il filo di perle e lo adagiò sulla scrivania, maneggiandolo con estrema cura, quasi fosse una preziosa reliquia. Poi rivolse un’ultima occhiata a Bill e Annabelle.
«Uccidete lo straniero e fate quello che meglio credete della puttana».
Due degli scagnozzi afferrarono Annabelle per le braccia, che prese a strillare e a dimenarsi come un’anguilla. Il terzo provò a fare altrettanto con Bill, ma lui riuscì a scansarlo con una gomita nel fianco e ad avvicinarsi allo zio Sam quel tanto che bastava per beccarsi il più potente cazzotto sul naso che avesse mai ricevuto in vita sua. Finì steso sul pavimento, col naso sanguinante e la testa che non voleva saperne di smettere di girare come una trottola. Cazzo, quell’uomo aveva le mani foderate di dolore! Bill si mise a sedere a fatica, tamponandosi il naso con la manica della camicia.
«Tutto qui? Davvero?».
Lo zio Sam prese un tovagliolo dal taschino della giacca e lo usò per ripulire dal sangue di Bill il grosso anello che portava al mignolo.
«Sono un uomo di poche parole, lo sanno tutti».
«E cosa dirai allo sceriffo Wilson? Se non sbaglio è ancora di là, nel salone, con tutti i tuoi ospiti».
«Dirò la verità. Due scarafaggi si sono introdotti nella mia proprietà con l’inganno e hanno cercato di derubarmi. Ho solo difeso ciò che mi appartiene».
«E non hai paura di tirarti addosso la sfiga, dando in pasto il tuo portafortuna ai tuoi scagnozzi?».
Lo zio Sam strinse il tovagliolo sporco di sangue nel pugno e per la prima volta abbozzò un sorriso.
«Hai ragione, straniero. Esorcizzerò l’inconveniente occupandomene io stesso. E dopo mi toglierò lo sfizio di tagliarti le palle. Carlos, falla mettere qui, in ginocchio».
«Bene, nel frattempo che ti occupi di lei…», cominciò Bill, ancora seduto sul pavimento col naso sanguinante.
Annabelle cercò invano di dimenarsi in tutti i modi per liberarsi dalla stretta di Carlos, mentre lo zio Sam apriva un cassetto della scrivania e ne estraeva una rivoltella.
«…ti volevo chiedere…».
Lo zio Sam si assicurò che nel tamburo della pistola ci fossero i proiettili, poi appoggiò la punta della canna sulla fronte di Annabelle, che era grigia e sudata in volto come un cencio lurido.
«…quella è una parete esterna, vero?».
«Eh?».
Lo zio Sam lo guardò da sopra la rivoltella con un sopracciglio inarcato. Bill aveva tirato fuori dalla tasca interna della giacca i suoi dadi portafortuna e li aveva scagliati con tutta la forza che aveva in corpo contro la suddetta parete. Lo zio Sam ebbe appena il tempo di puntargli contro la rivoltella e premere il grilletto: lo sparo esplose proprio nello stesso istante in cui i dadi colpivano la carta da parati.
Poi la gravità cessò di esistere per una frazione di secondo, e tutti i presenti vennero sbalzati in aria come le briciole quando si scuote una tovaglia. La frazione di secondo successiva, erano precipitati al suolo insieme ai mobili, ai calcinacci e parte del soffitto.
Quando Bill emerse dalle macerie tossendo e con una ferita di striscio alla spalla, c’era un immenso buco nero trapunto di stelle nella parete. Carlos giaceva esamine, accanto a lui, infilzato da una trave di legno. Ma quello non era il momento giusto per mettersi a fare la conta dei sopravvissuti. E nemmeno per arrendersi. Era il momento di stringere i denti e tenere duro.
Raggiunse lo squarcio nella parete, l’aria fresca della notte attizzò le scottature del viso come brace viva. In lontananza già vedeva gli uomini accorrere verso il luogo dell’esplosione. Non aveva molto tempo a disposizione: il caos e il panico non sarebbero durati a lungo. Stava valutando gli appigli per calarsi giù, quando udì un lamento alle sue spalle.
Voltandosi, la prima cosa che vide fu una mano con un anello al mignolo che emergeva da sotto un cumulo di macerie. Poi la collana di perle, miracolosamente intatta, che penzolava da un fil di ferro in alto, troppo in alto per cavarsela con poco. Infine Annabelle, col piede incastrato sotto un pezzo di soffitto, anche lei miracolosamente illesa.
La donna che fischiettava guardò prima la collana, poi Bill, e si limitò ad annuire, con una strana espressione serena in viso. “Ho capito”, sembrava dire. “Hai scelto la tua grande partita, non la donna. È giusto così”.
Bill le mostrò un sorriso largo, tutto denti.
«Hai proprio la testa di vetro soffiato, tu!».


