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Autore: Biecamente    25/10/2014    1 recensioni
La maestosa Cattedrale di San Pietro era il palcoscenico. Borromini e Bernini erano i due protagonisti. La loro arte era la trama di quell’opera che si prestava ad essere scritta col dinamismo e il decorativismo tutto barocco, spiata tra colonne tortili e dall’uscio di facciate concave, sospirata dalle statue parlanti e dal gorgoglio di mille fontane.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Tal Baldacchino di San Pietro
a tale by Biecamente












La maestosa Cattedrale di San Pietro era il palcoscenico. Borromini e Bernini erano i due protagonisti. La loro arte era la trama di quell’opera che si prestava ad essere scritta col dinamismo e il decorativismo tutto barocco, spiata tra colonne tortili e dall’uscio di facciate concave, sospirata dalle statue parlanti e dal gorgoglio di mille fontane.

Si può dire fu casuale il loro incontro tanto quanto può essere definito casuale che sotto commissione un pittore dipinga: si incontrarono, ordunque. Gian Lorenzo Bernini, in veste dello scultore affermato qual era, era stato convocato dal papa; Francesco Borromini fu convocato alla stessa maniera ma principalmente per le abilità architettoniche ch’egli aveva e di cui il primo era privo. Era il manifesto del barocco romano quello che si prestavano a scrivere con le proprie mani, era il più esemplare arredo di natura barocca che mai sia stato concepito et era anche il progetto che li fece conoscere e li divise, al contempo.

Eccoli, nella fase ideativa del sontuoso Baldacchino di San Pietro: erano chini ognuno sui propri incartamenti, un po’ discosti l’uno dall’altro per l’attrito di quella prima timidezza nei confronti d’uno che non si conosce. Bernini sollevava lo sguardo di tanto in tanto, il suo sguardo fiero e illuminato del fuoco che corrode l’animo di un artista; sollevò lo sguardo dai mirabili schizzi scultorei e lo fissò sul collega assegnatogli dalla curia papale per quel lavoro. Borromini non si era mosso di un millimetro da quando aveva srotolato le proprie carte, se non la mano s’era mossa a seguire linee con la leggiadria e la consapevolezza di colui che conosce il mestiere suo. Era chiuso, Borromini, nella sua pace idilliaca e serena nata dal veder crescere pian piano sulla carta un progetto ch’è degno di lode e che, si sa, sarà ancor più lodevole una volta portato a termine. Poco gli interessava del collega assegnatogli per la parte scultorea e decorativa di quell’opera: ne aveva sentito parlare bene, gli avevano raccontato come fosse ben inserito nell’ambiente, come avesse numerose conoscenze: ad ogni modo tutto ciò non lo riguardava. Gian Lorenzo Bernini aveva ancora la matita a mezz’aria, la grafite di per sé annaspava alla ricerca del foglio – tale il desiderio ideativo – ma gli occhi dell’artista erano catturati dalla nuca di Borromini e nulla li avrebbe distolti dal culmine del proprio interesse. Forse, se il collega avesse risposto al suo sguardo, forse, se con un sorriso gli avesse porto una parola gentile; forse, allora, la grafite avrebbe ritrovato il suo terreno di linee arzigogolate. Francesco Borromini, per decorosa risposta, non si degnò neppure di mostrare la fronte allo scultore che gli era accanto: tutto accucciato sull’ultima panca prima del maestoso altare a parete, s’era anche accorto che Bernini aveva smesso di disegnare: non diede troppa considerazione alla novità, bensì l’accattonò come smentita sull’eccezionalità dell’individuo che gli era collega. Meglio per sé, meno concorrenti sulla piazza.

«Ehm. Ehm», Bernini si schiarì la voce con molto poco garbo e l’eco si spense lentamente nell’enorme Cattedrale vuota. «Messere», esordì. Aveva sperato di distogliere Borromini dal disegnare già con lo sfrontato “ehm-ehm”, ma questi s’era ancor più incassato la testa tra le spalle mentre disegnava. «Messere, non per interrompervi, eppur’io non posso proseguire se voi non mi mostrate la struttura di codesto baldacchino. Debbo posizionar le figure».

