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Autore: RobynODriscoll    09/11/2014    3 recensioni
Regina non ce l'ha fatta, non è riuscita a uccidere il suo amato padre, e ha dovuto rinunciare a innescare la maledizione. Tuttavia, ha trovato un altro modo per vendicarsi dell'odiata Snow White: ha rapito la sua figlia neonata, Emma, ed è decisa a crescerla come propria, aizzandola contro i veri genitori.
Undici anni dopo. La giovane Emma, alle prese con lo studio della magia per compiacere la sua esigentissima madre, si trova di fronte ad una bizzarra scena che capovolge il suo mondo: dalla fontana del padiglione sbucano fuori d'improvviso una sirena, una statua di cera con una mano a forma di uncino e un ragazzo ferito. Il ragazzo dice di chiamarsi Neal, anche se Emma è quasi certa che si tratti di un nome falso. Neal diffida della magia, ma sembra sincero quando dice che vuole aiutare la statua a tornare uomo.
Emma non sa che nello stesso momento un principe di nome Simba viene esiliato dalla sua tribù, e una principessa di nome Alexandra fugge dal palazzo di sua madre Cinderella con la sola compagnia di un irritante ranocchio parlante. I loro destini stanno per incrociarsi, le loro avventure per diventare una.
[ Swanfire/Multipairing]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Emma Swan, Graham/Cacciatore, Regina Mills, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  1. Hello, Little Girl

 

 

Neverland, 150 anni fa.

 

Stai indietro. Mi hai usato. Volevi uccidere mio padre!”

Hook allungò i piedi sullo scrittoio, in un movimento sincronizzato con il rollio che l'onda aveva provocato. Non l'aveva fatto di proposito. Come aveva detto al ragazzo: dopo un po' di tempo passato per mare, si cominciava a pensare a se stessi come il prolungamento della nave.

Stappò la fiaschetta che portava nel taschino del giustacuore, il lucido acciaio rilucette nei bagliori fluttuanti della candela. Si trattava di un ninnolo che aveva portato con sé da Portsmouth, vinto durante una qualche partita a dadi – troppo rhum in corpo, allora e adesso, per ricordare quale. Ingollò un sorso, e attese che la feroce risposta dell'alcol risalisse la gola, come per arrampicarsi di nuovo fuori dalle sue fauci. Invano. Bevette ancora, attese ancora. Ascoltò la corsa del liquido verso il suo stomaco, mentre un dondolio più intenso accarezzava le assi della Jolly Roger. Niente. Come bere acqua, ormai. Come respirare. Anche il rhum era diventato banale adesso. Un sorriso gli spezzò le labbra a quel pensiero.

Hai distrutto la mia famiglia. È come se le avessi strappato il cuore tu stesso!”

Rivolse lo sguardo sul disegno di Milah, che aveva riguadagnato il suo posto sulla porta della cabina. L'aveva fatto a memoria, dopo la sua morte. C'erano voluti mesi per riuscire a mettere a fuoco la sua immagine nella mente – non che l'avesse mai dimenticata, ovvio che non avrebbe potuto, ma era come sfocata. Hook voleva catturare sulla carta ogni linea del suo volto fiero. La sua Milah. L'aveva vissuta troppo intensamente in quegli anni, per poterla ricordare. C'era voluta distanza, freddezza, per richiamare alla mente il dettaglio dei suoi zigomi alti, il taglio preciso degli occhi azzurri, e quella piega che le labbra assumevano quando qualcosa la contrariava. La stessa piega che curvava la bocca di Baelfire, mentre gridava:

Preferisco cavarmela da solo che restare con te. Voglio scendere da questa nave, pirata.”

Chiuse gli occhi. Così deciso, il ragazzo. Così testardo, come sua madre. La stessa curva impertinente delle sopracciglia scure, gli stessi capelli selvaggi – ricordava la prima notte in cui l'aveva incontrata, alla taverna: aveva pensato fosse una gitana, seducente, scarmigliata, con un sorriso in attesa di scoppiare dietro gli occhi e una canzone sempre pronta a fiorirle in gola. I capelli castani di Baelfire erano così, danzavano perennemente nervosi intorno al volto pallido. Ma gli occhi del ragazzo non appartenevano a Milah, no. Erano scuri, quasi neri. Erano gli occhi del Coccodrillo.

Non è possibile che una sola creatura ti riempia allo stesso tempo di nostalgia e di rabbia. Se avessero avuto dei figli, lui e la sua Milah, i loro occhi sarebbero stati azzurri come il mare quando è calmo. Baelfire aveva le tenebre nello sguardo, come il Signore Oscuro. Ma aveva anche il sorriso radiante dell'unica donna che Killian Jones avesse mai amato.

Finì il contenuto della fiaschetta senza nemmeno accorgersene. Ci volle ancora un po' perché il bruciore risalisse fino ad infiammargli la lingua, e quel calore frizzasse nel palato, annebbiando i pensieri.

Baelfire non voleva restare lì. L'equipaggio non lo voleva lì. Pan lo stava cercando, e ogni briciolo di senno rimasto dentro Hook gli gridava di consegnarlo. Sarebbe diventato uno di quegli orribili selvaggi che si facevano chiamare Bambini Sperduti, ma almeno sarebbe vissuto. Se l'avesse trattenuto contro la sua volontà, cosa avrebbe ottenuto? Che uno dei suoi uomini lo buttasse a mare, o che si tuffasse lui stesso, solo per finire preda delle sirene. Se gli fosse accaduto qualcosa, Killian Jones non avrebbe più potuto nemmeno guardare il ritratto di Milah.

Un pugno pesante battè sulla porta. Avrebbe riconosciuto ovunque il tocco sgraziato di Smee.

“Capitano...sono tornati.”

Hook tolse i piedi dallo scrittoio; ancora una volta, perfettamente a tempo con il rollio della nave. La Jolly Roger era molto più di qualcosa che si possiede, per Killian. Era diventata la sua essenza.

Assicurò l'uncino al polso, avvitandolo stretto. Poi, aprì la porta.

“Hai fatto ciò che avevo chiesto?”

“Sissignore, capitano.”

“Ben fatto, Smee.”

