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Autore: cliffordsjuliet    24/10/2014    3 recensioni
Ci sono storie che iniziano lentamente e si evolvono man mano.
E poi ce ne sono altre che, invece, iniziano solo finendo.
***
“Non dirò addio a nessuno, prima di andare via. Non saluterò i miei genitori, e nemmeno Jamie, né tantomeno Rebecca, l’unica amica che abbia mai avuto. Dire addio a qualcosa è il primo passo per imprimertelo dentro, e questa è proprio la cosa che voglio evitare.
Dimenticherò tutto.
Dimenticherò tutti.
Dimenticherò questo posto, Lui, e pure me. Che se mi scordo lui inevitabilmente scordo anche me stessa, che tanto non c’è differenza.
Siamo uguali da far schifo, Ashton, ma qualcosa di diverso lo abbiamo: io ricomincerò.
Tu no.

***
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=B29uqGz-sL4&feature=youtu.be
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Che rumore fa, qualcosa che finisce?
Qualcosa che è sempre stato e poi, di colpo, cessa di essere.
Che rumore fa un cuore che si ferma, per poi ricominciare la sua corsa malfermo, lentamente, controvoglia? Che rumore fa una persona quando crolla? E che rumore fanno i suoi occhi? Perché una persona può mentire quanto vuole ma i suoi occhi, gli occhi fottono sempre.
Così era stato anche per me. Avevo passato sedici anni della mia vita a tentare di tenere insieme una persona che poi, alla fine, aveva fatto a pezzi me.
Ed io, semplicemente, ero crollata.
Come crolla un castello di carte al primo soffio, ero caduta al suolo, distrutta. E non avevo fatto rumore. E allora come si fa, se non fai rumore?
Se sei distrutto e nessuno se ne accorge, e allora ti ritrovi tra le tue macerie da solo, come si fa? Se non fai rumore la gente mica lo nota, che è successo qualcosa.
Se c’era una cosa che avevo capito, in quei sedici anni passati ai palazzi, era proprio questa: la gente è cieca. Sente i rumori, se sono abbastanza forti, ma non vede.
Perché niente può contro la forza di volontà, e se è vero che “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”, io dico che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Perché ci vedevano, me ed Ashton divisi.
Mi vedevano, mentre me ne andavo per le strade da sola, mentre girovagavo anche di notte, consapevole che avrebbero potuto benissimo farmi anche fuori, a stare in giro a quell’ora.
E vedevano Ashton, sempre attaccato al culo secco di Rebecca che quando m’incontrava voltava la faccia. Ma lui no, lui aveva anche la faccia tosta di piantarmi addosso il suo sguardo verdastro, quello sguardo duro, che mi accusava di averlo abbandonato.
Quanto ci stavo male io, quando quegl’occhi incrociavano anche per sbaglio i miei, nessuno poteva capirlo.
Erano sguardi che duravano attimi, ma che a me sembravano sempre lunghi un’eternità. Poi i suoi occhi tornavano a rivolgersi a quelli di Rebecca, più chiari dei miei e meno tormentati. In quei momenti, che ci trovassimo per strada, nel palazzo o fuori al cortile, io scappavo via. Correvo, fuggivo come solo una vigliacca avrebbe saputo fare, e mi rintanavo in qualche angolo. A volte, se ero in vena, andavo da Michael.
Il problema era che Michael mi capiva fin troppo, alle volte, lui poteva essere chiuso quanto voleva ma io no, io ero un libro aperto per lui. Gli bastava guardarmi in faccia con i suoi occhi che parevano scannerizzarmi per capire ogni cosa di me. Avevo imparato ad odiare questo lato di lui. Ormai non facevo altro, io, odiavo, ero incazzata e non potevo sfogarmi, e l’unica via di fuga era l’odio.
L’affetto, l’amore, la felicità, io neanche sapevo cosa fossero.
Ma di odio, di odio ne avevo a quantità industriali.
Non sopportavo questa cosa di Michael perché mi faceva pensare ad Ashton, perché io da Mike non potevo sapere nulla che non volesse dirmi, mentre lui poteva avere su di me qualsiasi informazione desiderasse. Anche lui, senza volerlo, prendeva senza mai dare. Così facevano le persone, con me.
Prendevano, prendevano, prendevano.
Quando poi mi prosciugavo, mi gettavano in un angolo.
Ed io mi ritrovavo più sola di prima. E quando, finalmente, ritrovavo la forza di rimettermi in piedi e ricominciare a costruire qualcosa, puntualmente c’era qualcun altro che pretendeva. Ed io come una cretina non mi ribellavo, no, lasciavo che di me facessero quello che volevano. Che io sapevo urlare, sapevo gridare con quanta forza avessi in corpo, sapevo picchiare e scalciare, ma alla fine ero tutto fumo e niente arrosto.
I frutti dei miei sforzi, quelli se li godevano gli altri.
Io però a Michael volevo bene.
Era il mio migliore amico ed aveva diciotto anni, e lui non aveva bisogno di pretendere, perché gli avrei dato qualsiasi cosa. Che lui era solo, ed ero sola io, e questo non sarebbe mai cambiato, ma a stare soli insieme qualcosa migliora. Ci facevamo forza, io e lui, ci guardavamo in faccia e cercavamo di nascondere tutta la nostra paura, la paura di due ragazzini catapultati in un mondo più grande di loro, la paura di restare soli per sempre.
 
