Armonia.
Le ombre e
la quiete invadevano
lo spazio circostante. Quello che solo poche ore prima era stato un
plateale
schiamazzare allegro di voci, o una folla inferocita a causa
dell’eliminazione
di un concorrente amato adesso era solo silenzio che il riccio,
recatosi di
nuovo lì dopo una live parecchio entusiasmante, aveva
intenzione di smorzare
con la sua stessa voce.
“I'm sitting across from you
I'm dreaming of the things I do
I don't speak, you don't know me at all”
Non sapeva per quale motivo “I
see you” fosse la canzone perfetta quella circostanza,
semplicemente cantando
qualcos’altro prevedeva che avrebbe stonato.
Nella sua mente un’immagine di
Morgan, sorridente a causa di una sua battuta. Aveva riso forte, e non
per un
errore grammaticale, o l’invenzione di nuovi termini che
mischiavano l’inglese
all’italiano, o un doppio senso come era successo con la
povera Roberta Pompa,
che il ragazzo sperava di non aver mandato in paranoia.
Aveva fatto una battuta intenzionalmente
divertente, senza doppi sensi o nuovi termini.
E aveva sentito nitidamente la
voce di Morgan sogghignare, aveva sentito delle iridi scure puntarsi
sul lato
destro del suo viso, occhi castani, tristi, a volte presuntuosi.
“Truth be told
My problems solved
You mean the world to me
But you'll never know
You could be cruel to me
While we're risking the way
That I see you
That I see you
That I see you
…
La
sua voce in
falsetto suonava perfettamente intonata e melodica, ovattando il rumore
di
altri passi, leggeri, da spione; l’inglese,
adesso seduto su un gradino del palco e di conseguenza dando la schiena
alle
porte delle quinte, teneva lo sguardo fisso avanti a sé,
continuando a pensare
a quel preciso momento in
cui si era
sentito importante.
Quindi non si accorse
che l’uomo dalla buffa acconciatura si avvicinava di
soppiatto, incantato dalla
voce acuta del riccio. I suoi toni rochi si unirono a quelli
dell’altro, un
duetto improvvisato che non strideva affatto mentre si accomodava
accanto a
Mika, permettendogli di guardarlo meglio. Aveva gli stessi abiti di
poche ore
prima, adesso più sgualciti, segno che non fosse passato
affatto da casa appena
uscito dall’arena di X - Factor.
Mika sapeva dei
problemi del compagno, tra i quali una grave dipendenza per la magica
polvere
come anti-depressivo, o le sbronze continue che lo portavano alle prove
con un
mal di testa da cavallo, diventando un’impossibile diva di
Broadway in cerca di
silenzio trasmutata nel corpo di un cantante quasi anonimo nella sua
stessa nazione
d’origine.
Adesso però gli
pareva così normale mentre l’unica ragione della
sua vita, la musica, che lo
invadeva, lo circondava, si infiltrava nei suoi tessuti mentre le
parole
inglesi di una canzone venivano scandite da quelle labbra rosee, che
prima
d’ora avevano baciato solo bocche femminee.
“Conversations
Not me at all
I'm hesitating
Only to fall
And I'm weighted,
I'm hating everyone”
Pronunciò
il
quarantunenne, l’accento ovviamente italiano che rendeva la
canzone ancor più
adatta all’ambiente, mentre il tono suadente dava
un’altra sfumatura alla
melodia che in quell’ultimo periodo rispecchiava la vita del
libanese.
Il più giovane voltò il viso
magro verso la figura più in carne accanto alla sua che,
mente cantava, veniva
accompagnata da acuti sottili come sottofondo, osservando quei
lineamenti
scolpiti da uomo saggio che amava dimostrare essere, citando i grandi
della
letteratura italiana come Dante, Umberto Eco o Quasimodo.
Lo straniero era tanto
affascinato quanto spaventato da quell’uomo, la cui
intelligenza e cultura
parevano distruggerti – e distruggerlo - giorno per giorno.
Il duetto continuò indisturbato,
gli sguardi dei musicisti incrociati, intrecciati, in essi una
scintilla di
pura sorpresa, mischiata a dolcezza e curiosità.