Avrebbe continuato a parlare – ormai aveva stracciato il veltro di timidezza che l’aveva impedito sinora: non proseguì unicamente perché erano gli occhi di Borromini, ora, a fissarlo, non la sua nuca. Et erano gli occhi sublimi di un artista dai quali traspariva il metodo e la precisione ch’egli poneva nei propri progetti, s’intravedeva la passione come aria che spirava attraverso ogni membrana del giovane uomo; Bernini s’ammutolì. Chiunque lo conoscesse se l’avesse visto in quel frangente – tutto esagitato e muto – avrebbe stentato a riconoscerlo. Gian Lorenzo Bernini non era questo: egli era fuoco ardente, indicibile voglia di fare, sempre in movimento anche da fermo. Et ora era fermo, muto.

«Non ho ancora finito», disse l’uomo dalle poche parole e riprese donde aveva lasciato.

Gli avesse parlato in tali termini chiunque altro, Bernini ne avrebbe realizzato una statua affatto realistica a suon di percosse: era il proprietario di quegli occhi e quell’animo che aveva intravisto a parlare, perciò si limitò a scivolare sulla panca accanto a lui e spiare il suo lavoro. Si puntellò con gomiti e ginocchia affinché potesse spiare senza essere notato e piazzò il proprio volto nell’incavo della spalla del collega. Il profumo di china e carboncino, carta da spolvero e grafite trasudava da ogni poro componesse la mirabile figura di Francesco Borromini; forse, erano solo le immense tavole di schizzi ch’egli teneva in grembo. Spiò nascostamente Bernini, col cuore gonfio di ammirazione per quel collega tanto apprezzabile, ma il suo petto era abbastanza vasto per coltivare anche un altro sentimento: l’invidia, il terrore di essere rimpiazzato dall’ultimo arrivato. Fu così che prese una delle proprie quotidiane decisioni d’istinto le quali spesso l’avevano condotto all’obiettivo cui mirava e altrettanto spesso l’avevano messo in situazioni ben problematiche: decise di posare le proprie seriche labbra sul collo contratto di Borromini.

«Messere! Cosa..?», esclamò sbigottito questi, sobbalzando e, in tale movimento, perdendo a terra gran parte dei propri incartamenti. Gli doleva la testa fin da prima et ora, stranamente, le tempie gli pulsavano di più in un accelerato ritmo che tentava di congiungersi all’improvvisamente sovreccitato battito cardiaco. «Messere, cosa diavolo…voi?». Ma ancora una volta non riuscì a pronunciare una frase di senso compiuto ché Bernini lo fissava con gli occhi socchiusi dalla lussuria.

«Il vostro progetto, esimio collega», gli alitò all’orecchio con la voce d’un tratto vellutata – tanto celere era stato quel cambio di tono da parer il suo proprio marmo e la pluralità di materiali ch’egli riusciva a farne scaturire. Le labbra di Bernini erano diventate come quelle delle proprie sculture e non riuscivano a chiudersi, non completamente: ci provava ed esse carezzavano il padiglione auricolare di Borromini restando comunque socchiuse. «Il vostro progetto è di una bellezza unica. Quelle colonne spiraliformi che s’avvolgono con tale dinamismo… Quella copertura a dorso di delfino…». Tra una melensa lusinga e l’altra catturò la bocca del collega e lo baciò con la voracità con cui un uccello predatore s’impossessa della preda agognata.




Francesco Borromini era affatto incapace di volontà nel frangente in cui camminava a falcate posate verso la Cattedrale. San Pietro gli si stagliava di fronte con l’austerità e la magnificenza del potere papale ed egli vi camminava incontro nel fruscio dei rotoli di carta che si portava appresso. Borromini era ancora assolutamente all’oscuro delle ragioni che avevano spinto se stesso ad accettare le moine di Gian Lorenzo Bernini e maggiormente si domandava i motivi che avessero spinto questi ad affezionarsi tanto morbosamente a lui. Non si toglieva dalla mente quello sguardo con cui Bernini era solito fissarlo per ore: teneva le palpebre cadenti e si limitava ad assumere codesta espressione di ammirazione sconveniente e affatto sproporzionata che distoglieva del tutto Borromini dal proprio lavoro. Anche qualora fosse riuscito a levarsi dal raggio d’azione della lussuria del collega, anche al sicuro tra le pareti del tugurio che aveva il dire di chiamare “abitazione”; anche allora, lo tormentava tale sguardo sicché aveva arbitrariamente deciso di lavorare di notte. Approfittava della mattinata per conoscere e presentarsi a nuovi possibili committenti e del pomeriggio per riposare per quello che Bernini gli concedeva, dato il proliferare delle visite a sorpresa, e di notte disegnava per il Baldacchino. Solo di notte riusciva ché era tanto spossato e l’occhio tanto vacuo da non concedersi neanche il lusso di vagabondare tra le illusioni. Et era tra una notte e l’altra che giunse la data cui avrebbero dovuto presentare il proprio lavoro.