Si calarono giù dallo squarcio nella parete, si confusero tra la folla di gente nel panico, rubarono un cavallo e volarono via come il vento senza guardarsi indietro. Cavalcarono il più a lungo possibile, fin quando, stremati loro e anche il cavallo, si videro costretti a fare una sosta in un villaggio di quattro anime.
La locanda del paese era una catapecchia sudicia che puzzava di fagioli fritti, eppure la padrona ebbe il coraggio di storcere il naso nel vederseli comparire davanti impolverati, ammaccati, bruciacchiati e semi-svestiti. Bill tentò di inventare una balla plausibile per spiegare la situazione, ma lei lo fermò subito sollevando una mano. “Basta che mi pagate in anticipo”, disse. Bill provò nuovamente a tergiversare, perché non aveva un soldo bucato con sé. Questa volta toccò ad Annabelle il compito di zittirlo, estraendo dalla scollatura del corpetto ormai logoro un piccolo rotolo di banconote. “Lo tenevo sempre con me per le emergenze”, spiegò. Presero in affitto una sola stanza, per risparmiare, e ordinarono per cena una zuppa di fagioli marrone e delle fette di pane nero talmente duro che per poco Bill non si ruppe un dente. Poi la padrona, mossa a compassione, diede ad Annabelle un suo vestito smesso. “Non posso permettere che una signora vada in giro in simili condizioni sotto il mio tetto”, ma il dollaro di mancia non lo rifiutò.
«Domani ci rimettiamo in marcia», esordì Bill, chiudendosi la porta della loro camera alle spalle. «Adesso che sanno chi sono…».
«Non è detto. Non è detto che lo zio Sam sia ancora vivo».
«Non è detto nemmeno che sia morto».
Annabelle si sedette sul materasso mezzo sfondato e fece su e giù per saggiarne la consistenza. Il ciiiiic ciiiiiic delle molle non prometteva nulla di buono, ma lei sembrava ugualmente entusiasta. Era entusiasta di tutto, a dire il vero. Della catapecchia in cui erano finiti, della puzza di fagioli fritti, dello straccio che la padrona le aveva dato per coprirsi, della zuppa indigeribile. “Le cose hanno tutto un altro sapore, quando non te le ficcano a forza in gola, non trovi?”. Bill prese posto su uno sgabello davanti alla finestra, si poteva tenere d’occhio tutta la strada da lì, era un buon punto di osservazione. Quando si rese conto che il cigolio delle molle era cessato, si girò. Annabelle lo stava scrutando con espressione grave.
«Che c’è, miss? Come mai quel musetto accigliato?».
«Perché non capisco. Perché non hai preso la collana?».
«Non potevo recuperare la collana E tirare via te da sotto i calcinacci, non c’era abbastanza tempo».
«Questo lo so. Quello che non so è perché hai preferito abbandonare la collana e salvare me, non ha alcun senso. Non mi devi nulla e ho cercato di pararmi il culo scaricando tutta la colpa su di te».
«L’ho fatto anche io».
«Sì, ma io per prima».
«È acqua passata, miss».
Annabelle batté il pugno sul materasso, dal quale - puff - si sollevò una piccola nuvola di polvere.
«Non trattarmi da oca, Bill. Voglio sapere perché».
Lui fece spallucce.
«Perché mi piace ascoltarti fischiare. Le donne di solito non fischiano».
Annabelle rise.
«Sì, perché lo ritengono sconveniente. Mia madre mi rimproverava sempre, quando lo facevo».
Bill si voltò completamente verso di lei. Anche col vestito della padrona che le cadeva addosso sformo e largo, anche se i boccoli biondi non erano in ordine, anche senza le piume arruffate, conservava negli occhi e nel sorriso quel guizzo furbetto che tanto lo aveva attratto.
«Vi andrebbe di fischiare per me, miss?».
«Con molto piacere, signore».
Annabelle si alzò dal materasso e lo raggiunse facendo ondeggiare i fianchi come sapeva fare solo lei. Quando gli fu di fronte, sollevò la gonna sopra le ginocchia, gli si sedette a cavalcioni sulle gambe e accostò le labbra al suo orecchio. La sentì prendere un respiro profondo, sentì l’aria intorno all’epidermide venire risucchiata dalla sua bocca, e non poté fare a meno di rabbrividire. Ad Annabelle bastò soffiargli direttamente nell’orecchio per scompigliargli tutti i pensieri.
Adesso anche la testa di Bill era di vetro soffiato.


