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Autore: Entreri    31/10/2014    9 recensioni
La pioggia avvolgeva il tardo pomeriggio in un crepuscolo plumbeo, il suono deciso e costante con cui percuoteva il selciato la sola presenza fredda nelle strade fangose e deserte di Redna.
Abigal preferiva i temporali a quello scroscio denso e dritto: il roboante fragore del tuono e la violenza della folgore parevano parlare della collera inarrestabile dell’Onnipotente e nei loro venti impetuosi il vessillo della Mano di Dio garriva minaccioso, monito per gli eretici schiavi del Dormiente; in quella battente pioggia autunnale, invece, lo stendardo ricadeva flaccido su se stesso, imbevuto dell’acqua gelida che le nuvole grigie da giorni riversavano sul Latenlan. Tutto era avvolto in uno squallore umido e la pioggia pareva abbracciare in un unico rassegnato sconforto gli usci sprangati, il pozzo rotondo del villaggio, il castello sulla collina, la bandiera afflosciata alle sue spalle e il cadavere appeso dinnanzi a lui.

Una vecchia e un novizio dell'Inquisizione errano entrambi, a proprio modo, nella pioggia.
Prima classificata nei constest "Legendary Tales", "La Caduta dell'Inverno Boreale" e "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetti rispettivamente da Yuko majo, Silvar tales e WhatHasHappened sul forum di Efp
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erranti nella pioggia

 

La pioggia avvolgeva il tardo pomeriggio in un crepuscolo plumbeo, il suono deciso e costante con cui percuoteva il selciato la sola presenza fredda nelle strade fangose e deserte di Redna.

Abigal preferiva i temporali a quello scroscio denso e dritto: il roboante fragore del tuono e la violenza della folgore parevano parlare della collera inarrestabile dell’Onnipotente e nei loro venti impetuosi il vessillo della Mano di Dio garriva minaccioso, monito per gli eretici schiavi del Dormiente; in quella battente pioggia autunnale, invece, lo stendardo ricadeva flaccido su se stesso, imbevuto dell’acqua gelida che le nuvole grigie da giorni riversavano sul Latenlan. Tutto era avvolto in uno squallore umido e la pioggia pareva abbracciare in un unico rassegnato sconforto gli usci sprangati, il pozzo rotondo del villaggio, il castello sulla collina, la bandiera afflosciata alle sue spalle e il cadavere appeso dinnanzi a lui.

Un gruppo di corvi spiccò il volo all’improvviso, fendendo il cielo con il proprio lamento stridente, e Abigal sospettò  che, anche inchiodato a braccia spalancate al posto dell’insegna della locanda, il Piangente lapidato avrebbe interpretato quello spettacolo desolato come un pianto celeste, manifestazione terrena delle eterne lacrime di Dio; i suoi occhi mangiati dai corvi, tuttavia, non potevano vedere e la sua lingua, strappata da una tenaglia ardente, non poteva proferire parola, così Abigal sorrise soddisfatto del trionfo della verità sulla menzogna.

Il tintinnio ovattato dei sonagli della sua maschera lo rese consapevole di avere abbassato leggermente il capo spingendolo a raddrizzarsi con stizza, tollerando che un rivolo d’acqua gli scendesse lungo la nuca e si insinuasse sotto il mantello. Elerad amava la pioggia, Abigal non aveva mai capito perché, e pensare a suo fratello, al caldo e all’asciutto dietro le grandi finestre del palazzo di Besali non fece che acuire l’umida percezione del gelo che insidiava le sue membra da ore. Spostò lentamente il peso da un piede all’altro, cercando di fornire una qualche forma di sollievo alle proprie membra stanche, rifiutandosi rabbiosamente di piegare la propria schiena dolorante e ammettere a se stesso e a un mondo bagnato e vuoto che il figlio dell’imperatore era troppo debole per essere la Sentinella Ammonitrice di quell’esecuzione.

Una folata improvvisa scosse le catene del Piangente, cullando il suo cadavere e portando con sé una voce roca e gracchiante, un canto stonato che sferzò il volto di Abigal insieme al vento.