«Ah, eccovi, Francesco! Cominciavo a dubitare di voi. Sono stato proprio uno sciocco a dubitare del mio caro amico»,lo salutò in una profusione di smielate lusinghe Gian Lorenzo Bernini che attendeva da un po’ sull’uscio dell’ufficio papale. Bernini aveva colto fin da subito l’occasione di chiamare il collega col nome di battesimo e approfittava d’ogni frangente per usufruire di quel nome che sentiva appartenergli. A Borromini fu negato anche il secondo che avrebbe impiegato a rispondere al saluto ché la porta di spalancò loro dinnanzi e furono invitati ad entrare.

Nella stanza piccola ma accogliente e lussuosamente arredata, seduto dietro una scrivania dalle importanti proporzioni, sedeva uno scheletrico cardinale – il portavoce del papa. Questi esaminò con un’attenzione non indifferente i progetti che Borromini istantaneamente srotolò sulla scrivania e chiedeva e domandava d’ogni cosa non capisse con un tono stridulo e lamentoso al contempo. Solo quando ebbe soddisfatto ogni suo dubbio, fece un segno indiscutibile col capo e Borromini riarrotolò i disegni. Fu allora, girandosi anch’egli verso il collega, che si accorse che questi s’era presentato al cospetto della curia papale sprovvisto di alcun progetto.

«Mio signore», ebbe pure l’ardire di chinare la testa rispettosamente. «Il mio amico qui presente vi ha portato schizzi, disegni e progetti. Io vi porto l’opera». Si drizzò nella sua altezza e recuperò un involto dalla borsa. «Eccovi, il primo ed unico bozzetto del Baldacchino in onore di sua Immensità, il Papa». Effettivamente un piccolo baldacchino rifinito in ogni suo particolare aveva fatto capolino dall’involto ed ora faceva bella mostra di sé sull’imponente scrivania. A Borromini riusciva inconcepibile l’immagine che il suo occhio catturava nitida: non poteva credere alla sfacciataggine con cui Bernini aveva esordito a quell’importante colloquio tantomeno credeva al viso illuminato di gioia che mascherava la faccia rugosa che il cardinale aveva avuto sinora. Era uno spettacolo grottesco il cui unico fine era mostrare quanta veridicità v’era nelle voci ch’aveva udito su Gian Lorenzo Bernini. Si ripudiava e si ripugnava per i pensieri osceni sui quali era talvolta scivolata la sua mente; si colpevolizzava per aver dato tanta corda all’uomo che si rivelava essere Bernini. Ora che scopriva quante volte fosse comparso a casa sua con la mera motivazione di spiare il suo lavoro prima che fosse terminato, si disgustava d’avergli aperto la porta, d’essersi fatto cacciare il proprio indirizzo. Si ripeteva alla maniera di un rito liturgico quanto fosse un uomo biasimevole. Con tali congetture in mente decise di non averci più nulla a che fare.




Non è facile smettere d’avere un rapporto stretto col proprio collega, specialmente se il lavoro cui ti affianca si presume diverrà il manifesto d’una nuova corrente artistico-culturale. Specialmente se il tuo collega di nome fa Gian Lorenzo Bernini.

