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Autore: FalceNera    01/11/2014    0 recensioni
Elsa è una ragazza giovane che desidera per sé una vita normale e tranquilla. Un giorno viene incastrata e rinchiusa in un riformatorio minorile, senza poter controbattere in alcun modo: scoprirà che all'interno dell'istituto vi sono misteri nascosti fin nei meandri della struttura stessa e che, a causa del suo passato, sta per rimanere intrappolata nella tela di un ragno infido e manipolatore.
Genere: Avventura, Azione, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO 1: La cattura

I lampioni. Le macchine. La strada.

Un mondo immerso completamente nell'ombra, che quasi nessuno conosce. Un mondo che funge da casa ai più scellerati e pericolosi individui di tutta la città di Streetland. Sangue, droga e spari non mancano mai. La gente ha quasi paura ad uscire di casa alla sera, perchè sa perfettamente cosa potrebbe torvare sul suo cammino. Basta un momento sbagliato nel posto sbagliato e qui sei morto. Nessuno aiuta nessuno, tutti vivono nella paura. Un mondo selvaggio e crudo, che fa da scenario ad uno dei più diffusi fenomeni dei dintorni: le gang. Gruppi di ragazzi, né cattivi né buoni, che aiutano i poveri cittadini in cambio di ricompense non autorizzate. Lo so, è strano sa sentire, dopotutto non è una realtà con cui ci si scontra ogni giorno. Posso provare a farvi capire meglio raccontandovi una delle mie esperienze personali più illustrative: qualche anno fa Joy, uno dei miei compagni più fidati, riuscì a bloccare uno scippatore che aveva appena derubato una povera signora. Non mi dilungherò nei dettagli, con quattro colpi di mano la signora aveva riavuto indietro la sua borsa, e fino a qui nulla di strano, se non fosse per un dettaglio. Quella volta Joy aveva “guadagnato” misteriosamente una cinquantina di euro dal nulla e da quella borsa ne erano misterosamente spariti altrettanti. Afferrato cosa voglio dire? E' questo che facciamo. O meglio, che fanno. Le gang non sono più un mio problema da due anni ormai.

Non che fossi troppo vecchia per occuparmene, quando ho mollato avevo solo quattordici anni, ma sono successe delle cose. Delle brutte cose. Ho perso mia sorella per colpa di un'altra gang. Ora come ora per me è un argomento critico da affrontare, ma è bene che voi sappiate. Tutti devono sapere chi sono e cosa fanno. Non sono cattivi ragazzi, è solo che non hanno un posto dove andare né uno in cui tornare. Vivono per strada, aiutano la gente e combinano qualche marachella ogni tanto. Girano falsi miti sulle gang di Streetland: assassini, stupratori, ladri professionisti... Non sono nulla del genere. I veri criminali incolpano le gang solo per crearsi un alibi. Le gang della grande città non hanno il permesso di toccare droghe pesanti, né tantomeno di venderle. Le gang della grande città non possono commettere reati gravi come omicidi o genocidi, addirittura. Sappiamo che in altre parti del mondo non funziona così, ma qui da noi invece le cose vanno in ben altra maniera. E' un mondo a suo modo pacifico. Eppure sono tutti braccati. L'unico modo per toglierti la targa da ricercato che ti viene messa in fronte è uscire da una gang. Eppure per me, anche così, non è stato possibile vivere una vita tranquilla. Per i membri semplici di una gang è facile uscire dalla vita di strada e seminare le autorità ( anche perchè sono tutti minorenni, a nessuno è permesso di frequentare una gang una volta raggiunta la maggior età per non creare ulteriori problemi giuridici in caso di localizzazione),ma per un capo famoso e riconosciuto non lo è affatto. Se comandi una gang di grande fama tutti sanno chi sei. Tutti ti cercano: i capi di altre gang non alleate,per sconfiggerti, così da inglobare i membri della tua gang nella loro e i poliziotti per dimostrare che chi è membro di una gang non può essere affatto protetto. Se ti prendono e scoprono che sei uno dei leader è finita. Per questo l'identità di ogni capo è segreta. I loro nomi sono sulla bocca di tutti però vedendoli per strada, nessuno sarebbe in grado di riconoscerli. C'è solo un elemento utile per ricondursi ai leader: il tatuaggio, simbolo della gang. Tutti i membri ne possiedono uno, ma quello del capo di solito porta oltre al disegno, un marchio conosciuto da tutti: un disegno dell'Asso di Fiori, simbolo della nascita di qualcosa, in questo caso di un capo. Queste sono le regole non scritte di Streetland. Regole che tutti rispettano e che non ammettono trasgressioni. Questo era il mio mondo, la mia casa. Il mio nome è Elsa. Ma tutti mi chiamavano Primo.

