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Autore: K u r a m a    09/11/2014    0 recensioni
No, lui mi aveva portato in un giardino fatto di sabbia e di mare, dove non vi era alcun fiore, ma solo un cimitero di conchiglie.
Mi aveva mostrato la mia prima giornata di sole, mi aveva spogliato dei miei indumenti e aveva osservato le mie ferite e le aveva accarezzate, ma senza alcun tentativo di cancellarle; non aveva tale presunzione, voleva solo alleviarne leggermente il dolore con le sue dita affusolate, con i suoi occhi caldi come le nocciole, dello stesso colore della nutella per cui andavo matto. [...] Quel giorno tutto si era fermato e a essere caduto, scivolato, da quella ringhiera non ero stato io, ma lui.
Lui era morto, mentre io ancora respiravo, portato via da quell’unico segreto che mai mi aveva rivelato.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mai così Vicini


Ci eravamo incontrati in un caffè, lui si era seduto al mio tavolo, una tazza di caffè in mano e un giornale nell’altra, gli occhiali neri e spessi sul suo naso, la frangia castana che gli ricadeva morbida su metà del suo volto. Quel giorno portava una maglietta bianca e larga, un cardigan aperto e leggermente bombato di un caldo color nocciola e dei jeans.
Era bello, lo avevo notato subito, ma sapevo anche che non sarebbe mai potuto essere mio, che entrambi eravamo troppo diversi, troppo distanti anche se grazie al suo errore i nostri occhi si erano incontrati, affogando.
Mi aveva sorriso e si era scusato, ma non se ne era mai andato.
Avevamo parlato per ore quel giorno, seduti a quello stretto tavolino vicino alla vetrata; ci eravamo dimenticati del tempo, dello spazio, dei problemi e ci eravamo beati dei nostri estranei racconti.
Non eravamo mai stati così vicini.
Eravamo degli estranei, non sapevamo nulla l’uno dell’altro, ma quel giorno fu come se in realtà ci fossimo conosciuti da una vita.
Avevamo parlato di noi, della nostra storia; dei nostri interessi, dei nostri sogni e delle nostre disavventure ed illusioni.
Mi aveva raccontato dei suoi genitori, dei suoi amici, di quel fratello che aveva perso in un incidente d’auto e di quella volta che aveva provato per la prima volta una canna.
Io, incoraggiato, gli avevo detto tutto di me. Gli avevo raccontato di mia madre che se ne era andata di casa lasciandomi indietro per fuggire con il suo grande amore, di mio padre che violento mi picchiava ogni giorno e del fatto che avessi perso il conto di quante volte mi avesse mandato all’ospedale, dei lividi che deturpavano il mio corpo da cima a fondo; da quelli neri a quelli viola.
Gli avevo confidato che venivo sempre in quel bar per trovare un po’ di pace, che preferivo dormire per strada sulle panchine piuttosto che tornare a casa e prenderle di santa ragione solo perché mio padre era ubriaco; gli avevo detto che il mio più grande sogno era quello di diventare un musicista e girare per tutto il mondo solo per essere libero, anche se era assurdo, perché io non sapevo suonare nemmeno i piatti, ma sapevo disegnare bene, quello sì.
Avevo detto tutto di me a un perfetto sconosciuto, gli avevo mostrato la mia anima e alla fine, quando rimasi senza parole, mi ero perfino imbarazzato.
Lui, però, non aveva detto nulla. Non aveva riso, non mi aveva compatito, ma aveva semplicemente ascoltato, riso con me quando io ridevo, preso la mano quando gli occhi mi pizzicavano e l’aveva stretta quando alla fine ero scoppiato a piangere.
All’inizio era stato un semplice sconosciuto, uno che della mia vita non avrebbe dovuto importargli nulla, ma che invece aveva ascoltato come nessuno aveva mai fatto.
Era come se quel giorno si fosse seduto al mio tavolo armato di una corda e me l’avesse lanciata all’interno del buio, per salvarmi dalla rovinosa caduta verso l’oblio e io l’avevo afferrata; lo avevo fatto inconsciamente e poi lo avevo seguito, fino ad arrivare in un giardino, ma non quello di Alice con tanti cespugli di rose rosse o quello della piccola ragazzina che precipitava nel pozzo per recuperare il suo fuso.
No, lui mi aveva portato in un giardino fatto di sabbia e di mare, dove non vi era alcun fiore, ma solo un cimitero di conchiglie.
Mi aveva mostrato la mia prima giornata di sole, mi aveva spogliato dei miei indumenti e aveva osservato le mie ferite e le aveva accarezzate, ma senza alcun tentativo di cancellarle; non aveva tale presunzione, voleva solo alleviarne leggermente il dolore con le sue dita affusolate, con i suoi occhi caldi come le nocciole, dello stesso colore della nutella per cui andavo matto.
Mi aveva fatto inspirare a pieni polmoni la brezza marina, il sollievo che l’aria fresca creava quando entrava e quando poi usciva da un corpo, trasportando via i pensieri.
Mi aveva fatto chiudere gli occhi e ascoltare il rilassante rumore delle onde, quelle calme e quelle impetuose come i sentimenti, che non se ne stavano mai fermi, tranquilli, ma che continuavano a muoversi anche quando sembravano essere sopiti.
La nostra storia d’amore era iniziata così, con quell’atmosfera da film e da quel suo errore che coincidenza non sembrava, ma che avrei sempre ringraziato.
