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Autore: Woland Mephisto    01/11/2014    2 recensioni
Camus. Solo questo e nient'altro era inciso su quella lapide di pietra scura. Un niente, eppure per lui era tutto. O meglio, era stato tutto.
L'amicizia tra Milo e Camus vista dal punto di vista del Cavaliere di Scorpio: i loro ricordi da lui raccontati dopo la morte del suo migliore amico avvenuta durante la Battaglia delle Dodici Case e, infine, il tradimento di Camus tra le schiere di Hades.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Aquarius Camus, Aries Mu, Scorpion Milo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Era una fredda sera di Novembre, la pioggia cadeva fitta e sembrava ci fosse un sottile velo di nebbia che impediva alla vista di scorgere le case al di sotto e al di sopra dell'ottava.
Milo era in piedi, la schiena poggiata a una colonna, assorto nei suoi pensieri. Non aveva alcuna voglia di festeggiare il suo compleanno, quella sera, anche se gli altri avevano cercato di invogliarlo. Per quanto lo riguardava, non aveva nulla da festeggiare.
Entrò e si tolse l'elmo. Percorse un corridoio laterale della casa di Scorpio fino a una porta di legno scuro intarsiato, l'aprì e se la richiuse alle spalle: era una piccola stanza rettangolare, con una libreria, una scrivania, dei mobili a cassetti, illuminata da alcuni candelabri posti sul mobilio. Si spogliò dell'armatura, si mise dei pantaloni e una maglia, si coprì con un mantello con cappuccio e uscì.
Si diresse verso la settima casa, verso la sesta, la quinta, e sempre più giù, fino ad arrivare alla prima, dov'erano riuniti tutti i superstiti di quella che ormai era nota come la Battaglia del Santuario. Sapeva perché erano lì, ma lui non aveva voglia di restare. Disse a tutti che andava a fare una passeggiata e che sarebbe tornato da loro più tardi.
Si avviò sotto la pioggia verso un punto ai piedi dell'imponente monte su cui si ergeva, maestoso, il Tempio Sacro. Aprì un enorme cancello di ferro battuto e camminò tra le lapidi che erano lì in memoria dei sacri guerrieri caduti in battaglia.
Quando trovò quella del suo migliore amico, vi si sedette di fronte, le ginocchia sotto il mento, le braccia che cingevano le gambe. Il nome inciso sulla pietra fredda lo fece improvvisamente sentire triste in una maniera immensa.
Camus. Solo questo e nient'altro era inciso su quella lapide di pietra scura. Un niente, eppure per lui era tutto. O meglio, era stato tutto.
«Amico mio, perché te ne sei andato? Non ce la farò mai a festeggiare o a stare bene se non ci sei tu.» Le lacrime gli scorrevano sul viso senza che potesse far nulla per fermarle. I suoi occhi scintillavano sotto la pioggia, immagine della solitudine che provava.
«Se tu ci fossi stato, scommetto che saresti stato il primo ad organizzarmi una festa di compleanno. Saresti stato il primo ad augurarmi di essere felice, di stare senza pensieri. Ma dimmi, ti prego, come farò ad essere ancora felice dopo che è stato versato tutto questo sangue? Dopo che è stato versato il tuo sangue?!»
Seguì un lugubre silenzio, rotto soltanto dallo scroscio della pioggia, che stava diventando un po' meno fitta. Un lampo squarciò il cielo, seguito da frastuono del tuono che sempre lo accompagna.
«Non eri molto loquace nemmeno da vivo, vero?», un amaro sorriso senza gioia comparve sul suo viso. «Di solito tu eri quello che mi ascoltava, e io ti riempivo di parole. Sono sempre stato io il fiume in piena. Tu eri l'altra parte, quella riflessiva, quella pacata e mite. Per me sei sempre stato il fratello che ho scelto di avere. Eri anche molto più maturo di me! Perché hai dovuto sacrificarti proprio tu? Avrei dovuto cercare io di aiutare Hyoga, morire io al tuo posto! Non avrei mai dovuto farlo arrivare all'undicesima casa. Tu saresti stato più forte di me, lo so...». Le lacrime solcavano ancora il suo viso, e il senso di vuoto e di insensatezza che aveva nel cuore aumentava vertiginosamente.