Ero il capo più conosciuto dell'intera città per diversi motivi: ero il più giovane mai visto in circolazione (quando ho iniziato ad essere Primo avevo appena dodici anni anche se avevo fatto parte di una gang fin dagli otto anni) e soprattutto nessuno era mai riuscito a battermi a mani nude. Non ero paritcolarmente forte, ma ero veloce e agile, qualità che mi permettevano di vincere contro chiunque, anche contro gente di diciassette anni. Oh, quasi dimenticavo, la regola della maggior età non è valida per capi e consiglieri.

Un capo molla solo di sua spontanea volontà o in caso di sconfitta e al suo fianco ci deve sempre essere una persona di fiducia: il consigliere.

Comunque, stavo dicendo appunto che ero molto famoso come capo. Finché un giorno non successe una cosa. Una brutta cosa. Era notte.

Io e mia sorella Arianna stavamo pattugliando i confini nord di Streetland, poiché era girata voce che una gang stesse per infrangere i confini. Una volta arrivate con Jason a seguito (era il mio consigliere quasi diciottenne di allora) partì uno sparo. Arianna cadde a terra, immobile, con la faccia pallida e il ventre grondante di sangue. Io non realizzai subito cosa era appena successo. All'improvviso mi sentii le gambe cedere. Rimasi paralizzata dal panico. Non sapevo cosa dovevo fare. Jason si accovacciò vicino a lei ed estrasse nervosamente una bandana dalla tasca, posandogliela sul ventre e tenendogli la testa alzata. Vedevo i suoi occhi iniziare ad inumidirsi nonostante la sua espressione rimanesse concentrata. Io stavo tremando. Non mi era rimasto nessuno in famiglia, solo Arianna, e adesso lei se ne stava andando. Cercai una cabina vicina da cui poter chiamare un'ambulanza, ma Jason mi fermò. Non l'avevo mai visto con gli occhi così lucidi.

“Non ha polso Elsa, è inutile” disse, con voce rotta, “Arianna non c'è più”.

Un grido amaro e stridulo mi uscì dalla gola e, accovacciandomi su di lei, cominciai a piangere disperatamente con la testa appoggiata alla spalla del corpo della mia sorellina minore, ormai senza vita. Continuavo dal urlare il suo nome. Non riuscivo a fermarmi. Una sensazione di vuoto e disperazione mi invase la testa e l'anima. Fu in quel momento che decisi. Avrei trovato l'assassino e gliel'avrei fatta pagare, a costo di rimetterci la vita. Non ci fu bisogno di molti sforzi. Qualche minuto dopo la morte di Arianna una figura oscura spuntò fuori da dietro una cassa che era stata appoggiata al muro di una casetta lì vicino. Mi voltai furiosamente verso di lei e un calore infernale mi risalì la bocca dello stomaco. L'avrei presa. L'avrei sbattuta a terra. L'avrei uccisa.

“Vieni fuori figlio di puttana!” mi sentii urlare alla figura misteriosa.

Senza pensarci mi scagliai verso di lei e, nonostante il tentativo di fuga, riuscii ad afferrarla per il collo e ad estrarre il mio coltellino dalla tasca. Stavo per iniziare a stringergli la mano intorno alla trachea, quando sentii dei singhiozzi: era il tizio misterioso, stava piangendo. Un dubbio orribile mi attraversò la mente. Lo trascinai fin sotto ad un lampione.