Con quelle parole, Hook assestò un pugno dritto nello stomaco prominente del nostromo. Smee caracollò, crollò carponi. Mentre ancora annaspava per cercare aria, Hook lo colpì alla nuca con il dorso dell'uncino. Il volto rotondo del nostromo crollò sulle assi con un tonfo sordo.

Hook rivolse appena uno sguardo al corpo riverso a terra. Uno sciocco e un codardo. Sarebbe stato dalla parte di chiunque gli avesse offerto la ricompensa maggiore. Non poteva fidarsi della sua lealtà, ma non lo disprezzava abbastanza da lasciarlo alle mani dei ragazzi di Pan.

Quando salì sul ponte, la brezza della sera spolverò la sua lisa redingote di pelle nera, e Hook si trovò faccia a faccia con i ragazzi incappucciati. Gli altri uomini stavano silenziosi come ombre sul ponte.

La voce del giovane chiamato Felix scricchiolò sotto le falde del cappuccio. “Siamo tornati per il ragazzo, capitano.”

Hook arricciò gli angoli della bocca in un ghigno. “Quale ragazzo? Qui abbiamo passato tutti da tempo l'età per essere chiamati così.”

Un borbottio nervoso tra la ciurma. Uomini più fidati di Smee, benché ancora più stupidi. Aveva detto loro che il ragazzo si era buttato a mare, e le sirene l'avevano trascinato giù. Avevano ingoiato quella bugia come olio di ricino, in un solo sorso e senza respirare.

Il mento spigoloso del ragazzo si alzò, con arroganza.

“Consegnalo, pirata.”

“Altrimenti?”

“Altrimenti ce lo veniamo a prendere.”

Hook poggiò la mano sinistra sull'elsa della spada. I suoi uomini digrignarono i denti, ma fecero lo stesso.

“È ora che qualcuno vi dia una sculacciata. Fatevi sotto, marmocchi.”

*
 

Foresta Incantata, presente.

 

Non è che Emma si annoiasse davvero, nel castello. Insomma, c'era Pongo che le teneva compagnia – come cane da caccia non valeva un granché, ma nonno Henry gli aveva insegnato a riportare un po' di tutto, e ora stava insegnando anche ad Emma come farsi obbedire da lui. Lo Specchio era un altro buon diversivo: quando si annoiava, bastava convocarlo con le parole “Specchio, specchio delle mie Brame”. Allora, al proprio noioso riflesso – soliti occhi azzurri, soliti capelli dritti come fili di paglia – Emma vedeva sovrapporsi il volto fumoso e violaceo del servo-spirito di sua madre, che aveva un sorriso e una riverenza sempre pronti per lei. Era servizievole, lo Specchio, ma anche divertente quando le raccontava fiabe che si intersecavano le une nelle altre come fili di un coloratissimo arazzo. Anche le storie di nonno Henry erano belle, quasi quanto le canzoni che le insegnava; eppure, quella compagnia non bastava a farle trascorrere le giornate abbastanza velocemente.

Quando la mamma non era a casa – e spesso non lo era – il castello diventava vuoto, per Emma.

La mamma era una donna bellissima, ma il più delle volte altera. Non la coccolava spesso, ma quando riceveva una carezza dalle sue mani – di solito dopo che era riuscita a praticare un incantesimo sotto la sua supervisione – Emma si sentiva piena di orgoglio e forza. Era rigorosa, la mamma, sempre appropriata. Spesso la riprendeva, le diceva che era troppo irruente, che non doveva correre come un maschiaccio e doveva assolutamente togliersi la brutta abitudine di dormire con Pongo: ma era la sua mamma, e ogni volta che mancava le stanze del castello si facevano più fredde, e la foresta che lo circondava un po' più cupa.

Emma aveva chiesto a Hunter1 perché la mamma si allontanasse tanto spesso. Hunter era uno dei soldati più fidati del castello, sempre vestito di nero, rigido nei movimenti, con l'armatura lucida e in perfetto ordine. Anche gli altri soldati erano vestiti di nero, e sì, facevano del loro meglio per mantenere la divisa in buono stato: loro, però, lo facevano per paura. Emma vedeva i loro volti terrorizzati, quando si trovavano in presenza di sua madre. Hunter invece non aveva paura di lei. Se si manteneva in uno stato di perfetto decoro, era perché lui era fatto così. La disciplina, le aveva detto, è fondamentale in ogni aspetto della vita.

“Come nello studio della magia?”

La mascella orlata di barba scura si contrasse. “Sì, principessa Emma. Come nella magia.”

La ragazzina sbuffò. “Io mi impegno, Hunter, mi impegno tutti i giorni. Ma non è colpa mia se lo stupidissimo pettine non si sposta dalla più stupidissima specchiera.”

Gli occhi gentili del soldato la osservarono con quella che Emma aveva imparato a riconoscere come tenerezza. Non era semplice capire le emozioni di un tipo riservato come Hunter, ma lei era sempre stata brava a decifrare i sentimenti delle persone. Non sapeva perché. Le riusciva naturale.

“Non sono sicuro che il legno sia davvero stupido. Il vetro, forse...ma il legno è saggio.”

Emma sbattè le palpebre. “Cosa vuoi dire?”

“Un tempo il legno affondava le sue radici nella terra, e prendeva nutrimento da essa. Non c'è niente di antico come la terra, mia principessa, e niente di più saggio.”

“Allora la stupida sono io, che non riesco a fare questo incantesimo!”

L'idea non la faceva stare meglio.

Hunter le prese la mano. Emma inarcò un sopracciglio e lo squadrò con sospetto. L'uomo la ignorò, e posò il suo palmo, tanto più piccolo del proprio, sul legno della specchiera.

“Chiudete gli occhi, ora. Ascoltate. Quando sentirete la voce del legno, sarete pronta.”

Emma provò ad ubbidirgli; ci provò davvero. Una parte di lei si chiedeva cosa ne sapesse un semplice soldato della magia o della voce del legno, ma non fu arrogante con lui – nonno Henry la sgridava sempre se la vedeva comportarsi in modo meno che educato con i sottoposti, e a volte riprendeva perfino la mamma per la stessa ragione. Perciò, Emma tentò di ascoltare il legno, anche se non poté fare a meno di chiedersi perché, se il legno aveva davvero una voce, se ne stesse in silenzio per la maggior parte del tempo. Era così impegnata ad ascoltare, a dire il vero, che non fece altro se non sentire i suoi stessi burrascosi pensieri sul fatto che stesse perdendo tempo a pensare invece di ascoltare. Gonfiò le guance, frustrata. Non ci sarebbe mai riuscita. Era una frana. La mamma sarebbe stata così delusa.