La padrona della locanda teneva tutto il cibo commestibile per sé, a quanto pareva. Scopare gli metteva sempre una gran fame, così approfittando che fosse notte fonda era andato a rovistare in cucina e aveva trovato dei biscotti un po’ duri ma gustosi. Ne addentò subito uno e ne rubò un paio per Annabelle, pensando che avrebbe potuto gradirli. Quando rientrò in camera fischiettando il solito motivetto, però, i biscotti caddero tutti per terra.
«Ma che cazzo…?».
Si precipitò alla finestra, al cui davanzale era appesa Annabelle. La afferrò per le braccia e con uno sforzo immane la tirò dentro. Lei rotolò sul pavimento come un sacco di patate.
«Si può sapere che diavolo ti è saltato in mente?».
«Volevo scappare, brutto figlio di puttana!».
Annabelle scattò in piedi, gli occhi fiammeggianti di rabbia, e senza alcun preavviso colpì Bill sopra l’orecchio con un qualche oggetto contundente. Si sentì come se la sua testa fosse stata messa in mezzo a due piatti da orchestra. Splash! Ondeggiò all’indietro di uno o due passi e inciampò su qualcosa. Finì col culo per terra. Quando la stanza intorno a lui smise di vibrare come un diapason, guardò in giù per capire su cosa fosse inciampato e mise a fuoco uno dei suoi stivali pitonati. Sgranò gli occhi, perché allo stivale mancava il tacchetto. Sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi ancora di più, perché il suddetto tacchetto era nella mano destra di Annabelle. Probabilmente era quello l’oggetto contundente con il quale l’aveva colpito.
«Stavo rivestendomi e ci sono inciampata sopra, proprio come te adesso», spiegò lei con una calma che preannunciava tempesta. «Il tacchetto si è staccato, e indovina cosa ci ho trovato dentro?».
Sollevò la mano sinistra, dal cui indice pendeva la collana di perle dello zio Sam.
Bill si esibì nel solito sorriso tutto denti.
«Posso spiegare, giuro».
Annabelle prese lo sgabello, lo posizionò di fronte a Bill e vi si sedette sopra, accavallando le gambe in modo elegante.
«Ti ascolto».
Lui prese un respiro profondo.
«Durante la partita di poker, ho capito una cosa molto importante».
«E cioè?»
«Che dovevo scegliere per cosa valesse la pena morire. Se per la mia grande partita o… per la donna che fischiettava, ovvero te. Delle due una, non potevo avere entrambe».
Il sopracciglio di Annabelle scattò in alto.
«Credo che secondo la tua logica contorta dovrei sentirmi lusingata. Dove vuoi andare a parare?».
Lui fece spallucce, massaggiandosi la testa ancora dolorante.
«Da nessuna parte, miss. Sto solo dicendo che sono un uomo molto avido».




