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Autore: pinky_neko    04/11/2014    7 recensioni
E col passare del tempo, certe storie muoiono nell'intento di essere raccontate, spegnendosi nella mente delle persone che non ne hanno proferito parola, che non le hanno portate alla luce del sole, nascondendole invece nel fitto buio dei loro vaghi ricordi passati, diventando quindi, anch'esse, una semplice memoria lontana ormai infangata dagli anni.
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Seconda classicata al contest "Momenti&Emozioni" di DonnieTZ
Terza classificata al contest "Quel brivido lungo la schiena" di holls91
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Paura, disperazione, lacrime... e in un attimo il buio.

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22 Novembre 1992
 
Una grande volta di cemento grigio sporco contornava il vecchio cancello in ferro battuto ormai arrugginito. Nell’arcata superiore si poteva ancora notare la scritta in rilievo, rovinata dai troppi inverni ai quali era stata esposta. Il “St. Marie Cemetery” donava all’ambiente brullo circostante una sensazione di inquietudine e mistero, aggravata dal silenzio al quale era costantemente sottoposto.
Ma nessun brivido percorse quelle spalle corpose, non un fremito incurvò le sue labbra carnose, mentre con gli occhi percorreva le sagome delle prime lapidi che apparivano alla vista, oltre le inferriate del cancello.
Mosse i primi passi all’interno, varcando lentamente la soglia ed entrando così in quella cinta muraria che fungeva da perimetro del cimitero, mentre una folata di gelido vento novembrino gli scompigliava le ciocche corvine che, di tanto in tanto, gli carezzavano la fronte.
Non gli erano mai piaciuti i cimiteri. Sapevano di morte, di abbandono, di solitudine. Non poteva sopportarne quell’aura di stallo e decadenza che li avviluppava costantemente. Si sentiva gli occhi di mille persone addosso, nonostante non ci fosse nessuno con lui. Quelle stesse persone immortalate in una gelida e statica fotografia incastonata nel marmo delle lapidi. Quelle stesse persone che ora giacevano sottoterra, all’interno di fredde bare più o meno decorate.
Velocizzò il passo. Prima avesse trovato ciò che cercava, prima sarebbe uscito da quel lugubre posto.
Più andava avanti, più tombe si lasciava alle spalle e tutto quello a cui poteva pensare era a quanta gente avesse sofferto su di esse, avesse pianto lacrime di dolore e portato grandi mazzi floreali da donare ai propri cari che oramai li avevano lasciati soli.
Sentiva un grosso peso nello stomaco e la voglia di andarsene, scappare, si faceva sempre più forte.
Ma ora si trovava lì, circondato da lapidi di cemento grigio, e continuava a dirsi di fare un altro passo su quel manto di ghiaia strepitante sotto i suoi piedi, ancora uno, e poi un altro e un altro ancora, perché per troppo tempo aveva rimandato quel momento, quel fatidico incontro, se così lo poteva definire.
Era stanco, così stanco di rimandare sempre ogni cosa, che finalmente aveva preso quel dannatissimo treno ed era tornato nella sua città natale, testimone silenziosa di drammi famigliari che mai erano stati rivelati.
I suoi occhi non tardarono molto ad individuare una lapide più recente rispetto alle altre, di fianco a una che, invece, mostrava i segni dell’abbandono e della dimenticanza. Si fermò di fronte ad esse, contemplandole per minuti che parvero interminabili con sguardo vacuo e perso nei ricordi di un tempo passato. Le foto in bianco e nero di un uomo e una donna lo guardavano dal basso. Erano belli, giovani e con gli occhi luminosi di chi ancora non aveva sofferto le pene della dura vita quotidiana. Mai come in quel momento quelle espressioni tranquille gli erano sembrate tanto false e costruite.
Un forte sentimento di odio si fece strada in lui, mentre non riusciva a staccare il proprio sguardo dai loro sorrisi sereni. Se lo sentiva in gola, poi più giù, nel petto, nel profondo del suo cuore. Voleva urlare, con gli occhi che gli cominciavano a bruciare per lacrime che non avrebbe condiviso col mondo e le mani strette in pugni, così forte che le nocche diventavano bianche.
 
