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Autore: ale93    26/10/2014    7 recensioni
We've all been changed from what we were.
Our broken hearts left smashed on the floor.
I can't believe you if I can't hear you.

Remus è a casa.
A indiceindaco. Sempre.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Questa storia è stata nel mio pc per oltre due settimane sotto il nome di "We" semplicemente perché è la prima parola della citazione ad inizio testo. Non è un'informazione così importante ma ci tenevo comunque a scriverlo, perché ormai avevo imparato a chiamarla così.
E' dedicata ad indiceindaco e a me medesima. A lui perché è tornato dopo mesi, a me perché avevo voglia di questa storia. Di scriverla o di leggerla, non saprei.
Le tre citazioni nel testo sono degli Editors. Le prime due da Smokers outside the hospital doors, l'ultima da This house is full of noise.
Altre cose non importanti:
se non si capisse, è ambientata un po' dopo la notte alla Stamberga (perchè qualsiasi amante del Wolfstar ha attraversato la fase "la fuga di Sirius era un modo carino per dirci che è andato da Remus per recuperare quel rapporto a brandelli che avevano");
le Benson Hedges sono sigarette prodotte in Irlanda del nord e sono le preferite di Angus Young (chitarrista degli ACDC) nonché dei fratelli Gallagher.
Fin.





 
Burning to ashes.




We've all been changed from what we were 
Our broken hearts left smashed on the floor 
I can't believe you if I can't hear you. 

 
 
Aveva trovato il gufo che lo attendeva in cucina, appollaiato sulla credenza, quella con una sottile crepa che ne attraversa l’anta.
Aveva sbattuto le ciglia per un attimo e per tutto il giorno aveva finto di non fissare il biglietto firmato sgraziatamente Pads.
Si era lasciato cadere sulla paglia ispida della sedia e aveva puntato i gomiti sul tavolo. Avrebbe continuato ad andare avanti come aveva fatto negli ultimi tempi, si ripeteva.
Avrebbe acciuffato ogni ricordo che cominciava a zampettare nella sua memoria e avrebbe ricacciato tutto indietro: il suo odore, la sua voce, le sue mani. Ce l’avrebbe fatta.
Credeva di aver chiuso a doppia mandata lo stipetto nella sua testa che portava la dicitura Sirius in cima, ma s’era sbagliato. E c’era da aspettarselo. Remus J. Lupin non ha mai avuto gran naso nel riconoscere le false certezze.
Ma avrebbe dato fuoco a quel cassetto, adesso, a tutto ciò che vi aveva infilato. Ai libri di lui, ai suoi jeans babbani, agli sfilacciati elastici per capelli, ai suoi vinili graffiati. A se stesso. A tutto ciò che era appartenuto a Sirius.

Gettò un’occhiata davanti a sé. A fissarlo c’era una sedia identica a quella su cui era seduto: sgangherata, storta. Vuota.
 

Sirius è arrivato a notte fonda.
Lo ha attirato in un abbraccio rude. Non c’era magia in quella stretta.
Forse solo un po’ di tenerezza nella casa piccola di Remus, sul suo viso vecchio e stanco, nei vestiti logori di Sirius. Nel disincanto che ha tenuto insieme tutti i pezzi di quell’assurda scena.
Un attimo prima di fargli strada, Remus si è vergognato di potergli offrire solo un divano in un vecchio cottage al limitare della campagna del sud.
Ma adesso che sono lì, sulla porta, lui con le mani enormi e goffe, lievemente imbarazzato, e Sirius con capelli arruffati, annodati, con i suoi occhi incavati e da pazzo, ha capito che delle macchie d’umido, dei rubinetti rotti e delle imposte storte quell’uomo non si sarebbe neppure reso conto.
«Perdona l’ improvvisata» sul viso di Sirius Black si apre un ghigno storto.
Remus stenta a credere all’incredibile attitudine che ha la sfacciataggine di quest’uomo a rimanere sempre illesa, ma bada bene a non farglielo notare.
«Come sei arrivato fin qui?»
«Harry mi ha aiutato a scappare da Hogwarts. Spero non passi dei guai. È davvero…»
«E’ davvero uguale a James, lo so». Il silenzio gelido e statico con cui Remus Lupin ha imparato a vivere si gonfia attorno a loro come una bolla di sapone. Un brivido gli percorre la schiena quando Sirius azzarda una risata insensata e roca ed un attimo dopo si dice che, no, i ricordi non si possono mettere al rogo.
 
Il lupo ringhia di frustrazione dentro di lui. Ha ancora l’odore del cane nero nelle narici. Ora. Per sempre.
 