 
 
 
 
 
Ricordo che ci fu un giorno, uno che non scorderò mai, la data non me la ricordo nemmeno ma non è importante, perché quello che conta è quello che successe.
Michael venne a bussare a casa mia che erano le cinque di mattina, ed io ero sveglia, altrimenti col cazzo che l’avrei sentito. Bussava così piano che sembrava quasi timoroso di farsi sentire, quasi come se non avesse voluto che quella porta si aprisse.
E, se avessi saputo cosa mi aspettava, probabilmente non lo avrei voluto neanche io. Mi tirai giù dal letto attenta a non svegliare Jamie e poi indossai una giacchetta di lana sulla vestaglia da notte, prima di aprire la porta senza neanche controllare dallo spioncino.
E c’era lui, lì, in piedi ma con una smorfia sul viso, una mano premuta su un fianco, il fiato corto. Il suo viso era vitreo, più bianco del solito, e più bianchi di così non ci si poteva essere, se eri un essere vivente.
Il problema era che, in quel momento, Michael non sembrava un essere vivente.
“Mike, che cazzo hai?!” gli chiesi, e la voce che rimbombò per la tromba delle scale aveva un che di macabro. Non capivo perché si tenesse il fianco, non capivo perché fosse così pallido. Mi sarei data mentalmente della stupida più volte, dopo, ma in quel momento non capivo niente. O forse, come mio solito, non volevo capire.
Spalancò gli occhi, quasi come se il suono della mia voce l’avesse spaventato, e poi cercò di parlare con una smorfia di sofferenza.
“Beth… Ah… io…” tentò di dire, ma era palese che non sarebbe riuscito a parlare. Gli mancava il fiato, aveva l’affanno, neanche avesse corso per kilometri, fermandosi poi davanti alla mia porta di casa. Inarcai le sopracciglia perplessa e preoccupata, e fu in quel momento che la sua mano pallida si spostò, scoprendo il fianco.
Tutto ciò che vidi in quel momento arrivò distorto alla mia mente.
I vestiti erano squarciati, lerci, imbrattati di sudiciume, e sul suo fianco pallido c’era una ferita lunga e, a giudicare dal sangue che ne usciva, anche profonda. La pelle attorno ad essa era arrossata e lucida. Michael fu attraversato da uno spasmo, e di nuovo una sua mano scattò a mantenersi il fianco, stavolta l’altra.
Il suo viso era bianco, stravolto, i capelli attaccati alla fronte e madidi di sudore.
E le sue mani, Cristo, le sue mani di solito diafane erano lorde di sangue, quel sangue che continuava a sgorgare da quel taglio irregolare, senza volersi fermare.
Spalancai la bocca, ero convinta che avrei urlato.
E invece non uscì niente. Semplicemente mi spinsi contro di lui, lo costrinsi a sedersi sulle scale, gli scostai le mani dalla ferita. Poi corsi in casa a recuperare la cassetta del pronto soccorso, e di nuovo fui da lui.
Non ero bravissima, ma qualcosa sapevo fare.
Non era un posto sicuro, quello, quindi avevo dovuto imparare in fretta le nozioni di base del pronto soccorso. Che un giorno mi sarei potuta ritrovare mio padre, mio fratello, persino mia madre magari, in condizioni come quelle in cui si era presentato Michael, e avrei dovuto sapermela cavare.
Disinfettai la ferita, ci versai quasi un’intera bottiglietta di acqua ossigenata. Poi bagnai un pezzetto di cotone, e presi a tamponarla con quello fin quando la fuoriuscita di sangue non si fermò.
Merbromina, aspettare che si secchi, poi ago e filo per ricucire il taglio.
Michael non disse una parola. Strinse i denti per tutto il tempo, facendosi scappare solo raramente un verso di sofferenza. Non ero brava in quelle cose ma, se lo avessimo portato in ospedale, gi avrebbero chiesto come si era procurato quella ferita. E non ero tanto sicura che fosse un’informazione da poter rendere di dominio pubblico.