La sua mente immagazzinava ogni singolo rumore di allora, ciascun minimo spostamento d’aria, e, per un momento, gli parve di sentire ancora sulla sua pelle quel tocco che nulla di paterno poteva ormai più avere.
Gli stava accadendo di nuovo. Ricordare quelle situazioni non gli faceva bene, si sentiva come se tutta l’aria dei polmoni gli venisse risucchiata, come se stesse annegando in una goccia d’acqua e niente riuscisse a distrarlo. Il fantasma di suo padre continuava a tormentarlo e lui viveva costantemente nella paura di rincontrarlo, di rivivere il suo passato, di tornare in quella casa che non riusciva più a considerare sua ed essere ancora vittima di quelle violenze, di quelle mani fredde che lo colpivano con forza e lo lasciavano senza respiro e di quegli occhi di ghiaccio, gelidi, che lo guardavano con disprezzo, con odio. Lo sognava di notte, lo vedeva per strada, in mezzo alla gente, o anche nel bar dove era solito chiedere una birra, perché , diceva lui, era la più buona del paese.
L’aveva sentita una volta, quella birra, e un attimo dopo si era ritrovato riverso sulla tazza del water a vomitare anche l’anima. Non sapeva se fosse stato per il liquido dorato che gli aveva bruciato la gola o per il fatto che era proprio la preferita del padre, ma non lo avrebbe mai saputo e, sinceramente, nemmeno gli importava.
Non erano quelle le cose importanti, non erano quelle le cose che gli facevano accapponare la pelle dal disgusto e tremare violentemente dalla paura e dalla rabbia di non poter far nulla, di aver le mani legate ed essere completamente disarmato di fronte al suo passato, di non sapere come affrontarlo o come andare avanti. Aveva provato in quei mesi a rifarsi una vita. Si era addirittura trasferito dall’altra parte del paese per cercare di dimenticare, ma, inevitabilmente, il filo di tutti i suoi pensieri lo riconduceva lì, a Greechmond Square, la sua piccola e poco popolata città natale, e lui, come uno stupido, riavvolgeva sempre la matassa di quel filo rosso macchiato di sangue e andava incontro ai suoi ricordi. Ricordi che non permettevano un futuro e lo inchiodavano al passato.
Rivedeva i suoi occhi di un azzurro spento puntati su di sé, così severi, freddi e distaccati che ne rivelavano il disprezzo che provava per il suo unico figlio. Ogni suo sguardo lo distruggeva, lo frantumava come un vaso di cristallo che, pezzo dopo pezzo, si rompeva e non poteva più essere aggiustato.
Da piccolo, aveva cominciato a pensare che, se succedeva sempre lo stesso tutte le sere, forse se lo meritava, si meritava quella tortura continua. E invece no, non era così. Ogni livido che quell’uomo gli procurava, ogni frattura od osso rotto che gli causava, non era dovuto a lui. Era solo colpa del padre, sì, colpa sua e dell’alcolismo. Di quella micidiale malattia, indescrivibile follia e quell’ininterrotto e continuo oblio nel quale una mente debole come quella di suo padre rischiava di cadere al minimo problema, al primo crollo finanziario o licenziamento inaspettato. Al non sapere con quali soldi poter crescere un figlio appena nato o alla scoperta che quel figlio non era veramente suo.
Ecco, questo poteva destabilizzare del tutto una mente già delicata, una persona già malata psicologicamente che dalla vita non chiedeva nulla, se non una famiglia felice, un lavoro stabile e, magari, qualche soldo in più. Solo questo.
Ma tutto si era spezzato quella sera, la sera in cui il padre aveva scoperto che lui non era suo figlio.
 
