Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Midnight Writer    26/10/2014    5 recensioni
“Tu non sai quante cose ho fatto solo grazie a te. Tu non sai per quanto tempo ti ho amato in silenzio, beandomi di ogni tua parola e di ogni tuo atteggiamento, tentando però di reprimere questa sensazione in ogni maniera. E stavo sempre in silenzio e coglievo al volo ogni occasione buona per soddisfare la mia bellissima e tremenda assuefazione a te. Ogni tuo respiro e ogni tuo tocco erano come un alito di vita nuova per me. Tu... Tu sei la mia seconda possibilità. Sei la mia possibilità di redimermi e di scrollarmi di dosso questa tristezza opprimente. Sei la mia opportunità di credere ancora che la vita sia bella. Sei così tante cose che non posso nemmeno dirle a parole perché le sminuirei. Sminuirei ciò che tu mi fai sentire. Sei così importante e nemmeno te ne rendi conto. Sei tutto per me e pensi che nella mia vita ci possa essere spazio per amare qualcun altro come amo te. Sei davvero così cieco, Armin?”
[serie di appartenenza: "Alice's story"]
[prequel: "Hero"]
{Capitoli 7 e 8 in fase di riscrittura}
Genere: Angst, Comico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Nuovo personaggio, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Alice's story'
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Chapter 1. New school new life! - In the end, what's a smile?
 
 
 
La storia che state per leggere è la storia di una ragazza
Come tante.
Che va al Liceo Classico
Come tante.
Italoamericana
Come tante.
Vittima di bullismo
Come tante.
Orfana
Come tante.
Era come tante, lei, ma era unica nel suo esserlo.
Piacere, il mio nome è Alice Sweets e questa è la mia storia.
Come ho già detto il mio nome è Alice, ma non pronunciato all’italiana, bensì pronunciato Elis, all’americana appunto, e quello era il mio primo giorno del primo liceo. Cioè, terzo liceo... Insomma, terzo anno di Liceo Classico. Come ogni anno in una scuola nuova. Quell'anno mi toccava il Liceo Leonardo Da Vinci, l'anno prima mi era toccato il Liceo Vasco De Gama, l’anno prima ancora non lo ricordo nemmeno più. Ma adesso che ci penso, che nome è Vasco De Gama? Non so, ma di sicuro non è un nome da dare ad un Liceo. E sì, esattamente, cambiavo scuola ad ogni nuovo anno.
Cercai di scacciare via qualunque pensiero che non fosse la quinta declinazione di latino oppure il participio presente medio-passivo del verbo λύω* e decisi di abbandonarmi completamente alla musica che risuonava solo per me grazie alle mie preziose cuffie. Il ritmo di “Forsaken”** invadeva il mio cervello mentre alzavo il volume, smettendo solo quando questo arrivava al massimo, permettendomi così di annegare tutto nel testo di quella canzone. Subito prima di entrare mi fermai a specchiarmi su un vetro e vidi la stessa persona di sempre: una quindicenne un po' bassina, dai capelli biondo cenere ornati da qualche ciocca blu qua e là, lunghi fino a metà schiena e caratterizzati da un ciuffo che ricadeva sull'occhio sinistro, e sempre con gli stessi occhi di un profondo blu oceano contornati da una sottile riga di eyeliner e un po' di mascara neri, per la prima volta notai quanto i miei occhi sembrassero già stanchi della vita. Camminavo per gli ampi corridoi della scuola e mi guardavo intorno.
‘Asettico’.
