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Autore: Aleena    01/11/2014    14 recensioni
E se il tuo fosse il volto della vittima?
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1a classificata al contest “C.S.I Efp” indetto da Passiflora91 sul forum di EFP
4a classificata al contest “Peppa in reverse” indetto da Giuns sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NEI SUOI PANNI
 
 
 
 

Se c’era una cosa irrinunciabile nella vita di Alice, questa era il caffè e giornale della mattina.
Faceva parte di un rituale ben preciso che aveva avviato anni prima quando, ancora ventunenne, era incappata in un articolo sulla moda pubblicato nella quarta di copertina. L’aveva letto con l’assonnata energia dello studente che non sa come ammazzare l’attesa del professore ritardatario e ne era rimasta colpita più di quanto fosse disposta ad ammettere. La tesi, sostenuta dalla biondissima psicologa – troppo di bella presenza per affidarle anche solo una caramella, figurarsi uno studio scientifico! - era che la depressione poteva essere combattuta prendendosi più cura di sé stesse. Come? Ma con le piccole cose, ovvio: un caffè alla mattina, concedersi due minuti per leggere il giornale e una lunga doccia la sera. Alice aveva allora cominciato a pensare alla sua famiglia, a quanto sua madre si fosse sempre lamentata; sentendosi improvvisamente a rischio, aveva adottato il nuovo regime, arrivando a constatare che la dottoressa non aveva tutti i torti. E nonostante la rivista in cui era contenuto l’articolo fosse, a tutti gli effetti, una porcata – voce comune lo voleva, e come poteva sbagliare? – Alice aveva seguito quel consiglio per i successivi quattordici anni,  cercando di trasgredire il meno possibile.
Dunque quella mattina Alice si trovava nel bar sotto casa, seduta con le corte gambe incrociate infagottate nelle calze scure - must per ogni donna in minigonna che non voglia apparire volgare - nonostante il caldo afoso di quell’agosto. Sorseggiava un caffè lungo, rigorosamente amaro – gli zuccheri sono tutti chimici oggigiorno, ripeteva sempre al marito, e ti uccidono – e leggeva il giornale con tutta la calma che è possibile avere il giovedì mattina. Voltava le pagine pigramente, cercando un articolo che non fosse di guerra o di gossip, quando gli occhi le caddero sulla foto di una donna sorridente, e il cuore perse un battito.
Sbattendo le palpebre, Alice corse al titolo e poi alla foto un paio di volte, cercando di non associare l’idea che le aveva fulminato la mente con le scritte stampate in grassetto:
 
TROVATO CADAVERE DI DONNA IN UN VICOLO.
SI SOSPETTA DELITTO PASSIONALE.
 
La foto ritraeva una donna mora di capelli, con gli occhi celeste spento cerchiati dalla montatura nera di quegli occhiali da vista tanto di moda al momento. Labbra dipinte di rosso, un filo di trucco quasi distratto e un maglioncino bianco. Era chiaro perché, in un primo moneto, Alice s’era spaventata nel riconoscere un viso familiare: la somiglianza di quella… - Alice scorse in fretta l’articolo, cercando il nome della vittima - … di quella Grace con lei era quasi impressionante.
La donna – Grace, si disse, come se sapere il suo nome facesse qualche differenza, come se potesse in qualche modo annullare quella macabre somiglianza – lavorava in un ufficio in centro. Stava rientrando a casa dopo un turno troppo lungo. Aveva appena ritirato una confezione di biscotti da Genri’s e si era avviata lungo la strada, cercando di chiamare il marito che, uscito dalla doccia, aveva fatto squillare il telefono di Grace almeno dodici volte prima di correre in strada, allarmato.
L’articolo faceva vaghe allusioni su una tresca d’ufficio finita male, cercando allo stesso tempo di incuriosire i lettori senza offendere troppo né la morta, né il presunto cornuto. A metà della lettura, e più precisamente mentre la descrizione del ritrovamento rasentava il glaciale, Alice chiuse il giornale e si alzò di scatto. Pagò il conto quasi immersa in un sogno e uscì dal locale certa che qualcuno - un amante segreto che non sapeva di avere, o forse un pazzo maniaco – la stesse seguendo. Camminò talmente in fretta che, aperta la porta del palazzo in cui si trovava il suo ufficio, a non meno di ottanta passi dal bar, aveva il fiatone.