Pongo drizzò le orecchie di colpo, e andò alla porta, iniziando a raspare mentre agitava furiosamente la coda. Uggiolò, contento. Hunter si alzò in piedi, irrigidendosi, ed Emma sentì un sorriso aprirsi sul volto. Sua madre era tornata, finalmente!

Il peso di Pongo riuscì ad aprire le porte, e mentre il cane correva Emma si sollevò l'orlo della gonna ricamata e lo seguì in fretta. Qualche ciocca bionda sfuggì dall'acconciatura, come sempre. Quanto odiava le acconciature! Ma a sua madre piaceva vederla sempre in ordine, come una vera signorina di sangue reale, quindi doveva sottoporsi alla tortura. Irruppe nel salone dalle alte colonne nere un attimo dopo il cane: sotto lo sguardo duro di Regina, Pongo uggiolò e si mise a sedere. Allo stesso modo, Emma si fermò, soffiò via dagli occhi una ciocca di capelli e sprofondò nell'inchino più aggraziato che le fosse mai riuscito.

“Bentornata, signora madre.”

Anche nonno Henry era presente, nel suo elegante doppio petto di velluto nero. Sorrise alla bambina, poi rivolse lo sguardo su Regina.

La donna la guardò con quella fredda alterigia che, Emma lo sapeva, era la maschera dietro cui studiava il mondo. Anche se adesso le sue labbra erano tirate verso il basso in segno di disapprovazione, negli occhi scuri brillava una scintilla di felicità. Ed era per lei. A nessun altro Regina aveva mai rivolto quello sguardo, a lei soltanto.

Tuttavia, prima di rivolgerle la parola fulminò Hunter, che era sopraggiunto alle spalle di Emma e Pongo.

“Credevo di averti imposto di fare buona guardia a mia figlia.”

“Ed è quello che ha fatto fino a un attimo fa,” Emma anticipò la risposta di Hunter “ma io sono più veloce! E volevo correre subito a salutarvi, signora madre.”

Un altro inchino, in cui restò sprofondata un po' più a lungo. Pongo uggiolò, smaniando per una carezza, quando Regina si avvicinò. La donna sollevò il mento della figlia. Alla sua espressione dubbiosa, Emma rispose con un sorriso smagliante.

Regina si chinò sulle ginocchia, ma in modo estremamente elegante. Emma si chiese come facesse a muoversi sempre con tutta quella grazia, e senza mai sgualcire i suoi splendidi abiti.

“Dimmi, Emma: sei riuscita a compiere l'incantesimo che ti avevo chiesto?”

La ragazzina ristette. Dannazione. “Non ancora, signora madre. Ma mi sto impegnando molto.”

Un lampo di delusione passò sul volto di Regina. Emma avrebbe voluto sprofondare.

“Ci eserciteremo ancora, dopo cena. E ora va', torna nelle tue stanze. Devo parlare con tuo nonno.”

“Signora madre...”

Regina si era già alzata, e stava per dirigersi verso nonno Henry. Il richiamo di Emma la fece voltare di nuovo, lentamente.

“Hai sentito cosa ho detto, Emma?”

La ragazzina si morse le labbra per un istante. “L'avete trovata? L'assassina che ha ucciso mio padre...Snow White?”

Il volto del nonno si contrasse in silenzio, i suoi occhi scuri vagarono a terra. Invece, in quelli di Regina passò un nuovo bagliore, un'emozione di chiaro trionfo di cui Emma non riusciva a capire la ragione.

“Non ancora, bambina mia. Ma non temere. Tuo padre, il mio Daniel, sarà vendicato. Sto lavorando molto per questo.”

“Emma” suggerì dolcemente il nonno. “Ti prego, ora ubbidisci e torna nelle tue stanze.”

Un po' rinfrancata dalle parole della madre, Emma annuì. Tuttavia, intuì che al nonno non piaceva sentire parlare di vendetta, e proprio per questo ora la stava mandando via. Forse avrebbe sgridato la mamma per averne parlato di fronte a lei. Non capiva perché. Da quando sua madre le aveva raccontato come la perfida Snow White avesse ucciso suo padre, Daniel, prima che Emma nascesse, si era sentita invadere dal bruciante bisogno di fare qualcosa a riguardo. Era stata una delle poche volte nella sua giovane vita in cui Emma aveva avvertito il flusso della magia attraversarla con prepotenza, e correre alle dita come supplicandola di essere scagliata contro qualcosa. Di solito, la luce che il suo potere emanava era azzurra. Quel giorno si era tinta del rosso acceso del fuoco.

Tuttavia, per quanto smaniasse di ottenere vendetta lei stessa, sapeva che non poteva aiutare sua madre fino a che non fosse stata abile abbastanza con gli incantesimi.

Per questo, tornò nelle sue stanze, e si mise ad ascoltare la voce del legno con il furore dell'impazienza, e più ascoltava più non riusciva a sentire.

*

Neverland, presente.


 

Il rumore della risacca nella notte quieta gli accarezzava i nervi tesi, come a volerli distendere con la sua gentilezza.

Sta' tranquillo, Bae. Andrà tutto bene.

Da quando era arrivato sull'isola, ogni volta in cui aveva avuto bisogno di sentire quelle parole Baelfire le aveva colte nella voce del mare. Si era seduto sulla sabbia e ha stretto forte le ginocchia al petto, fingendo che fossero le braccia di una madre amorevole, o di un padre premuroso, ad avvolgerlo. Si era cullato, alle volte, come si fa con i bambini molto piccoli. Si era fatto forza da solo. Ogni volta si diceva: prima o poi finirà, tutta questa solitudine. Tutto finisce.