Quella fu l'unica parola che mi venne in mente guardando qual corridoio dipinto di bianco, quel pavimento di mattonelle bianche e quelle luci al neon bianche. Tutta la gente che vedevo intorno a me era vestita allo stesso modo: con la divisa scolastica. Credevo di essermi iscritta nell'unica scuola italiana che imponeva ai suoi studenti le divise. Però in fondo non erano poi così brutte, o forse ero solo io che trovavo confortante l'impossibilità di venire derisi a causa del vestiario. Grazie alla divisa eravamo tutti uguali e sobri: una camicia bianca, una cravatta bordeaux con delle sottili righe blu notte, una giacca dello stesso blu scuro, quasi nero, con dei dettagli bianchi e una gonna lunga fino a metà coscia decorata con una fantasia scozzese rossa, blu e bianca; per i ragazzi invece erano d'obbligo dei semplicissimi jeans; infine delle calze lunghe fino al ginocchio bianche o blu (io le portavo bianche) e delle ballerine blu. Non sarà stata il massimo dell'eleganza ma a me piaceva. Continuando a camminare notai un gruppo di ragazze parlare ad un tizio alto circa un metro e sessanta che, per un qualche assurdo motivo, non indossava la divisa. Leggendo il loro labiale mi accorsi che ciò che stavano dicendo a quel tizio consisteva in delle avances molto sessualmente esplicite, pensai che me lo aspettavo in fondo. Quello lì sembrava proprio il tizio con il quale una donna affamata di piacere sessuale vorrebbe condividere il letto, anche se solo per una notte. E purtroppo oggi il mondo è pieno di ragazze che cominciano a bramare quel tipo di piacere fin troppo presto.
Mentre camminavo stringevo nella mia mano il ciondolo che portavo al collo: una chiave. Però non era una chiave qualsiasi; era la chiave della camera accanto alla mia, non sapevo cosa ci fosse dentro quella stanza: sapevo solo che mia madre mi aveva lasciato la chiave quel dannato giorno di due anni prima. In quel momento i ricordi mi assalirono.
 
Vidi mia madre distesa su un letto di ospedale mentre sentivo un continuo ‘bip’ soffuso: quel fastidioso suono altro non era che l'unica cosa ad indicarmi che lei era ancora viva, la sua frequenza però stava diminuendo.
—Mamma, non lasciarmi adesso. — Le dissi con voce rotta dal pianto mentre le mie lacrime salate cadevano sulla mano che le stavo stringendo 
—Amore mio... Mi dispiace: non potrò mai vederti entrare al Liceo...— La sua voce era quella di una persona che non ha nemmeno più né voglia né forza di lottare per la propria vita 
—No, mamma! Tu mi vedrai diplomarmi, e laurearmi, e sposarmi... Tu vedrai tutta la mia vita! Lo farai mamma! — Ma io sapevo che non sarebbe successo.
—Piccola...— Disse -fammi un favore: slacciami la collana. -
Gliela sfilai delicatamente dal collo e la esaminai: una vecchia, piccola chiave di ferro. Capii subito cosa apriva: la camera accanto a quella nella quale dormivo io... Inviolata da quando ne ho memoria, tra l'altro era l'unica a stanza in cui non era mai stata cambiata la serratura.
—Mamma... Perché? —
—Promettimi che la aprirai solo quando avrai trovato il vero amore. Promettimi che la aprirete insieme, promettimi che non varcherai quella soglia prima di allora...—Disse mentre il suo tono di voce andava abbassandosi
—Finalmente potrai ricongiungerti a papà. Sono felice. Ti voglio bene, mamma. — Dissi sorridendo amaramente tra la lacrime, mente il ‘bip’ si prolungava in un suono lungo e penetrante, e poi più nulla. Come a ricordarmi che da quel momento avevo solo il nonno e la nonna: loro si sarebbero presi cura di me.
 
Cercai di ricacciare indietro le lacrime che si erano già formate nei miei occhi.