Una tazza di tè tra le mani e del vapore a nascondere la bocca di entrambi ,mentre Remus sente l’improvviso bisogno di toccare il viso di Sirius, piano, con la punta delle dita, come per ricordarne i contorni ed imparare i nuovi dettagli. Per fare l’inventario dei danni e intuire gli orrori che hanno scavato tutte le rughe e le cicatrici che non conosce e non capirà.
Questi sono i nuovi occhi di Sirius, questa la sua bocca, questa la sua fronte. Questo è Sirius, cazzo. Ma se questo fosse davvero Sirius e se ci fosse anche James da qualche parte a dare di gomito a Peter e a bisbigliare, sbuffando una risata, guarda quei due vecchi imbecilli. Se fosse una vita fa, se gliel’avessero detto, se.
«Non ti metterò in pericolo, vero? Silente mi ha detto che ha protetto casa tua, solo per questo sono venuto qui… altrimenti non ti avrei mai…»
«Albus sa bene quel che fa, Sirius. Se ti ha mandato qui è perché sei al sicuro. Entrambi lo siamo».
«Albus? Cosa, adesso chiamiamo la McGranitt semplicemente Minerva?»
Una risata breve e silenziosa risale alla bocca di Remus, involontariamente. Non sa il perché, non lo sa. Vuole solo svegliarsi, sedersi al centro del suo letto ed ecco qua, era solo un sogno dirsi.  Sarebbe più facile, in fondo, sarebbe incredibilmente semplice tornare al vecchio ordine di idee. Un po’ penoso, forse, desolante, ma facile. «Sono cambiate tante cose».
«Già, professore
«Lo sono stato. Ma è finito anche quello. Severus ha detto a tutti di… ».
«Di Moony. E’ sempre stato una tale piaga, Piton…»
Remus annuisce e sente qualcosa sciogliersi in fondo allo stomaco nell'ascoltare dalla bocca di Sirius quella parola che ancora è in grado di ritrasformarlo in quello è stato, in quello che avrebbe potuto essere anche adesso- un ragazzo. Moony.
Alle 3.45 del mattino Sirius se ne sta ancora con i gomiti piantati nella cerata ingiallita stesa sul tavolo, cavalcioni sulla sedia, con il tè ormai freddo nella tazza sbeccata. E gli occhi più giovani di dieci anni dietro il grigio di quelli nuovi.
E lui, si rende conto con spaventosa consapevolezza, non sarà mai più in grado di chiudere il suo cassetto.
 
 
*
 
 
Say goodbye to everyone you have ever known 
You are not gonna see them ever again 
I can't shake this feeling I've got 
My dirty hands 
Have I been in the wars? 
The saddest thing that I'd ever seen 
Were smokers outside the hospital doors 