Era un sollievo pensarlo, gli alleggeriva il cuore. Gli donava un senso di liberazione. Non riusciva a capire cosa ci trovassero di bello le persone nel promettere che qualcosa sarebbe durato “per sempre”: lui sarebbe stato terrorizzato da un giuramento del genere. Credevano di dire qualcosa di bello, probabilmente; non capivano che invece stavano invocando una maledizione, terribile quanto quella che gravava su Neverland.

Avrebbe dato volentieri a questi sciocchi un assaggio del suo quotidiano “per sempre”. Giorni che si rincorrono grigi, sempre uguali. Nessun cambiamento, in te, né fuori di te. Solo tu, il silenzio e i tuoi fantasmi...e sì, anche un cuore giovane come quello di Bae poteva contenere fantasmi. Nei lunghissimi anni – secoli? Non ne era certo – trascorsi a Neverland, la sua anima si era fatta vecchia dentro un corpo quattordicenne. Aveva avuto molto tempo, e molta solitudine, per riflettere. Capire. Elaborare. L'abbandono di sua madre, prima, e di suo padre, poi. Il fatto che il Signore Oscuro (poteva ancora chiamarlo papà?) le avesse strappato il cuore per vendetta. Il fatto che lei non fosse mai tornata a cercare il suo unico figlio, e che le sue ultime parole non fossero state per lui. Era inutile rimuginarci sopra, recriminare ancora, odiarli. Milah se ne era andata, e Rumplestinski, be', era come se lo fosse. La sua anima era morta il giorno in cui era diventato il Signore Oscuro.

Tutti avevano abbandonato Baelfire, nella sua giovane vita.

Tutti, tranne una persona.

La notte in cui i Bambini Sperduti avevano attaccato la Jolly Roger, Bae aveva odiato Hook per aver ordinato di legarlo, imbavagliarlo e chiuderlo in un baule nella stiva. Sulle prime, quando Smee aveva eseguito quel compito, credeva che sarebbe stato ucciso, probabilmente per ripicca nei confronti di suo padre. Poi aveva sentito i rumori della battaglia sul ponte, e aveva capito.

A quel punto aveva detestato il pirata ancora più intensamente. Proprio come Rumplestinski, anche Hook gli toglieva la possibilità di scegliere.

Era riuscito a sciogliersi dai nodi goffi di Smee in tempo per sentire il crepitare del fuoco sul ponte. Con un paio di calci disperati aveva rotto la serratura del baule, e strappandosi la benda dalla bocca era corso fuori dalla stiva. Lo spettacolo che si era trovato davanti era stato raccapricciante.

I pirati, tutti morti, contorti a terra con le facce gelate dall'orrore.

Hook steso al centro del ponte, l'uncino scaraventato lontano, l'estremità appuntita di una lancia di legno piantata nello stomaco.

I Bambini Sperduti si stavano allontanando sulla loro piccola imbarcazione.

Il ragazzo si era precipitato accanto al pirata. Respirava ancora.


 

Bae spezzò l'estremità della lancia per accorciarla. L'uomo gemette di dolore.

Hook...guardami. Stai con me. Hook!”

Cercò di fermare il sangue. Non ce n'era tanto come avrebbe creduto. Ma se avesse tolto la lancia dalla sua carne, quanto sarebbe sopravvissuto?

Il crepitare del fuoco divorava rapidamente le vele, involucri ardenti cadevano intorno a lui. Bae guardò gli occhi azzurri dell'uomo aprirsi, e in un attimo ricordò quelli della madre, così limpidi, quando lo metteva a letto e non lo lasciava fino a che non si era addormentato.

Vattene. Scappa...Bae...”

Baelfire vide le fiamme correre verso i barili che contenevano la polvere da sparo per i cannoni. Capì di non avere più scampo. In un ultimo gesto disperato, coprì il corpo di Hook con il proprio.

Non ricordava nulla degli istanti subito dopo l'esplosione, se non il furioso calore sulla schiena, e l'impatto gelido con l'acqua dell'oceano. Quando aprì gli occhi era immerso nel mare, le ombre bluastre si tingevano dell'arancio del fuoco in superficie. Hook...dov'era Hook?

Sì, vide la redingote nera fluttuare nell'acqua, la sua sagoma trafitta dalla lancia e il fiotto di sangue che danzava nel blu. Nuotò disperatamente per raggiungerlo, e riportarlo a galla.


 

“Un pirata ha ucciso mia madre!”

“E ora un pirata ti ha salvato la pelle.”


 

Bae lottò contro i flutti, per aggrapparsi a un pezzo del relitto della Jolly Roger. Trascinò il corpo esanime di Hook e badò di tenergli la bocca lontana dall'acqua, perché non ne ingerisse ancora. Provò a issarlo sul pezzo di legno, attento a non comprimergli la ferita allo stomaco.

Non morire...non azzardarti a morire.

Lacrime di disperazione gli nacquero negli occhi, quando vide che Hook non respirava più. Era solo, adesso. Era di nuovo solo...

La luce iridescente che fluttuò al pelo dell'acqua gli disse che una sirena si stava avvicinando.

Bene. La sua fine non era lontana...la disperazione non sarebbe durata ancora a lungo. Avrebbe rivisto sua madre, e avrebbe potuto chiederle il perché di tante cose cose. Aveva lottato, Bae, con tutte le sue forze, ma non era stato abbastanza. Forse era il momento di rinunciare.

La metà umana della sirena emerse nella notte, illuminata dai resti ancora ardenti della nave pirata. Anche impregnati d'acqua, i suoi capelli rilucevano di un rosso intenso, come coralli bagnati. Lo guardò con occhi gentili.

Ti prego...”

La sirena non disse nulla.

Ti prego, aiutami. Il mio amico sta morendo. Voglio salvarlo. Ti prego, aiutami a salvarlo!”

Quando già Bae aveva gli occhi chiusi, e le lacrime gli rigavano il volto mentre cercava di accettare quella fine che no, non era pronto ad affrontare, si sentì improvvisamente spingere via, con una forza che non apparteneva alle onde.

La sirena. Aveva posto le mani - attraverso cui apparivano, translucide, sottili squame – sull'asse sbecciata, e la stava spingendo verso la riva. Bae tenne il fiato fino a che non toccarono la sabbia umida del bagnasciuga. Allora, si voltò.