Continuavo a camminare cercando di non farmi notare, finché la mi attenzione non venne catturata da una scena fin troppo, purtroppo, familiare: un ragazzo alle prese con dei bulli. Mi fermai e stetti a guardare la scena per un paio di secondi, come a voler analizzare da un punto di vista esterno ciò che era solito succedere a me. Mi trovai davanti un ragazzino dai capelli biondi tagliati a caschetto e grandi occhi color del cielo bloccato a una parete da due colossi palestrati, uno con i capelli neri lunghi fino alle spalle, e un altro con la testa completamente rasata
“Che ci fanno dei tipi così in un liceo?” Dissi tra me e me, poi mi tolsi le cuffie e mi avvicinai a quei tre ragazzi
—Ehilà, non è un po' sleale due contro uno? Se proprio volete iniziare una rissa almeno permettetemi di fare squadra con questo dolce ragazzo. — Dichiarai con una disinvoltura che non mi apparteneva, specialmente davanti a dei bulli
-Oh, ma guardalo! Arlert si è fatto la ragazza e non ce lo ha nemmeno detto! — Fece il bullo rasato con tono di scherno. Decisi allora di adattarmi alla situazione, guardai il volto di quel ragazzo per un attimo e vi trovai il nostro biglietto per la libertà
—Amore, ma cosa mi combini? — Chiesi retoricamente prendendo il suo viso tra le mani e focalizzando il mio sguardo su un taglietto sul suo zigomo —ti rovinerai questo bel visino! Vieni, ti accompagno in infermeria. — Conclusi dandogli un leggero bacio sulla guancia che fece arrossire sia me che lui. Gli presi poi la mano e, dopo aver sorpassato il gruppo di bulli rimasti interdetti gli sussurrai
— Dov'è l’infermeria? — Lui mi diede le indicazioni necessarie e una volta chiusa dietro di me la porta di quella rassicurante stanza, anche quella purtroppo asettica, trassi un lungo sospiro di sollievo.
—Forse quest'anno non avrò problemi con i bulli. — Dissi tra me e me
Nel frattempo il ragazzo che avevo appena tirato fuori da una brutta situazione si stava asciugando una lacrima dall’occhio sinistro
—Tu... Mi hai salvato. Grazie. — Il suo tono era davvero pieno di gratitudine.
—Non ringraziarmi. Se proprio devi farlo fallo dopo che ti avrò sistemato questo taglio qui. — Sentenziai mentre prendevo un cerotto e lo applicavo sulla sua pelle: una pelle dannatamente morbida e delicata per appartenere ad un ragazzo.
—Fatto— dichiarai in seguito — ah, a proposito. Tu sei? —
—Armin Arlert, sì i miei genitori sono inglesi. — mi rispose sorridente mentre tendeva la mano verso di me
—Alice Sweets, sì sono italoamericana. — ribattei io stringendo la sua mano come gesto di cortesia
— Oh, allora sei tu la nuova studentessa di cui si vociferava tanto. Be' adesso io vado: sta per iniziare la lezione. Ci vediamo, Alice!
—A presto, Armin. — Mi rivolse un sorriso così dolce e luminoso come non ne vedevo da anni. Difficilmente lo avrei dimenticato.
Mi diressi quindi nell'ufficio del preside: una stanza quadrata e tutta bianca, ad eccezione della penna nera posta sulla scrivania di quell'uomo alto e magro dai capelli biondi tagliati in modo indescrivibile che era il preside Erwin Smith, e del suo abbigliamento costituito da un'elegante abito blu scuro, della stessa tonalità della cravatta e delle scarpe e una camicia... Bianca.
