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Autore: _joy    28/10/2014    6 recensioni
Che storia racconta una finestra aperta sulla strada?
[Gin/Ben]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forever'
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case




Chiudo l’ombrello perché ormai non piove quasi più.
 
Le ultime gocce leggere si impigliano tra i rami degli alberi, scivolano sulle foglie, rimbalzano nelle pozzanghere, sulle strade e sui marciapiedi.
Tra i miei capelli c’è qualche goccia umida, che però non mi dà fastidio.
E dire che, di solito, la pioggia invece mi infastidisce molto.
Deve essere in retaggio dei miei anni milanesi, quando il grigio e gli acquazzoni erano le costanti di un inverno che sembrava infinito.
Invece, se ami Londra quanto la amo io, alla fine forse la pioggia la accetti e basta.
Sai bene che, uscendo di casa in una giornata di sole, può capitarti che improvvisamente il cielo si faccia grigio e uno scroscio d’acqua violento ti inzuppi completamente.
Poi, quando sei bella fradicia, il sole magari torna a splendere.
Insomma, a Londra avere un ombrello sempre con te è più necessario del correttore per le occhiaie.
 
Scuoto leggermente l’ombrello e muovo qualche passo tra l’erba bassa.
Amo anche questo di Londra: le case precise, tutte uguali, uniformi nelle loro serie ripetitive.
Le trovo bellissime, nelle loro file ordinate, tutte identiche esteriormente.
Ognuna è come un cameo che si apre poi verso un mondo privato: sono solo apparentemente identiche, ma sono ciascuna teatro di vite diversissime tra loro.
 
 
Come a dimostrazione di questa mia tesi, la scena che mi si presenta davanti agli occhi è emblematica.
 
Da una finestra ampia, che fa entrare luce e aria frizzante in un salotto elegante, sventola una tenda di pizzo candido.
Si impiglia tra i vetri, aperti per far entrare il sole che fa capolino tra le nubi, sventola festosa nell’aria tersa.
È delicata ed elegante e incornicia incantevolmente il legno scuro degli infissi.
Dentro, si intravede un ampio divano a L di tessuto chiaro, con buttata sopra una coperta rossa, come se qualcuno si fosse alzato di fretta e l’avesse semplicemente spinta di lato.
Un basso tavolino ospita un laptop moderno e scintillante, dallo schermo grande, una tazza di thè (ah, il thè a Londra: quale costante!) e un libro aperto, rivolto a faccia in giù per tenere il segno.
Contro le pareti, si intravedono alte librerie, stipate di tomi colorati.
Il camino è acceso e un fuoco scoppietta allegro, rendendo la stanza ancora più accogliente e domestica.
All’improvviso, una figura alta si staglia davanti alla finestra.
È un giovane uomo che cammina lentamente, con le braccia strette attorno a un fagottino avvolto in una coperta color pervinca.
Le lunghe gambe percorrono la stanza, portandolo fin dove i miei occhi non riescono a seguirlo.
Poi ricompare, nel suo costante e ritmico passeggio.
Le braccia si muovono appena, cullando teneramente il fagottino che ha tra le braccia.
Il capo bruno è chino sul suo dolce carico: non si guarda attorno, ma evita qualsiasi ostacolo sul suo cammino.
Probabilmente ha passeggiato nello stesso modo per ore e ore e ore, fino ad imparare a memoria i passi, senza doversi guardare attorno.
 
È una scena che mi tiene inchiodata dove sono.
È come guardare un quadro stupendo in un museo, quando ti fermi e pensi che potresti restare lì per ore, ferma, e non ti basteranno a cogliere tutte le sfumature e le emozioni che quelle pennellate ti trasmettono.
È come il tuo telefilm preferito, che ti fa sentire a casa.
Come il libro che ami e che, ogni volta che sfogli le sue pagine lette e rilette, ti dice sempre qualcosa di nuovo.
Come una sciarpa calda che ti avvolgi al collo per proteggerti dal freddo.
 
