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Autore: LeFleurDuMal    27/10/2008    9 recensioni
Saga torna dall'Oltretomba e scala il Santuario con gli altri Gold Saint resuscitati da Hades. E' un uomo nuovo, consapevole. E mentre è pronto, pur nel dolore, a ricominciare come Santo, il passato ritorna. Non a tormentarlo, ma a dargli forza. Con molti bagliori dorati.
[ Regalo di compleanno per Ren_Chan. <3 Al mio uke con tutto il mio amore <3] La fanfiction è ispirata a una doujinshi della meravigliosa Necchan. Riferimenti all'interno. <3
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gemini Saga, Sagittarius Aiolos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: LeFleurDuMal
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico
Personaggi Principali: Saga dei Gemelli,  Aioros di Sagitter

Rating: Verde
In proposito:  Saga torna dall'Oltretomba e scala il Santuario con gli altri Gold Saint resuscitati da Hades. E' un uomo nuovo, consapevole. E mentre è pronto, pur nel dolore, a ricominciare come Santo, il passato ritorna. Non a tormentarlo, ma a dargli forza. Con molti bagliori dorati.

Disclaimer: I personaggi sono di Masami Kurumada, il contesto in cui si muovono anche. Anche i rapporti sono quelli originali, lo giuro. Il resto è di Necchan. Di mio c'è l'amore *C*

Cose: Regalo per il compleanno di Ren_chan. Con tutto il mio amore. <3

La fanfiction è ispirata ad una doujinshi della splendida Necchan. I riferimenti li trovate qui sotto.
Credits: Vi incoraggio ad andare a vedere tutto di Necchan. La doujinshi la trovate qui. E ditemi che non è bella. Il suo LJ è questo. Godetevi la meraviglia con me. *O*

 

 

Calmatevi, non risvegliate il pianto!

Tutto è sancito.

Sofocle, Edipo a Colono

 

 

 

Dapprima fu un bagliore che illuminò la Casa, poi la luce sembrò allagare il mondo intero.

La deflagrazione che seguì le Athena Exclamation poste l’una contro l’altra non risparmiò nulla, nemmeno le ultime speranze di chi non aveva più niente da perdere.

Le colonne si spezzarono, collassando su loro stesse. Il grande timpano esterno tremò, poi cadde di lato sui marmi delle scale, come un gigante che precipita sulle ginocchia.

“Il soffitto sta crollando!”

Saga percepì l’avvertimento di Shura marginalmente, ma non indietreggiò mai, conscio dei compagni ai fianchi e dei tre guerrieri dorati e feroci che a loro si contrapponevano.

In mezzo alle lacrime di sangue che la sua anima piangeva, provò nostalgia.

Un unico istante infinito di luce e silenzio. Le statue all’esterno persero la testa e franarono, ma nessuno le vide.

Poi il timpano si portò dietro colonne e marmi, tutto il Sesto Tempio crollò nel fragore seppellendo gli sfidanti.

 

Nel calore della notte gli spettri avevano corso come in un sogno. Saga era tornato, con gli altri paladini defunti, ma sapeva che avrebbe potuto tornare anche lui soltanto, per il peccato che doveva espiare.

Saga era tornato ed era tornato integro.

Per anni, nella sua infanzia, era stato divinità. La gente di Atene e di Colono al suo passaggio si era aperta come il mare davanti ad un profeta e aveva toccato la sua veste e sorriso pregando di avere in cambio un sorriso, gli aveva porto collane di ossi di pesca. Poi l’ombra era calata, come una daga tagliente su una culla, ed era stato dannato per tredici anni, crocefisso.

Angelo sul viso e demone nel cuore, gli aveva detto qualcuno che lo conosceva bene, meglio di chiunque altro.

Nel calore della notte, adesso che correva come in sogno, Saga era tornato senza essere divinità e senza essere demone. Era tornato uomo, integro del bene e del male, nella compenetrazione dei toni di luce e di ombra di ogni creatura. Un intero, quando era stato due metà: volere di Athena che lo costringeva, da quel nuovo essere integro, a contemplare senza riserve il proprio vissuto.

Sia fatta la tua volontà. Non la mia. Nel calore della notte gli spettri salgono le scale e per loro è come camminare in un sogno, è vero. Nessuno di noi ha parlato, nel giardino, tra i petali. Nessuno ha parlato, nemmeno Shura che poteva. Virgo, dorato e santo, è come se ci avesse suggerito di proseguire, mentre lui andava sotto gli alberi a pregare. E’ come se. Invece è morto.