Epilogo


Barando in ogni bar avevo imparato a immaginar,
valeva quello che volevo, quello che avevo in mano.
Il Quattro sarà presto Donna, il Tre un Cavallo.
Ho messo le ruote a mia nonna, ora è un carrello.



«Basta con i giochetti, parla chiaramente. Quando hai preso la collana? Ero lì con te, l’hai lasciata in quel mucchio di macerie, l’ho visto con i miei occhi!».
«Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, facendo quel che faccio, è immaginare. Prova anche tu, miss. Usa l’immaginazione».
«Ti ho detto niente giochetti!».
«Non sto giocando, dico sul serio. Quando sei venuta a propormi il tuo patto, nell’ufficio dello zio Sam, non ti sei chiesta quale fosse il mio piano per entrare nella camera blindata?».
«Be’, io… in realtà ero più concentrata sul tuo piano di fuga».
«Vedi? Non usi l’immaginazione. Devi sapere, mia dolce miss, che sono solo tre le caratteristiche che fanno la differenza tra un ladro professionista e un ladro dilettante: premeditazione, furtività e improvvisazione».
«Sì, ho visto quanto sei bravo a improvvisare!».

Premeditare vuol dire organizzare con largo anticipo nei minimi dettagli.
Quando arrivai in città, non si faceva che parlare di questo grande torneo di poker. Inizialmente pensai di iscrivermi e basta, stavo finendo il contante e, mettendo da parte la falsa modestia, il montepremi di un torneo di poker è grana facile per uno come me. Ma poi, più mi informavo sul torneo, più sentivo parlare del suo fantomatico organizzatore, lo zio Sam. E più drizzavo le orecchie, più saltavano fuori dettagli interessanti. Dettagli che mi fecero venire letteralmente l’acquolina in bocca, miss! Cominciai a pensare che accontentarsi di quei quattro spiccioli del montepremi era un insulto alla mia intelligenza e abilità, e così decisi che avrei rubato la leggendaria collana di perle. In realtà avrei anche potuto puntare ai soldi, come hai fatto tu, ma la collana valeva ben sette milioni di dollari ed era più pratica da portar via. C’erano solo tre problemi da risolvere, a quel punto: entrare nella villa, individuare la camera blindata e uscire dalla villa.

«Hai detto niente!».
«Be’, a dire il vero, sono i principali problemi di qualsiasi furto, miss».

Entrare era semplice, bastava iscriversi al torneo. Ma scoprire dove si trovasse la camera blindata e uscire dalla villa erano tutta un’altra storia…
Un giorno stavo sorseggiando birra al bancone di un bar. Accanto al mio sgabello era seduto niente poco di meno che lo sceriffo Wilson, che spettegolava come una vecchia comare con l’oste.
«Quel figlio di un cane dello zio Sam! Se continua di questo passo, finirà col perdersi in quella villa».
«Che se ne farà, poi, di un’altra ala? Ci vive solo lui».
«Manie di grandezza, suppongo. Quel povero architetto… finirà col farlo impazzire».

«Capito, miss? L’architetto!».
«No, non ho capito».
«Ma insomma, vuoi usarla, sì o no, questa immaginazione?».

Intrufolarmi nell’ufficio dell’architetto fu un gioco da ragazzi. Così come scassinare la sua cassaforte, dove teneva il progetto della nuova ala e di tutta la villa dello zio Sam. Feci una copia con la carta carbone di tutto, planimetria, impianto idrico ed elettrico, condotto dell’aria, non volevo lasciare nulla al caso, e poi rimisi la documentazione al suo posto. Se lo zio Sam avesse scoperto che le piantine erano state rubate, si sarebbe messo in allerta.