Passò la giornata fra telefonate e ansie - che cercò di attribuire all’aver dovuto interrompere la sua routine benefica - quindi decise prima che era più sicuro tornare a casa in taxi, poi che i tassisti del turno di sera erano tutti arabi immigrati, e si sa che quella gente odiava le donne sole, specialmente quelle con le gonne corte, i tacchi alti e le camicette bianche aperte.
Rientrò a casa che erano già le sette e un quarto. Albert - suo marito - stava per rincasare con la cena acquistata al Greed ‘n Go, il localino dove andavano quasi tutti i giovedì a prendere il pesce. Alice apparecchiò in fretta la tavola cercando di riacquistare un po’ del buonumore che l’azione le dava solitamente; ma quando il cibo caldo e profumato fu sui piatti e il marito ebbe finito di raccontarle - brevemente e con molte pause studiate - della sua giornata, Alice, con le mani che le tremavano, si alzò di scatto e corse ad abbracciare Albert con trasporto.
«Amore mio!» Gli disse, con la voce soffocata dalla spalla di lui. «Ho talmente tanta paura di morire!»
Albert raggelò. Nella sua mente di arido professore di chimica del liceo si formarono le più variopinte teorie: sbalzi d’umore da scompenso ormonale, un principio di schizofrenia, un tumore fulminante. Aprì la bocca per chiedere, ma non osò. Alice non ci fece caso: da anni era abituata ai silenzi del marito, che erano forse la cosa più bella del loro matrimonio.
«Oh, Albert! Stamane ero a far colazione e ho letto… ho letto…» Attaccò, e racconto per filo e per segno ogni dettaglio della sua giornata e dell’articolo, citandone perfino a memoria alcuni passi. Descrisse con minuzia la ragazza della foto – Grace, non dimentichiamocene, si chiamava Grace! – e poi, dopo una pausa ad effetto che ebbe come unico risultato il confondere ancor più Albert, riprese. «Era identica a me. Identica, lo capisci?»
«Nessuna è come te, cara. Tu sei unica e meravigliosa.» Le disse Albert, carezzandole i capelli. Una frase da far sciogliere il cuore, se non fosse stata detta col tono di un suo studente costretto ad assistere ad un noioso seminario di geologia.
«Oh tesoro! Quanto sei caro!» Disse lei, addolcendosi e stringendo l’abbraccio per poi allontanare con uno scatto il marito da sé, per guardarlo dritto negli occhi. «Ma il punto non è questo! Lo sai come è questa città: è pieno di pazzi. E quella ragazza… Albert, io sono sicura che sia stato un maniaco.»
«Ma tesoro…» Tentò di dire Albert, con quella sua voce bassa e ragionevole.
«No, no, non dirlo! Lo so, è chiaro. Tutti i maniaci lasciano le loro vittime nei vicoli, è risaputo. Non li vedi i telefilm polizieschi? Le colpiscono con…» e qui citò a memoria «… le undici coltellate canoniche, e poi le lasciano a morire dissanguate. Come quella povera Grace! E un maniaco è un pazzo, e da pazzo a serial killer il passo è sempre breve, lo devi sapere questo! Non scuotere la testa, avrai pure letto qualche romanzo giallo… un triller, magari?» Domandò speranzosa Alice, ma Albert continuava a far cenno di diniego, sorridendo in quel modo condiscendete che riservava alle teorie della moglie e che era tanto, troppo simile alla smorfia che faceva correggendo i compiti in classe.
«Mi sta bene, forse non sono un esperto come te, ma devi ammettere che da qui ad aver paura di mor…»
«No, no, e no! Lei usciva dal Genri’s, te ne rendi conto? Io ci vado tutte le mattine a far colazione! Questo non vuol dire niente per te?» Disse Alice con voce sempre più infuriata e sconsolata.
«C’è un’altra buona pasticceria dall’altra…» Attaccò Albert, ma la moglie l’interruppe alzando l’indice, rossa in volto. Chiuse gli occhi, li riaprì e si voltò, lasciando la sala da pranzo.
«Devo fare la doccia e tu devi lavare i piatti.» Sentenziò chiudendosi la porta alle spalle.
