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Autore: MAMMAESME    09/11/2014    1 recensioni
Un anno. Un anno senza Damon, senza alcuna memoria di lui e della loro storia. Questo è il tempo che lui le ha concesso. Ora sta andando a riprendersela.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Under your skin, again.

 

Tempo.

Mi aveva chiesto tempo.

Tempo per capire, tempo per una nuova vita, tempo per provare ad essere altro da me.

Come mio fratello, voleva provare una nuova “normalità”: il college, feste, un ragazzo che non fossi io, qualcuno con cui poter stare senza perdersi, qualcuno che avrebbe lasciato tra qualche mese perché non eterno.

Tempo sprecato.

“Come puoi vivere una vita normale se sei un essere speciale?” le urlai.

Tempo tolto al nostro amore, quell’amore che lei non ricordava, che non voleva ricordare, che io ricordavo benissimo.

L’avevo seguita, assediata. Avevo provato tutti i discorsi possibili, la dolcezza, la forza dirompente della mia passione, la razionalità e la rabbia.

Nulla: lei non ricordava, continuava a mantenere in equilibrio quella pietra sul suo cuore.

Cedetti.

Le diedi il tempo che mi chiese … anzi, feci di più.

Se quello che ricordava di me era solo il mostro, se quando mi guardava confondeva il vuoto che il nostro amore cancellato aveva lasciato nella sua anima con una sorta di fastidio nei miei confronti, allora era meglio che nella sua mente, nel suo cuore, io non fossi mai esistito.

Avrei avuto più speranze se oltre all’amore avesse cancellato anche il male. Il vuoto doveva essere totale. Le vie di mezzo non avevano mai portato in nessun luogo.

Tutto o niente.

Con Rick umano, avevo chiesto a Bonnie, una volta tornata, di fare un incantesimo simile alla compulsione, una magia che le togliesse tutti i ricordi che mi riguardavano, non solo l’amore, ma anche l’odio … non solo il meglio, ma anche il peggio di noi due.

Un anno, le avrei concesso un anno e poi sarei tornato a vedere se poteva essere felice come desiderava, nonostante il non noi, nonostante il buco nel suo cuore.

Un anno davanti all’eternità è un sospiro.

L’anno più lungo della mia vita.

Un anno a raschiare il fondo di una vita che non potevo vivere fino in fondo, che non potevo interrompere, non ancora, perché l’eternità ha senso se si può sperare nell’ennesima occasione, in un altro pezzo di vita … o in un per sempre colmo di lei.

Spinta da non so quale idea, da quale strano istinto, aveva cambiato università, città … amici.

Aveva lasciato la sua vecchia vita alle spalle, sicura che tutti i suoi amici più cari fossero felici, che suo fratello fosse al sicuro tra le braccia di Bonnie.

Aveva voltato pagina, lasciando tutti i frammenti della sua precedente esistenza chiusi in una valigia sotto il letto di Caroline e se ne era semplicemente andata … a New York.

Non l’avevo fermata, nessuno era riuscito a farlo.

Non potendo rimanere in un luogo pieno di ricordi affilati come lame, me ne ero andato anch’io.

Avrei voluto fare un viaggio con mio fratello, un viaggio che rimandavo da tempo immemore, ma lui aveva appena iniziato a provare dei sentimenti per Caroline … rimandammo.

Enzo si sarebbe unito a me più che volentieri, ma non era l’amico che avrei voluto accanto: troppo simili, troppo autodistruttivi … non volevo altri peccati da farmi perdonare, non volevo altri motivi per farmi odiare.

Se “dopo” lei non mi avesse voluto, se lei mi avesse rifiutato, definitivamente, forse sarei andato con lui fino all’inferno.

Per il momento subivo quel purgatorio, vagando per città e bar, ogni sera diversi, ogni sera più bui, in attesa di rivederla, di riaverla, di riconquistarla.

Un anno.

Beh … un po’ avevo barato.

Mi ero recato a New York un mese prima del termine, per trovarla, per osservarla.

Una vota normale era quello che aveva desiderato.

Una vita normale era quella che stava tentando di vivere.

La mattina lezione alla NYU School of Medicine, nel pomeriggio volontariato in un ambulatorio per coloro che non potevano permettersi l’assicurazione sanitaria.

L’avevo osservata scarmigliata la mattina nel vento freddo,  bere un caffè di Starbucks per scaldarsi le la mani e lo stomaco.

L’avevo ammirata mentre accudiva bambini sporchi e malaticci.

 L’avevo seguita nelle serate con gli amici, nei locali fumosi di una città senza sonno, nascosto come un maniaco ossessionato.

L’avevo guardata flirtare con qualche ragazzo, roso dalla gelosia, pazzo di rabbia soffocata.

Avevo forzato la sua porta per guardarla dormire, per ascoltare il suo respiro tranquillo.