Lei emergeva per metà dai flutti, e le squame sui fianchi erano ben visibili adesso. Lo guardava dispiaciuta, come scusandosi di non poter fare di più.

Ti ringrazio” mormorò Bae. “Ti devo la vita.”

Ma Hook ancora non respirava, e non c'era nulla che la sirena avrebbe potuto fare per lui. Come a riconoscere la propria inutilità in quel campo, la creatura del mare scosse il capo e si allontanò tra i flutti.

Bae guardò il pirata, immobile, bluastro, con la lancia spezzata ancora dentro il corpo. Gli colpì il petto con un pugno, perché, maledizione, non poteva fargli questo...distruggeva le sue certezze, gli rivelava verità che avrebbero schiantato un uomo fatto, gli prometteva di prendersi cura di lui...e poi tradiva anche quell'ultima speranza? Quanto lo odiava! Lo odiava, e meritava un altro pugno su quel torace che si ostinava a rimanere immobile...

Hook sussultò, e con un rumore gorgogliante sputò fuori l'acqua che gli ostruiva i polmoni. Bae singhiozzò una risata incredula. Non era morto. Non ancora. Ma insieme all'acqua, gli colava dal mento un rivolo di sangue.

Bae...”

La voce del pirata era un rantolo addolorato. Baelfire ora poteva vedere il sangue impregnare anche il suo farsetto rosso cupo, e renderlo quasi nero. Gli prese la mano colma di anelli. Lui la strinse debolmente.

Non farlo, Hook. Non andartene.”

Presto rivedrò...tua madre. L'ho amata davvero...sai? Mi dispiace per il male che ti abbiamo fatto...ma io la amavo, così tanto...e lei amava te, anche se non ha fatto in tempo a tornare a prenderti.”

No! Non voglio che tu vada da lei...devi restare! Tutti mi hanno lasciato...mi senti? Tu devi restare con me!”

Un'ombra scura si delineò su di loro, spegnendo la luce delle stelle.

Bae alzò gli occhi, per trovarsi di fronte il volto sornione di un ragazzo.

Era alto, magro, e nella luce bluastra i suoi capelli sembravano chiari. Da come gli altri Bambini Sperduti se ne stavano, riverenti e intimoriti, un passo dietro di lui, Baelfire capì che si trovava di fronte a Pan in persona.

Hook alzò il braccio dove prima reggeva l'uncino, in un estremo tentativo di difendere il ragazzo. Baelfire mise mano al pugnale che ancora, miracolosamente, era rimasto attaccato alla sua cintura.

Non ne avrai bisogno. Sono qui per offrirti un patto,” disse Pan, sorridendo.

Non stringo patti con nessuno. Non più.”

Nemmeno se ti dicessi che posso salvare la vita del pirata?”


 

Bae aveva guardato Hook, che ansimava i suoi ultimi respiri. E l'aveva fatto. Aveva stretto il patto con Pan.

Aveva giurato di seguirlo, e l'aveva seguito. Servito. Era stato uno dei suoi luogotenenti più fedeli, tanto da costringere Felix a sfidarlo a duello per la supremazia. Aveva vinto, conquistato rispetto e onore presso quei piccoli crudeli selvaggi che si facevano chiamare Bambini Sperduti. Aveva iniziato le nuove reclute spaventate, e dimenticato i volti dei propri genitori, i torti che gli avevano inflitto come i momenti felici. Aveva disimparato a piangere, a soffrire e a sentirsi solo.

Però non aveva perso di vista il suo obiettivo. Ogni volta che aveva bisogno di ricordarlo si recava nell'antro più nascosto dell'Isola, Skullrock, dove pulsava la vera magia di Neverland.

Lì, Pan aveva messo Hook a riposare. La lancia non perforava più il suo petto, ma il pirata era prigioniero della roccia, ora, incasellato in essa come una statua. Ogni giorno diventava più pallido, e Bae poggiava la mano sul suo petto per controllare il battito lento, lievemente echeggiante, del suo cuore. Sembrava addormentato. Sereno. Forse sognava di essere con Milah. Baelfire si soffermava a guardare il suo volto, che non era invecchiato di un giorno. Hook non aveva abbandonato lui, e lui non avrebbe abbandonato Hook.

Per questo, ora che aveva conquistato la fiducia di Pan e ottenuto libero accesso al luogo in cui il pirata addormentato veniva custodito, era pronto per la fuga.

Era bastato deviare l'attenzione degli altri Bambini Sperduti. Ficcarsi in tasca giorno dopo giorno piccole manciate della polvere da sparo che era arrivata in condizioni accettabili a riva, insieme al relitto della Jolly Roger. Costruirsi un arco – questo aveva richiesto tempo e pazienza – e attaccare alle frecce piccoli sacchetti di polvere esplosiva, per poi mirare direttamente ai falò che ardevano sulla collina per celebrare l'arrivo delle nuove reclute. Il clamore dei feriti lo avrebbe aiutato a scappare rapidamente verso la grotta, e raggiungere la sala dove troneggiava l'enorme clessidra, dorata come la pila di teschi su cui riposava. Lì, i granelli dorati che rappresentavano la magia di Neverland cadevano lenti e inesorabili, scandendo la durata del tempo in cui la magia e i sogni che prendevano forma in quel luogo sarebbero ancora vissuti.

Pan gli aveva detto che quello era l'unico segno del tempo trascorso sull'isola. Gli aveva anche detto che non poteva guarire Hook, ma poteva bloccarlo tra la vita e la morte, fino a che non avessero trovato una cura. La cura era fuori da Neverland, in un luogo chiamato Foresta Incantata. Quando avessero trovato il ragazzo del ritratto, Pan avrebbe concesso a Baelfire di partire e andare a prendere questo antidoto da somministrare al pirata.

C'era solo una crepa in questo piano perfetto. Bae non si fidava di quella promessa, ed era molto più abile a mentire di quanto Pan stesso credesse. Per anni – di nuovo: secoli? - gli aveva fatto credere di essere completamente asservito alla sua causa, senza mai tradire ciò che pensava davvero della brutalità dei Bambini Sperduti. Aveva stretto amicizia con la sirena che gli aveva salvato la vita – si chiamava Ariel, lo aveva scritto per lui sulla sabbia – e organizzato con lei un piano di evasione perfetto.