Certamente, gli avrei fatto anche io il mio interrogatorio.
Se credeva di presentarsi a casa mia con un fianco squarciato e pensava che me ne sarei stata buona e tranquilla, aveva sbagliato persona.
Ma Michael mi conosceva, a lui bastava guardarmi negli occhi per capirmi, quindi non ci fu bisogno di costringerlo a parlare. Dopo che lo ebbi medicato, ed ebbi buttato il cotone sporco e la bottiglietta vuota di acqua ossigenata, mi sedetti accanto a lui, in attesa che prendesse parola.
Michael sospirò con un’aria rassegnata, sapendo che stavo aspettando.
“Io sono un sicario, Beth” disse senza preamboli, con un’aria talmente sconfitta che per un attimo mi persi a cercare di interpretarla, non concentrandomi sul significato delle sue parole. Quando poi lo feci, però, sentii qualcosa sgretolarmisi dentro. Fu come un colpo al petto, una pugnalata, sentivo il metallo freddo contro le ossa, incastrato tra gli organi vitali. E faceva male. Tanto male.
“Mike…”
“No, aspetta” mi interruppe con decisione. “Fammi parlare. È così. Sono un sicario, Beth, e lo sono da quando avevo sedici anni. Non avrei dovuto dirtelo, ma lo avresti capito da sola. Lavoro per Andrew. Lui mi trovò quando avevo dodici anni ed ero ancora a Los Angeles, un anno dopo la morte dei miei in un incidente aereo. Mi avevano appioppato ad una casa famiglia, ma io me ne scappai. Immagino che mi abbiano cercato per anni, ma dopo un po’ archiviano tutti i casi. Non posso saperlo di sicuro, perché sono venuto qui con Andrew neanche un mese dopo la mia fuga. Quando lo incontrai ero appena un bambino, e girovagavo da qualche settimana. O meglio, stavo nascosto tutto il giorno, poi la notte uscivo e senza farmi notare derubavo le persone. Pensavo che sarei potuto andare avanti solo così. Purtroppo, però, incappai nella persona sbagliata. Tentai di derubare Andrew. Lo avevo notato perché era vestito abbastanza bene, e aveva quell’aria un po’ seria che, per un bambino piccolo come me, poteva significare solo altezzosità. Chissà perché, mi convinsi che una persona così seria dovesse essere per forza ricca. Lo seguii per tutta la serata, e lui mi notò, ma io non me ne resi conto. Poi, quando si fermò ad un telefono pubblico per un’interurbana, mi decisi ad avvicinarmi. Non avevo notato che lui era lì fermo senza dire niente, aveva solo appoggiato il telefono all’orecchio, senza neanche comporre il numero. Non avevo notato la sua postura rigida, o il fatto che mi osservasse con la coda dell’occhio. Mi avvicinai e, quando pensavo che ormai sarebbe andata bene, si girò di scatto. Mi guardò in faccia, poi scoppiò a ridere. – Ne hai di cose da imparare, ragazzo. Chi sei? – mi chiese. Non gl’importava che avevo cercato di derubarlo. Gli raccontai chi ero e cosa facevo, e lui mi prese con sé. Non mi disse subito ogni cosa di sé o del suo lavoro, aspettò di potersi fidare. Mi dava ogni volta poche informazioni, misurate col contagocce, fin quando non crebbi, legato a lui da un patto d’onore che non avrei potuto dissolvere. Allora, a quel punto, mi disse cosa faceva. Mi disse che avrei potuto guadagnare anche io, se lo avessi seguito. E una volta messo da parte il mio gruzzolo, me ne sarei potuto anche andare. A lui però servivano due braccia forti e giovani, Andrew è uno solo e, anche se si tiene in forma, il tempo non risparmia nessuno. Accettai. Avevo solo sedici anni, Beth, e adesso che ne ho diciotto ho capito che da cose come queste non se ne esce mai. Sono legato per sempre a lui per una questione di onore, lo stesso onore che mi ha fottuto anni fa”.
 