Bernini ignorava affatto il flusso di coscienza ch’aveva cambiato la maniera con cui Borromini lo guardava; ignorando questo, continuò a tessere l’affettuosa amicizia che nutriva nei confronti del collega condendola con sana stima reciproca. Ciò che non aveva alcun modo di conoscere, non l’affliggeva minimamente. Così accadde un giorno durante il quale i due erano assieme ad occuparsi del cantiere nel mezzo della Cattedrale di San Pietro, fu allora che taluni discorsi in sospeso vennero a galla. Non erano soli: c’era con loro il legno, che Bernini aveva scelto, i blocchi di marmo che sarebbero divenuti piedistalli, bozzetti in argilla di particolari decorazioni che sarebbero stati dorati, e gli occhi vigili d’una manciata d’operai. Era l’ultima presenza quella di cui lo scultore era arduo si accorgesse.

«Francesco. Francesco, vi prego. Necessito la vostra considerazione. Et un sorriso», si rivolgeva ad un oberato Borromini che si destreggiava tra lo spartire i compiti agli operai e lo spiegare cosa fosse una colonna tortile.

«Certo, certo,Bernini. Datemi un attimo», gli scappò di bocca mentre descriveva minuziosamente ad un altro dove dovessero essere impiantate le colonne.

«E così mi chiedo e mi struggo: m’ama o non m’ama, il mio fascinante architetto?», mugolava tra sé incapace di star muto un secondo ancora e movendosi tutto, seppur seduto, in un andamento spiraliforme.

Borromini udendo i suoni lamentosi provenienti dalle labbra socchiuse del collega, diede sbrigativamente le ultime direttive e si prostrò davanti a Bernini il quale s’era inerpicato su una pertica dell’impalcatura. «Cosa volete?», esalò al culmine dell’esasperazione.

«Francesco siete uno stolto. Voi. È naturale che voglia voi».

«Non fatemi ridere in una Chiesa, Bernini»

«Non capisco cosa possa esserci di esilarante. Quante volte vi avrò detto che vi amo, che la stima che nutro in voi è più…»

«Zitto», sibilò intimidatorio Borromini interrompendolo. «Statevi zitto. Ne ho abbastanza delle vostre moine. Ho sopportato anche a lungo le vostre false lusinghe, le vostre elaborate odi al mio lavoro: ormai ho capito il vostro gioco. Vi prendete gioco dei miserabili come il sottoscritto a questo modo? Vi diverte deridermi coi vostri amici abbienti? Ridete tanto di me alle mie spalle? Ah, come vedete, ho capito i vostri inganni da quattro soldi. Ho letto esaustivamente la vostra strategia, ordunque potete anche accattonarla perché mai più lavoreremo insieme e mai più vi mostrerò i miei disegni. Li vedrete quando il palazzo sarà stato eretto da un buon mesetto».

Bernini ch’era rimasto pugnalato dal suono aspro di quella zeta acida, si riprese nel frangente atto a rispondere a dovere: «Ve la siete presa? Oh, mio caro Francesco, vi siete offeso per la storia del bozzetto? Non prendetevela tanto: è la vita. Se sono stato scortese, vi rivelo che mai è stata mia intenzione. Volevo donarvi tutto il mio affetto e la mia stima esclusivamente per poter avere il privilegio di crescere nella vostra magnifica ombra».

«Non scorgo vostri amici nei dintorni, non capisco perché continuare a deridermi a questo modo. Mi fa male che voi mi parliate in tal senso ed ignoro le vostre parole. No», continuò fermandolo prima che potesse aprir bocca. «No, non vi credo più. Non continuate con la vostra solita solfa sulla meraviglia dei miei progetti, sulla forma sublime delle mie creazioni. Voi, proprio voi che siete già il più rispettabile artista in città, non avete alcun dover nei miei confronti tantomeno siete obbligati a dire le immense falsità che ogni giorno mi sorbite con la definizione di lodi. Non voglio i vostri complimenti. Non mi servono». Aveva gli occhi rossi – tant’era infervorato che nello sforzo di sussurrare qualche capillare sarà scoppiato; aveva gli occhi rossi e lacrime non richieste e che mai presero forma perlacea vi risiedevano in attesa.