Ora, Ariel lo avrebbe raggiunto attraverso un cunicolo sottomarino, che sbucava in una polla d'acqua salata nelle grotte. Avrebbero portato via Hook insieme, nella Foresta Incantata. Ariel conosceva una strega potente, che avrebbe potuto salvarlo. Non sembrava particolarmente entusiasta di incontrarla, ma l'avrebbe condotto da lei, perché aveva riconosciuto in Baelfire un'anima affine. Certo, non era stato facile spiegargli tutto questo a gesti: c'era voluta pazienza. Tuttavia, Bae sentiva di poter confidare in Ariel. C'era un dolore nei suoi occhi che gliela faceva sentire vicina.

“Coraggio, Hook” mormorò Bae al pirata tramutato in statua. “Tra poco ti risveglierai.”

Un rumore nella polla d'acqua lo fece trasalire. Sapeva che si trattava di Ariel, ma i suoi nervi erano così tesi, ora, che ogni suono era pronto a mandarlo in allarme.

La sirena gli sorrise, mentre si sporgeva con le braccia sul bordo della polla. Non poteva aiutarlo a trasportare Hook, la sua coda non le avrebbe permesso di salire in superficie. Doveva farcela da solo.
Lo smosse così, centimetro per centimetro, tenendo il suo corpo irrigidito poggiato contro la schiena e trascinando i piedi sul pavimento di roccia calcarea. Aveva afferrato le sue braccia con le proprie per mantenerlo stabile, ma un paio di volte dovette fermarsi perché il piede del pirata era scivolato, e gli aveva fatto perdere l'equilibrio. Quando riuscì a raggiungere Ariel, la sirena lo aiutò a calare il pirata giù per la polla. Tra le labbra semischiuse di Hook, Ariel infilò la polvere di quell'alga che, gli aveva spiegato, li avrebbe aiutati a respirare sott'acqua per un po'. Fece appena in tempo ad allungarne una manciata a Bae, che la voce di Pan schioccò come una frusta alle sue spalle.

“Ti credi tanto furbo, Baelfire?”

Come sempre, l'eterno ragazzo cercava di suonare sicuro e inscalfibile. Bae aveva imparato a riconoscere quando bluffava. Il suo piano ben studiato l'aveva messo sotto scacco...anche se non per un tempo sufficiente, maledizione!

“Mirate!”

A quell'ordine, i Bambini Sperduti che accompagnavano Pan alzarono una foresta di cerbottane, puntandole su di loro. Bae lasciò andare Hook, che sprofondò di più nella polla, sorretto dalle esili braccia di Ariel. Si riparò dietro una roccia per schivare i proiettili. Conosceva quelle armi. Contenevano succo di dreamshade.

“Ariel...porta Hook in salvo!”

Lo sguardo della sirena si fece strasparente, per un momento, mentre reggeva il corpo immobile di Hook. In lontananza crepitò un fulmine.

Pan ammiccò. “Credi di spaventarmi, sirena? Queste grotte sono riparate dal mare. Non puoi...”

Il secondo fulmine si abbattè, con un rombo tremendo, sul tetto della grotta. Le pareti calcaree tremarono, oscillarono, e gemettero per un momento. Una stalattite rovinò a terra, piantandosi al suolo. L'ingresso alla grotta era sbarrato...bene, Pan e i suoi non avrebbero avuto altri rinforzi.

Pan torse la bocca, come un bambino il cui giocattolo preferito viene scheggiato. Si alzò a mezz'aria, fluttuando in un tripudio di polvere verde.

“In nome del nostro legame di sangue, mi ero ripromesso di non ucciderti, Baelfire,” sibilò. “Di' alla tua amichetta di fermarsi, o cambierò idea.”

Bae non aveva idea di cosa Pan volesse dire, ma non perse tempo a rifletterci.

“Ariel, cosa aspetti? Vai!”

Ma Ariel non gli obbedì, e quando l'ondata schiaffeggiò il fianco delle grotte, penetrando dalle aperture e mandando la scorta di Pan a sbattere contro le rocce, l'eterno ragazzo perse la pazienza. Si scagliò addosso a Bae, inchiodandogli le spalle contro la parete di roccia. Baelfire sentì uno sperone acuminato conficcarsi nella spalla, e strinse un gemito tra le labbra. In un attimo ebbe il respiro feroce di Pan sul viso.

“Non somigli a tuo padre. Tu non ti arrendi.”

“Infatti...” Baelfire sorrise. Immaginò che Pan dovesse sapere del Signore Oscuro, e non si lasciò turbare da quel riferimento. “In questo somiglio a mia madre.”

Un movimento unico, netto e deciso. La sua unica possibilità.

Tentando di ingoiare la fitta di dolore alla spalla, estrasse il pugnale dalla cintura, e lo scagliò verso la clessidra che conteneva la polvere dorata. Nell'impatto con la lama, il vetro andò in frantumi, riversando il suo prezioso contenuto sul pavimento umido della grotta.

“No...NO!”

Pan lo spinse con più violenza contro la roccia, causandogli un sussulto mentre lo sperone sprofondava di più nella ferita. Ma la stretta dell'eterno ragazzo si indeboliva, Bae poteva sentirlo. Doveva resistere...solo per poco. Ancora per poco...

Abbassò lo sguardo. Ariel si era arrampicata sulla gamba di Pan, la sua coda batteva l'aria e cercava di trascinarlo giù. Indebolito da quel peso, l'eterno ragazzo oscillò e caracollò verso il basso. Bae sentì la carne lacerarsi di nuovo mentre cadeva nella polla. L'impatto con l'acqua gelida tolse la sofferenza dalla sua mente per un istante. Hook...stava sprofondando nella polla!

Riemerse per riprendere fiato. La polvere dorata sul pavimento della grotta perdeva luminosità, l'oro scintillante si faceva opaco e grigio. La magia dell'isola stava per dissolversi, e i Bambini Sperduti sembravano avere di colpo cent'anni di più. I loro corpi crescevano in altezza, gli arti si allungavano, i volti si facevano squadrati, sgraziati. Sulla pelle le rughe si scavavano rapide come solchi lasciati da un reticolo di lava, e i capelli incanutivano ogni istante. Tutto intorno era calata una canicola che distorceva i contorni.

