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Autore: Shichan    10/11/2014    5 recensioni
[...] colpevolizzarsi è il modo più facile che gli atleti hanno di dare una spiegazione logica a quello che logico non è mai.
Succede, e basta.

[spoiler per chi non segue le scan ; injuried!character]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Koushi Sugawara, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Disclaimer: i personaggi sono proprietà di Furidate Haruichi.
Note: mi sento come se avessi assassinato la mamma di Bambi.
Ambientata post-diploma di Sugawara, Sawamura e Azumane (già di per sé era una sofferenza, sì.) / in semifinale con la Aobajousai second version (?) (in sostanza, in pari con le scan al momento).
Grazie a Nari per il betaggio (L)

 

 

 

Hinata semplicemente non se ne accorge in tempo.
Si tratta di una disattenzione involontaria, dovuta solo al fatto che Ennoshita – che ha preso il posto di Sawamura come capitano della squadra – lo ha chiamato un attimo da parte per chiedergli di alternarsi con Tsukishima nel prossimo esercizio di muro-difesa, in modo che nessuno dei due si ritrovi sempre davanti il solito attaccante, ma possano variare. È strano pensare che il club vada avanti senza i senpai dell’ex terzo anno, ma è una cosa a cui Hinata ha dovuto abituarsi: avere delle matricole, sentirsi chiamare “Hinata-senpai”, ritrovarsi a giocare nella stessa palestra anche se non con (tutti) gli stessi compagni di squadra.
Le matricole non sono malvagie: sono sei, un alzatore, tre attaccanti laterali, un centrale e un libero con scarsissima fiducia in se stesso – vederlo allenarsi con Nishinoya rasenta il tragicomico, ma almeno migliora; si stanno ambientando, chi più e chi meno, e la squadra si impegna per far sì che il povero neo-alzatore non rimanga sempre solo nelle grinfie di Kageyama.
Hinata non si accorge in tempo di una palla difesa male dal libero più giovane della loro squadra, che finisce verso il campo e rotola fino a passare sotto rete. Il primo che alza la voce è Nishinoya, che ha seguito la sfera con lo sguardo: sbraita un “no” a pieni polmoni che è comunque in ritardo – lo schiacciatore (Ishida, una delle matricole) ha già saltato, ma fortunatamente la palla rotola oltre e quando lui atterra, lo fa sul pavimento stabile. La squadra è immobile, chi con aria spaesata e chi sollevata; e allora Hinata lo vede, lo conosce troppo bene per non capire al volo quando Kageyama ha l’istinto omicida, ma l’alzatore è già passato sotto la rete per marciare contro il loro libero del primo anno.
Gli afferra il bavero della maglia con forza e lo strattona per portarselo vicino al viso; di tutte le cose che gli urla contro, Hinata riconosce rimproveri e insulti, forse anche una mezza imprecazione ma a quel punto lo sta già tirando via, mentre Nishinoya gli grida di smetterla e lo spintona lontano dal primino che è a dir poco terrorizzato.
Kageyama li guarda male – tutti – e smette, per modo di dire poi, solo quando Hinata alza la voce e lo scuote con un: «Non si è fatto male nessuno, falla finita!»
È strano vedere una Karasuno in cui tocca a Hinata calmare Kageyama; è strano quasi quanto lo è l’assenza dei senpai, di cui nessuno si aspetta mai una visita.
C’è la squadra, c’è la palestra, ci saranno i tornei, ma hanno comunque perso qualcosa.  