«Oh Sofrien, re delle genti, / che triste sorte; / si sono spenti i lamenti / per la tua morte.»

In mezzo alla strada, emersa forse da un portone, forse dall’aria umida, una figura minuta, avvolta in un mantello scuro, vagava nella pioggia posandosi sgraziatamente a un bastone nodoso. Reggeva nella mano sinistra una lampada spenta, sollevandola dinnanzi a sé quasi potesse in qualche modo rischiarare i piccoli passi con cui avanzava malferma in quel pomeriggio scialbo.

«Oh Sofrien, elmo d’argento, / che triste fine; / non ti rammenta che il vento / sulle colline.»

Abigal odiava le nenie tristi, non erano che stupidaggini con cui i deboli indulgevano la propria predisposizione malinconica, quasi che l’ingiustizia andasse pianta invece che combattuta, e udire quella cantilena singhiozzante diffondersi disarmonica nella pioggia battente andò ad amplificare la sua frustrata irritazione.

Un colpo d’aria fece sbattere due battenti, quasi a ritmo con quel tempo lento e grave, e la voce femminile parve farsi più lontana, mentre la donna si avvicinava lentamente senza degnare il cipiglio di spregio di Abigal della minima attenzione.

Quando non fu che a cinque pertiche da lui, volse lo sguardo verso il Piangente e nel sollevare il capo scostò il cappuccio, disvelando lunghi capelli bianchi intorno a un volto appuntito e una rete di rughe profonde nelle quali la pioggia battente non tardò a insinuarsi.

«Oh Sofrien, re insepolto, / che triste fato; / sol Dio ti piange, con volto / amareggiato

Il suo timbro acuto e stridente vibrò nell’aria gravido di una mestizia più densa della pioggia e più solenne dell’espressione triste delle statue; Abigal avrebbe voluto percuoterla, ma per farlo avrebbe dovuto lasciare il proprio posto, dando al maestro dei novizi un motivo per punirlo; così strinse i pugni con forza rabbiosa, ripetendosi come un salmo che non è compito del novizio né cercare, né punire l’eresia, neppure quella delle lacrime.

Riuscì a trattenere il proprio corpo ma non la propria voce. 

«Dio non piange, vecchia.»

Le sue parole, scandite con chiara durezza sopra il rumore incessante della pioggia, gli ricordarono il severo tono di comando con cui suo padre gli aveva imposto di entrare nell'inquisizione, la rabbia fredda e spaesata che aveva provato allora nell'invocare in silenzio una giustizia divina che stava ancora aspettando.

Non si voltò verso di lui, fissando il cadavere che si frapponeva fra loro con immobile indifferenza.

«Tutti dovrebbero piangere Sofrien. Dio in particolare. Dovrebbero piangerlo con tutto il dolore e il senso di colpa dei suoi fratelli, quando scesero al suo fianco sulle piane di Islim, guardandolo guidare gli Alerean verso l’ultima battaglia: bello e biondo, pallido e triste; tutti dovrebbero piangerlo come quando è andato a morire; dovrebbero piangerlo perché è morto per loro, il suo elmo di fenice è caduto nel fango e tutta la grandezza di Erea è perita con lui. Eppure tu, che porti la maschera del suo lutto, non sai nemmeno chi sia.»

Abigal grugnì sprezzante, perché gli Alerean erano sciocchezze da vecchie balie e il solo cordoglio di cui la maschera nera fosse manifestazione era quello per la vita che aveva desiderato da bambino.

La vecchia abbassò lentamente lo sguardo verso di lui e Abigal rimase interdetto nel notare come i suoi piccoli occhi grigi lo scrutassero indecifrabili, privi di quella straziante malinconia che aveva abitato la sua voce.

Avanzò di un passo, sollevando la lanterna con la cura accorta di chi non voglia rovesciare la cera della propria candela, la pergamena, tuttavia, non nascondeva nessuna fiammella che potesse illuminare lo spiazzo con una luce più intensa di quella grigia e rarefatta che filtrava attraverso le nubi.