«…gli ho restituito la mappa, Sirius. Ad Harry. Se non l’avessi fatto, James ne sarebbe stato deluso, non credi?»
Per quella sera, Sirius sente di dover fingere che non sia accaduto nulla. Per Remus. Si merita di parlare con qualcuno che non sia solo un latitante, un uomo pazzo, vuoto come un guscio. Sente di dover incrociare le braccia al petto, nascondere le costole evidenti, si stringe le mani sotto alle ascelle perché Remus non le veda tremare.
Ma, per la prima volta da quando la sua fuga è iniziata, scopre la chiave di lettura di tutta quell’esperienza di giovane galeotto: non lascerà mai davvero Azkaban. Potrà starsene qui, nella cucina di Remus, a parlare con lui, a contare i rami delle piante rampicanti alla sua finestra, a sentire l’odore del suo tè alla cannella –un’ ossessione di cui si ricorda con gratitudine-, ma sarà tutto qui.
Quella parte di lui che ha svenduto per restare ancorato a qualche pensiero prezioso non tornerà mai più in suo possesso. Resterà nella cella.
Ad Azkaban ha imparato a convivere con i morsi della fame, con il freddo che gli azzannava le ossa. Ha dormito accanto ai rimorsi. In dodici anni ha sopportato sempre lo stesso dolore, versato goccia a goccia sulla sua testa, a scalfirlo troppo piano per morirne, troppo in fretta per poter guarire tra una piaga e l’altra.
Di lui non è rimasto altro che ciò che tenta di nascondere: una conchiglia vuota, capace di riempirsi solo di tre o quattro immagini che non sa se sia rispettoso chiamare ricordi.
E non gli importa. Non adesso che sente la voce di Remus vibrare attorno a lui, non come un sogno nebuloso, ma come una verità.
È ancora solo, è ancora in gabbia e quel dolore lo sta divorando dall’interno, ma il rimpianto che l’ha tenuto in piedi è davanti a lui e lo sta guardando.
E tanto gli basta.
«Ho bisogno,» si bagna le labbra secche e screpolate «ho bisogno che tu mi dica che non hai mai creduto a tutta questa storia. Che non hai pensato fossi colpevole del crimine per cui mi hanno rinchiuso laggiù».
Non sa perché lo dice, non sa perché fa domande di cui non vuole conoscere la risposta, di cui conosce già la risposta. Mi hai odiato in tutti questi anni? è ciò che non ha il coraggio di chiedere. Sei mai riuscito a pensare a me?
«Sirius, io-»
«Voglio davvero che tu sia stato l’unico a credermi innocente, anche se fosse stato solo un dubbio, l’incertezza di un attimo. Ho bisogno».
Remus scosta la tazza. Incrocia le braccia sul legno scuro del tavolo e vi posa la guancia, nasconde gli occhi. Questa, per Sirius, è una condanna. La seconda. E pesa sulla sua testa come la leggendaria spada di Damocle.
Stanno piangendo entrambi, ma non possono vedersi dietro tutti quegli strati di solitudine.
La pioggia laverà via il marcio prima o poi e Sirius sa perfettamente che, da qualche parte, ci sono ruggini che li corrodono dall’interno. Spera solo di poterle nascondere.
«Ora lo sai. Ora lo sa anche Harry».
«Lo sapranno tutti. Tutti» ringhia Remus con un sibilo meravigliosamente simile a quello di Moony.
L’alba inonda pigramente il pavimento, avanzando un poco alla volta, e Sirius ripensa a Remus: al suo Remus, quello di dodici anni fa.
Ha dato in pasto ad Azkaban una grossa fetta di se stesso per ossidare nella memoria l’immagine di una domenica mattina –forse un venerdì, forse un martedì- al sapore di frittelle al miele. Nella sua testa c’è una musica allegra gracchiata dal giradischi e le mani di Remus sulla sua faccia, Merlino quanto sei idiota, Pads. Un Sirius lontano sta ballando davanti a Moony, si getta ai suoi piedi. Sente l’eco di una risata distante ormai anniluce.
«Non importa più, Remus».
 
Alle cinque del mattino, vede per la prima volta Remus J. Lupin fumare.
Aspira in fretta e lascia andare lentamente, come per trattenere meglio nicotina e catrame, per avvertire ogni dito di fumo accarezzargli il palato.
Remus si è messo ai fornelli, qualche minuto fa, per preparargli qualcosa da mettere sotto i denti. Adesso Sirius mangia lentamente, fissando Moony che fuma come un uomo, con l’indice e il pollice sul filtro. Ingoia uova strapazzate, beve acqua. Non sa se tutto questo gli sia mancato: il calore di una stanza, il cibo, il sole. Sa quanto gli è mancato Remus. Sa quanto quell’unico spillo l’abbia punto più di mille altri piantati dietro la nuca.
Sei una donnetta, Pads gli ha sussurrato tutti i giorni il James che stava seduto al centro della sua cella.
Dalle labbra schiuse di Remus affiora una nuvola di fumo biancastro e acre.
«Benson Hedges Blu» mormora Sirius, fissando insistentemente la forchetta ferma nel piatto. «Le mie».
Si concede solo un attimo per azzardare un’occhiata. Remus si curva sul parapetto. Vede i suoi occhi chiudersi piano e le sue labbra piegarsi nel sorriso di chi è stato colto sul fatto. «Non cambi mai, Sirius Black. Sempre il solito egocentrico».
E adesso sa perfettamente che, per quanto l’abbia odiato, per quante maledizioni e bestemmie gli abbia rivolto in questi anni, ad una cosa Remus è rimasto aggrappato. Al suo sapore.
Lo ferisce con lo sguardo più ironico che ha. Vede Remus rabbrividire e sa che ha capito. C’è qualcosa di sciocco nel modo in cui riescono ad intendersi silenziosamente nonostante tutto.
Remus fa silenzio, ha gli occhi grandi e colpevoli. Sirius sente l’improvviso impulso di baciare ad una ad una le cicatrici trasparenti che spariscono nel collo della sua camicia di seconda mano.
«Penso sia ora di riposare per tutti e due».
«Sono le cinque del mattino, Remus…»
«Appunto. Sono le cinque del mattino».
 