Muovo un paio di passi in avanti, calpestando l’erba bagnata.
Gli stivali sono silenziosi sulla terra soffice e umida.
La casa di mattoni chiari, identica alle sue vicine, ha una porta lucida e scura, ma nessuna targhetta con il nome.
Per me è ancora così strano: Londra ha dei cancelletti bassi e sempre aperti, delle case in cui si potrebbe entrare scavalcando semplicemente il davanzale, ma poi mantiene l’anonimato assoluto sui residenti delle abitazioni.
Che paradosso.
Anche in termini di sicurezza è scioccante.
 
Per esempio, ora sono talmente vicina che mi arrivano stralci della voce dell’uomo, che parla con il bambino:
«… E Aslan è questo grande, immenso leone dal pelo fulvo… Sì, scusa, lo so che non devo dire parole del genere, che sono troppo difficili per te, piccolino. Fulvo vuol dire rosso… Ma di quel rosso brillante e sfumato del tramonto, ecco. È bellissimo. Se vuoi, tra qualche anno, possiamo provare a disegnarlo insieme. Comunque, dicevo… Aslan è un leone enorme, ma non devi pensare che sia cattivo, anzi. Aslan è buono, il più buono di tutti gli eroi. È Aslan che ha creato Narnia, che è la Terra più meravigliosa e magica che potresti sognare… Anzi, è proprio come un sogno bellissimo che non finisce mai. Narnia è così: montagne stupende, laghi cristallini, un mare blu come non ne esistono altri. E c’è questo grande castello che si specchia sul mare e si chiama Cair Paravel…»
 
La voce sfuma, mentre il giovane si allontana, attraversando un arco nella parete che offre uno scorcio su una grande cucina di legno scuro, con un tavolo ampio su cui troneggia un grande vaso di peonie rosate.
Le tende chiare si muovono nella brezza e velano la stanza, conferendole un’atmosfera ancora più romantica.
Un goccia solitaria cade dai rami di un albero frondoso sulla mia spalla.
 
«… Questa strega cattiva, la Strega Bianca, si chiama Jadis» la voce torna, precedendo delle gambe snelle, fasciate in jeans scuri «Ed è la nemica di Aslan. Lo ha odiato per tanto, tanto tempo e finalmente vede l’occasione per fargli del male. Ma non riesce a ucciderlo, perché Aslan è il Bene e il Bene vince sempre… Ed è per questo che ti racconto le favole, piccolo: per insegnarti che il male esiste, ma si può sconfiggere. E lo so che è un’idea che ti può far paura, ma devi sapere che tutti dobbiamo fare la nostra parte, per tenere lontano il male. E poi tu non sei mai solo: ci sono io con te»
 
L’uomo si china per baciare la testolina scura che spunta dalle coperte.
Vedo il sorriso allargarsi sul suo viso, illuminandone i tratti cesellati.
Le labbra morbide, gli occhi scurissimi, il ciuffo che ricade sulla fronte.
Una manina si alza dalle coperte, come se il bambino volesse fare una carezza.
L’uomo la sfiora con un dito e il bimbo glielo stringe nel minuscolo pugno.
Le labbra morbide si chinano a baciare quella piccola mano, amorevolmente.
 
 
Poi, nel rialzare il capo, l’uomo si accorge di me che lo sto spiando dalla finestra.
Sussulta e sgrana gli occhi, che in un attimo abbandonano l’espressione tenera per assumerne una scioccata.
Io faccio un passo indietro, ma lui è rapidissimo a raggiungere la finestra.
Spalanca del tutto il vetro, affrettandosi poi a rimboccare la copertina attorno al bambino.
Quindi mi fissa, immobile.
Per un lungo minuto ci guardiamo, in silenzio.
Poi le sue labbra si piegano in un sorriso.
«Cosa stai facendo?» chiede.
Io inclino il capo su una spalla.
«Vi guardavo»
«E perché?»
«Perché siete bellissimi»
Lui arriccia il naso.
«La gente di solito non spia dalle finestre gli altri…»
«Figuriamoci! Ci sono tutte case basse sulla strada. Certo che la gente guarda dentro!»
I suoi occhi scuri si stringono.
«Spiona!»
«Hai l’inconsapevolezza dei londinesi, sai?» ribatto io.
Lui alza gli occhi al cielo.
 