Dal canto suo, Albert si alzò e cominciò a rassettare. Era abituato agli sfoghi della moglie, che erano forse la cosa più bella del loro matrimonio.
 
Sette mattine, sette caffè e giornale, tre nuovi omicidi. Tre donne, tutte impiegate more di capelli, tutte trovate con undici coltellate nel petto e stese in un vicolo.
Alice aveva cominciato a chiedere ad Albert – e quando lui non poteva a qualche suo amico o collega – di riaccompagnarla a casa. Tremava quando l’ombra di un vicolo si apriva fra i palazzi luminosi, gravandole addosso come una oscura lastra tombale, presagio di una fine orribile.
Aveva perfino sognato la sua morte, una notte: si era vista distesa nel calore dell’asfalto estivo, con la camicia aperta sul reggiseno Victoria’s Secret verde – che metteva solo nelle grandi occasioni - e il petto squarciato, coperta di sangue denso e mezzo coagulato. Mosche e altri insetti le giravano intorno mentre i piccioni – di cui aveva un genuino terrore perché, è risaputo, portano malattie – la guardavano con quell’idiota occhio famelico. Erano poi carnivori? Non lo sapeva né le importava. Forse qualche cane randagio l’avrebbe perfino assaggiata prima che un ubriaco, andando a pisciare, la trovasse.
Albert l’aveva tenuta stretta quando gli aveva raccontato il sogno, dicendole che non c’era da temere, che non era sola. Ma Albert era così spesso fuori per corsi di aggiornamento e seminari che erano più le notti solitarie che quelle in cui potevano stare insieme – le notti del reggiseno verde, per l’appunto.
Ormai camminava velocemente, evitando tutte le persone che le sembravano anche solo vagamente sospette. Si fermava a guardare le vetrine non più per il gusto d’immaginarsi con quello o quell’altro splendido vestito, ma per avere una panoramica migliore di quelli che le passavano alle spalle. Cercava volti già visti, facce familiari – e spesso li trovava. È incredibile la facilità con la quale si incrocino ogni giorno le spesse persone, anche in città molto grandi: e quando si comincia a farci caso è, nel migliore dei casi, divertente notarlo. Alice sentiva un pezzo della sua integrità mentale andarsene ogni volta che una faccia conosciuta si rifletteva nel vetro di qualche negozio, fluttuando mezza evanescente in balia del gioco d’ombre. Molto spesso erano impiegati degli uffici o dei caffè vicini, riconoscibili dalle divise; meno spesso, anziani che facevano la spola tra il supermercato, la banca e il bus per il cimitero. Ogni tanto un ragazzino le guardava il culo, ma Alice era sicura che l’assassino – il serial killer, ormai! – fosse più anziano, così lasciava correre, sospirando di sollievo quando invece, solo due settimane prima, avrebbe sorriso, compiaciuta.
Amici e parenti avevano deriso le sue paure, dicendo che c’erano molte donne more con gli occhiali neri nel mondo: se usava le basilari norme di sicurezza, non le sarebbe successo nulla. E ne ridevano, mentre Alice se ne stava in disparte, rossa per l’offesa, a pensare a sé stessa come a una Sibilla ignorata, sola detentrice di verità e certezze. Anche Albert cercava di farla ragionare, dicendole che con il suo comportamento avrebbe solo ottenuto di star male la notte e, forse, anche di attirare le sventure – lo disse con il tono canzonatorio dello scienziato, e Alice si tolse una scarpa e gliela tirò in pieno viso, lasciandogli un brutto segno rosso su una guancia.
Poi, una sera di fine agosto, Alice ebbe la soddisfazione di vedere che la ragione era sua – e ne fu felice, per i primi dodici secondi.