«La furtività, giusto».
«Esatto, miss».

Il miglior ladro è quello che non si fa scoprire, il miglior furto è quello che non viene scoperto. Non subito, almeno.
Passai dei giorni a studiare quelle dannate piantine, il giorno del torneo era sempre più vicino, senza cavare un ragno dal buco. Finché una sera… un’illuminazione! Il condotto dell’aria. Come avevo fatto a non pensarci prima? La villa non aveva finestre, ma in qualche modo l’aria doveva arrivare nelle stanze. In tutte le stanze, perfino quelle segrete. Seguii la linea che sul progetto rappresentava il condotto, fin quando non arrivai alla biblioteca. A differenza di tutte le altre stanze, la biblioteca aveva non uno ma ben due sbocchi per l’aria. Sovrapponendo il progetto del condotto alla planimetria, mi accorsi che qualcosa non quadrava. Sulla pianta della villa la superfice della biblioteca risultava più piccola e quindi il secondo sbocco per l’aria finiva nel nulla, come una strada ben indicata che non porta da nessuna parte. La camera blindata non poteva che trovarsi in quel punto!

«Quindi quando ti ho portato al nascondiglio segreto hai solo finto di non sapere dove si trovasse».
«Ebbene sì, lo ammetto».
«Figlio di puttana».
«Prima o poi ti stancherai di dirmelo».
«Ricapitolando… il tuo piano era arrivare alla camera blindata passando attraverso il condotto dell’aria… Ecco perché eri così sicuro di non perderti, lì dentro! Hai imparato la strada a memoria, non è vero? E ti sei fatto scoprire a barare di proposito per venire rinchiuso in una stanza. Lo zio Sam sarebbe stato occupato col torneo, gli uomini erano tutti impegnati a sorvegliare il salone o gli ingressi della villa, quindi tu avresti avuto tutto il tempo di agire indisturbato».
«Cominci a usare l’immaginazione, finalmente».
«Ti anno ammanettato alla poltrona e poi sono arrivata io».
«Ehm, non esattamente».

«Carino questo posto, ragazzi».
«Sta’ zitto e siediti. Tom, ammanettalo al bracciolo, tanto la poltrona è inchiodata al pavimento».
«Credete che allo zio Sam dispiacerebbe se bevessi un sorso di quello scotch? Ha un aspetto ottimo».
In risposta ricevetti solo un cazzotto. A pensarci bene sono stato malmenato un po’ troppo per i miei gusti, durante tutta la faccenda. Ad ogni modo, dopo che i due scagnozzi si furono chiusi la porta alle spalle, attesi qualche minuto per essere sicuro che non sarebbero rientrati e poi mi liberai delle manette con una forcina per capelli…

«Mi hai chiesto una forcina in prestito! Hai mentito perfino su quello!».
«Che ladro sarei, se non avessi una forcina per capelli sempre con me?».
«Aspetta un attimo, se ti sei liberato prima che arrivassi io, vuol dire che…».

Mi intrufolai nel condotto dell’aria dallo sbocco dell’ufficio dello zio Sam e arrivai indisturbato sopra la camera blindata. Tolsi la grata, assicurai la mia cintura all’asse del lampadario e mi calai giù, proprio davanti alla teca di vetro, rimanendo sospeso a mezz’aria per tutto il tempo: non potevo rischiare di attivare qualche trappola. Un'altra cosa che un buon ladro sa è che se il padrone di casa è così paranoico da far costruire un’intera villa senza finestre e nascondere una camera blindata dietro a una libreria, allora sicuramente ha predisposto anche qualche trucchetto per proteggerla, quindi è meglio toccare il meno possibile. Ho sgraffignato la collana e sono tornato nel condotto.