«Ti vedo, Inquisitore.»

Gli sorrise nel dirlo, tendendo le labbra sottili in una piega malevola, e per un istante Abigal ebbe l'infantile timore che lei potesse scorgerlo dietro la maschera da falco dei novizi e le grandi vesti nere della Mano di Dio, oltre la pelle e le membra, fin dentro i recessi incolleriti della sua anima immortale. Elerad le avrebbe chiesto cosa vedesse, il viso rotondo illuminato da un sorriso amabile, e suo padre avrebbe atteso con autorevole pazienza che le sue guardie la mandassero via, ma Abigal non era mai stato né amabile né paziente e la sfacciataggine con la quale la vecchia osava rivolgerglisi svegliò in lui un sarcasmo feroce che credeva le frustate del Maestro dei novizi avessero eradicato.

«Sospetto dipenda dal fatto che io sono qui.»

La vecchia rise, cacofonica e sgraziata, mettendo in mostra una fila di denti sproporzionatamente piccoli e incredibilmente bianchi.

«Anch' io sono qui, mi vedi, Dito di Dio?»

Fece un piccolo passo in avanti, battendo il proprio bastone nodoso sul ciottolato, il rumore arrogante del suo schiantarsi sulla pietra fu ovattato dal fango che le schizzò il mantello.

«Senza una lampada spenta?»

Le carrucole che sorreggevano il corpo del piangente cigolarono lamentose a riempire il silenzio bagnato con cui gli occhi traslucidi e gelati della vecchia accolsero la sua sprezzante allusione.

«Anche con tutte le lampade del mondo resteresti cieco, Inquisitore.»

Come ogni azione preclusagli, lo schiaffo con cui l'avrebbe percossa era un sapore ferrigno sul palato, un bilioso risentimento all'attaccatura della gola, di cui la vecchia pareva essere provocatoriamente ignara. Se l'avesse colpita con tutta la forza della sua frustrazione trattenuta sarebbe caduta, l'impatto della sua guancia con il ciottolato le avrebbe riempito le rughe di fango e, forse, vedendola a terra simile a un mucchio di stracci sporchi e bagnati, Abigal sarebbe riuscito a ridere di lei, dispensando la sua follia di ogni responsabilità come sapeva avrebbero fatto suo padre e suo fratello.  Digrignò i denti in un risentimento basso e cupo che non era sicuro fosse diretto alla vecchia, ma che certamente era alimentato dalla distaccata indifferenza con cui, poco dopo averlo insultato, quella aveva smesso di considerarlo, smarrendo il proprio sguardo pallido nella pioggia, quasi il cielo plumbeo di quel giorno squallido fosse popolato da fantasmi familiari a cui avesse sottratto per troppo tempo la propria attenzione .

 Ringhiò il proclama della Sentinella Ammonitrice con ferocia, come se rientrare nel proprio ruolo bastasse per rimettere la vecchia al suo posto nel grande schema delle cose.

«Sua Beatitudine Daenior IV, Voce di Dio, Vincastro della Chiesa, Padre dei Credenti, ha tuonato dall'alto della Grande Cattedrale contro coloro che sostengono, traviati schiavi del Dormiente, che Nostro Signore Eoen l'Altissimo pianga per le sorti del mondo. A coloro che professeranno questa empietà non sarà usata misericordia, e ogni fedele sarà chiamato a scagliare contro di loro la pietra del proprio disprezzo; ai corpi abitati da questa menzogna non sarà concesso l'onore di una pira e le anime corrotte da tanta falsità diverranno cibo per i vermi.»

Era uno stile pomposo e artificiale, così diverso dalle parole che avrebbe usato Abigal da suonare pastoso e falso sulle sue labbra anche pieno del furore fiammeggiante della sua indignazione.

«Uccideteli tutti.»

Sussultò, sorpreso dalla determinazione sbrigativa di quell'ordine aspro, come dal familiare gesto di congedo con cui le lunghe dita rachitiche della vecchia avevano allentato la presa intorno al bastone.