Un bambino, sugli otto anni. Un bambino con in mano una pistola. Aveva il volto rigato dalle lacrime ed era piuttosto sporco. I miei dubbi erano fondati.

“Chi...Chi è stato a dartela?!” urlai in tono secco, strappandogli di mano la pistola.

Lasciandolo cadere a terra, notai che si stava stringendo il braccio. Il rinculo della pistola doveva avergli storto il polso. Mi guardò con due occhioni verdi, brillanti e arrossati.

“Io..volevo solo...mi aveva detto che mi avrebbe trovato una mamma se avessi fatto quello che mi aveva chiesto” i singhiozzi si facevano più forti.

Ci avrei scommesso. Un messaggero. Ma perchè un bambino? Chi poteva essere stato? Chi cazzo poteva essere stato quell'animale che aveva scelto un bambino come messaggero?

I messaggeri sono delle persone che non fanno parte di una gang, mandati a fare i lavori più sporchi in cambio di una ricompensa. Originariamente erano dei furfanti raccattati qui e là, ma durante i miei anni d'oro come capo si stava diffondendo una pratica molto più crudele: usare i bambini. Piccoli, veloci, inafferrabili. E soprattutto più facili da corrompere.

In un certo senso, quel piccolo bimbo mi ricordava me stessa anni prima, quando anche io facevo gli stessi lavori sporchi. Per poter nutrire mia sorella mi ero accinta a diventare un messaggero. Così ho imparato tutti i miei trucchi: combattimento, velocità, furtività.. L'unico problema era che non era sempre sicuro che ti pagassero. Ero una bambina in mezzo ad un mondo palesemente adulto. Non potevo farmi rispettare così facilmente. Un giorno però, un ragazzo, forse sui venticinque anni, riuscì a bloccarmi e a levarmi di mano pistola e bottino.

Anche io avevo otto anni. Pioveva ed era notte fonda.

“Puoi fare di meglio piccola vagabonda” a queste frase seguì una risata, ma non malvagia.. quasi innocente.

“Che cosa?” chiesi, terrorizzata.

“Non puoi limitarti a rubare e sparare quando ti fa comodo. Devi conoscere il tuo nemico. Devi aggirarlo, distrarlo e infine fregarlo. Perchè ucciderlo se puoi farlo finire col culo per terra e andartene col sorriso?” queste erano state le parole di M, il vecchio capo della Red Ride Down, quella che poi sarebbe diventata la mia gang. M era un ragazzo piuttosto solare, dai capelli rosso fuoco (probabilmente tinti anche se non ne fui mai così sicura data l'assenza totale di ricrescita) e da quella notte mi prese con sé. Mi addestrò fin nei minimi dettagli e con mia grande sorpresa, mi lasciò il comando della sua banda quattro anni dopo. A dodici anni mi ero ritrovata a capo della più grande gang di Streetland. Ma ci stiamo perdendo in chiacchiere.

Tornando alla storia, Arianna ormai era morta e io mi ero ritrovata con un bambino di otto anni a non sapere cosa fare. Avevo visto morire mia sorella davanti ai miei occhi, ma non potevo punire un bambino che non sapeva neanche quello che stava facendo. Rimisi in tasca il coltellino.

“Dimmi il nome” gli ordinai infine, “Voglio sapere chi ti ha dato la pistola e che cosa ti ha chiesto di fare”.

Il bambino mi osservò per un attimo, completamente spaventato, poi mi disse:

“Lenys, ho sentito qualcuno chiamarlo così. Mi ha detto che dovevo uccidere la ragazza coi capelli biondi e un disegno di un fiore nero su un fianco”.

Lenys. Capelli biondi. Fiore nero su un fianco. Era a me che stava puntando. Aveva solo sbagliato ragazza.

Conoscevo solo una persona che poteva chiamarsi così: Lenys, capo della Xkey. Me l'avrebbe pagata. Sarei andata a prederlo e niente mi avrebbe sbarrato la strada.

“Jason!” chiamai. Lui era ancora con il corpo di mia sorella, che mi osservava.

“Porta questo bambino.. Come ti chiami?”