Erano le dieci e Meredith l’aveva trascinata da un ristorante all’altro, alla disperata ricerca della borsa che s’era senza dubbio scordata lì la sera prima, o forse a pranzo. Non l’aveva trovata, ovviamente, ma era riuscita a portarsi a casa un – come lo aveva definito lei - distinto signore di mezza età, che era praticamente l’equivalente del suo tipo. L’avevano piantata sotto un lampione in attesa di un taxi che Alice non avrebbe mai preso. Ironia della sorte, quel giorno aveva messo dei tacchi alti così rumorosi che sembravano sovrastare il frastuono delle macchine e le facevano un male cane. Sembrava una prostituta, lì da sola davanti ad una lavanderia chiusa, e man mano che l’attesa si allungava Alice cominciò a pensare al serial killer più famoso del cinema: Jack lo Squartatore, l’assassino di putt… accompagnatrici. Oh se lo ricordava bene: non era stato forse il ruolo migliore di Johnny Depp? I frusci dei mantelli neri mentre l’assassino girava con la sua uva e quei vicoli scuri, in cui le ombre si allungavano quasi come artigli…
E poi lo vide, appena dopo l’angolo. Reggeva il cellulare in alto, fingendo di cercare il campo; ma la lucina rossa che lampeggiava, segnalando che la fotocamera era in funzione, era un chiaro indizio di cosa stesse facendo. Alice girò la testa, ben sapendo che doveva essere troppo tardi, e si incamminò velocemente, guardando l’orologio molte volte nella speranza che sembrasse un passo veloce dovuto al ritardo e non una fuga. L’uomo – doveva essere un uomo, no? Quando mai si è sentito di un serial killer donna? - abbassò il telefono e cominciò a camminare lentamente, guardandosi intorno con noncuranza. Alice lo vide fissare ostinatamente il cielo, il lampione o il semaforo ogni volta che lei girava la testa per guardarlo – poi si rese conto che era stupido, che lui avrebbe capito che lei aveva capito se continuava a girarsi. Si mise a camminare più veloce, cercando di mantenere lo sguardo basso mentre cercava qualcosa nella borsetta – forse le chiavi, avrebbe pensato l’uomo, o magari un profumo da schizzargli negli occhi non appena si fosse avvicinato; accecarlo, prenderlo a calci nelle palle fino a consumare il tacco e poi chiamare la polizia, questa si che sarebbe stata una cosa saggia.
Semaforo verde. Alice attraversò la strada e nel farlo girò quasi distrattamente la testa indietro, in un gesto che sperò sembrare naturale.
L’uomo l’aveva guardata fissa, ne era certa. Eppure non la seguì, continuando per la sua strada; e lo stesso fece Alice, che quella notte chiuse la porta a doppia mandata e mise delle pentole davanti ad ogni finestra, per essere sicura di venir svegliata dal rumore della caduta se qualcuno fosse entrato. Forte di quella certezza, chiuse gli occhi per ritrovarsi ancora in quella strada. Solo che non era notte, ma giorno: un sole caldo illuminava il mezzogiorno della città di una luce troppo intensa, simile a quella che doveva fare l’esplosione di una cometa. Denso vapore saliva in onde dall’asfalto caldo rendendo sfocati i contorni delle macchine, dei palazzi e delle persone, dandole l’impressione di trovarsi in un mondo di fantasmi. Uomini e donne senza volto si muovevano al limitare del suo campo visivo, il fisico distorto in pose terrificanti e grottesche che sembravano uscite da un incubo di Picasso. La strada stessa era diversa: sembrava un fiume agitato dalla corrente, e ribolliva come se al suo interno corressero creature mostruose e indicibili, separate dalla civiltà solo da quello strato elastico di bitume e vernice bianca. Il marciapiede era un inferno scintillante interrotto dai lampioni, che sorgevano come mani scheletriche pronte a gremire chiunque avesse osato entrare nel loro dominio.
Alice era sola, con la camicetta slacciata sul reggiseno verde, e correva senza muovere un passo. Ansimava per lo sforzo, ma per quanto si agitasse rimaneva sempre lì, piantata davanti quel vicolo buio e freddo dal quale sembravano provenire i rumori di mille creature dannate: un suono di archi spezzati, bassi rombi e grida da lacerare la gola. Reclamavano il suo sangue come nutrimento, la sua vita come tributo. Alice lo sapeva, poteva capirne le parole. Poi dalle tenebre emerse un ombra scura, che cominciò velocemente a prendere consistenza e forma. Fra il vapore, come un miraggio apparve un uomo completamente nero - eccezion fatta per la bocca, spalancata su un chiostro di denti affilati come rasoi. La guardò senza occhi e cominciò a sorridere, e mentre lo faceva la bocca si tese e si allargò fino a dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, mettendo in mostra altre file di denti bianchi come l’avorio. Il cacciatore si avvicinò e, mentre un’altra bocca famelica e tremenda spuntava sul risvolto della giacca – una cavità lucente di tortura e segregazione - Alice tentò di fuggire, ma non poteva muoversi, la sua corsa era lenta e la strada sembrava trattenerla. Allora Alice cadde e cercò di strisciare, ma aveva qualcosa incastrato fra le gambe che la bloccava, e l’uomo era sempre più vicino, con la sua faccia distorta e ghignante, con la sua bocca aperta su un baratro senza ritorno…
Con un grido, Alice tornò alla realtà del suo appartamento immerso nelle tenebre, madida di sudore freddo.