E ancora sentiva rimbombare nelle sue orecchie le continue litigate dei genitori, interminabili all’udito di un bambino di appena sei anni che non poteva far altro se non nascondersi nella propria cameretta, sotto le coperte di lana, e piangere tutte le lacrime che aveva in corpo. Lacrime versate per anni e anni, così tante che ormai erano terminate, e notti insonni passate ad abbracciare il cuscino col solo desiderio di non udire più quelle grida insopportabili, di due persone che l’amore, a quel punto, non sapevano neanche più cosa fosse.
Poi era arrivato alle mani. E l’unica scusa per quei gesti meschini, dolorosi e interminabili era un “Tu non sei mio figlio” sputato con violenza contro di lui tra un pugno e un calcio. Una frase marchiata a fuoco nel suo cuore, della quale non si sarebbe mai scordato l’ira e il disprezzo con cui veniva pronunciata.
Lo odiava. E odiava anche sua madre per non aver alzato un dito in sua difesa, per non averlo protetto neanche una volta contro la crudeltà del padre, perché troppo spaventata. Una donna debole, incapace di proteggersi e proteggere i suoi cari, anche se lui non si era mai considerato parte delle persone care alla madre. Semplicemente non poteva, non ci riusciva, perché mai una volta, dall’età di sei anni, aveva più incrociato lo sguardo smeraldino della madre. Lei lo evitava, lo evitava per non dover ammettere che le cose nella loro famiglia erano un disastro, che ormai era tutto perduto, che da una sua bugia, un suo errore commesso anni prima, la loro casa non sarebbe più stata quel luogo caldo, accogliente e amorevole che lui ricordava. Che lui sperava fosse.
E ogni sera, quando sentiva i colpi secchi e pesanti degli arti del padre su di lui, desiderava solo sprofondare in quel lago vastissimo di lacrime e perdersi, certo che ormai non aveva più nulla per cui lottare, non dopo che i suoi stessi genitori gli avevano voltato le spalle ed accolto in un mondo crudele fatto da una parte di violenza e dall’altra di indifferenza.
Ma ora non piangeva più, non sapeva se ne sarebbe stato ancora capace, non dopo quello che aveva subito. Per cosa avrebbe dovuto piangere, poi? Per un lutto che non sentiva, ma che, anzi, aveva chiesto e richiesto più volte? Quello stesso lutto che, invece di strappargli lacrime dagli occhi qualche mese prima, gli aveva soffiato un sorriso dalle labbra, perché, finalmente, suo padre era morto. Ma un sorriso non bastava a cancellare il ricordo dei lividi violacei sulla sua pelle, non bastava a dimenticare quei momenti logoranti in cui, rannicchiato a terra, piangeva fino ad addormentarsi, mentre sentiva la consapevolezza del non essere amato dal suo stesso padre trafiggergli il cuore come una lama incandescente.
 
Guardò nuovamente quelle scritte in rilievo marchiate sul marmo freddo delle lapidi.
 
 
Lizbeth Doughty Courtley
05/10/1937 – 20/11/1972
 
 
Mitchell Courtley
28/07/1931 – 03/05/1992
 
 
Li vedeva in quelle foto e gli sembrava di impazzire, di essere tornato indietro di vent’anni, e continuava a sentire le urla disumane della madre che, a terra, implorava pietà.
Cadde in ginocchio, sulla ghiaia che gli rovinava i vecchi jeans già scuciti. «Basta, basta urlare» parole pronunciate in un sussurro, talmente piano che non era nemmeno sicuro di averle dette o solo pensate. «Basta. Non urlare. Stai zitta.» e continuava a ripetersele come un mantra, mentre si portava le mani tremanti alle orecchie, quasi a voler scacciare quelle grida che si trovavano solamente nella sua testa.
Chiuse gli occhi con forza e, attraverso le palpebre sigillate, rivide quel coltello da cucina sporco di sangue nelle mani del padre, mentre affondava una, due, dieci volte nelle carni della donna. Le iridi verdi di quegli occhi, che troppo spesso gli avevano negato uno sguardo ed avevano ostentato indifferenza nei confronti del figlio, erano spalancate, puntate su di lui in una muta richiesta d’aiuto, di salvezza da quell’uomo che aveva amato in passato, ma che ora, dopo l’ennesimo litigio, le stava affliggendo tutto quel dolore.
Le sue grida di disperazione colmavano la stanza. Un rivolo di sangue cominciava a scorrerle dall’angolo delle sue labbra rovinate, fino a lambirle il mento e stillare una goccia di quel liquido scarlatto sulla maglietta già macchiata dello stesso colore scuro.
Sangue che schizzava ovunque ad ogni coltellata, macchiando le pareti, il tappeto di pelo finto, la stessa faccia di quel ragazzino che fissava, sgomento ed impotente, la madre morire.
Lacrime di sangue gli colavano lungo le guance, sangue che non era suo, ma della donna che si trovava a pochi metri di fronte a sé, mentre l’unica cosa alla quale riusciva a pensare in quel momento era se davvero potesse esserci tanto sangue in un corpo così minuto.
E continuava a fissarla, con occhi spenti, occhi che avevano visto la brutalità dell’uomo troppe volte, testimoni incompresi delle tragedie che avevano scombussolato la sua vita. E l’ultima cosa che ricordava erano le labbra della madre contorcersi dal dolore e chiamare, invano, il suo nome, “Corbin”, prima di crollare, esanime, a terra.
Il suo assassino, l’uomo che aveva amato in giovinezza, che aveva sposato e nel quale aveva riposto la sua più totale fiducia per gli anni a venire, la guardava con occhi freddi, agghiaccianti e brutali, senza nessun’ombra di pentimento o ripensamento sul viso, neanche una traccia di rimpianto.
Mitchell. Quanto odio poteva essere contenuto in un solo nome, in sole otto lettere. Quanto odio provava per quell’uomo che, dopo aver assassinato sua madre, gli aveva dato la colpa, a lui, un ragazzo di soli tredici anni all’epoca, giustificandolo come “l’omicidio di una mente instabile”.
E lui non sapeva spiegarsi il perché, ma non erano mai state avviate indagini su quel caso, semplicemente l’avevano portato in un Istituto di igiene mentale e rieducazione sociale, il “St. Patrick Institute”, altresì chiamato: ospedale psichiatrico.
 