«Se fossi morto io al tuo posto, tu l'avresti sopportato! Eri tu quello forte tra noi due. Io non lo sopporto, Camus, non ce la faccio a credere che tu te ne sia andato veramente!», cominciava ad alzare la voce e a singhiozzare. «Perché non puoi più rispondermi? Perché devo sentirmi così solo? Non è giusto!!!»
Tacque per qualche minuto, singhiozzando sonoramente, piangendo col viso nascosto tra le braccia che ancora cingevano le sue ginocchia.
Poi riprese a parlare, piano.
«Scusa se ho urlato. Lo so che non te lo meriti, che non è colpa tua, ma io mi sento così male al pensiero che non ci rivedremo mai più.»

«Te lo ricordi quando eravamo bambini e ci addestravamo insieme? Quante volte hai dovuto resistere alla mia cuspide ancora incerta, e quante volte ho fatto da bersaglio alle tue divine acque! Non potrei mai dimenticarlo. Eravamo proprio una frana, non è vero?», rise di un riso affranto e inframezzato da piccoli singhiozzi.
«Una volta mi dicesti che avevi paura di non riuscire a diventare un Cavaliere forte. Non era proprio possibile o concepibile che non saresti stato forte! Quella volta eri veramente giù di tono, ho dovuto ricorrere a tutte le mie energie per tirarti su di morale...però ci sono riuscito, e ne sono ancora contento! Io sono sempre stato convinto che tu fossi più forte di me. E in un certo senso lo sono ancora. Hai una volontà di ferro, Camus, l'hai sempre avuta! Guardati: sei morto piuttosto che lasciare il tuo allievo in balia dei colpi di noialtri. Sei morto per adempiere ai tuoi doveri di maestro. Ma era così necessario spingersi a tanto?»
Guardò la lapide con occhi incerti. Il labbro inferiore gli tremava, gli occhi erano un po' arrossati, ma non riusciva proprio a smettere di piangere. Abbassò di nuovo lo sguardo: non riusciva a tenere gli occhi su quel nome tanto caro inciso su quel pezzo di pietra. Non voleva ammettere che fosse morto, non ci riusciva in alcun modo.
«Sai, ti stava proprio bene la tua armatura. Mi ricordo il giorno dell'investitura, quando eravamo tutti là, al cospetto del Grande Sacerdote, vestiti delle armature, eccetto l'elmo. Tutti quanti, uno per uno, ci siamo inginocchiati ai suoi piedi, abbiamo giurato la nostra eterna fedeltà alla dea Athena e siamo stati nominati suoi Cavalieri mentre il Sacerdote ci coronava con l'elmo. E' stata un'emozione fortissima! Anche tu eri contento, solo che...non so, Camus, non sei mai stato bravo a dimostrarlo, vero? Sei sempre stato un po' chiuso e timido.»
«Ma non importa, io ti preferisco così. Basto già io a fare l'esuberante, non è così, amico mio?»
Continuava a tenere lo sguardo basso, con i ricordi che si vivificavano davanti ai suoi occhi. Scorrevano limpide le immagini dei giorni trascorsi insieme.
«Ti ricordi ancora le nostre passeggiate tra le colonne e le rovine del Tempio? Quante risate e quanti bei momenti! Non eri mai stanco di ascoltarmi, di ridere alle mie battute, o di darmi consigli. Sei sempre stato il migliore amico che abbia mai avuto». Un brivido lo scosse. Cominciava a fare freddo, il vento soffiava e gli tagliava le mani, gli investiva il viso e gli scarmigliava i capelli. La pioggia ormai cadeva obliqua, gli sferzava la faccia e gli faceva male sulle spalle. Ma non aveva alcuna intenzione di muoversi di lì e allontanarsi da Camus. Aveva troppo bisogno di lui in quel momento.