 
 
Ero rimasta in silenzio tutto il tempo.
Non era mai capitato che Michael si aprisse tanto, che raccontasse tanto di sé stesso. Peccato che tutta quella storia mi facesse venire solamente il voltastomaco. Mi ritrovai a piangere, ma la mia espressione rimase immutabile. Immobile, imperturbabile.
Più tardi avrei capito che, in quel momento, persino Mike fece fatica a capire cosa mi passava per la testa.
Poi improvvisamente lo abbracciai.
Lo abbracciai, stringendomi a lui come avrei potuto aggrapparmi ad un’ancora se fossi stata una naufraga in mezzo ad un mare in tempesta, affondando il viso nel suo collo, stringendo le mani attorno alla sua schiena. Feci attenzione a non fargli male ma lo strinsi ugualmente forte, quasi fino a non poter respirare.
Quella fu l’ultima volta che vidi Michael.
Dopo che se ne fu andato, arrivò la polizia ai quattro palazzi.
E quel bastardo di Andrew era scappato. Dove? Chi lo poteva sapere. Si era nascosto, ma Michael non ci era riuscito, aveva diciotto anni e tutta la furbizia e la scaltrezza che fosse riuscito a mettere insieme, anche se si credeva un uomo vissuto, non sarebbero mai bastate a salvarlo.
A volte va così, mi dissi.
A volte le persone si fidano, e lì sono fottute.
Era quello che mi ripetevo mentre osservavo il mio amico che, con le mani ammanettate dietro alla schiena, veniva portato via.
A volte, poi, capita che le persone si affezionino.
E lì si fregano due volte, si mettono con le mani nel sacco da sole.
Io a Michael mi ero affezionata.
Ma tutto ciò che amavo, prima o poi, mi abbandonava.
Avrei imparato con il tempo a non legarmi più a nessuno.
Sarei stata la mia unica compagna di vita.





#Chiara's space.
Mi aspetto di tutto.
Di essere battuta, bastonata, malmenata nelle peggiori maniere.
E me lo meriterei perché, dopo tutto il caos che sto infliggendo alla povera Beth, questo capitolo è stato il colpo di grazia. Mi è venuto anche abbastanza lungo, e mi dispiace per Michael, e per la fine che gli ho fatto fare. Purtroppo doveva andare così, è la regola dei quattro palazzi, di chi lì ci incappa e allora capisce di essere fregato.
Ringrazio come sempre voi che recensite, preferite, seguite o ricordate. Mi rende sempre felice vedervi o leggere le vostre parole, davvero. Ora vado, rispondo subito a tutte le vostre recensioni, ci vediamo la settimana prossima!
Chiara.xx

 
  
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