Mi diressi verso la classe assegnatami e appena prima di aprire la porta dell'aula sentii una voce femminile provenire da dentro la stanza, rompendo un silenzio pressoché tombale
—Va bene, ragazzi. La vostra nuova compagna dovrebbe essere nell'ufficio del preside. Vado a prenderla, voi fate silenzio. —
Naturalmente si levò una cacofonia di mormorii indistinguibili. La porta mi si aprì davanti e per poco non trasformò il mio naso in quello di Voldemort. Davanti a me vidi una donna che aveva il classico aspetto delle professoresse demoniache dei film: era dannatamente alta e il suo corpo troppo magro e ossuto era fasciato da un osceno vestito viola decorato con una grottesca fantasia floreale lungo fino alle ginocchia, abbinato a delle scarpe nere con un leggero tacco. Il suo viso era probabilmente la cosa più orrenda che avessi mai visto. Portava degli occhiali rossi calati sulla punta del naso (uno dei nasi più piccoli, brutti e bitorzoluti che avessi mai visto) e, per finire, aveva i capelli tinti di un bel color castano, e sarebbero stati anche belli se quella tinta fosse stata curata e non si fosse lasciata spuntare una chilometrica ricrescita... Davvero. Poi avendoceli legati in uno chignon sembravano ancora più osceni di quanto non fossero già.
—Oh, sei già qui. Vieni. — mi disse con tono acido, e mi invitò silenziosamente a seguirla.
Entrata in classe mi trovai davanti a delle pareti colorate (o forse è meglio pasticciate?) di ogni colore dell'arcobaleno. C’erano impronte di mani rosse, blu, verdi, gialle e viola qua e là, schizzi di colori indefiniti dappertutto e, sulla parete opposta a quella dove si trovava la cattedra vi era una scritta realizzata con approssimative pennellate di un colore azzurro come quello del limpido cielo primaverile
“Hey you, did you ever realise what you have become?” 
I Pink Floyd.
Mio Dio, c'era una frase dei Pink Floyd scritta sul muro della mia classe.
Avevo il sentore che magari quell'anno sarebbe decentemente
Stetti un po' a guardarmi intorno, quella splendida confusione di colori, quella frase. Ripensai a quanta bellezza mi circondava e a quante volte non me ne accorgevo finché non mi lasciai sfuggire un
—È bellissimo. —
—Sarà anche bellissimo, e onestamente lo è, un po' meno bello il fatto che quando lo hanno scoperto ci hanno sospeso tutti per una settimana. — ricercai la fonte di quella voce e la trovai in un ragazzo dai capelli castani e gli occhi di uno splendido verde smeraldo che in quel momento aveva una smorfia divertita. Accanto a lui stava seduta una ragazza dall'aria asiatica e dalla pelle chiara, in totale contrasto con i suoi corti capelli scuri, così come gli occhi. Indossava una sciarpa rossa, ma non ne capii il motivo: eravamo a settembre e faceva leggermente caldo per indossare la sciarpa.
Non mi soffermai a guardare il resto dei miei compagni di classe e quella racchia della professoressa mi strappò violentemente via da qualunque pensiero potessi formulare dicendomi con un tono quasi di rimprovero
—Avanti, presentati.
—Ah, già, mi scusi.
E mi bloccai. Non ne riesco ancora a capire il motivo, non era difficile, dovevo solo dire il mio nome, la mia età e il Liceo dal quale provenivo, dovevo solo sembrare simpatica. Non era difficile. Era come tutte le altre volte
“Calmati... Sorridi, sii simpatica. È semplice e tu sei brava a parlare davanti alla gente, vinci la tua timidezza ancora una volta. Puoi farcela, Alice” continuavo a ripetermi, come se avesse potuto essere d'aiuto invece che incasinarmi ancora di più. Alla fine mi decisi ad aprir bocca
—Buongiorno a tutti, io sono Alice Sweets, ho quindici anni e vengo dal Liceo Vasco De Gama. Per favore siate miei amici e non odiatemi. Vorrei solo trascorrere un anno tranquillo. — dissi fin troppo velocemente. Subito dopo venni spedita dalla professoressa a sedermi accanto ad un certo Armin. Quel nome fece suonare un campanello nella mia mente, quindi decisi di guardare verso il punto che stava indicando col suo indice rugoso e vidi l'unico posto libero della classe, accanto a quel ragazzo biondo conosciuto poco prima.
—A-Armin?