 

È la manciata di secondi più lunga della loro vita. Persino il palazzetto dove stanno giocando sembra ammutolire completamente – il tifo delle due squadre che giocano nel campo adiacente al loro non gli arriva se non vago, come se avessero insonorizzato solo il perimetro che li racchiude, ma non li fa sentire né protetti né vicini.
Yamaguchi è certo di non aver mai visto nessuno fare uno scatto con tanta velocità e nello sguardo tanta preoccupazione come il coach Ukai ha appena fatto, schizzando verso la parte di campo che ospita la zona due, l’area di prima linea occupata solitamente dagli alzatori e dagli opposti. Cinque giocatori della Karasuno stanno in piedi e hanno sbiancato di botto; dalla zona di riscaldamento dove si trova, Yamaguchi vede bene l’espressione di Hinata e non gli piace. È quella di uno che ha appena visto la cosa più spaventosa al mondo.
Tutto quello che si sussegue è confuso – Nishinoya corre verso la panchina a recuperare la borsa medica in dotazione alla squadra, lo sguardo di chi non vede niente più di quello che ha davanti passo dopo passo; sembra in catalessi ed è terrificante. L’arbitro scende dalla sua postazione, i membri dell’Aobajousai sono fermi quasi tutti nelle loro posizioni.
Yamaguchi non conosce Oikawa se non come il capitano della squadra avversaria che ha un servizio spaventoso, ma l’espressione contrita che gli scorge in viso gli ricorda quella di quando qualcuno si fa fisicamente male, e non c’è niente di positivo nemmeno in quello.
Tsukishima al suo fianco sembra allucinato: ha gli occhi sgranati e questo di per sé non è un buon segno; niente stupisce Tsukki al tal punto, lui lo sa bene, lo conosce. Ma Yamaguchi non riesce a rendersi pienamente conto, anche se la prima cosa che li ha allarmati è stato vedere Sugawara accasciarsi per terra contemporaneamente a un richiamo di Daichi, la voce preoccupata, spaventata.
Tadashi non comprende, ma quel che è riuscito a vedere gli fa pensare allo scontro tra Sawamura e Tanaka – e anche se lì c’era sangue era tutto a posto, Sugawara-senpai invece non ha urtato nessuno, nemmeno la persona in attacco dall’altra parte.  
Eppure non si alza, e nessuno si muove, e Yamaguchi capisce davvero che qualcosa non va quando il coach Ukai si volta verso Takeda-sensei e gli ordina di far arrivare una barella.

Sono in una sala d’attesa e a vederli tutti lì, in tenuta da partita, li rende ancora più fuori luogo in un ospedale. Solo la loro squadra occupa il corridoio e lo fa sembrare ancora più affollato: alcuni hanno fatto a turno ad andare in bagno, per rimpiazzare i pantaloncini con i pantaloni lunghi della tuta o per togliersi di dosso almeno la maglietta sudata della divisa – quasi tutti sono stati praticamente obbligati con quanta più gentilezza possibile da Takeda, su richiesta di Ukai che ha invece seguito Sugawara al piano superiore per le lastre e chissà cos’altro.
Sono tutti in silenzio, quando Ukai li raggiunge di nuovo; ha lo sguardo di chi non sa bene come dire qualcosa, perché le parole saranno comunque pesanti, e intanto stringe i pugni lungo i fianchi sentendosi responsabile pur conscio di non esserlo. Impiega diversi istanti, nonostante riceva più di un’impaziente esortazione da suoi giocatori. È Daichi che fa la domanda più scomoda, non un “come sta”, ma qualcosa di molto più pesante che gli fa tremare la voce e rende difficile non abbassare lo sguardo.
«Si riprenderà?» domanda questo. Ha un peso tutto diverso, è più di un macigno in pieno stomaco; Ukai lo guarda stare con la schiena dritta e lo sguardo nel suo, i compagni dietro di lui che sono già increduli per le parole del capitano, figurarsi se sono pronti alla risposta.
Ma Keishin sa di non poter rimandare, di non poter indorare la pillola esattamente come non può cambiare le cose – sono cose che succedono, a volte, ma non è mai una consolazione saperlo. Può solo allungare una mano portandola sulla spalla di Sawamura e scuotere la testa.
E vedere quanto poco serve, in fondo, a mandare in pezzi le persone.