Le ultime parole arrivarono
presto, i giudici fin troppo tristi e coscienti del fatto che, finito
quel
momento, l’intimità creatasi si sarebbe
polverizzata in un battito di ciglia dando
posto all’imbarazzo e alla clandestinità, al
terrore e la tristezza, all’
ingiustizia e al desiderio di libertà.
Desiderio di libertà.
“I
want to break free
I want to break free
I want to break free from your lies
You're so self satisfied I don't need you
God knows, God knows I want to break free”
Il nuovo pezzo, uno dei più famosi dei Queen, fu scelto dal milanese, il quale sorrise per la stessa ironica decisione, seguito da Mika che ricambiando il riso, continuò modificando la melodia a sua comodità e piacimento.
“I’ve fallen in love
I’ve fallen in love for the first time
And this time I know is for real
I’ve fallen in love yeah
God knows, God knows I’ve fallen in love.”
Mika ghignò all’arricciare infastidito del naso da parte del più anziano, che non aveva potuto trattenersi dal fare una smorfia al nome di Dio pronunciato.
Le note potenti aleggiavano armoniosamente nell’aria, il canto melodico di due nuovi amanti che si scoprivano prima partendo dalla loro vera droga.
Il ragazzo si alzò mentre intonava la disperata ricerca di felicità, di svincolare l’oppressione che Freddie Mercury aveva descritto in quelle righe d’intensa solennità e, come in un concerto, iniziò a ballare, trascinando un divertito Morgan che presto, preso dalla foga dell’enfant terrible, lo seguì più goffamente nei saltelli e nell’esecuzione di piroette teatrali.
Anch’essa terminò, dolorosamente, mentre le mani dei due uomini rimanevano strette, e mai si erano divise per tutta l’esibizione. L’ilarità spontanea comparsa su entrambi i visi sudati svaniva piano, la nuova espressione che sostituiva quella smorfia di pura gioia era ben più intensa e carnale nel contempo in cui si avvicinavano lentamente, annullando qualsiasi distanza ci fosse.
Adesso i petti ansimanti dei due si sfioravano dolcemente, mentre gli sguardi castani vagavano per il viso: le guancie, il naso, le labbra, e gli occhi per un tempo più lungo e poi ancora.
E di nuovo, Morgan pronunciò le prime parole di una sua canzone.
“Assurdo cosa accadde
quando ti vidi per la prima volta
portavo un cuore entrando nella stanza
ma uscendo non lo avevo più.
Amore, come vetro,
lo infranse al primo colpo.”
Quella voce, ancor più arrochita dall’emozione, accarezzava le orecchie dello straniero plurilingue, incantato dalle parole che sussurravano di un amore improvviso e accecante, del loro affetto ancora inespresso.
Le labbra bianche come petali di giglio in fiore raccontarono ancora una volta in un respiro, per poi schiudersi in un sorriso gentile e trepidante, mentre le iridi nocciola di ambedue i giudici si incatenavano.
Le dita da pianista lunghe e filiformi del riccio si sollevarono lentamente, tremolanti e insicure, mentre con l’espressione di un bambino portava i polpastrelli al viso inceronato dell’intellettuale, accarezzandolo piano, sorridendo leggermente quando l’altro piegò il collo, desiderando il suo tocco. Aveva paura, tutto quello era una novità e così come non voleva spaventarlo, egli desiderava non essere intimorito da tal contatto a sua volta; quindi quell’attesa, che odorava già di dolce bacio, si prolungò per un tempo indeterminato. Gli sguardi adesso si facevano strada per il viso; cercavano particolari mai visti, analizzavano ogni efelide, ogni poro sul liscio derma, ogni sfaccettatura dorata o rossiccia negli occhi dell’altro, ogni screpolatura sulle labbra secche e socchiuse dal desiderio di quella futura effusione desiderata da tempo immemore.