«Tu diresti così, non è vero?»

Avanzò nel dirlo, senza curarsi del rumore umido con cui il suo piede e l'orlo del suo mantello affondarono nella pozzanghera, una scomposta ciocca bianca appiattita sul volto completamente bagnato, e la sua figura ricordò per un attimo ad Abigal le parole di una canzone che aveva imparato da bambino: Minuta e bianca, vaga mai stanca / ha pioggia sul viso, e stridulo riso / piedi bagnati, e occhi gelati / ha molto da dire, non starla a sentire. Abigal, tuttavia, aveva sempre disprezzato le cantilene quasi quanto i lai deprimenti, così la ragione di quell'ammonimento in rima si era persa da qualche parte, smarrita fra le mille identiche storie di cavalieri fantasma, donne sole, vecchie streghe isolane in attesa nelle loro capanne di giunchi. Sospettava che il piangente penzolante dinnanzi a lui avrebbe saputo dirglielo, tanto sicura e avvezza alle filastrocche era sembrata la sua voce quando erano entrati in casa sua mentre cantava la buona notte ai propri figli; ora le sue labbra, cucite da un filo di ferro, non avrebbero più raccontato nulla e le sue mani, inchiodate all'asse di legno della taverna, non avrebbero cullato nessuno e Abigal sorrise per l'ironico equilibrio di quella punizione.

«Uccideteli nelle loro case, uccideteli nei loro letti, trascinateli nelle piazze e lapidateli di fronte ai loro figli e poi lapidate i loro figli, bruciate le loro case e bruciate i loro villaggi, disselciate le strade dove hanno camminato e drenate i fiumi dove si sono bagnati, non è così? E tutto per aver creduto in qualcosa che il tuo patriarca condanna.»

Avanzò ancora, un piccolo passo insinuante, motteggio della camminata solenne di un sacerdote, sul volto un sogghigno rugoso che pareva dileggiare ogni sacra condanna, in particolar modo quella della Sentinella Ammonitrice che Abigal aveva ripreso a scandire duramente.

«Essi invero non adorano Eoen, Signore del Libro, ma pervertono il suo nome con blasfemi attributi isolani. E contro questi piangenti, le cui grida non fanno che turbare il rancoroso sonno del Dormiente, professiamo che non vi è altro Dio che Eoen l'Altissimo, Re dei Giorni, Legge di Giustizia e Salmo di Misericordia; crediamo che verrà nella gloria per prestare il proprio scudo al giusto e spezzare la spada dell'empio e di fronte al suo volto giudice si prostreranno tutte le genti, i probi con cuore colmo di letizia, gli iniqui schiacciati dal terrore.»

La vecchia mosse un altro passo, turbando i cerchi concentrici che la pioggia formava nella polla ai suoi piedi, i pallidi occhi grigi fissi nei suoi, freddi e imperiosi come lo sguardo di un uccello da preda, maliziosi e irridenti come quelli di una strega

«Per non aver voluto un Dio che venisse a giudicare i vivi e i morti.»

Abigal distolse lo sguardo e le sputò addosso la fine del proclama di Naska: «La sua voce sarà sentenza severa e nessun recesso della terra nasconderà dalla sua collera. Quando verrà l'Ora non vi sarà pianto che quello del reprobo, né letizia oltre quella del retto.»

«Per aver desiderato un Dio gentile.»

«Un Dio debole!»

Il grido aveva lasciato i suoi polmoni prima che lui potesse pensare, caldo e disperato di odio ribollente, e per la prima volta Abigal si rese conto che la vecchia lo conosceva, perché come altro avrebbe potuto sapere che per lui, che pregava ogni sera per il soccorso e per la rivalsa, il Dio impotente e lacrimoso in cui i piangenti trovavano conforto non era che sterco gettato sulla sua più disperata speranza? Abigal avrebbe accettato la più terribile delle punizioni per i propri peccati, purché quelli di coloro che lo avevano offeso non venissero rimessi.