Kageyama è convinto di non essere mai stato così: in un limbo a metà tra coscienza e non, in cui percepisce distrattamente che qualcosa si muove intorno a lui ma non identifica cosa perché non ha davvero importanza. Come se i suoi sensi archiviassero quasi tutto come irrilevante, e bloccassero il suo cervello prima che questi possa registrare tutte le informazioni.
È seduto su una di quelle sedie di plastica scomodissime, il freddo del corridoio che gli fa salire un brivido lungo la schiena; passa quasi inosservato, i gomiti poggiati sulle proprie gambe e le mani strette tra loro. Ha allentato la presa di poco, dopo che Takeda gli ha posato gentilmente una mano sulle sue. Tiene lo sguardo basso perché, per la prima volta, non crede di poter sostenere lo sguardo dei senpai; non crede di poter sostenere lo sguardo di nessuno – non di Hinata, che sembra in trance da quando Ukai ha scosso la testa alla domanda di Daichi; non di Sawamura, che è scivolato su una sedia chiudendosi nel mutismo; non di Asahi, che gli sta accanto con un silenzio carico di troppe cose; non di Nishinoya né di Tanaka, che tremano ancora di rabbia e frustrazione e che è un vero miracolo se non si sono rotti una mano con un gesto sciocco come dare un pugno al muro, che Tobio però non avrebbe mai potuto biasimare.
Sente lo stesso nervosismo scorrergli nelle vene e fargli tremare le mani, ma ancora di più avverte una morsa chiudergli lo stomaco e un nodo stringergli la gola così tanto che anche respirare lentamente gli sembra impensabile. Continua a ripetersi: “se solo non fossi uscito” come un mantra, le immagini degli ultimi punti prima dell’infortunio di Sugawara in testa.
Probabilmente non se ne andranno mai più, pensa. Il set che si fa tirato, Tsukishima all’ultima rotazione prima di passare in seconda linea, un punto di Asahi, Tsukishima in battuta, Hinata dentro e Nishinoya fuori, Sugawara al lato del campo con la paletta con il numero nove a chiamare il cambio su di lui.
Sugawara che sorride e si raccomanda con lui di riprendere fiato, le indicazioni di Ukai per il suo rientro – solo un break e poi rientrerà, e invece quei pochi punti bastano e Sugawara è a terra ed è il panico totale.
Tobio non è mai stato il tipo di alzatore che accetta di buon grado una sostituzione. La prima volta che Sugawara ha fatto il cambio con lui, a Kageyama era subito tornata in mente quella partita delle scuole medie in cui aveva compreso come, in fondo, un alzatore non fosse niente senza la squadra, esattamente come una squadra non poteva andare avanti davvero senza un regista. Poi alla Karasuno ha compreso che non sempre essere messo in panchina significa essere stato lasciato indietro dalla squadra, o non essere più necessario; ora però si sente come se in quell’unica sostituzione ci fossero tutte le sue pecche.
Se fossi stato più affidabile è un pensiero martellante e continuo, doloroso, il primo di troppe frasi che iniziano per “se” e che in comune hanno qualcosa che non è stato quando avrebbe dovuto.
Abbastanza. Non è stato abbastanza.
E quello è il risultato.