Ha trasfigurato il divano, Remus, addentandosi le labbra perché ne venisse fuori un materasso decente. Gli ha preparato un letto caldo, con le coperte meno rattoppate che possiede, come se Sirius Black potesse davvero lamentarsi della sua sciatteria. Gli ha persino lasciato una brocca d’acqua, lì accanto, senza mai accennare alla sua vecchia paura del buio che, dopo Azkaban, è tornata a ruggire ferocemente, consumando e inghiottendo tutto il suo sonno. Per sempre.
«Buon riposo, Sirius» ha bisbigliato, passando una mano sul viso per scacciare via la stanchezza, per non dover crollare in incubi troppo simili alla realtà perché se ne possa liberare davvero.
«Non- non mi va che te ne vada.»
«Cerca solo di dormire…»
«Non dormirei comunque. E mi sento meglio a parlare con te. Sto meglio se ti sento parlare».
«Sirius, è-» ma Sirius non saprà mai cos’è questo. Ingiusto? Scorretto? Inadeguato, probabilmente. Ma Remus non lo dice, solo si stringe nelle spalle ed abbassa lo sguardo come un ragazzo.
Sirius gli si fa vicino, posa la fronte sulla sua e sfiora piano il dorso della sua mano destra. La sottile traccia di una cicatrice familiare scivola sotto la punta delle sue dita. Sente la bocca tendersi in un sorriso.
«Sei sempre il solito, cazzo, Sirius».
«Sì, l’hai già detto, Moony». Lo sente rabbrividire; gli afferra il collo con le mani e si porta il suo viso al petto. «Anche tu t’imbarazzi ancora come quando avevi sedici anni».
«A sedici anni non ero propriamente imbarazzato quando eri nei dintorni» mugugna Remus contro la stoffa della sua veste.
A Sirius vien voglia di ridere.
E lo fa.
 
 
*
 
 
 
 
This house just aches, to keep you save. 
You're in every single thing. 
You're in the walls, you're in the space. 
It says 
I won't let you go, where there's rivers or townfolks, 
I won't let you see 'cause you're safe here, safe here with me. 




Dal 1981 al 1993 Remus J. Lupin si è condannato e maledetto ogni giorno per non essere stato in grado di trovare neppure una stilla di odio in corpo. Ha sbattuto lontano i ricordi, vi ha eretto intorno muri e montagne per impedirsi di raggiungerli.
La sua mente, contro la sua stessa volontà, ha macchinato ogni dannato minuto per tentare di capire, per trovare una spiegazione qualsiasi che scagionasse il suo ragazzo. Ha finto di tirare avanti in una vita che s’era interrotta.
Dal 1981 al 1993 Remus J. Lupin è stato rinchiuso in una cella nella sua testa, accanto a Sirius Black.
 
Bacia il collo, i lobi, la fronte di Sirius. Scende a soffiargli sulle labbra. Sirius gli artiglia una coscia, la stringe tra le dita e lecca le lacrime che Remus non ha mai saputo piangere. E tutto ciò che è la guerra, il caos, la morte, viene scacciato via, lontano. Per una notte. Per quella notte.
Remus morde il petto di Sirius, la parte sinistra, e rabbrividisce.
 
A momenti, nella sua testa, Sirius ha ancora tredici anni e decide di non tagliarsi più i capelli.
Ne ha quindici e lo trova al binario 9 e ¾ con una sigaretta a pendergli mollemente dalle labbra.
«Quando hai iniziato a fumare, Sirius?»
«Quando mi sono rotto le palle, Moony».
All’improvviso è diciassettenne. Ha la voce da uomo, spalle larghe e labbra oscene. Un disco dei Clash è marchiato a fuoco nel suo cervello. Stanno nel cubicolo di un bagno nei sotterranei di Hogwarts e «scopami più forte che puoi, Moony» ansima nel suo orecchio.
L’immagine cambia ancora, Sirius ha diciotto anni e fa le corna con la mano ad un James vestito da sposo.
A diciannove è sdraiato sul pavimento della loro casa, di Remus e Sirius. Harry è addormentato sulla sua pancia. «Merlino, ha veramente dei capelli di merda», sta ridendo.
Finisce per averne venti; Prongs e Lily sono morti, e viene portato ad Azkaban.
E di colpo ha trentadue anni. Trentadue. E' un uomo stanco, è il fantasma del suo ragazzo. Sta in ginocchio al centro del suo salotto impolverato e buio, la testa fra le sue gambe. A leccargli il sesso, a guardarlo dritto negli occhi senza una briciola di pudore.
È libero, innocente. È Sirius, questo.
E, per la prima volta, Remus è tornato a casa.
   
 
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