 
Tre settimane, otto donne morte, una caccia all’uomo che non dava tregua… e nessun sospettato.
Ormai Alice viveva con la costante sensazione che qualcuno la stesse fissando. Ne sentiva lo sguardo attraversarle la schiena come fosse fatto di fumo o di tenebra, lasciandole un marchio freddo simile alla morte che le si allungava in tutto il corpo, ghiacciandola.
Aveva rivisto l’uomo ancora e ancora, quasi ogni giorno da quella prima notte. Se ne stava al Genri’s la mattina, con una ciambella in mano; sedeva sulle scalinate davanti al suo ufficio, con le cuffie strette intorno alla testa, fingendo di giocare con il tablet; mangiava nel bistrot che faceva angolo in cima alla via di casa sua. La puntava, Alice ne era sicura: la seguiva con troppa noncuranza per non essere sospetto.
«Sarà un caso. Qualcuno appena arrivato in città, un abitudinario.» Le disse una sera Albert per consolarla. Erano al telefono da due ore e quella era la prima vera frase che pronunciava.
«Ha la pelle olivastra.» Obiettò Alice, col tono di chi abbia dato una prova inconfutabile.
«Anche tuo cognato, ma non lo accusi mica di omicidio.»
«No, non ci parlo. Il che è diverso. E poi chi ti dice che non possa essere un assassino?» Domandò Alice, cocciuta. Non sopportava quando Albert si metteva a ribattere in quella maniera. Sentendo che il marito stava per attaccare con una nuova serie di logiche obiezioni, lo precedette. «No, sta zitto e fa parlare un po’ me. Mi segue, lo capisci? Mi segue e mi ha fatto un video. E gira nel nostro quartiere da quando le donne hanno cominciato a sparire… tutte qui, vicino a noi!»
«Heaven Road è a sedici isolati da casa.» La corresse Albert.
«Non è il caso di fare i pignoli, sai cosa intendo!» Sbottò Alice.
«Lo stanno cercando amore mio. Abbiamo la miglior polizia del mondo e presto…»
«Avrai a dirmi che ho ragione quando non sarò più qui con te. Quando sentirai la mia mancanza, e sarà colpa sua!» Disse Alice e riattaccò, infuriata.
Non ne poteva più di stare in quella casa, né di parlare delle sue preoccupazioni con gente che non la voleva capire. Quindi decise di uscire.
Afferrò una giacca leggera dalla rastrelliera, qualche banconota, una boccetta di profumo – amava definirla il suo “antistupro” - e il mazzo di chiavi, sbattendo la porta in faccia al telefonino che continuava a vibrare. Scese le scale come una furia, ben decisa a passare la notte in un locale con così tanta gente che sarebbe stato impossibile portarla via senza che qualcuno se ne accorgesse – e, ad ogni modo, non aveva certo intenzione di passare inosservata. Che quell’idiota di Albert si divertisse in mezzo agli sfigati!
Ottenebrata dalla rabbia, Alice attraversò di corsa la strada e percorse almeno tre isolati prima di rendersi conto di aver imboccato la strada sbagliata. Non c’erano locali da quella parte, solo uffici. Disorientata, girò la testa un paio di volte, respirando via via più profondamente. Cominciava ad avere paura, ma non riusciva ad ammettere di aver ceduto ad un’idea… bhe, idiota.