Dei sei Specter che vennero, quelli che ebbero armature dorate, hanno proseguito in tre.

Un quarto è rimasto alla Prima Casa, affilando occhi e sorriso, per affrontare una nemesi.

Due si sono perduti.

Saga aveva dato gli ordini, primo tra i tre rimasti, senza parlare. Li aveva dati con il corpo, con i gesti ampi e misurati di chi è stato cavaliere e poi Pontefice e poi, ancora, guerriero.

Insieme agli altri aveva corso e per lui era stato come correre in un sogno, con Hades alle spalle e Athena davanti. Si era chiesto perché la chiamassero Guerra Santa quella che mette fratelli contro fratelli, compagni contro compagni, amanti contro amanti; si era chiesto cosa ci fosse di sacro. E aveva zittito il proprio pensiero perché tra tutti coloro che avrebbero potuto domandare, lui era quello che meno ne aveva diritto.

Aveva corso sulle scale per espiare il suo peccato. Un peccato molto grande che prevedeva una pena immensa, in grado di far stillare all’anima lacrime di sangue.

La sua pena era quella di salire tredici piani di scale marmoree e prendere la testa di Athena.

Allontana da me questo calice aveva pregato. Ma sia fatta la tua volontà, Athena, non la mia.

Dov’era adesso? La mente lucida, sentì il pavimento gelido sotto di sé, le macerie del tempio sopra. Non sapeva se la surplice l’avesse protetto o se invece fosse morto e attendesse adesso il responso di Hades una seconda volta.

Cercò di muovere una mano, ma non accadde nulla.

Si concentrò di più e avvertì il proprio respiro basso, un rantolo appena percettibile nella gola liscia e asciutta, come se qualcuno l’avesse cosparsa di polvere e sabbia finissima. Deglutire era impensabile, sebbene si implorasse di farlo e gli sembrasse di avere le labbra trafitte da mille aghi. Ma era niente paragonato al dolore del proprio cuore trafitto.

Lo immaginava come un giardino, piccolo e raccolto, il suo cuore. Un uliveto appena fuori le mura di una città petrosa, un giardino dove nessuno parla, nessuno dorme. Un giardino dove si va a pregare, sacro alle Eumenidi, divinità di vendetta. Un giardino di dolore.

Shaka, dorato e santo, era come se avesse loro suggerito di proseguire mentre lui andava sotto gli alberi a pregare, nei petali. Un giardino così.

Dove ogni petalo che cadeva a terra produceva un suono ovattato e sinistro, come un lontano tamburo di morte.

Sentì il fremito di una risata amara salirgli alle labbra. Seppe di ridere, sommesso, sotto quelle macerie, ma non si udì. Rideva aspro perché il tamburo lontano era quello del proprio cuore.

Era ancora vivo, Saga dei Gemelli, assassino, traditore e usurpatore, Saint senza orgoglio né onore. Si girò tra le labbra, sulla lingua inaridita quelle parole mute: non se ne risparmiò nemmeno una.

Era ancora vivo, quando avrebbe dovuto rimanere schiacciato dalla Sesta Casa che aveva giudicato. Inflessibile, il Tempio di Shaka.

Invece viveva, nel suo utero di macerie e pietre, raccolto come un bambino. Qualcosa l’aveva protetto e non la surplice ostile.

Un miracolo, non v’era dubbio. E di nuovo si chiese perché, qualunque cosa fosse, anche Athena stessa, perché proteggesse lui il traditore, l’usurpatore, l’assassino?

Lo sentiva adesso quel potere ampio dal sapore antico che lo avvolgeva, tra le macerie.

Lo cercò appena, dentro di sé, con il respiro roco e basso che a malapena si staccava dai polmoni. Non era Athena, lo sentiva il Cosmo della dea al Tredicesimo Tempio, ampio e caldo, non si era spostata.

Il potere nuovo, invece, lo sentiva sulla pelle come il tocco amico di una mano. Gli faceva pensare a cose antiche e nostalgiche: tuniche bianche e senza macchia, sandali che si annodavano al polpaccio, il profumo del vino che si mesceva con l’acqua. All’arena terrosa, agli allenamenti mattutini e a notti intime di fanciullezza quando scoppiavano i temporali e si dormiva spalla a spalla tra le lenzuola pulite. Si sentì tremare, un singulto, e non poté fare nulla per impedirselo, le labbra dischiuse, le ciocche spettinate sugli occhi spalancati nel buio.