Asahi ha ancora la sensazione di stare stringendo la spalla di Noya, anche se il libero è ben lontano da lui al momento; Asahi ha poggiato la mano sulla sua spalla e ha stretto per dare un monito, o forse per fermarlo, o magari aveva solo bisogno di appigliarsi e non cadere. E Nishinoya è sempre stato uno dei suoi appigli insieme a Sugawara: ha pesato così tanto su entrambi e per talmente tanto tempo, che se torna indietro all’anno precedente e esclude il periodo in cui è scappato dalla palestra come un codardo, non ricorda una sola volta in cui i due non abbiano cercato di confortarlo e sostenerlo – anche Daichi, certo, ma per ruolo i due si sono sempre ritrovati più coinvolti.
Ora Asahi è fermo in piedi, stringe di tanto in tanto la mano che sente formicolare appena, tiene lo sguardo sul pavimento. Forse si aspetta di essere inghiottito, o che quello sparisca e lui precipiti nel buio per poi svegliarsi di soprassalto da quel sogno-non-sogno che fanno tutti almeno una volta nella vita. Invece il pavimento è solido sotto i suoi piedi, non gli fa la cortesia di causargli un risveglio che sarebbe più che gradito.
Asahi non riesce davvero a sbirciare in direzione di Daichi, né a sedersi vicino a Kageyama. Questa è la situazione in cui Suga saprebbe cosa fare. Poserebbe una mano sulla spalla di Daichi non per essere supportato ma per supportare; si piegherebbe sulle ginocchia per essere allo stesso livello di Hinata e gli scompiglierebbe i capelli, perché Koushi è sempre portato a quel pizzico in più di dolcezza, con lui; darebbe una pacca sulla spalla a Kageyama, perché Tobio non è il tipo da aver bisogno di un gesto affettuoso e non hanno ancora la familiarità per una stretta significativa senza il bisogno di parole, come invece funziona con Daichi.
Ci vorrebbe Sugawara, e come nei libri e nei film dalla trama fin troppo prevedibile, Koushi non è lì perché è per lui che loro sono in quello stato. Dovrebbero essere la forza, invece sono l’anello debole – Asahi sa riconoscere bene quella sensazione, è stato il codardo quando avrebbe dovuto essere quello su cui contare, e nonostante tutto certe cose non te le scrolli mai di dosso.
Forse, pensa, se solo lui non avesse fatto pesare tutto su Sugawara contro quella partita con la Datekou, l’altro non si sarebbe sentito in dovere di dimostrare niente, di andare oltre il limite; Asahi crede che si sia trattato di quello, ed è qualcosa così poco da Sugawara che non può fare a meno di pensare che se ci sono stati allenamenti troppo faticosi, se ci sono stati salti in più e stanchezza accumulata nei muscoli e nelle gambe, qualcuno debba avercelo spinto.
Lui, Azumane, non si è mai sentito il centro del mondo; eppure ora si sente il primo passo di un cammino fatto di colpe inespresse e passate quasi sotto banco. Non può fare a meno di credere che doveva evitarlo.
Non sa come, sa solo che doveva – colpevolizzarsi è il modo più facile che gli atleti hanno di dare una spiegazione logica a quello che logico non è mai.
Succede, e basta.