 
«Perché l’hai fatto, Corbin?»
«Non sono stato io.»
 
 
Ancora poteva rivedere le pareti ingrigite dagli anni di quei sudici corridoi interminabili. Ricordava il sapore nauseabondo delle medicine che lo forzavano a ingoiare ogni santo giorno e risentiva la voce del dottor O’ Connelly, il medico che l’aveva seguito durante tutta la sua permanenza nella struttura. Permanenza protrattasi per ben vent’anni, fino alla morte del padre.
 
 
«Perché l’hai fatto, Corbin?»
 
 
La voce del dottore tradiva costantemente finta comprensione, mentre gli domandava il perché del suo gesto così avventato, il motivo per cui avrebbe dovuto colpire in quel modo atroce sua madre, senza però volerne realmente conoscere la risposta.
A nulla era servito ripetere che no, lui non c’entrava niente, che era stato suo padre a ucciderla. Ma nessuno gli credeva, non fintanto che Mitchell si assicurava che lui sarebbe rimasto chiuso dentro quell’ospedale a vita. Perché Mitchell, quella sera, la sera dell’omicidio avvenuto per sue mani, non si era preso nessuna responsabilità e aveva fatto ricadere la colpa sul figlio del quale, da tempo, non sopportava più la vista.
E la responsabilità delle azioni del padre era piombata tutta su di lui, una responsabilità troppo pesante per un ragazzino di tredici anni che si sentiva schiacciato come da un macigno e non riusciva a risollevarsi. Non trovava un appiglio da nessuna parte, una mano amica alla quale sostenersi. Non aveva più nessuno.
 
E di nuovo era lì, a contemplare le lapidi dei suoi genitori, coloro che lo avevano abbandonato nel dolore e nella disperazione per troppo tempo, gettandolo sull’orlo dell’esasperazione, alle porte della pazzia.
Forse era debole, fragile; forse, dopo i lunghi anni passati in un ospedale, estraniato dalla vita di tutti i giorni, non era più in grado di andare avanti, di rifarsi per davvero una vita. Ma lui non era pazzo, di questo ne era più che certo. Sapeva di star cedendo sotto il peso della sua stessa mente, dei suoi stessi ricordi, ma non era pazzo, non poteva esserlo nella maniera più assoluta.
E continuava a ripeterselo, dando spazio a quelle parole mimate con le labbra ruvide, che trovavano la loro espressione attraverso la voce arrochita dal vento freddo.
 
«Non sono pazzo.»
 
Si rannicchiò su se stesso, avvicinando le ginocchia al petto, steso in posizione fetale sulla ghiaia che gli forava il fianco e la gamba sinistra. Le sue parole ridotte a un sussurro difficilmente udibile.
 
«Non sono pazzo.»
 