«Mi stai prendendo per il culo? La collana era al suo posto, quando siamo entrati insieme nella camera blindata».
«Ah, giusto, ho dimenticato un passaggio. Avevo nascosto una copia della collana nel tacchetto del mio stivale. Trenta perle di vetro. Ho semplicemente fatto uno scambio, e ho nascosto la collana vera sempre nel tacchetto dello stivale».
«Non posso crederci… quindi quella che mi sono infilata in mezzo alle tette era un falso?».
«Esattamente».
«Sei tornato nell’ufficio attraverso il condotto, ti sei ri-ammanettato alla poltrona e poi…».
«...e poi sei arrivata tu e hai rovinato tutto!».
«Oh».
«Già. Oh. Se non fossi arrivata tu, nessuno si sarebbe accorto di nulla per un po’. Lo sceriffo Wilson mi avrebbe portato lui stesso fuori dalla villa, senza alcun rischio, perché… ricordi? Ero stato arrestato. Scappare dalla prigione dell’ufficio dello sceriffo? Tsz. Bazzecole per uno come me! Quando lo zio Sam si sarebbe accorto del falso, sarei stato già lontano anni luce».
«Era un piano perfetto, Bill».
«Lo so, miss. Invece sei arrivata tu e mi è toccato improvvisare».


Annabelle girava in tondo in mezzo alla stanza, la fronte corrugata per la concentrazione. Bill la seguiva con lo sguardo, seduto a gambe incrociate sul pavimento. Gli sembrava quasi di sentire il cigolare degli ingranaggi del suo cervello che cercavano di far incastrare tutti i pezzi del puzzle.
«Perché hai accettato la mia proposta, se avevi già la collana con te?», chiese lei.
Lui roteò gli occhi.
«Per la seconda volta… mi tenevi sotto tiro con una pistola e minacciavi di denunciarmi, che diavolo avrei dovuto fare?».
«Dirmi la verità!».
«Non mi avresti creduto! E anche se mi avessi creduto… mettiti nei miei panni di ladro. Che ne sapevo io come avresti reagito? Avresti potuto prenderti la collana, avresti potuto pretendere di fare a metà… Dopo tutta la fatica che avevo fatto, se permetti, mi dava fastidio l’idea di cedere anche solo un decimo del bottino. Ho improvvisato. In queste situazioni è come con il poker, vale solo quello che voglio e quello che ho in mano o, meglio, nella manica. Sai come si dice in questi casi, no? Ho messo le ruote a mia nonna ed è diventata un carrello».
Annabelle si fermò di fronte a lui, lo squadrava dall’alto, con i pugni puntellati sui fianchi. La collana di perle era stata messa al sicuro in mezzo alle sue tette.
«Mi hai salvata due volte. Nella camera blindata e nell’ufficio dello zio Sam. E questa volta non mi freghi con le cazzate romantiche, okay? Voglio sapere perché. Potevi lasciarmi a morire sotto la sabbia e ti saresti scrollato di dosso un peso morto».
«Ci ho fatto un pensierino, non lo nego. Ma la campana aveva dato l’allarme. Lo zio Sam sapeva che era in corso un furto, con molte probabilità ci avrebbero preso. E mi faceva comodo che tu credessi di avere la vera collana, così non avrebbero perquisito me».
Annabelle assottigliò lo sguardo.
«Okay, e dopo l’esplosione, allora?».
Bill si grattò la nuca e sorrise.
«Te l’ho già detto, miss. Sono un uomo avido, mi piacciono i soldi e le belle donne. Se mi trovo costretto a scegliere tra i due, scelgo i soldi, ma se posso averli entrambi…».
Annabelle sbuffò.
«A questo punto preferivo la cazzata romantica».
Bill si mise in piedi e si avvicinò a lei con cautela. Non voleva rischiare di essere colpito ancora. Ci teneva, alla sua faccia. Quando fu chiaro che non aveva intenti violenti, le cinse la vita con un braccio e le sistemò un boccolo floscio dietro l’orecchio. Poi provò a farsi dare un bacio, ma lei glielo negò scostando il viso.
«Sei tanto arrabbiata con me?».
«Certo che sì. Mi hai usata per tutto il tempo!».
«Anche tu hai cercato di usare me per scappare dallo zio Sam. Direi che formiamo proprio una bella coppia, non credi?».
«Una coppia, certo. Nei tuoi sogni, forse».
«O incubi, magari».
Lei si lasciò scappare un mezzo sorriso, ma non diede segno di voler cedere. Bill sospirò.
«E se ti dicessi che voglio dividere la collana al venti e ottanta con te? Mi perdoneresti?».
Un adorabile guizzo furbetto prese a brillare nei suoi occhi azzurri.
«Cinquanta e cinquanta».
Bill sbottò a ridere.
«Ma se ho fatto tutto io!».
Lei lo spinse via, indispettita.
«Mi hai usata come diversivo».
«Solo perché avevi mandato a monte il mio infallibile piano».
«Allora mi accontenterò del quaranta».
«Venticinque, prendere o lasciare. E quando avremo trovato un posto sicuro, ti regalerò uno di quei vestiti piumati che ti piacciono tanto».
«Trenta. E l’abito me lo compro da sola. Anche perché credo che sarebbe un regalo più per te che per me».
«Sì, lo ammetto, adoro vederti con tutte quelle piume addosso. Abbiamo un accordo, allora?».
«Farai di me una donna onesta?».
«Farò di meglio, miss. Farò di te una ladra coi fiocchi».
Lei finse di pensarci su, accarezzandosi il mento, poi gli porse la mano.
«Andata!».
Bill fissò le sue dita corte e affusolate per un istante, ma invece di stringerle la mano, le rubò un bacio. E quando lei non si ribellò al furto ma anzi ne divenne complice, si sentì molto fortunato.
Del resto, era sempre stato un uomo fortunato. E rubare era la cosa che gli riusciva meglio nella vita.