Il bimbo emette un versetto e tutti e due lo guardiamo.
Certo, lui è agevolato rispetto a me.
«Cosa c’è?» gli bisbiglia, tenero «Vuoi che camminiamo ancora?»
E, detto questo, fa due passi indietro e poi si allontana dalla finestra.
Non lo vedo più.
I vetri aperti incorniciano un quadro cui manca qualcosa, ora che quelle persone non ne fanno più parte.
 
Mi passo una mano tra i capelli umidi di pioggia per scostarmeli dal viso.
Batto le palpebre e osservo ancora, distratta, la stanza silenziosa.
 
 
Poi, una porta si apre lungo la fila delle porte ordinate, tutte uguali.
Il giovane uomo con in braccio il bambino esce di casa, lanciando una rapida occhiata al cielo che si sta rasserenando.
Si avvicina a me e io non riesco a non sorridere.
È talmente bello, forte e insieme delicato, che sulle mie labbra si allarga un sorriso irrefrenabile.
Anche lui sorride, in risposta.
Mi tende la mano e io la stringo nella mia.
Mi tira verso di sé ed entrambi chiniamo lo sguardo sul bambino.
Ha gli occhi chiusi e le ciglia lunghe che fremono sulle guance piene.
Sorrido ancora di più.
«È stato bravo?» gli chiedo, mentre la sua mano gioca con la mia.
Annuisce.
«Bravissimo. Gli stavo raccontando una storia»
«Ho sentito» appoggio la fronte contro la sua «Adoro quando gli racconti le storie»
Le sue labbra mi sfiorano la fronte.
«Andiamo a metterlo a letto?» bisbiglia.
Annuisco e stringo le braccia attorno alla sua vita.
Lui mi circonda con il braccio e ci dirigiamo verso la porta.
 
Entriamo e l’odore così familiare di casa nostra mi penetra nelle narici.
Mi tolgo la giacca, ripongo l’ombrello e lascio la borsa su un mobiletto basso che sta nell’ingresso.
Mi sto sfilando la sciarpa quando sento un mugugno provenire dal bimbo.
Mi volto, ma lui lo sta già cullando, rassicurante.
«Tranquillo, piccolo» gli mormora «È la mamma che è tornata a casa. Vuoi andare da lei?»
Me lo porge e io allungo le braccia immediatamente.
Ci sfioriamo e, mentre io stringo il piccolo, lui ci prende entrambi tra le braccia.
Mi accoccolo contro di lui, reclinando la testa sulla sua spalla.
Accarezzo la testolina di nostro figlio che fa un sorrisino soddisfatto e chiude di nuovo gli occhi.
Io e lui ci guardiamo, sorridendo, per un attimo infinito, poi lui posa le labbra sulla mia fronte.
Restiamo immobili, finché una folata di vento non spinge due foglie in casa.
Sento le braccia di lui allentare la stretta sulla mia vita e, di riflesso, mi protendo verso di lui, per tenerlo vicino.
Sorride, divertito.
«Non vado da nessuna parte, Gin» bisbiglia, baciandomi le labbra.
Io sospiro, con le labbra poggiate contro le sue.
«Lo so, Ben. È che…»
 
Non so dirlo bene a parole: è che lo voglio vicino.
Ma, come sempre, lui capisce senza che io debba terminare la frase.
«Lo so, amore, lo so» mormora.
Mi fa una carezza sui capelli e va a chiudere la porta.
 
E il resto del mondo rimane escluso da questo nostro privato cameo.
 


***
Va bene, lo ammetto.
Non ho resistito.
Questa breve storia mi è venuta in mente due giorni dopo aver concluso la pubblicazione, qui su Efp, di "And the reason is you".
E, allora, grazie a Ben che accende scintille nella mia mente e a voi, perchè per voi vale la pena metterle su carta.
Buona lettura!
Joy

   
 
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