—Sì, qualche problema? — mi chiese la professoressa con un tono che lasciava chiaramente trasparire la noia che stava provando in quell’istante
—No, no professoressa. Nessun problema naturalmente— le risposi mentre sentivo il mio viso scaldarsi, quindi probabilmente stava assumendo un colorito un po' troppo rosso per i miei gusti. Mi affrettai a prendere posto.
—Ciao Alice, ci rincontriamo! — mi salutò di nuovo Armin
—Così sembra...— mi limitai ad articolare con un tono indefinito
—Spero che diventeremo ottimi amici. — ancora quel sorriso. Per la prima volta mi fermai ad analizzare a fondo il sorriso delle persone.
Ma in fondo, cos'è un sorriso?
Sorriso < sor-rì-so > sostantivo maschile
Atteggiamento delle labbra in un riso silenzioso e misurato, espressione di sentimenti e reazioni varie e talvolta motivo di un apprezzamento di qualità
Esatto.
È una semplice increspatura delle labbra, che tendono a piegarsi verso l'alto. È una combinazione di contrazioni e rilassamenti dei muscoli facciali che convenzionalmente è indice di felicità.
È meno di una risata, ma più di un'espressione apatica.
È qualcosa che io, in quel momento, non sarei stata capace di fare; non a scuola, per lo meno.
Forse è proprio per questo che mi ci soffermavo tanto? Era forse semplice attrazione per l'irraggiungibile?
Decisi di accantonare quei pensieri, e mi limitai ad annuire in risposta al mio compagno cercando di imitare quel l'espressione dolce come il miele che era il suo sorriso, ma ne uscì fuori solo una smorfia di disprezzo, scherno, tristezza e amarezza. Decisi che non avrei provato mai più a fingere i sorrisi.
—Ehi...— sentii chiamare dal banco dietro al mio con tono incerto
—Sì? Dimmi. — risposi girandomi per guardare in faccia il mio interlocutore: un ragazzo dal viso leggermente equino, con i capelli castani più chiari sulla parte superiore della testa, e più scuri sulla zona delle tempie e sul resto del capo. I suoi occhi avevano il colore del cioccolato al latte.
“Però, non è niente male” pensai. Avevo deciso di non negarmi il semplice piacere di fare apprezzamenti sui ragazzi, alla fine che male poteva fare? Davvero, non credevo che dei casti complimenti, peraltro non esternati, facessero male a qualcuno.
—No, nulla di importante, scusami. Volevo solo dirti che hai dei begli occhi— arrossì, e io con lui; cercai di articolare un miserrimo ‘grazie’, ma in quel momento le parole mi sembrarono un qualche arcano segreto accessibile solo a pochi eletti.
—Jean! Smettila di provare ad attaccar bottone con tutte, non vorrai che Marco si ingelosisca! —
—Ma... Io e Marco non stiamo insieme— disse irritato —purtroppo— aggiunse poi in un sussurro probabilmente involontario
Pessimo scherzo, Armin caro, ora mi toccava mostrargli che non avevo pregiudizi contro i gay, bisessuali, trisessuali o quel che siano.