E infine, le bocche si incontrarono: ben non si capisce chi sia stato a prendere l’iniziativa, si potrebbe affermare che il più vecchio si fosse dato lo slancio sollevandosi sulle mezze punte, o che il libanese abbia messo da parte i suoi timori e, con grande trasporto, abbia unito i due visi in quello che all’inizio fu un bacio puro e innocente, ma che ben presto divenne un appassionato scambiarsi di salive e morsi reciproci, avvinghiarsi ai fianchi gli uni degli altri, sentire il corpo solido e magro che li accomunava a contatto, mentre l’inizio di un piacevole formicolio iniziava a farsi strada attraverso lo stomaco.
Dita sottili si strinsero ad una chioma brizzolata, che venne tirata con forza inesistente all’indietro, mentre la bocca rossa e gonfia del ragazzo dall’imponente statura scendeva verso quel collo bianco come la neve, percorrendolo con la lingua umida e addentandolo piano all’altezza della carotide, per poi sorridere di gusto all’emissione del leggero ansito del palese bisessuale, mentre le mani si arpionavano alle sue spalle, alla spasmodica ricerca di un punto d’appoggio che presto gli venne fornito, con grande gentilezza il più esperto lo intimò ad indietreggiare fin quando, sentendo le sue spalle e il suo capo scontrarsi contro una parete solida, ebbe la consapevolezza di essere rinchiuso tra un muro e quel corpo sensuale soggetto di diverse fantasie che a suo discapito non era mai ben riuscito a soffocare, mentre un pensiero lucido recitava “L’unica via di fuga dalla totale perdizione è composta dallo spiraglio al mio fianco. La mia ragione però è ormai affogata nei numi della lussuria”.
Così, cancellando ogni traccia di razione, si sciolse sotto le mani dai grandi palmi che sembravano potessero accarezzare porzioni di pelle tanto grandi da celarlo totalmente, proteggerlo dal mondo che li circondava, per rimanere assieme per l’eternità incatenati dal più indissolubile legame, ben più forte di quello del matrimonio: l’armonia.
I loro arti che si muovevano all’unisono, reagivano ai contatti nella maniera più naturale e perfetta degna del miglior attore di teatro, come se le loro espressioni non fossero altro che parte integrante dell’opera più bella, creavano l’armonia ricercata da qualsivoglia artista che possa essere chiamato tale.
Le dita tozze di Morgan non sembravano tanto imperfette quando sganciavano i bottoni dalle asole della camicia un tempo inamidata di Mika, così come i suoi denti non apparivano così sporgenti quando incidevano la pelle sulla spalla tatuata dell’amante.
E nei fumi della passione più filosofica, della fusione più chimica, dell’attrazione più fisica, fecero l’amore sul pavimento, e poco importava quanto esso potesse sembrare sporco, o quanto il tutto potesse andare contro la legge. Erano chiusi in una bolla che li sigillava finché i loro corpi non fossero stati l’uno dell’altro, e chi poteva sapere quando questo sarebbe accaduto.
Chi avrebbe potuto affermare il preciso momento in cui i fianchi sottili dell’⃰eròmenos avrebbero smesso di affondare nella figura ansimante che, tra le sue gambe, richiamava spesso il suo nome come se volesse accertarsi che tutto quello stesse accadendo davvero.
E le note di una nuova sinfonia, suonata dai loro battiti e i loro respiri, furono il ghirigoro che impreziosiva la prima lettera dell’unica parola che poteva esprimere tutto quello: Armonia.
Eròmenos: dal greco
“amato”, nella
tradizione omoerotica greca con questa parola si indica un adolescente
che
intratteneva una relazione con un uomo adulto, anche se tale non
è una regola
essenziale. Infatti, se vogliamo fare l’esempio di Alessandro
Magno ed
Efestione, o Achille e Patroclo possiamo ben affermare che le loro
età erano
prossime. Inoltre, come è facile intendere, si potrebbe
definire “eròmenos” il
passivo della coppia, e per quanto questo possa essere giusto nella
maggioranza
dei casi, tornando all’esempio di Alessandro Magno ed
Efestione bisogna in
primis dire che l’eròmenos era Efestione, in
secondo luogo è stato documentato
che spesso Alessandro era posseduto dal sopracitato.
Quindi ho trovato il termine eròmenos
perfetto per tale situazione, essendo a mio parere il riccio
l’amato e di
solito, il passivo della coppia.