La risata della vecchia riempì l'aria, più densa delle tenebre e più fredda della pioggia e, mentre in lontananza un eroico barlume di luce aveva sconfitto le nubi per illuminare la rocca dei Teran, Abigal si accorse che il crepuscolo incombeva su di loro.

Desiderò stringere le labbra e rifugiarsi in un chiuso silenzio, ma la vecchia lo scrutava predatoria e fredda, e Abigal si trovò a temere che l'avvertimento di non parlare con le streghe e non ascoltare le vaganti nella pioggia avesse solide ragioni, sebbene lui non riuscisse a ricordarle. Solo quando si rammentò di non credere a simili sciocchezze allentò leggermente la presa sull'impugnatura della propria spada.

«E per aver turbato la tua sensibilità li manderai a morire, non è vero, Patriarca?»

Se le parole fossero state pietre quel "patriarca" sarebbe stato un enorme masso, capace di spezzare la sua maschera nera e le ossa del suo viso e, nonostante non fosse che un sibilo insinuante nella minaccia dell'imbrunire, udendolo, Abigal barcollò, colto dal desiderio di arretrare. Si disse che la vecchia era folle e che, avendolo sentito pronunciare il proclama di Naska, ne avesse confuso l'autore con il portavoce, ma nel profondo del suo spirito qualcosa vibrava di inquietudine e la vecchia sorrideva, saputa e paziente, quasi fosse al corrente che quel qualcosa l'aveva riconosciuta.

«Daenior è il patriarca.»

Avrebbe dovuto tacere, se ne accorse quando la frase rimase sospesa nell'aria, sovrastata dal rumore indifferente della pioggia. Non credeva che il sorriso della vecchia potesse allargarsi ulteriormente, il suo volto rugoso squarciato da un ghigno affilato e rosso, il passo che fece verso di lui simile all'affondo finale dello schermidore.

«Lo è adesso. Quando morirà toccherà a te, Inquisitore.»

Abigal si vide per un istante, solo in vesti nere e oro, percorrere gli ultimi nove scalini che separano il mondo dal Grande Altare, più in alto di tutti gli altri fedeli, più in alto di qualunque seggio in tutta Naska fatta eccezione per il trono dorato dell'imperatore. Si udì rinnegare per nove volte e accettare per nove volte e seppe che non era quello che voleva.

«Non sono un Inquisitore.»

«Ancora.»

Suonò definitivo e distaccato come la condanna irrevocabile di un giudice indifferente e Abigal desiderò potersi strappare la maschera, gettandola a terra nella pozzanghera, gridare il proprio diniego in quel momento e in quello di prendere i voti, giurarle che sarebbe tornato a casa a reclamare ciò che gli spettava di diritto. Suo padre avrebbe continuato a guardarlo come se i suoi grandi occhi azzurri non potessero vedere nel mondo niente di più doloroso di lui, l’avrebbe condannato e forse gli avrebbe tolto il saluto, ma alla sua morte Abigal sarebbe diventato Conte, forse persino Imperatore.

«Oppure morirai in un incidente di caccia o in una rovinosa caduta lungo le scale o ti ammalerai durante un inverno particolarmente freddo e l’intera corte sarà chiamata a vagare per i boschi e raccogliere legna per la tua pira.»

Un corvo, nascosto in qualche sottotetto, scelse quel momento per gracchiare alle nubi il proprio crudele scherno e il pensiero che suo padre potesse ucciderlo perché Elerad prendesse il suo posto pervase il suo spirito di gelido sbigottimento.

«No.»

Un’affermazione debole, il rifiuto di un bambino spaventato, solo sebbene al centro di una folla festante nel giorno del secondo matrimonio del proprio padre. Abigal aveva giurato di non essere più quel bambino.

«Mio padre non mi farà uccidere come un cane.»

«Tuo padre non ti ama abbastanza per permettere che il figlio del suo migliore amico rubi il posto del suo.»

L’allusione gli tolse il respiro, strangolando tutte le obiezioni dietro cui avrebbe voluto nascondersi, lasciandolo solo a boccheggiare dinnanzi a una verità terribile che aveva sempre finto di non sospettare. La sussurrò in una confessione spezzata e lacerante, il suo spirito smarrito nella pioggia.