Avrebbe voluto ritrovarsi sul suo letto, sveglio, con Camus che lo guardava e gli diceva che aveva avuto solo un incubo particolarmente brutto, che andava tutto bene, che lui era lì e che non lo avrebbe abbandonato. Sì, sarebbe stato meraviglioso. L'avrebbe abbracciato e gli avrebbe detto che era felice che non fosse mai...mai...
Non riusciva nemmeno a pensare a quella parola. Era orribile, il pensiero lo faceva rabbrividire più che il vento e la pioggia insieme. Gli si gelava il sangue. Strinse gli occhi come se avesse fastidio, come se della polvere ci fosse finita dentro. Li riaprì e guardò prima la lapide e poi la terra coperta d'erba.
«Qui fuori fa proprio freddo, sai? Sotto terra, invece, com'è? C'è caldo, là sotto? Spero di sì, non mi va che il mio migliore amico muoia di freddo...»
«Parli da solo, Milo?» chiese una voce alle sue spalle.
Milo si voltò di scatto, col viso ancora segnato tra le lacrime, e vide un uomo dallo sguardo gentile e i lunghi capelli color paglia.
«Ciao, Mu. No, non parlo da solo, ma, sai...mi manca.» disse, voltandosi di nuovo verso la lapide, in volto l'espressione più triste che avesse mai avuto.
«Lo immagino» disse Mu, «Manca a tutti noi, così come gli altri.»
«No, Mu» rispose Milo, un po' accigliato, «Non potrà mai mancarvi quanto manca a me. Era il mio migliore amico, era praticamente mio fratello! Io sto malissimo, Mu. Non lo posso accettare tutto questo.»
«Lo so, Milo. Lo vedo. Ma non puoi restare qui per sempre a rifugiarti nei ricordi!» nello sguardo e nelle parole di Mu c'era un velo di preoccupazione. «Perché non torni al Tempio con me? Gli altri ci stanno aspettando. Non festeggeremo, se non te la senti, ma almeno potrai sentirti meno solo con noi. Credimi, adesso la cosa migliore è che tu non venga qui.»
«Ti sbagli, Mu, io continuerò a venire qui tutti i giorni. Non lo tradirei per nessuna ragione al mondo.»
«Sono sicuro che lui lo sa» rispose Mu con gentilezza, «Ma sono sicuro anche del fatto che non gli piacerebbe vederti in questo stato. E credo di sapere che ti vorrebbe al caldo nel Tempio, e non sotto la pioggia e al freddo, ad abbandonare te stesso su una lapide che non è lui.»
Milo pensò a quelle parole. Forse era vero che Camus non avrebbe voluto che si tormentasse in quel modo, ma cosa poteva farci lui se sentiva la sua mancanza?
Poi, lentamente, con lo sguardo sempre rivolto verso l'incisione sulla lapide, si alzò e si risistemò il mantello, e con un sorriso e una lacrima sussurrò rivolto alla terra fredda: «Mi aspetterai fino a quando verrò, non è vero?». Poi si voltò e si allontanò insieme a Mu dell'Ariete, alla volta della prima casa.

 
* * *
Guardava ciò che stava accadendo alla sesta casa. Dalla sua si vedeva benissimo.
Aveva lasciato le stanze di Athena poche ore prima e aveva messo alla prova il fratello di Saga, Kanon. Era riuscito a perdonarlo dei suoi errori, e ora lo considerava un compagno.
Ma non avrebbe mai perdonato il suo vecchio amico per quel che aveva appena commesso. Era furioso, stava lì alla soglia dell'ottava casa a pugni stretti, tanto che le nocche gli erano diventate bianchissime. Digrignava i denti e il furore gli faceva pulsare le vene alle tempie.
Entrò per un momento nella casa. Batté i pugni su una colonna e gridò.
«Come hai potuto farmi questo?!»
Il grido riecheggiò e si spense all'interno della casa. Lacrime di rabbia sgorgavano copiose dai suoi occhi che mandavano lampi.
Si girò ancora, si asciugò il viso, e si incamminò verso l'uscita, diretto verso la sesta casa.