Cercò di fare mente locale, e aveva già mosso i primi passi quando lo vide: un’ombra scura che scivolava fra i coni di luce, evitandoli come si eviterebbe un corpo infetto. Aveva il passo lento di chi non abbia fretta ma il suo modo di guardarsi intorno, e le mani calate profondamente nella lunga giacca di pelle nera, mettevano Alice a disagio. Cominciò a dirsi di stare calma, che un uomo in nero non è per forza un assassino – anche se solitamente è così: il nero è il colore della morte, no? – che forse era solo un onesto padre di famiglia.
L’uomo si voltò ad osservarla, fermandosi dall’altra parte della strada. Un’auto passò illuminando per un secondo il suo volto: un viso giovane, dai lineamenti esotici e grandi occhi scuri, che risaltavano sulla pelle olivastra. Sorrise, scoprendo grandi denti troppo bianchi, e Alice sentì di star per vomitare. Era lui, il cacciatore del suo sogno! Era venuto per prenderla.
«Aiuto!» Cercò di gridare, ma le uscì solo un pigolio strozzato. Cominciò a correre come una pazza, senza voltarsi indietro. Lo sentiva, sentiva l’uomo che scivolava fra le ombre gravide della notte e in mezzo ai vicoli gelidi in cui sarebbe scomparsa - no, non doveva pensarlo!
Rumore di passi pesanti dietro di lei. La seguiva, in qualche modo l’aveva raggiunta, già raggiunta… e poi un tacco cedette e Alice rovinò a terra, strappandosi una calza. Un dolore lancinante salì dal ginocchio destro e, assieme alla tensione, fece sgorgare calde lacrime. I passi si fecero più vicini e Alice tentò di rialzarsi ma era troppo, troppo impaurita. Poi una mano calda e piccola le si posò sulla spalla e la strinse forte. Alice urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni e qualcuno si abbassò su di lei, un’ombra troppo minuta e gelida. Gli occhi spalancati, Alice vide il volto di una donna avvicinarsi al suo e muovere le labbra, scandendo parole che non riuscì a comprendere immediatamente.
«… aiuto?» Dissero quelle labbra grandi e rosse, e Alice scosse il capo un paio di volte prima di annuire. «Non si preoccupi. Ci sono io, vede? La riporto a casa sua… le spiace?» Domandò, cercando di passarle una mano sotto le spalle. Alice si lasciò sollevare, docile, e per qualche passo fu l’altra a condurla. Aveva lunghi capelli castani sciolti attorno ad un viso che doveva essere stato grazioso, un tempo, e un tailleur di quelli che usavano le segretarie. «Si è persa? Sta bene?» Domandò ancora, osservando Alice con uno sguardo a metà fra il compassionevole e l’impaurito.
«Credevo di… c’era un uomo e…»
«L’ho visto.» Disse la donna, e Alice provò un brivido di gioia. Finalmente! «È per quello che mi sono messa a seguirti. C’è… bhe, con tutte quelle che si sentono…» Spiegò la segretaria, sorridendo imbarazzata. Aveva un bel sorriso, di quelli con cui si fa carriera. Di quelli che Alice odiava.
«Ce la faccio da sola.» Disse Alice, scostandosi all’improvviso. Avevano appena svoltato in una strada di collegamento stretta e buia, quasi priva di marciapiede.
«No, meglio se restiamo insieme. In due ci si difende meglio.» La segretaria la prese sottobraccio e la guidò quasi con forza nel vicolo. «È una scorciatoia, la faccio sempre. Sembra buia ma dura poco, e di là è pieno di ristoranti. È sicuro qui.» E sorrise ancora, piegando quelle grandi labbra rosse, che lasciavano scoperti i denti d’avorio candidi.
«Io…» Cominciò Alice, col cuore che batteva all’impazzata e le mani affondate nelle tasche, strette intorno alla boccetta del profumo. Non finì mai la frase. La ragazza si voltò a guardarla e poi cominciò a strattonarla con forza, il bel viso bianco cinereo, la bocca ancora atteggiata ad un sorriso – solo che ora era più largo, più spaventoso. Alice tirò fuori il profumo e glielo spruzzò in quei suoi begli occhi spalancati dal terrore, e poi prese a colpirla ancora e ancora, istintivamente, con quel piccolo cacciavite che aveva trovato in fondo alla tasca. Non si rese nemmeno conto di star tenendo la mano premuta sulla bocca della donna finché quella non le artigliò il dorso, lasciando scie profonde di sangue.