Neverland stava sparendo come un sogno al mattino.

Impallidito e tremante, Pan rilasciò un ringhio di frustrazione. Fece per scargliarsi contro Bae, ma Ariel lo atterrò prima che potesse raggiungerlo, e lo schiacciò a terra con il suo peso. Il volto leggiadro della sirena si trasformò in una maschera spaventosa di pesce degli abissi, mentre soffiava sul volto pallido di Pan.

Bae serrò le palpebre, le riaprì. La sua visuale era ancora più sfocata. Erano le cose a perdere forma, o stava per svenire?

“Ariel! Dobbiamo andare!”

A quel richiamo, la sirena riacquistò le sue fattezze avvenenti. Con un'ultimo sguardo furioso, lasciò Pan, e mise le alghe nella bocca del ragazzo sanguinante. Quindi, prese la sua mano e lo spinse a immergersi, mentre entrambi cercavano di seguire la lenta discesa di Hook verso gli abissi.


 

*

Ad Emma piaceva la quiete del padiglione, le metteva serenità nella testa. Specialmente dopo una giornata strana come quella.

Aveva esultato, quella mattina, perché era finalmente riuscita a far lievitare il pettinino e a spostarlo dall'altra parte della specchiera. Purtroppo, il suggerimento che Hunter le aveva datto non c'entrava granché con la sua riuscita. Si trattava solo di pura, semplice volontà. Emozione. Così diceva la mamma. Bisognava trasformare la rabbia del fallimento in forza, e incanalarla verso l'obiettivo. Proprio in quel modo Emma aveva finalmente eseguito il compito che le era stato assegnato settimane prima: concentrandosi sullo scorno per il fatto di non esserci ancora riuscita. La mamma le aveva accarezzato il viso, allora, con un sorriso luminoso come Emma forse non gliene aveva mai visti in volto. Presa dall'entusiasmo, la ragazzina le aveva gettato le braccia al collo, e poi una cosa stupenda era accaduta. C'era voluto qualche istante, ma poi la mamma aveva ricambiato il suo abbraccio. L'aveva tenuta stretta a sé, cullandola e sussurrandole quanto fosse stata brava. Emma aveva sentito il cuore esplodere di gioia.

“Presto sarò pronta, signora madre” aveva mormorato sulla sua spalla. “Quando avrò imparato la magia, vi aiuterò a vendicare mio padre.”

E voi sorriderete ancora, e sarà merito mio.

Regina si era fermata per qualche istante, era diventata talmente rigida che Emma aveva temuto di aver detto qualcosa di sbagliato. Poi aveva sussurrato nel suo orecchio, con una voce stranamente morbida: “Sì, Emma. Lo faremo insieme.”

La ragazzina aveva provato a parlare al nonno di quell'episodio, ed era rimasta sconcertata dalla durezza che si era dipinta sul suo volto rugoso. Nonno Henry era l'uomo più dolce che esistesse, non si aspettava di trovare tanta severità nei suoi occhi scuri.

“Regina ti sta crescendo nella vendetta, ma la vendetta è sbagliata. La sta consumando, ed io non voglio vedere questa stessa sofferenza distruggere te.”

“Ma...quello che Snow White ha fatto a mio padre non è giusto!”

Nonno Henry chiuse gli occhi, poi, con un movimento misurato, si attirò Emma al petto.

Era il secondo abbraccio del giorno, ed Emma pensò che non poteva essere più fortunata di così. Anche se non capiva perché il battito del cuore del nonno fosse così dolente, e a tratti irregolare. Non era forte e caparbio come quello della mamma. Ci poggiò sopra le dita, avvertendo piccole scintille fredde che le scaturivano dai polpastrelli.

Il nonno sembrò respirare un po' meglio. Emma ascoltò di nuovo il rumore che proveniva dal suo petto. Tic-toc – aveva ripreso il suo corso normale ancora una volta. Alle volte era così, il vecchio cuore di nonno Henry. Come un orologio che perdeva i battiti. Bastava sistemare quel piccolo ingranaggio bizzoso con un tocco di istintiva magia guaritiva, e ogni volta tornava come prima. Lui non si era nemmeno accorto di quell'intervento della nipote, e continuava a cullarla con tristezza.

“Tante cose non sono giuste, Emma...ma non possiamo essere noi a raddrizzarle. Vendicarsi su Snow White non ripoterà in vita il povero Daniel...è da tanto che cerco di spiegarlo a Regina. È l'amore che le darà sollievo, non il sangue di quella donna.”

“L'amore?”

Capì che il nonno stava sorridendo. La sua voce era più dolce, più luminosa. “Quello che io e te proviamo per lei. So che a volte non è facile per te, piccola mia...non sempre tua madre apre il suo cuore, e spesso non ci permette di esprimerle il nostro affetto. Ma tu non demordere. Se vuoi davvero farla felice, non aiutarla a vendicarsi. Mostrale che le vuoi bene, piuttosto.”

Mostrale che le vuoi bene...così aveva detto il nonno. Ma non era quello che Emma faceva continuamente? Perché non bastava?

“Non lo so, Pongo” sbuffò Emma, accarezzando la testa del cane che riposava sulle sue ginocchia. “A volte vorrei che gli adulti si mettessero d'accordo su quello che è giusto e quello che è sbagliato. Come faccio io ad impararlo, se non ne sono sicuri nemmeno loro?”

Il cane spostò gli occhi scuri su di lei, uggiolando comprensivo. Emma gli grattò un orecchio nero. “Sono sicura che tu lo sai, invece, e se potessi parlare me lo diresti. Non è vero?”

Invece di risponderle, Pongo volse il muso verso la fontana al centro del grande padiglione. Aveva iniziato a gorgogliare forte, come Emma non ricordava avesse mai fatto prima.

Si trattava una polla d'acqua scura incorniciata dal basalto, che veniva direttamente da una falda nel sottosuolo, alimentata dal mare. Emma non era certa di come apparisse il mare, perché non era mai uscita dal castello in tutta la sua vita: tuttavia, l'acqua nella polla era salata, e questo le bastava come conferma che non si trattasse esattamente di un comune rigagnolo. Alle volte, qualche strambo pesce marino era emerso dalle sue profondità. C'era stata una foca, due anni fa, e l'apparire del suo muso curioso e baffuto l'aveva divertita molto. L'aveva intrattenuta per tre giorni, poi se ne era andata.