«Non credere che piangerò ancora per te.» disse a denti stretti, mentre cominciava a scendere gli scalini di marmo bianco. «Hai tradito Athena, hai tradito me! Come hai potuto farmi una cosa simile? Lo prendo come un affronto personale, Camus!»
Era ormai arrivato alla settima casa. La attraversò in silenzio, oscurato nell'animo dalla rabbia che soffocava ogni altro sentimento in lui.
«Tu mi disonori, tu disonori la nostra amicizia!» esclamò furente all'uscita della settima casa, continuando a scendere verso la sesta.
«Questi tre devono essere puniti giustamente per essere diventati gli immondi sicari di Ade e per aver assassinato Shaka di Virgo, che è stato nostro e loro valente compagni d'armi!» esclamò quando giunse alla vista dei tre rinnegati e di Mu e Aiolia. C'erano anche i quattro cavalieri di bronzo lì con loro.
Guardò Camus negli occhi, torvo, ma l'altro non poteva restituirgli lo sguardo. Milo sentiva che lui sapeva che lo stava guardando.
Dopo pochi minuti di furiosa lotta, dopo aver lanciato contro quei tre traditori la Cuspide Scarlatta, si apprestava ad eseguire l'Athena Exclamation inseme a Mu e Aiolia per contrastare il loro Athena Exclamation.
Si risvegliò tra le macerie della sesta casa, stordito e indolenzito. Il primo pensiero che ebbe fu: “L'ho ucciso, l'ho ucciso perché ha tradito Athena e ha ucciso senza pietà il povero Shaka!”. Sentì una fitta dolorosa al cuore mentre lo pensava, e già si corrucciava il suo viso, e si apprestava all'immenso travaglio che pensava sarebbe seguito a tutto quel che era successo.
Infondo lo considerava ancora il suo migliore amico, nonostante tutto. E questo non poteva cambiarlo.
Si alzò e cercò il suo corpo tra le macerie. Ma con immenso stupore vide che Camus, Shura e Saga erano in piedi, erano ancora vivi. Com'era possibile tutto questo? Divenne ancor più furente.
Stava per attaccare ancora, quando sentì l'immenso calore del cosmo di Athena. Diceva a lui, Mu e Aiolia di portare i traditori al suo cospetto.
Ma come? Non si rendeva forse conto, la loro dea, che incontrando quei tre sarebbe stata in pericolo? Però i suoi ordini non potevano essere discussi.
Prese il braccio di Camus e se lo pose attorno al collo, poggiandolo sulla sua spalla e poi lo cinse alla vita con il suo braccio.
«Se oserai fare una qualunque mossa azzardata per uccidere Athena me la pagherai, Camus. Io ti giuro che me la pagherai!» gli disse, mentre tutti salivano le scale malridotte per trascinarli fino alle stanze della dea.
Durante la salita sentì che Camus era molto stanco al suo fianco. Quasi lo sentì di nuovo amico. Lo guardava spesso con la coda dell'occhio, e sentiva verso di lui un misto di rabbia e dolore. Ma quella sensazione di tristezza che aveva provato in tutto il periodo della sua scomparsa era svanita. Perché era svanita? E' vero, Camus era lì, ma era un rinnegato della sua fede, della sua amicizia. In fondo al cuore, però, sentì un piccolo moto di gioia. E non sapeva spiegarsi il perché.
Quando furono al suo cospetto, lo lasciò andare, e Camus si resse in piedi a stento, barcollando un po'. Lo guardò e non riuscì a capire se provava pietà, disgusto, disprezzo o gli era ancora legato dal profondo affetto di una volta.
Si sentiva in crisi. Era furibondo e affranto. Sempre aveva voluto rivederlo da quando era morto, ma avrebbe preferito non rivederlo mai più se il prezzo da pagare era quello! Che cosa lo aveva mai spinto ad agire in quel modo? Perché doveva diventare un ignobile Specter di Ade?