In cima alla strada, l’uomo con la giacca nera si era messo a correre e le era arrivato alle spalle; l’aveva afferrata e, con uno strattone, l’aveva girata supina. E mentre Alice notava che la strada conservava ancora il calore del giorno, l’uomo si mise cavalcioni della vittima e l’osservò con tutto l’interesse che solo un assassino poteva avere. Solo che non era una sua opera, ma di Alice che, in preda al panico e ormai non più cosciente delle sue azioni, afferrò la boccetta di profumo e ne sparò un getto dritto agli occhi dell’uomo, che si era voltato verso di lei, farfugliando qualcosa. L’aggressore urlò, accecato dal dolore, e Alice gli mollò un paio di calci nelle palle, come aveva sognato tante e tante volte di fare. Quindi scappò via, dimentica del cacciavite e della donna, dimentica di tutto fuorché della sua paura. 
Entrò in casa che erano appena le dieci e mezza e chiamò la reception dell’hotel di Albert. Aveva bisogno di qualcuno, di una mente razionale che la guidasse sulla giusta via.
Tre squilli, poi una voce assonnata.
«Alice?»
«Albert! Devi aiutarmi, ti prego! Ho… l’assassino! Mi ha aggredita questa notte. Lui… io ero con questa donna e lei… c’era del sangue, Albert, e quell’uomo…. quell’uomo era sopra di lei e aveva un cacciavite e… voleva ucciderci entrambe…» farfugliò Alice, incapace di controllare il tremito della voce. «Verrà per me, Albert. Verrà per me e mi porterà via da te!»
«Sto venendo da te, amore mio. Aspettami.» Disse Albert.
Piccoli suoni intermittenti di stasi. Suo marito aveva riagganciato.
 
Albert rientrò in casa che erano già le sei. Sua moglie era stesa sul divano, completamente vestita. Aveva la mano fasciata da una benda appena macchiata di sangue, che era forse la cosa più pulita che avesse indosso. Con amore Albert le passò una mano sulla fronte, trovandola fredda e pallida come la pelle di un cadavere.
Alice non si svegliò.
Albert prese uno dei vecchi pigiami della moglie e la svestì con calma, ripensando a tutte le notti che aveva passato lontano da lei, a cercare il modo per rendere quel mondo un posto migliore. Non l’aveva trovato nelle scienze, ma non voleva arrendersi. Scelse un paio di scarpe dall’armadio della moglie e gliele mise ai piedi, poi preparò un panno caldo e le sciacquò viso, gambe e braccia.
Solo allora Alice riprese i sensi. Era spaventata e spossata come solo una persona che abbia subito un grave trauma può essere; gli raccontò ogni cosa della notte precedente e lui la ascoltò con quel silenzio che era il suo modo di amarla.
«Sta per venire a prendermi.» Ripeteva Alice con ossessione, e ogni volta si stringeva più a lui. Che sospirava e taceva.
Tre ore passarono così, sapendo che non potevano che essere le ultime. Poi qualcuno suonò al campanello.
Alice andò ad aprire e urlò, perché stagliato sulla soglia di casa sua c’era l’uomo che per giorni l’aveva perseguitata. Solo che non era proprio lui: aveva lo stesso viso olivastro, ma adesso gli occhi erano rossi e gonfi, carichi di lacrime; e non indossava una lunga giacca nera, bensì un’uniforme della polizia.
Tre agenti lo scortavano, restando un passo indietro.
«La signora Alice Deveer.» Disse con astio il poliziotto che l’aveva seguita. Non attese risposta, penetrando in casa con un gesto secco e afferrando il polso di Alice con forza. «Ho chiesto di avere l’onore di arrestarla personalmente. Non hanno avuto problemi, visto il modo in cui ha ridotto me e la signorina Greed ieri sera.» Con un gesto veloce, l’agente le infilò le manette e la spinse verso la porta.
«Fermi. Cosa credete di fare con…» S’intromise Albert con foga.
«Sua moglie ha aggredito me e una povera donna ieri sera. Undici colpi di cacciavite al petto. Inutile dire che non ce l’ha fatta.» Albert sbiancò in volto e aprì la bocca, inorridito. Il poliziotto lo ignorò. «Signora, lei è in arresto per l’omicidio di Samantha Greed e di altre otto donne innocenti.»