Tuttavia, quella volta non fu una foca a sbucare fuori dalla vasca.

La prima cosa che emerse, accompagnata da bolle dall'odore sulfureo, fu una pallidissima statua di cera. Venne fuori per la testa, e i dettagli del volto, benché attraenti, erano tanto rifiniti da inquietarla. Pongo prese a ringhiare, ma la statua non pareva minaccionsa. Con un pluc rassegnato, cadde galleggiando su un fianco. Un passo dopo l'altro, il cane andò ad annusarla, guardingo, ma quando Emma si fece avanti per esaminare l'oggetto iniziò ad abbaiare furiosamente.

La bambina non fece in tempo a zittirlo, che, con un gorgoglio più possente, la fonte eruttò altri due intrusi, di cui uno completamente fornito di scaglie e squame di pesce. Di pesce, in effetti, possedeva un'intera coda, mentre l'altra metà...oh, dannazione! L'altra metà del suo corpo era di donna!

Emma sgranò gli occhi e dimenticò di respirare.

Il pesce-donna stringeva tra le braccia un ragazzo. Sembrava poco più grande di Emma, e i suoi lineamenti gentili erano segnati dalla sofferenza. La ragione di quell'espressione le apparve chiara subito dopo, quando vide la macchia di sangue che si allargava nell'acqua intorno al ragazzo.

Emma pose le mani in avanti, in un gesto di difesa. La sua magia accorse, non richiamata, ma sempre pronta a proteggerla quando aveva paura.

“Lascialo andare, brutto mostro-pesce! Altrimenti...”

Il pesce-donna si spostò i capelli rosso corallo dal viso, e scosse il capo. Provò a parlare, ma nessun suono uscì dalla sua gola. Emma avrebbe voluto avvicinarsi per leggerle meglio le labbra, ma non osava muoversi dalla sua posizione cauta. Dovette improvvisare con ciò che riusciva a scorgere da lì.

Ha bisogno di aiuto, boccheggiò la donna pesce. Solo la magia della Regina Cattiva può salvarlo.

La ragazzina si accigliò. Non le piaceva quando sua madre veniva chiamata Regina Cattiva.

Sta sanguinando, proseguì la sirena, mostrandole la ferita che si apriva sulla spalla del ragazzo. Ti prego, aiutalo. Ha sofferto tanto per arrivare qui. Aiutalo.

“Non so se posso.”

Ancora combattuta tra la diffidenza per lo strambo mostro che si era trovata di fronte e l'urgenza di aiutare il ragazzo, Emma strinse un poco la mano. Aveva paura, sì. Ma non era lei la creatura più debole in quella stanza, adesso. Forse la sua magia non era accorsa per aiutare lei.

“Mia madre non è qui. Ci sono solo io.”

La sirena la guardò con occhi grandi e liquidi. Annuì. C'era una domanda nel suo sguardo, ed Emma la sentì riverberare dentro il petto. Lo aiuterai, dunque?

Osservò il volto del giovane – era più grande di lei, i suoi tratti erano ancora gentili ma iniziavano a perdere la rotondità dell'infanzia. Poteva avere quattordici, quindici anni. Stava osservando la mezzaluna delle folte ciglia scure, e considerando quanto lo facessero apparire indifeso e debole, quando quelle palpebre abbandonate tremarono, batterono su se stesse, e infine si schiusero su due grandi occhi castano cupo.

Emma non avrebbe saputo descrivere cosa avesse provato esattamente in quel momento, nell'incontrare lo sguardo del ragazzo. Adesso, però, sapeva cosa fare.

Senza badare ai latrati di avvertimento di Pongo, si avvicinò alla fontana, e protese la mano che brillava, avvolta nel bagliore bianco del proprio potere. Lo avrebbe guarito. Lo avrebbe aiutato...

Il ragazzo colpì il suo polso e lo allontanò.

“Non...toccarmi.”

Il suo tono era stanco, ma fiero.

“Stammi lontano...io odio la magia. Stammi lontano...”

Cercò di divincolarsi dall'abbraccio della sirena. Caracollò nell'acqua, senza riuscire a mettersi in piedi. Emma lo sostenne. Era pesante. Le scivolò addosso, cadendo carponi ai suoi piedi. La ferita alla spalla buttò un fiotto di sangue più intenso.

“Che stupido testone.”

Emma si sollevò le gonne sulle caviglie senza complimenti, sedendosi sui talloni, e con uno sbuffo riavviò la ciocca bionda che le era sfuggita dall'acconciatura. Si chinò sul ragazzo, e poggiò la mano ancora carica di potere sulla ferita. Lui tremò, non avrebbe saputo dire se di dolore o di umiliazione. Un attimo dopo, però, lo squarcio nella sua carne si era richiuso, e lui cadde a faccia in giù nell'acqua.

La sirena ebbe un fremito, ma si tenne in disparte. Pongo ringhiò, ma rimase lontano. La statua li fissava senza vederli, galleggiando mollemente sul pelo dell'acqua.

Fu Emma ad attirarsi la testa del ragazzo sulle ginocchia, tirandogli indietro i capelli umidi sul viso.

“Va tutto bene adesso” gli disse, cercando di imitare il tono rassicurante e dolce che suo nonno le rivolgeva sempre quando stava male o era triste. “Io sono Emma. Tu come ti chiami?”

Lui la guardò, le palpebre strette per la stanchezza – o forse la stava scrutando, per capire se poteva fidarsi di lei. Doveva aver fallito l'esame, perché lo vide serrare le labbra.

“Aiuta...mio padre. Aiutalo. Ti prego.”

Un cenno verso la statua e quelle parole furono gli ultimi atti coscienti del ragazzo, prima di svenire.


Note.

1Graham nella FTL. Siccome nella serie viene chiamato sempre “il Cacciatore”, ma qui non ne ricopre il ruolo, per semplicità ho fatto sì che la gente l'avesse battezzato Hunter, Regina compresa.   

   
 
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