“Cody”

“Oh bene. Porta Cody alla base e medicagli il braccio”.

Jason si alzò e venne verso di me.

“Cosa facciamo con il corpo?” chiese.

“Domani mattina, manda due di noi a prenderlo e seppellitelo. Io devo sbrigare una faccenda” dissi in tono torvo.

Feci un passo verso Jason per avvicinarmi di più e poi gli sussurrai all'orecchio.

“Buona fortuna, mi dispiace. Prenditi cura di lui” feci un segno con la testa per indicare Cody. Jason si voltò verso di me e mi guardò con gli occhi spalancati, ma io avevo gia fatto la mia mossa. Lui si guardò un braccio e vide il disegno di un asso di fiori, fatto con del sangue. Spostò gli occhi sul taglio del mio dito.

“L'era di Primo finisce qui” dissi in tono cerimoniale, estraendo di nuovo il coltellino dai pantaloni e facendo un taglio poco profondo sul tatuaggio dell'asso di fiori e della RRD. Jason rimase paralizzato.

Corsi via, mi arrampicai per una scala di un palazzo e cominciai a saltare da un tetto all'altro. Non avrei, per nessun motivo, coinvolto i miei compagni nella mia vendetta. Era una cosa che avrei sbrigato da sola. Non sto ad annoiarvi con altri dettagli inutili, ma potete immaginarvi cosa successe dopo. Un intera gang venne assalita e distrutta in una sola notte. Nessun morto, ma moltissimi feriti.

Il corpo di Arianna fu seppellito e poco tempo dopo venni a sapere che la RRD si era completamente adattata a Jason, o meglio, a D-Fire, come era stato battezzato il nuovo capo.

Nei mesi che seguirono, si aprì una caccia all'uomo sfrontata e ostinata. Una volta fuori dalla gang in teoria un capo dovrebbe essere al sicuro, ma con me non aveva funzionato. Dopo la mia scomparsa, il mito di Primo era cresciuto nettamente e aveva alimentato le voci. Le taglie sulla mia testa erano aumentate vertiginosamente. Chiunque avrebbe donato una falange dell'indice per potermi affrontare. Si era cominciato a pensare che, dopo quella “strage” (nonostante nessuno fosse rimasto ammazzato, come già detto) Primo fosse davvero il più forte capo della città. Ma come ho spiegato, erano voci. E' vero, mi rendo conto di averne battuti tanti in vita mia, ma so che esiste qualcuno più forte di quanto lo sia mai stata io. Deve esistere. E' una questione di velocità e agilità, non serve altro. E' quello che mi ha sempre ripetuto M e fino ad ora non è mai stato dimostrato il contrario. E sicuramente esiste qualcuno in grado di padroneggiarle meglio di me, anche se non l'ho ancora incontrato. Comunque, stavo dicendo, erano due anni che non ficcavo il naso nel territorio delle gang. Lo scontro con la Xkey era stata la mia ultima volta. -Adesso ho sedici anni- pensavo - Certo, devo stare attenta a non andare in giro scoperta: anche se ho fatto una riga col coltello sul mio tatuaggio, il marchio è ancora ben visibile e qualcuno potrebbe riconoscerlo- . Da quando avevo smesso di frenquentare il territorio delle gang, avevo iniziato a lavorare in un bar di nome Coffee&Sugar e avevo anche trovato una stanza in una pensione dove l'affitto costava il giusto. Non che fosse la vita che avessi sempre desiderato, ma meglio di niente (a parte sul lavoro quando il mio collega Mike continuava a ripetermi come tenere il vassoio, come doveva essere il portamento di un cameriere e blablabla). Però, nonostante questo, nonostante nessuno mi avesse riconosciuto e nonostante la mia vita impeccabile, poco tempo fa sono riuscita a ficcarmi nei guai lo stesso. O meglio, non è stata proprio colpa mia. Anzi, non è affatto stata colpa mia. Stavo camminando per un vicolo (stavo tornando dal bar e ho svoltato in quella direzione per arrivare a casa prima) quando nell'ombra ho visto un uomo che si agitava. Mi sono avvicinata per guardarlo meglio, ma quando si è voltato ho riscontrato una scena raccappricciante: un cadavere steso a terra in una pozza di sangue, col viso sfigurato, e l'assassino con un piccolo coltello imbrattato in mano. Appena si è accorto, l'uomo si è scalgliato su di me, ma ho fatto in tempo a bloccarlo. Ha continuato ad agitarsi e mi ha sporcato tutta la maglietta di sangue, allora ho afferrato il coltello e gliel'ho tolto di mano, quando all'improvviso si è dileguato. Stavo per rincorrerlo e fermarlo quando ho sentito un rumore familiare: la sirena della polizia. Ho cercato una via di fuga con gli occhi ma il vicolo era completamente sbarrato. Come facevano ad essere già lì? Qualcuno aveva sentito le grida del cadavere e li aveva chiamati? E adesso?