«Io…» Protestò Alice, ma la voce perentoria dell’agente la zittì.
«Lei ha il diritto di restare in silenzio e…»
«La prego! Si sta sbagliando, io non c’entro, io sono…» Ora Alice era sull’orlo dell’isteria; urlava e piangeva.
«Lasciate stare mia moglie!» Quasi gridò Albert, scagliandosi verso l’agente, ma fu prontamente bloccato dai due colleghi.
«… se non può permettersi un avvocato…» Continuò il poliziotto implacabile e soddisfatto. 
«NO! Sono innocente! Albert, aiutami, ti prego!»
«… e ‘fanculo. Muoviti!» Concluse l’agente, spingendola fuori con malagrazia. Aveva una luce folle negli occhi, lo sguardo di chi sia immensamente soddisfatto del suo lavoro.
 
«Dicono che le ho uccise io, Albert!» Disse Alice con voce debole. Aveva un occhio nero e il volto pallido e emaciato, solcato da rughe che solo una settimana prima non c’erano.
«Non è possibile, amore mio.» La rassicurò il marito, comprensivo. Annuiva piano, una mano poggiata al vetro della prigione che li separava.
«Dicono che il cacciavite che ho usato era lo stesso che l’assassino… che l’assassino ha usato…» La voce di Alice si ruppe in singhiozzi che le impedirono di continuare, tanto era l’orrore.
«Gli avvocati risolveranno ogni cosa.» Disse suo marito nella cornetta, guardandola negli occhi.
«Dicono che le ho uccise per gelosia. Perché erano come me ma… migliori! Quando mai sono stata gelosa di qualcuno, Albert?» Chiese Alice, allargando gli occhi – quegli occhi grandi e belli che sembravano così pieni di magia e vita, un tempo!
«Mai nella vita amore mio. Tu sei unica, innocente e meravigliosa.»
«E allora perché…»
Un altoparlante annunciò la fine dell’ora delle visite. Dall’altra parte del vetro, gli agenti cominciarono ad allontanare le detenute dalle postazioni.
«Ci penseranno gli avvocati amore mio. Tornerò domani, te lo prometto. Ti amo.» Disse Albert, flemmatico. La sua calma era una delle doti che più rassicuravano Alice, che per lui trovò la forza di sorridere ancora una volta.
«Anche io.» Disse Alice. Ed era la verità.
 
Tornando dalla visita al carcere, Albert si soffermò un secondo a pensare alla condizione di sua moglie. Lo distruggeva vederla così, debole e piegata dal dolore. Mentiva quando le diceva che l’arancione le donava: la rendeva più pallida, più emaciata, meno perfetta - ma no, che pensiero! Alice era la donna perfetta, quella che ogni uomo avrebbe voluto. Quella che lui doveva volere.
E allora perché non riusciva ancora a smettere di odiarla?
L’aveva uccisa così tante volte, agli angoli di strade deserte in notti solitarie, che non si capacitava di come il suo corpo non si fosse ancora liberato di tutto quell’astio. Eppure sembrava che funzionasse, almeno all’inizio: tutte quelle donne così simili a lei avevano placato il suo desiderio di sangue rendendolo l’uomo – no, il marito! – perfetto che aveva sempre desiderato essere. L’uomo giusto per Alice, quello che poteva mettere via i suoi guai per ascoltarla e amarla e consolarla quando tornava a casa carica di problemi inutili. E non era forse il vero amore, quello? Pensò Albert rientrando nella loro casa vuota.
Canticchiava anche, sentendosi – in piena ragione – l’uomo più felice e onesto della terra.
 

 

Piccolo Spazio-Me: non appena letto il pacchetto del contest "Peppa in Reverse" ho avuto questa idea. Devo dirlo, mi sto appassionando a questa sorta di gialli a sorpresa e, anche se sono alle prime armi ancora (ho cambiato movente e assassino in corso d’opera, i grandi maestri del genere mi trafiggerebbero >_<) sono abbastanza soddisfatta del risultato. Il mio obiettivo era creare suspance e non far capire subito chi fosse l’omicida… spero di esserci riuscita :D Buona lettura! :D
Immagine presa in prestito da: http://xpeacexlovexrawrx.deviantart.com/art/Murder-150743789
 
 
  
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