—G-Grazie, Jean, anche tu sei molto carino. E Armin, non prenderlo in giro! Ognuno è libero di amare chi vuole. —
Le ore passarono veloci dopo quel siparietto per il quale venimmo esageratamente sgridati dalla prof, che si presentò come la professoressa Amata, la nostra nuova professoressa di matematica. Amata solo di nome, s'intende. Dopo la professoressa demoniaca ebbi il ‘piacere’ di conoscere il docente di educazione fisica, il professor De Corso: un omaccione impostato con un tono di voce basso, profondo e talvolta fastidioso quasi quanto i suoi apprezzamenti da semi-pedofilo; Hanji, insegnate di scienze: una... Donna, credo, con dei capelli castani legati in una perenne coda di cavallo e un paio di occhi color mogano, mi sembrò una persona ben educata, simpatica, forse eccessivamente appassionata di ciò che insegnava ed estremamente brillante: probabilmente se non avesse intrapreso la carriera dell'insegnamento sarebbe stata una ricchissima scienziata. Per ultima conobbi la professoressa Ral, docente di lettere. Immaginai che se non si fosse messa ad insegnare sarebbe diventata una famosissima autrice di best-sellers gialli e urban fantasy, ma purtroppo la storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’. L'ora dopo ci venne concessa come ricreazione “ma solo perché è il primo giorno!” o almeno così mi aveva detto il preside tre ore prima. Tutti si alzarono e cominciarono a chiacchierare tra loro mentre si dirigevano in cortile, io invece mi armai di cellulare, cuffie, un quaderno e delle matite e mi sistemai in un angolino soleggiato. Perché c'era solo una cosa che mi piaceva quanto la musica e le materie umanistiche, e questa cosa era disegnare. Dopo qualche minuto quell'ammasso di linee grigie iniziò a prendere la forma del volto sorridente del mio compagno di banco: disegnavo sempre le cose che volevo ricordare, e un sorriso così spontaneo andava sicuramente ricordato, soprattutto se rivolto a te da qualcuno che si consce appena.
Sentii dei colpetti sulla mia spalla destra, istintivamente chiusi il mio quaderno, mi tolsi le cuffie, chiusi gli occhi e dissi con tono da supplice
—No, non stavo facendo nulla di importante, vi do tutti i soldi che volete, ma per favore non fatemi male! Vi prego...
—Ehi, va tutto bene, siamo solo Jean e Armin. Hai per caso paura di noi?
Riconobbi il tono di voce del mio compagno con la faccia di un cavallo molto carino. Lentamente aprii gli occhi e, alla vista dei due ragazzi mi calmai e permisi ai miei muscoli in tensione di rilassarsi
—N-No... Scusatemi, non volevo.
Mi guardarono con espressione dubbiosa per qualche secondo, poi Jean decise finalmente di rompere quell'assordante silenzio che era calato tra noi
—Niente... Siamo solo venuti per chiederti se ti andava di stare un po' con noi e i nostri amici... Dopotutto non conosci nemmeno i loro nomi.
—Davvero mi volete nel vostro gruppo di amici? Grazie...— Lasciai quelle parole scivolare fuori dalle mie labbra a metà tra la volontà e il puro istinto. Entrambi annuirono sorridendo, allora notai che anche Jean aveva un bel sorriso, decisi che a casa avrei disegnato anche lui. Mi lasciai quindi condurre dai due in mezzo ad un gruppo costituito da ragazzi e ragazze, che mi vennero presentati ad uno ad uno.
—Lui è Eren Jaeger: se ti piace fare pazzie a scuola tu e questo idiota andrete estremamente d’accordo. — mi venne presentato da Jean il ragazzo dagli occhi verdi di prima, lo osservai con più attenzione. Era un ragazzo alto, come tutti tranne me d'altronde, con un'espressione determinata e aggressiva la quale però si distese immediatamente in un sorriso genuino e un po' infantile mentre mi stringeva la mano con fare cordiale e mi diceva che è una piacere conoscermi.
Come faceva a sapere che è un piacere conoscermi? Io facevo schifo.
—E lei è Mikasa Ackerman, la ragazza di Eren— proseguì Jean con fare malizioso e leggermente amareggiato mentre mi presentava la ragazza dai lineamenti asiatici
—Non è la mia ragazza!
—Non sono la sua ragazza!
Esclamarono all'unisono Eren e Mikasa, arrossendo considerevolmente. Forse ancora non stavano insieme, ma sarebbe successo presto: si sbavavano dietro a vicenda e si vedeva ad un chilometro di distanza.
Anche per lei era un piacere conoscermi. Be', buon per loro.
—Lei invece è Hist— cominciò a dire Jean, interrotto da un suo taglientissimo sguardo —Christa Lenz.