Uscivamo ormai da un anno, con lui vicino ormai gli schiaffi e le botte di mio padre mi sentiva di non sentirli più, l’aria fredda e le emozioni negative in sua presenza diventavano solo ombre che si allontanavano con il suo avvicinarsi, come un sole caldo che cacciava via ogni cosa che avrebbe potuto nuocermi farmi male.
Aveva curato le mie ferite con baci, carezze, sospiri e mi aveva amato fino a notte fonda, anche sotto le stelle, contemplandole, comparandole con me.
Mi era stato vicino come nessun altro, mi aveva compreso solo come un amante e un amico poteva fare.
La sua dolcezza non aveva fine, i suoi baci erano infiniti e allo stesso tempo mortali, poiché alla fine l’ossigeno doveva sempre farci dividere, ma se non ne avessimo avuto bisogno avremmo speso ore immortali a far scontrare le nostre labbra e danzare le nostre lingue.
Avevamo passato un anno insieme magnifico, forse il primo della mia vita, il più pieno di colori e di sensazioni che prima della sua venuta non avevo mai e poi mai potuto anche solo sperato di poter sperimentare.
Si diceva, però, che ogni cosa un giorno dovesse finire, che la vita fosse composta da pagine bianche che il destino scriveva per noi dividendoli in capitoli e anche noi due, che eravamo altrettanti umani, non potevamo fare a meno di essere soggetti a questa legge e proprio quel tiranno fato che ci aveva unito un giorno ci aveva separati, ponendo fine a quel periodo di felicità che ci aveva contraddistinti.
Quel capitolo si era concluso in una notte di Novembre e ancora la ricordavo chiaramente.
Era notte fonda, lo aspettavo come sempre sul ponte abbandonato che passava sopra quel fiume che era specchio delle stelle.
Mi divertivo a camminare sulla ringhiera spessa di esso, quella stessa che lui più volte avevi detto essere pericolosa, che un giorno avrebbe potuto portarmi via, uccidendomi, se mai fossi scivolato, ma che io continuavo a percorrere mentre lo aspettavo.
Era squillato il cellulare, quello che mi aveva regalo per il mio compleanno, perché io non avrei potuto permettermene uno nemmeno volendo; mi ci sarebbero voluti anni per mettere via così tanti soldi.
Il suo nome era comparso e io felice, avevo risposto, mentre con l’altra mano tenevo stretto il blocco da disegno che avevo portato per mostrargli quel disegno di cui andavo orgoglioso, che finalmente avevo ultimato e che avrei voluto regalargli.
A rispondere, tuttavia, non fu la sua voce calda, bassa e maschile, ma quella di sua madre che era rotta dal pianto, che singhiozzava e che mi comunicava la sua morte.
Quel giorno tutto si era fermato e a essere caduto, scivolato, da quella ringhiera non ero stato io, ma lui.
Lui era morto, mentre io ancora respiravo, portato via da quell’unico segreto che mai mi aveva rivelato.
Era malato, un male incurabile, uno di quelli che fa tanto male e che sapevi che prima o poi ti avrebbe rapito con la morte come complice.
Era morto di leucemia e io non avevo mai sospettato nulla di quella malattia.
Mi ero spesso chiesto da quel momento se lui fosse stato un bravo attore o se ero semplicemente stato io a essere cieco, così tanto, da non aver mai voluto vedere quel male che me lo stava e me lo aveva portato via.
Quella notte di Novembre dopo aver sentito sua madre ero corso in ospedale e avevo appena fatto in tempo a vederlo, prima che il suo volto venisse coperto e il suo corpo portato via, verso l’obitorio.
Il funerale si era tenuto tre giorni dopo e tutti sapevano di quel male, tutti tranne me.
Perché non me lo aveva detto? Perché?
Me lo chiesi spesso, anche mentre tutti se ne andavano e lasciavano quella lapide su cui era stato inciso il suo nome e una di quelle frasi melense che sapevo che in fondo avrebbe odiato.
Dal giorno del suo funerale non mi ero mai allontanato da quella terra fredda e smossa, da quella pietra fredda e chiara.
Gli ero rimasto vicino, sempre; senza mai alzarmi, bere o mangiare, il blocco da disegno tra le mani che continuavo ad accarezzare.
C’era lui lì dentro, il suo viso sorridente, le sue larghe spalle e dietro di lui delle ali, perché lui era il mio angelo e ora che era morto lo era davvero.
Lo chiamavo spesso mentre tremavo per il freddo, mentre la debolezza si faceva sempre più largo nel mio corpo e sapevo che presto sarei morto ed era quello che in fondo volevo.
Volevo morire e raggiungerlo, perché solo lui era ciò a cui volevo tendere, che volevo.
Quale prospettiva di vita avrei avuto senza di lui fisicamente al mio fianco?
La mia morte arrivò il giorno di prima neve, quattro giorni dopo il suo funerale; era il primo di Dicembre.
Avevo chiuso gli occhi sorridendo e mi ero lasciato andare e quando gli avevo riaperti non ero altro che un’anima incorporea e davanti a me c’era lui, con le sue bianche e bellissime ali.
Corsi da lui e lo abbracciai, mentre quello ricambiava.
-Avresti dovuto vivere. – mi rimproverò, ma io scossi la testa.
-Io vivo solo dove sei tu. – gli rivelai, mentre piangevo felice.
Non saremmo mai potuti essere così vicini, se non nella morte.
Non mi importava se aveva omesso la sua malattia, lo amavo e lo avrei seguito ovunque pur di dargli il mio amore.
   
 
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