Si morse il labbro inferiore mentre la dea si rivolgeva con benevolenza a quei tre che l'avevano tradita. Seguì attentamente quello che gli si presentava davanti agli occhi: Kanon che andava a prendere un piccolo scrigno sotto il trono nelle stanze del Sacerdote, che tornava e lo apriva rivelando un pugnale d'oro, incastonato di gemme e con la lama elaboratamente rifinita. La dea lo prose a Saga, che si rifiutava di toccarlo, e quasi piangeva.
Perché piangeva se quello che voleva era proprio ucciderla? Era impensabile che piangesse! Un pentimento dell'ultimo momento, forse?
Si voltò a guardare Camus, e lo vide triste nonostante lo sguardo spento. Che si fossero davvero pentiti? Che fosse tutta una montatura?
Ma poi all'improvviso sentì il grido di Saga. Si girò di scatto e vide la dea che cadeva al suolo, grondante di sangue.
Era accaduto. Avevano fatto l'impensabile, la cosa più orribile che avessero potuto fare.
Si avvicinò a Camus in modo sorprendentemente rapido e, con tutta la rabbia che aveva in corpo, gli strinse le mani al collo e cercò di strangolarlo.
«Sei un miserabile maledetto! Muori, muori, muori!!!»
Con le lacrime che gli inondavano gli occhi vedeva la figura sfocata del suo vecchio compagno e amico cercare di togliersi le sue mani dal collo. Riuscì a vederlo un poco meglio per un momento e vide che piangeva.
Non seppe perché, ma lo lasciò andare. Quello cadde in ginocchio, ansante.
Tutta la frustrazione che provava in quel momento e la tristezza che aveva provato fino ad allora irruppero immediatamente. Era come se qualcosa dentro di lui si fosse rotto all'improvviso.
Si inginocchiò anche lui, piangendo e singhiozzando, picchiando il petto di Camus con i pugni serrati.

E poi, dopo aver sfogato un po' della sua foga con i pugni, si aggrappò alle sue spalle, poggiò la testa al suo petto e pianse.
«Perché hai smesso di volermi bene e hai fatto tutto questo? Noi eravamo amici, te ne rendi conto?» disse, tra le lacrime, i singhiozzi e il poco fiato che aveva ancora, «Io non posso pensare che tu sia cambiato in questo modo! Chi sei tu? Che ne hai fatto dell'uomo coraggioso, leale e buono che era il mio migliore amico? Rispondimi, perl'amor del Cielo, non ho nessuna intenzione di sopportare questo silenzio!!!»
Alzò lo sguardo e guardò gli occhi vuoti e vitrei, con lo sguardo iracondo e insieme infelice.
«Mi dispiace, Milo. Non puoi capire, non posso spiegarti, adesso.»
«Mi dispiace? Mi dispiace? Vorrei che fosse vagamente sufficiente! E adesso pretendo una spiegazione, la pretendo, Camus, hai capito?!»
«Io vorrei potertela dare, Milo, davvero, ma...»
«Tu me la devi!» lo interruppe all'improvviso, «Eri il mio migliore amico, una spiegazione a tutto questo me la devi! Mi sei mancato così tanto, e ora che sei qui non puoi rifiutarti di dirmi perché hai scelto di farmi così male, perché hai tradito e rinnegato!»
«Io non so che cosa dirti, Milo.» disse Camus, triste.
Rimasero lì, l'uno a piangere di fronte all'altro. Anche Camus piangeva, adesso.
«Io ti voglio sempre bene, Milo, ricordalo» gli disse Camus, appoggiandogli le mani sulle spalle.
Con violenza, Milo gli prese le braccia e le allontanò da lui, in modo che le sue mani non potessero toccarlo.
«Vattene di qui, Camus, e non osare tornare mai più. Se lo farai, io ti ucciderò. È una promessa, la mia. Non voglio rivederti mai più.»
A queste parole, Camus raccolse le forze che gli rimanevano e si alzò in piedi. Piangendo ancora, si diresse verso Shura e Saga, che nel frattempo aveva coperto Athena con un mantello e l'avevano presa in braccio. Tutti e tre si diressero verso le scale che portavano giù alla prima casa e poi lontano.
Vedendolo andare via, Milo si accorse che gli voleva ancora troppo bene.
   
 
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