Mi venne presentata una ragazza alta quanto me, dai lunghi capelli color del grano e un paio di grandi occhi dello stesso colore del limpido cielo primaverile che tra un paio di mesi non sarebbe stato altro che un felice ricordo. Mi persi per qualche attimo nell'attenzionare quel suo aspetto angelico e per qualche motivo finii a paragonare il suo sorriso a quello di Armin, per poi essere interrotta prima di decretare quale fosse il più bello
—Lei è Ymir— Christa rubò la parola a Jean e mi presentò con tono molto entusiasta quella che era indubbiamente la sua fidanzata; la cosa non mi urtava minimamente, anzi era molto carino vedere come l'aspetto quasi mascolino e il fascino burbero di Ymir: una ragazza altissima dal volto lentigginoso e i corti capelli dello stesso castano dei suoi occhi affilati, compensassero l'estrema e angelica femminilità di Christa. Formavano davvero una bella coppia. Ymir si limitò a salutarmi con un cenno del capo. La cosa non mi dispiacque, in fondo era la forma di saluto che io stavo riservando a tutti, soltanto investita di un celato entusiasmo e un evidente imbarazzo.
—Lei invece è Annie— proseguì quindi Jean mettendo il suo braccio sinistro intorno alle mie spalle e mostrandomi con un gesto plateale una ragazza dai capelli biondi raccolti in un modo che non saprei come spiegare e con un paio di occhi azzurri che squadravano con fare annoiato il mio... Amico, credo, con la faccia da cavallo —Vedi di non farla arrabbiare o potresti morire prematuramente— concluse.
Un paio di minuti mi presentò Sasha Blouse e Connie Springer, l’unica coppia etero del gruppo, probabilmente. Erano così assuefatti dal loro pacco di patatine che si limitarono ad offrirmene una con fare riluttante per poi tornare immediatamente a mangiare e scherzare. Li trovavo molto simpatici.
Jean continuò a portarmi a spasso in mezzo a quel gruppo di persone col braccio intorno alle mie spalle finché non ci troviamo davanti a due ragazzi di quinto superiore
—Loro sono Reiner e Berthold, sono in Quinta C Scientifico— mi presentò due ragazzi, uno leggermente robusto con i capelli biondi, e uno smilzo con i capelli neri. Anche loro erano incapaci o non si curavano di nascondere la loro omosessualità. Pensai che quello fosse il gruppo della propaganda sessuale alternativa, o qualcosa del genere. Naturalmente non lo pensavo seriamente, anzi mi faceva estremamente piacere entrare a far parte di un gruppo con così tanta apertura mentale. Dopo le presentazioni arrivò un ragazzo lentigginoso che si presentò come Marco Bodt. Per tutto il resto dell’ora Jean fu incapace di parlare in maniera normale o di assumere un colorito umano. Dedussi che doveva essere proprio quello il famoso Marco di cui parlava Armin.
Finita la giornata tornai a casa per la prima volta felice. Era una sensazione strana, me bellissima.
 
A (Death) Note Dell’ Autrice Ω
*Lett. ‘Liuo’. È il verbo Greco per ‘sciogliere’
**Canzone degli skillet che vi consiglio [link: http://www.youtube.com/watch?v=1bPHtCBqdLg ]
Niente, spero che questo capitolo vi abbia fatto venir voglia di continuare a sentire delle avventure di Alice.
Vi avviso però che non sono affatto veloce a scivere, tant’è che è da un mese che lavoro a questo capitolo perché tra scuola e impegni vari non ho mai tempo per mettermi a continuare i capitoli.
Non ho più nulla di particolare da dire se non una piccola richiesta: se trovate errori di grammatica e/o sintassi e/o consecutio temporum (non dovrebbero essercene perché ho appena finito di correggerlo, ma sono umana anch’io) vi prego di segnalarlo così che io provveda subito ad eliminarli.
Detto questo vi saluto, bye bye! (^-^)/
   
 
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