Si portò la mani tra i capelli, scompigliandoli lentamente, con gli occhi sgranati che, ancora una volta, si fissavano su quelle facce sorridenti che aveva davanti. Ma non le vedeva realmente, guardava oltre, oltre quei ricordi che si accavallavano nella sua mente, oltre quei pensieri che lo ostacolavano dall’andare avanti.
 
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«Non sono pazzo…»
 




 
 



24 Novembre 1992
 
Ti senti sprofondare sotto il peso di quella volta scura puntellata di stelle sopra la tua testa. Ti fissi a guardarle mentre ti chiedi “Perché? Perché a me?”. Proprio tu, che hai visto l’inferno coi tuoi occhi di fanciullo e nel quale sei cresciuto, ora fissi il vuoto di una notte algida, un vuoto che ti è entrato dentro quando eri piccolo e adesso fa parte di te. Un vuoto che contiene tutti i tuoi dubbi, le delusioni, le speranze infrante. Un vuoto capace di risucchiarti anche l’anima, nel quale ti lasci cadere andando incontro al tuo destino.
Cadere nel vuoto: una sensazione liberatoria, dissipa dai dubbi e libera dall’oppressiva prigione dei pensieri. Ti senti leggero e per la prima volta da anni riesci a vedere una luce in fondo a quel tunnel annerito dall’orrore dei ricordi. La gravità spinge forte contro ogni particella del tuo corpo in un vano tentativo di fermare quella caduta ormai inevitabile. Ti senti felice, niente più preoccupazioni o voglia di scappare da questo mondo annebbiano la tua mente.
Sei solo tu, Corbin. Soltanto tu e nessun altro. Tu e la tua voglia di rinascita, senza più alcuna paura e disperazione, senza più incubi o fantasmi, col solo desiderio di rivivere. Rivivere dimenticando.
E non trovi risposta alle tue domande perché risposta non c’è, e non senti più niente perché più niente non c’è.
E, in un attimo, il buio.
 
 


 
24 Novembre 2012
 
Tre tombe giacciono l’una accanto all’altra. Tre tombe ricoperte di fogliame, abbandonate, dimenticate, senza neanche un fiore in commemorazione.
Nessuno si cura di loro, di quel padre, quella madre e quel figlio sepolti sotto la terra asciutta.
L’incomprensione fa breccia nel cuore delle persone, perché è più facile chiudere gli occhi davanti l’evidenza, sbattere la porta in faccia alla verità nascosta. Perché è più semplice credere a ciò che è stabilito, a ciò che fa più comodo.
È più semplice essere in balia della convinzione che Lizbeth Doughty Courtley sia morta a causa della malattia mentale del figlio e non come conseguenza dell’ennesima lite furiosa col marito. È più semplice pensare che Mitchell Courtley fosse il perfetto padre di famiglia che aveva fatto di tutto per tenere alto il loro nome, piuttosto che un alcolizzato capace solo di vedere la sofferenza di chi gli stava accanto. Ed è  anche più semplice credere che Corbin Courtley sia morto a causa della malattia per la quale era rimasto confinato al St. Patrick Hospital per vent’anni, e non che si sia suicidato in un dirupo poco distante dal cimitero.
Perché nonostante tutti fossero a conoscenza delle atrocità commesse da quell’uomo e dell’ingiustizia subita dal suo unico figlio, nessuno era mai accorso in suo aiuto o aveva mai alzato la testa in sua difesa.
E col passare del tempo, certe storie muoiono nell’intento di essere raccontate, spegnendosi nella mente delle persone che non ne hanno proferito parola, che non le hanno portate alla luce del sole, nascondendole invece nel fitto buio dei loro vaghi ricordi passati, diventando quindi, anch’esse, una semplice memoria lontana ormai infangata dagli anni.
Perché l’uomo è così, costantemente in cerca di una luce da seguire, nella quale trovare protezione per dimenticarsi dei dolori, una luce che abbaglia e nasconde, che acceca e non ci permette di vedere le cose come realmente stanno.
E per questo, sì, delle volte  ci protegge dal male, dalla morte, dai dubbi, dalle malattie e, forse, ci protegge anche da noi stessi. Ma ci illude e solo l’ombra riesce a portare a galla queste menzogne, perché è nell’ombra che si nasconde la realtà più crudele, quella fatta di paura, disperazione e lacrime. Realtà come quella di Corbin, che non chiedeva altro se non essere salvato.





 
  
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