Nella mente di Hinata quanto accaduto non ha il minimo senso.
Lui non ricorda nemmeno più quante volte sia caduto, abbia rotolato, sia finito contro un muro o faccia contro il parquet da quando gioca a pallavolo. Non lo ricorda con precisione perché è successo così tante volte che tenere il conto sarebbe stato impossibile; ha una certezza, però: non si è mai fatto male, mai sul serio. Non importa quanto errato fosse stato il tuffo in avanti (con tanto di pallone miseramente mancato), quanto rocambolesca fosse stata l’azione che lo aveva sbilanciato fino a cadere e rotolare. Hinata si è sempre rialzato senza troppi danni, niente più che bernoccoli in effetti. Dolori momentanei, quasi sempre completamente offuscati dall’adrenalina che aveva in corpo, da una partita troppo importante per preoccuparsi di qualche graffio, di un punto per cui era valsa la pena tutto quello che aveva fatto e ogni respiro buttato fuori anche quando i polmoni sembravano bruciare.
Non ha senso, per lui, cadere e non rialzarsi; persino il capitano si è tirato su dopo quello scontro con Tanaka. Per questo non ha capito subito quando Daichi ha gridato il nome di Sugawara, o quando si è reso conto che l’altro era a terra.
Invece Sugawara era curvo su se stesso, la schiena scossa dal tremore.
Nella mente di Hinata quanto accaduto non ha il minimo senso: Sugawara è una delle persone più gentili che conosca, il senpai che gli ha sempre dato sostegno quando ne ha avuto più bisogno, il compagno di squadra che più di tutti gli altri ha messo a disposizione la propria esperienza e le proprie conoscenze, per quanto infinitesimali fossero i dettagli su cui dispensava consigli.
E ora il coach Ukai ha richiamato solo il capitano della loro squadra, e a Shouyou non piace perché – nel suo trovare assurda tutta la situazione – capisce da solo che non è un buon segno. Dovrebbero esserci sospiri sollevati e qualcuno che dice che è tutto a posto, che anche se è sembrata una brutta caduta in realtà non era niente e Sugawara li raggiungerà presto.
Non dovrebbe esserci Sawamura Daichi che stringe i pugni e avanza con lo sguardo di chi si sente pronto al peggio.
E Hinata si chiede se tutte le volte che Sugawara lo ha aiutato e sì, forse anche viziato a modo suo, lui non abbia sempre – per quanto involontariamente – fatto sentire il senpai non all’altezza; lui e la sua spasmodica ricerca delle alzate di Kageyama, lui e la sua scarsa tecnica che più di una volta hanno fatto pronunciare a Sugawara scuse che non gli doveva affatto.
Scusami Hinata, io non so fare alzate come Kageyama”.
Gli risuonano nelle orecchie e vorrebbe solo chiedere scusa perché lui, non è capace di attaccare autonomamente senza che Kageyama vada incontro alle sue pecche.

Daichi ha seguito Ukai per il corridoio fino alla stanza dove hanno fatto sistemare Sugawara.
Non è pronto a entrare, non è pronto per vedere il suo vice, non è pronto per quella verità che gli è stata già sbattuta in faccia ma che finirà con il colpirlo anche in pieno petto e sommergerlo, se sarà nella stessa stanza del compagno.
Ma entra lo stesso: lo fa per Kageyama che ha scosso la testa senza nemmeno alzare lo sguardo quando Ukai ha chiesto chi volesse andare da Sugawara; per Hinata che ha mosso un passo e poi si è fermato come se non si sentisse nemmeno degno di farne altri; per Asahi che non si è mosso da quando Nishinoya è sfuggito alla sua presa.
Lo fa per Koushi, perché crede di dovergli tutto e perché non sarà lui ad abbandonare l’altro quando – crede – ce n’è più bisogno.
Sugawara ci prova a sorridergli, è la prima cosa che Daichi nota: è seduto su un lettino anonimo, il pantalone della tuta tenuto ai propri piedi e addosso ancora la divisa da gioco, la giacca della Karasuno posata sulle spalle. Quando sente la porta aprirsi si volta e Sawamura legge tanta di quella incertezza e voglia di non vedere nessuno, negli occhi dell’altro, che è tentato di tornare indietro; invece Koushi gli sorride, ci prova ad abbozzare un incurvarsi di labbra che somigli vagamente alle sue solite espressioni gentili.
Per un attimo Daichi ci crede. Sente i muscoli del propri viso tendersi in un accenno di sorriso che vorrebbe essere rassicurante, caldo, e fa qualche passo in avanti.
Non si aspetta di vedere Sugawara quasi piegato su se stesso, di vederlo tremare; non si aspetta le mani che stringono il bordo del lettino e il lenzuolo ai lati del corpo di Koushi; non si aspetta di vederlo chinare la testa sconfitto – non vuole vederlo, non vuole vederlo, non vuole vederlo, non vuole—
Sugawara singhiozza. Lo fa in silenzio, il singulto non arriva alle orecchie di Daichi ma lo vede: Koushi non ha mai pianto per una difficoltà, lo ha fatto per la frustrazione e il dispiacere di una partita persa e a un’occasione sportiva sfumata, ma non per cose come quella. Koushi è il tipo di atleta che non si lamenta, che stringe i denti. Quella presenza positiva che in campo bilancia l’equilibrio come se fosse la cosa più facile del mondo.
Vorrebbe mettergli una mano sulla spalla e dirgli che andrà bene, ma non lo fa perché sa che le cose non possono andare bene davvero. Sa da Ukai che Sugawara non tornerà sul campo di pallavolo, sicuramente non prima del diploma e questo esclude già di suo che lo possa fare dopo, sempre che il suo ginocchio glielo conceda.
Daichi non osa fare nulla che non sia stringere i pugni, e sentire le unghie corte conficcarsi nella carne – è assurdo come un giocatore, alla fine, venga tradito dal proprio corpo: un ginocchio cede, per un attimo sembra che ti manchi la terra sotto i piedi, e l’attimo dopo rialzarsi è impensabile.
«Mi dispiace.»
Sugawara gli dice proprio questo: mi dispiace. E Daichi non ha idea se l’altro si stia scusando perché piange davanti a lui, o perché dopo quella caduta hanno perso il set, e la partita, e la possibilità di andare in finale contro la Shiratorizawadi nuovo.
Sawamura sa soltanto che Koushi non deve scuse a nessuno; semmai sono loro, che dovrebbero scusarsi per non essere stati in grado di vincere. Per non essere stati capaci di togliergli almeno quel peso dalle spalle.
Invece riesce solo a guardare il ginocchio nudo, Koushi che si chiude in se stesso fisicamente e moralmente, e capisce – in quel momento – che non sono mai stati così distanti.