In pochi attimi un'intera squadra di agenti si era distribuita sui due lati del vicolo. Non potevo malmenarli come facevo con i soliti rompiscatole di strada. Erano troppi.

Così sono finita diritta diritta al cospetto di un giudice del tribunale dei minori, tempo dopo l'accaduto. Durante l'udienza ho tentato di raccontare come era andata e di ribattere, ma sembravano tutti proprio irremovibili, finchè non è successa una cosa strana. Mentre il giudice col parrucchino da grande uomo d'epoca blaterava qualcosa a proposito di un qualche articolo citato in un qualche codice, un signore con la cravatta gli si è avvicinato e gli ha sussurrato un qualcosa all'orecchio. Una volta finito, il giudice si è messo a fissare prima l'uomo in cravatta e poi un'altro, seduto tra alcuni tizi dietro di me. Era giovane in abito bianco, con la cravatta rosa e i capelli biondi. Gli occhi erano grigio-verde. Proprio carino (si, effettivamente non so per quale motivo non ero affatto concentrata sull'udienza).

“La parola al titolare della struttura scolastica nonché facente funzione di riformatorio privato: il signor Christopher Ariston”.

Il ragazzo in abito bianco si è alzato e mi ha fissato per qualche secondo.

“La mia proposta è quella di internare la signorina Elsa Foster nella nostra struttura. Abbiamo già trattato con ragazzi del genere, e ogni anno ne interniamo di nuovi e i nostri tutori sono pronti per prendersi cura di questi futuri adulti” disse in tono distaccato e formale.

Il giudice ha annuito senza dire una parola. Il resto del processo è stato tutto un susseguirsi di parole senza fondo “Elsa Foster...cresciuta in orfanotrofio con una sorella deceduta negli anni a venire...vissuta per strada... residente a...”. Ho ricominciato a prestare attenzione solo nel momento cruciale, il momento della sentenza: reclusione all' Istituto Ariston. Bene bene. Non mi sarebbe potuta andare meglio: Un intera corte che crede che abbia fatto fuori un tizio che neanche conoscevo, un tizio che sembra uscito da una rivista che tenta di farmi internare e ci riesce anche. Beh, ormai è fatta, sono qui davanti alle porte dell'istituto, con a seguito una scorta di tre agenti di polizia. Mi toccherà entrare, anche perchè anche se riuscissi a fuggire non saprei dove andare. Scendo dalla macchina che ha appena parcheggiato davanti all'edificio e lo osservo minuziosamente: la facciata offre un cancello blindato con del filo spinato sopra. Molto invitante. Gli agenti prendono la mia valigia e poi uno di loro suona il campanello.

“Siamo col soggetto 20034, Fascicolo Foster” dichiara al microfono del citofono.

Il cancello si apre e io posso vedere l'edificio: un grande portone di legno e di metallo con una grande serratura automatica che non riuscirebbe ad essere aperta neanche con il colpo di un carroarmato, una facciata grigia e nera, con delle finestre munite di sbarre. Sembra immenso. Il grande portone si apre e ci lascia entrare, poi si richiude alle nostre spalle. I poliziotti mi tolgono le manette (danno davvero fastidio, sono molto scomode da portare) e appoggiano a terra la mia valigia. E da qui parte la mia storia. 

  
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