 «Non è mio padre.» 

Il sorriso della vecchia, disgustoso come una ferita in suppurazione, si fece mano a mano meno nitido mentre Abigal spalancava disperatamente gli occhi, cercando di trattenere le lacrime. In quella confusa accozzaglia di colori che il pianto parava dinnanzi ai suoi occhi, Abigal vide il fantasma di Elerad, le fossette che gli si formavano sulle guance quando sorrideva, vide le movenze aggraziate di sua sorella e la freddezza cortese dell’imperatrice, vide la tristezza con cui Sorot di Besali l’aveva sempre guardato e per la prima volta seppe darsene ragione. Infine, quando non poté più fare a meno di chiudere gli occhi, scorse sul retro delle proprie palpebre la sagoma scura del Conte del Sirenmat e la nozione che fosse stato il suo seme a generalo si sedimentò lentamente fra le altre offese che serbava gelosamente nel proprio cuore: il suo vero padre era il padrino di Elerad e Marel, un uomo che era stato, nella sua vita, una costante distaccata, ricco di canti allegri e doni per suoi fratelli, povero di ogni considerazione per Abigal. Lo ricordava ancora vagare per l’ala grande del palazzo, allegro e già mezzo ubriaco, reggendo Elerad sulle spalle e fingendosi il suo destriero sotto lo sguardo divertito di suo padre, solo per rabbuiarsi e decidere di tornare a faccende da adulto quando Abigal aveva cercato di unirsi al gioco.

Strinse il pomo della propria spada con rabbia: due padri ed entrambi avevano amato suo fratello più lui, entrambi non gli avrebbero lasciato niente se non una strada in salita verso nove gradini d’oro e un freddo altare di marmo. Lacrime calde gli rigarono il viso in un pianto che sapeva più di frustrata impotenza che di tristezza.

«Piangi, Inquisitore? Credevo non ti piacessero le lacrime.»

Abigal spalancò gli occhi respirando a pieni polmoni l'aria acre di pioggia e legno bagnato, imprimendo quell'istante dentro di sé, lasciando che ogni piccolo dettaglio di quello scorcio di Redna si scolpisse nella sua anima sotto i colpi implacabili dell'odio più assoluto che avesse mai provato: dalla pietra grigia delle case alla motta lontana dove sorgeva la rocca dei Teran, dalla demoniaca vecchia che gli stava di fronte alla maledetta genia dei piangenti, per colpa dei quali l'aveva incontrata. Li avrebbe distrutti tutti, cancellando dalla terra causa e testimoni della sua umiliazione, lo avrebbe fatto ad ogni costo, anche quello di prendere i voti e diventare davvero la prossima Voce di Dio.

La vecchia sorrideva ancora.

«Ti vedo, Abigal né di Besali né di Usen, un bambino poco amato che grida al cielo per una giustizia che dovrà farsi da solo.»

Avanzò un'ultima volta, percuotendogli la spalla con la punta del proprio bastone, le innumerevoli rughe tese in una gioia feroce, il volto abbastanza vicino da poter sussurrare appena, la sua voce fredda e decisa un tutt'uno con il rumore della pioggia.

«Se fossi Dio piangerei per te, Inquisitore.»

Le affondò la spada nel ventre prima ancora di accorgersi di averla estratta, la resistenza opposta dal suo corpo allo sforzo di perforarla da parte a parte percorse il braccio di Abigal in un’esaltata vibrazione mentre liberava la lama. La lampada cadde a terra, il tonfo ovattato dall'acqua nella pozzanghera, e la vecchia cercò di reggersi al bastone con ambo le mani, sussultando mentre le ginocchia le cedevano per il dolore. Abigal la sorresse, solo per pugnarla di nuovo, per inciderle nelle gola un sorriso più orribile e profondo di quello con cui l'aveva schernito e, solo quando le sue sottili labbra pallide si dischiusero per emettere un gorgoglio sanguino, la lasciò cadere bocconi sulla strada bagnata, permettendo che il suo sangue disegnasse arabeschi rossastri nell'acqua stagnante ai suoi piedi.