«Francesco…», tentò in un bisbiglio inudibile. Era fermo nella convinzione ch’egli potesse udirlo, che avesse udito eppure, per orgoglio, fingesse d’essere sordo come gli altri. Quando aveva cominciato la malsana relazione che si era conclusa a tale vergognosa situazione, Bernini non pensava ai sentimenti di Borromini: mai s’era fermato a rifletterci, mai aveva pensato ne avesse di sentimenti. Sperava di prendere il collega sotto la propria protettrice ala e così indirizzarlo al meglio affinché scegliesse lavori che ricoprivano ruoli tali da nient’affatto rovinare la propria di carriera. Codesto era il proprio obiettivo e s’era avvicinato tanto quanto i manieristi alla regola classica.

Gli operai, che s’erano immobilizzati ai propri posti a seguire l’animato diverbio, avevano ripreso le mansioni non senza qualche borbottio, messo a tacere da un isterico Borromini.





Et eccolo, in tutta la magnificenza cui ha fatto scuola, nel dinamismo spiraliforme coinvolgente, nel connubio di materiali che lo rende un’unità pluralistica; eccolo, il Baldacchino di San Pietro. In tutta la storia che da progetto l’ha fatto divenire oggetto con un proprio tempo ed un proprio spazio, ancora manca il divario definitivo, la salda frattura che legherà e dividerà, per la loro intera vita, Borromini e Bernini.

Giunse il giorno della consegna del progetto finito in ogni decorazione, in ogni meccanismo strutturale; giunse tale giorno atteso ché anche giorno di paga per un artista. Borromini guardava di sottecchi Bernini: lo guardava perché, anche se era stato egli stesso a decretare la fine d’ogni loro relazione, sentiva alla medesima maniera d’essersi strappato qualsivoglia organo mediamente importante dal petto; et ora lo guardava con il desiderio con cui passava le giornate a fissare la porta d’ingresso del proprio tugurio. Bernini guardava con la coda dell’occhio Borromini: lo guardava perché sentiva lo sguardo dell’altro su di sé e non riusciva a sostenerlo e si voltava – sempre in tal frangente l’altro aveva girato gli occhi; ogni sua membra fremeva terribilmente dal desiderio di, anche solo, toccarlo. Così orbitavano i loro sguardi di fronte alla curia papale ch’avrebbe di lì a poco stipendiato i due.

«Non posso credere», bisbigliava con l’angolo della bocca rivolto verso Borromini. «Che abbiamo creato questo capolavoro senza neanche consultarci. Voi smontavate il cantiere, io arrivavo e lo rimontavo». Sorrise tra sé divertito. «Avremo squilibrato affatto i poveri operai datici. Li penso mentre smontavano il cantiere e l’un l’altro si dicevano: “Tanto ci toccherà rimontarlo tra dieci minuti”». Nel vedere che il suo mezzo sorriso si rispecchiava sul volto di Borromini, gli parve di non poter trattenersi oltre: spostava il peso da un piede all’altro, il respiro sempre più ansante e le mani in visibilio dal desiderio di posarsi sulla carne del proprio collega. Ma non poteva: ne conosceva i motivi e li rispettava, così se ne stette col proprio male interiore.



A Borromini diedero un ben misero sacchetto d’oro rispetto alla paga ch’era toccata a Bernini – talmente era ingombrante che in nessun modo riuscì a dissuaderne le fattezze. Mai Gian Lorenzo Bernini s’era sentito tanto d’impaccio per una ricompensa tanto generosa, ne aveva avute di più esorbitanti eppure non ricordava alcun tipo d’imbarazzo. Mentre il suo sguardo era fisso sul proprio sacco di denaro soppesando come meglio farlo scomparire, ecco che una mano si poso sulla sua: non ebbe bisogno di vedere il volto cui tale mano appartenesse per riconoscerla: era tutta la sua persona a riconoscerla, non gli occhi soli. Poi, vide il suo viso con quei tali occhi ov’era racchiuso l’animo che amava più del proprio et ogni sua membra rabbrividì di piacere. Avrebbe desiderato slanciarsi verso l’altro com’era solito fare prima, ma ora i loro rapporti erano sì congelati che Bernini capì istintivamente sarebbe stata una pessima idea. Se l’architetto lo guardava negli occhi, da viso a viso, non era per piacere personale.

«Non mi tocca che voi abbiate avuto i denari», disse con la voce stretta in una gola secca. «bensì mi spiace che godrete l’onor delle mie fatiche». E così parlando, si congedò dall’unico affetto lo trattenesse nella vita terrena.
  
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