Resistere alla tentazione di infilarmi sotto le coperte accanto a lei, scaldarmi al calore del suo corpo, respirare il suo odore, posare le mie mani sulla sua pelle, le mie labbra sul suo seno, era davvero dilaniante.

Eppure dovevo resistere, fare un passo alla volta. Questa volta non potevo essere la solita macchina demolitrice, non potevo permettere al mio istinto di bruciare ogni possibilità di abbattere il muro che la sua volontà ferita aveva eretto per riparare il suo cuore da un amore troppo grande.

Dovevo ricominciare da capo, camminare in punta di piedi nella sua anima, entrarle ancora una volta sotto la pelle e da lì togliere un mattone alla volta finchè la parete che ci divideva non fosse crollata, senza lasciar macerie dolorose o ferite inguaribili.

Ci ero riuscito una volta … ci sarei riuscito ancora.

Quella sera era nel solito bar vicino al suo appartamento di Brooklyn, in una di quelle caratteristiche villette a schiera non lontane dalla passeggiata sull’East River, che condivideva con tre nuove amiche, compagne di università.

Era lì, seduta con il solito gruppo con cui l’avevo vista in quel mese, con il solito ragazzo che le stava troppo vicino, con le solite amiche che parlavano troppo.

La guardavo e l’unica cosa che cercavo di capire, l’unica risposta che cercavo alle mie mille domande era se fosse felice.

Sorrideva spesso, e rideva. Rideva con quella sua risata cristallina che riempiva l’aria. Rideva e sembrava serena … contenta, appagata.

Ma era felice?

Poteva una risata definire la felicità?

Un sorriso arrivare in fondo agli occhi?

La serenità riempirle il cuore?

Quella era la vita che ogni giovane donna poteva desiderare, quello era il divertimento che lei non aveva mai avuto, che non avrebbe avuto mai più, pur rimanendo giovane per sempre.

Lei era giovane per la prima volta, studentessa per la prima volta, senza problemi per la prima volta dopo anni di dolore infinito.

Era quella la felicità?

Nella mia porzione di eternità avevo provato la spensieratezza e la gioia, la lussuria e il divertimento sfrenato, la passione, lo stordimento e l’oblio … e avevo provato l’amore e la felicità.

E sapevo che la felicità poteva durare lo spazio di un attimo ma quando l’avevi provata una volta, tutto il resto era come appannato, insulso.

La felicità annullava le risate, spegneva i sorrisi e, come il suo opposto, faceva male, un dolore languido e intenso.

Si piange per la felicità: si piange per quanto intensifica le emozioni, per quanto ci rende vulnerabili e dipendenti … per la paura di perdere la fonte di vita da cui scaturisce, consapevoli della devastazione che avrebbe lasciato la sua mancanza.

E quella felicità, quella per cui saresti morto, per la quale saresti disposto ad uccidere, quel momento di estasi perfetta e atroce è indissolubilmente legata all’amore, quello che ti prende e ti scaraventa fuori dalla tua normalità per portarti in un’altra dimensione, fatta di lei, dei suoi occhi, dei suoi sospiri e satura del bisogno incessante di starle accanto, di berla con gli occhi, di saziarti con il suo profumo, stordirti con il suo corpo.

Poteva Elena essere felice senza riuscire provare tutto questo?

Forse sì.

Io no.

Non dopo averla avuta tra le braccia, non dopo essere stato parte di lei, del suo corpo, della sua anima.

Perché avevo conosciuto l’amore solo attraverso i suoi occhi, avevo sentito l’amore attraverso le sue mani: niente e nessuno avrebbe potuto mai farmi sentire come mi sentivo con lei.

Nessuno mi avrebbe reso felice, mai più.

Forse, però, qualcuno avrebbe reso felice Elena più di quanto non potessi fare io, almeno per un po’.

Qualcuno le avrebbe dato la vita che desiderava, almeno per un po’.

Qualcun altro le avrebbe permesso di vivere quella normalità a cui anelava, almeno per un po’.

Che diritto avevo di strapparla da quel sogno?

Eppure, ne ero sicuro, se avessi ritrovato la chiave, se avessi sfondato il muro, se lei avesse ritrovato i suoi sentimenti per me, lei sarebbe stata felice … per sempre.

Felice. Non contenta. Non serena. Non realizzata. Felice.

Questa certezza meritava un tentativo.

 La nostra storia meritava un secondo capitolo, un terzo …

Non avevo ancora finito di amarla, non avrei finito mai.

Era passata la mezzanotte di un sabato sera come tanti e la mano di quel ragazzo tracciava segni inequivocabili sulla coscia di Elena, segnali che lei sembrava ignorare, che io speravo ignorasse.

La compagnia si stava dividendo: una coppia aveva voglia di trovare un po’ d’intimità; due amici avevano puntato due prede per la notte; la bionda seduta di fronte ad Elena era evidentemente troppo ubriaca per tentare un qualsiasi approccio e l’altra compagna si stava offendo per accompagnarla a casa.