Gettò la spada a terra con superiore disgusto e diede le spalle all'intera Redna per tornare nella locanda, lasciando che il piangente stesse di guardia al proprio cadavere penzolante e fosse, con la tumefatta rovina della propria figura, ammonimento sufficiente per chiunque lo guardasse.

Il piangente avrebbe potuto dirgli di non dare le spalle ad una strega e di non ascoltare le viandanti nella pioggia, perché le loro parole sono sempre vere e sempre amare, e le loro profezie, una volta ascoltate, si avverano da sole; la sua lingua strappata, tuttavia, non poteva proferire parola e i suoi occhi mangiati dai corvi non potevano vedere, così nessuno scorse la vecchia sollevarsi senza appoggiarsi al proprio bastone, né lo squarcio sul suo collo chiudersi velocemente mentre raccoglieva la propria lampada. Il suono della sua risata si perse nella pioggia e lei riprese a vagare, inosservata, mentre un canto malinconico aleggiava inascoltato per le strade.

«Oh Sofrien, re senza torto / che triste lai / per noi sei andato e morto / e non tornerai

 

 


Note dell’autrice:

Questa storia è stata scritta per il contest “Legendary Tales” che richiedeva di prendere ispirazione da tre immagini: una è quella che ho usato per fare il banner, di cui mi sono innamorata a prima vista (rendendo subito chiara la mia predisposizione per gli scenari deprimenti e un po’macabri) le altre due sono quelle che il giudice ha fuso insieme nel banner che mi ha fatto lei e che riporto qui sotto. Ce ne sarebbe stata una quarta, rappresentante quel Sofrien di cui parla la canzone ma mi limito a linkarvela (http://s1283.photobucket.com/user/yuko_majo00/media/Personaggi%20Maschili/012_zps0d362966.jpg.html?sort=3&o=7).

In fase di progettazione ho iscritto la storia anche al contest “La Peppa in reverse” e dato che il gioco secondo cui non bisogna rimanere a fine partita con la donna di picche in mano dalle mie parti si chiama “La Vecchia” eccoci serviti.

Odio i titoli e vorrei avere un titolista che si curi di battezzare i miei scritti. Non sono certa che questo sia riuscito. L’ho scelto giocando sul doppio significato del termine errare che si riferisce sia alla vecchia che ad Abigal: la prima vaga nella pioggia, il secondo vi si smarrisce moralmente e nella propria percezione di sé, e in più commette degli errori fondamentali (parla alla vecchia e la ascolta).

Note di ambientazione:

Siamo circa nel 1089 d. N. e Abigal è il bastardo che Galoth ha avuto dalla moglie di Sorot di cui si parla in “Amare i propri demoni. Rappacificarsi con sé stessi. Per non impazzire”.  Per chi invece volesse chiedere la vagante nella pioggia sia la donna sola di “Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” o anche la vecchia che attende nella capanna di giunchi delle fiabe isolane, sappia che la domanda è legittima ma che io non risponderò. (Non trovate però che il mio mondo sia popolato da vecchie più o meno malevole?)

Per quanto riguarda Sofrien, forse arriverà il momento in cui potrò raccontare del tutto la sua storia, per ora basti dire quello che la vecchia canta di lui: che è stato un grande re di un tempo infinitamente lontano (il figlio del leggendario Grande Sire) che la sua morte è stata un sacrificio e che è stato dimenticato (anche se non dalla vecchia). In realtà saprei cantare la sua canzone e se non fossi stonata ve la farei sentire ma poiché la mia voce è cacofonica e debole credo che per questa volta passerò.

 

 

“Riconoscimenti” ottenuti da questa storia:

Prima classificata al contest “Legendary Tales” indetto da Yuko Chan sul forum di EFP:

                           

Nominata alla Oscar per la miglio fotografia (descrizione) e sceneggiatura originale nel Contest “Oscar EFPiani 2015”

 

 

   
 
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