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Note autore:
Questa storia è dedicata alla mia amica Dragana, che giorno 17 ottobre ha compiuto gli anni. È stata pubblicata con qualche giorno di ritardo, perché la festeggiata si trovava in Giappone a folleggiare e mi sembrava carino fargliela trovare al suo ritorno per arginare la nostalgia post-vacanza. E poi, se devo essere completamente onesta, la raccolta delle olive (sì, sono una campagnola) mi ha fregata di brutto, impedendomi di finire (diciamo pure di cominciare) in tempo.
È doveroso puntualizzare che Bill La Lucertola non appartiene a me, ma a Dragana. Potete ritrovarlo nella storia Alice non guarda più i gatti, che vi consiglio caldamente: si tratta di una reinterpretazione in chiave steampunk di “Alice nel Paese delle Meraviglie”.
Siccome non mi faccio mancare nulla, la storia ha partecipato anche al contest La vita è una rete di piccoli, invisibili appuntamenti, indetto da OttoNoveTre sul forum di EFP, e si è classificata al primo posto.
Angolo dei crediti.
Le strofe che introducono ogni atto appartengono alla canzone Western Bossa dei Nobraino, dalla quale (grazie al suggerimento di Dragana) ho tratto ispirazione per la storia.
I nomi “Maverick” e “Annabelle Bransford” sono stati presi in prestito dal film “Maverick” con Mel Gibson, che ho riguardo perché avevo bisogno di aiuto con il torneo di poker.
Infine, l’angolo dei consigli.
Sempre per festeggiare Dragana, Jo Lupo ha pubblicato una storia molto dolce con il mio JD come protagonista: Storia di un tatuaggio. Correte a leggerla se vi piacciono i tatuaggi, io l’ho adorata!
Credo sia tutto. Ancora tantissimi auguri a Veronica!
A presto, vannagio
   
 
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