Tutti si stavano alzando da quel tavolo pieno di bottiglie di birra vuote e briciole di pane e patatine.

 Il ragazzo insulso aspettava che tutti prendessero la propria direzione, con l’evidente intento di rimanere solo con Elena, per avere una scusa per riaccompagnarla, per farsi invitare a bere qualcosa, per infilarsi nel suo letto e tra le sue gambe.

Non so cosa mi trattenne sul mio sgabello, attaccato al bancone dal bar, ma il bicchiere che avevo tra le mani andò in frantumi.

Mi alzai: volevo la mia occasione, quella sera … volevo uno di quegli attimi che valgono una vita intera, di quelli che decidono il destino o che semplicemente rimango eternamente dentro di noi, a segnare un punto di non ritorno o un luogo dell’anima in cui andare a rifugiarsi quando il freddo dell’assenza gela il cuore.

Acuii i miei sensi per cogliere l’attimo opportuno; Elena mi venne in aiuto.

“Ti dispiace se vado un attimo in bagno prima di tornare a casa?” gli chiese, spostando la sedia e afferrando la borsa.

“Figurati” rispose lui. “Ti aspetto qui”

Illuso.

Appena Elena fu oltre la porta della toilette, mi avvicinai a quell’insipido bellimbusto.

Quanti come lui avevano avuto l’ardire di pensare ad Elena in “quel” modo?

Domanda inutile, risposta troppo dolorosa.

Lo presi per le spalle e lo fissai negli occhi.

“Mi dispiace, ma ora tu sentirai un dolore lancinante allo stomaco e ti sentirai molto male. Purtroppo non potrai riaccompagnare Elena a casa e non vorrai che lei si preoccupi per te. La prossima volta non mangiare troppe patatine: non le digerisci molto bene.”

Quando Elena si ripresentò, lui cominciò a contorcersi dal dolore. Preoccupata, fu lei ad offrirsi di riaccompagnarlo, ma lui rifiutò, convincendola che i suoi servizi da crocerossina non sarebbero stati necessari.

“Potrebbe essere una notte imbarazzante” le spiegò. “ e non voglio trascorrerla sapendo che ti sentirai tutti i miei lamenti oltre la porta del bagno. Ci rifaremo sabato prossimo”

“Sei sicuro, potrei …” insistette.

“No, davvero … preferisco stare solo. Grazie comunque.”

Elena sorrise e raccolse il suo cappotto.

Uscendo dal locale, fermò un taxi e si assicurò che il suo amico lo prendesse, prima di incamminarsi verso casa.

Fingendo di rincorrerla, mi avvicinai alle sue spalle.

“Mi scusi …” la richiamai.

Lei s’irrigidì.

“Non abbia paura: ero al bar ...  mentre usciva, le è caduta questa.”

Elena si voltò lentamente, mentre le porgevo la sciarpa che avevo preso quando avevo soggiogato il suo amico.

Lei mi rivolse uno sguardo intendo, interrogativo.

“E’ sua questa sciarpa, vero? Forse mi sono sbagliato, mi scusi …”

“No, no … è mia … grazie.”

I suoi occhi non lasciavano i miei.

“Ci conosciamo?” mi chiese all’improvviso.

Sì, ci conosciamo.

Conosco la storia della tua vita, ogni centimetro della tua pelle, come ti muovi nel sonno e come ti lavi i denti la mattina.

Conosco i battiti convulsi del tuo cuore quando fai l’amore e quei nei che hai dietro l’orecchio destro: formano una piccola costellazione che indica la vena pulsante sul tuo collo.

Conosco le tue smorfie quando bevi il caffè bollente e i tuoi silenzi carichi di rabbia quando faccio lo stronzo.

Conosco il tuo odore e come cambia quando sei eccitata.

Conosco i tuoi sguardi, quando mi cerchi, e il tocco delle tue mani, quando hai voglia di me.

Sì, ci conosciamo.

Conosci tutto di me, fin troppo a fondo.

Conosci la mia fragilità e la mia passione, il mio immenso bisogno di te, il mio modo di toccarti.

Conosci la mia testardaggine e il mio non voler essere diverso da quello che sono, eppure sarei qualsiasi cosa per te.

Conosci le mie luci e le mie ombre e hai amato le seconde più delle prime.

Conosci il mio modo di amarti, le mie mani e la mia anima, i miei occhi e le loro sfumature, le mie labbra e i miei baci, le mie carezze e i miei sospiri.

Ti conosco … mi conosci.

Invece di dirle tutto questo, mi limitai ad allungare la mia mano.

“Può darsi … Io sono Damon, piacere.”

Lei mi guardò, afferrò la mia mano inclinando la testa e abbozzando un sorriso.

“Piacere, Elena …”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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