Ennoshita ha spedito Kageyama a darsi una rinfrescata fuori dalla palestra; Nishinoya sta assicurando per la decima volta al libero del primo anno che non è colpa sua, basta fare più attenzione, i palloni che rotolano per la palestra possono essere pericolosi.
Hinata è a bordo campo e non serve quasi, ascoltare quello che mormorano tra loro le matricole riguardo l’accaduto. L’unico che non sta parlando è Miyamura, l’alzatore; è vicino ad un muro e fa dei piccoli saltelli simulando quelli a rete, per tenersi caldo, le braccia in alto.
A Hinata ricorda un po’ Sugawara: in termini di potenzialità fisiche e tecnico-tattiche non è che l’ombra di Kageyama e lo sarebbe anche se fossero coetanei probabilmente. Ma si impegna, in silenzio e con costanza, gioisce di piccoli miglioramenti ed è un continuo “andava bene l’alzata?”, “Tanaka-senpai, vuoi che l’abbassi un po’?” senza mai lamentarsi di alcuna ricezione, nemmeno quelle (tutt’ora) terribili dello stesso Hinata.
Gli si avvicina e gli posa una mano sulla spalla e, quando l’altro si ferma, gli sorride: «Riposati, quando facciamo pausa.» lo dice con la gentilezza che ha conosciuto bene e che l’ha guidato, quella che sente di non aver mai davvero ricambiato in pieno.
Non gli dice altro – non accenna a infortuni, non parla di possibili sforzi che avrebbero ripercussioni poi, non lo spaventa inutilmente e non accenna a Sugawara.
Vorrebbe presentarglielo, sarebbe d’aiuto, è sicuro che Miyamura crescerebbe tantissimo anche solo così.
Ma Koushi, in campo, non è tornato mai.



 

 

 

Sono una persona orribile.
Nonostante credo possa sembrare un poco forzato, che Sugawara non torni più alla Karasuno, ho figurato il tutto come se non fosse passato poi così tanto tempo (diciamo che per i miei calcoli Koushi potrebbe aver finito da relativamente poco la riabilitazione); inoltre credo che da un infortunio simile e una delusione del genere, chi dà tutto in palestra e sul campo impieghi molto di più per far pace con se stesso e tornare.
E insomma. Se nonostante la pesantezza fosse piaciuta anche solo un po’, io sarei felice y_y <3

   
 
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