Lo sentiva, quel potere, come mani calde che salutano affettuose.

Non ebbe il coraggio di girare la testa.

Lo sentiva, quel potere, e lo dilaniava dentro con le sue lacrime di sangue, potesse raccogliersi in preghiera in un giardino di dolore, sul monte degli ulivi, dietro alla città vecchia e petrosa dove i serpenti inducono in tentazione. Nessuno dorme, in quel giardino, gli occhi spalancati nel buio.

Lo sentiva sulla pelle come il tocco amico di una mano, tangibile. Un miracolo, non v’era dubbio.

Prese coraggio Saga Gold Saint di Gemini e guardò oltre la propria spalla.

E qualunque suo pensiero venne annichilito.

 

Nel tempo in cui aveva avuto il potere e lo aveva amministrato per tredici anni compiendo l’orrore senza darvi peso, insieme al dominio aveva desiderato al Tempio un’armatura inafferrabile, dalla forma di un angelo. Si era svegliato nella tenebra della notte con il fiato corto, talvolta, ansimando, un braccio spinto davanti a sé, gli occhi assonnati ancora pieni di un bagliore d’oro.

L’aveva cercata fino al giorno della propria morte e, chissà come, era sempre riuscita a sfuggirgli.

Il desiderio aveva allargato in lui il baratro della follia, lui che era già due, assiso sul soglio pontificio a maledire gli angeli e la Giustizia.

Era colpa di Aioros, che non aveva capito, si era detto. Molte volte, prima che scomparisse con la sua armatura alata, lo aveva guardato negli occhi, nelle notti temporalesche o in un giardino appena fuori le mura petrose, come in attesa che lui dicesse qualcosa e lo strappasse dalle ombre.

Un piccolo uliveto fuori dalla città vecchia, il monte degli ulivi.

Il giardino sacro delle Eumenidi, verde e azzurro, il giardino di Aioros che aveva offerto la vita.

Il giardino del peccato. Dove bisognava sedersi e pregare.

Dì soltanto una parola e io sarò salvato.

Quante volte avrebbe voluto tenere nelle proprie le mani di Aioros, la luce? Invece non aveva potuto e nelle mani aveva tenuto le proprie. In grembo, quando nelle stanze del Sacerdote non c’era nessuno più, a tarda notte, o quando si recava solo nelle stanze termali, nell’acqua tiepida: allora si toglieva la maschera e specchiava il volto pensoso, con le mani in grembo e le univa, i palmi aperti e le dita tese, a dare loro la forma di un angelo. A ricordare com’era fatta quell’armatura.

Com’era fatto l’uomo che l’aveva portata e che lui aveva fatto uccidere.

Allora irrigidiva le dita e riempiva quell’immagine di parole d’amore e anatemi che gelavano il sangue.

 

Non aveva macerie a pesargli sulle spalle e ciò che l’aveva protetto non era la surplice.

Quello che l’aveva protetto era un gold cloth amato, desiderato, bramato che aveva cercato per tredici anni quando era stato Pontefice.

Gli tremarono le labbra.

Saga aveva il pavimento di marmo freddo, sotto di sé e su quello non aveva più dubbi. E sopra di lui non c’erano macerie, ma un corpo giovane e forte, laminato d’oro, i muscoli tesi nella tensione. Saga aprì gli occhi così tanto da sentirli dolere, eppure non si capacitava di quello che vedeva.

Shaka, che era andato sotto agli alberi a pregare ed era morto, aveva tolto la vista anche lui, alla fine, lasciandolo alle sue visioni? Non poteva essere altrimenti. Quel corpo familiare che lo sovrastava e che aveva ossessionato le sue notti, nel bene e nel male, sopportava la torsione allungato su di lui a sostenere quelle macerie che avrebbero dovuto schiacciarlo.

Sentiva – metallo contro metallo – le ginocchia dell’altro ai lati delle proprie, a puntellare la sua figura, gli avambracci d’oro sfolgorante, pur nella tenebra. Come aveva fatto a non vederli prima?

E le ali, sulle spalle, inconfondibili.

Grandi ali d’oro, protettive, a sorreggere il peso di tutta la Sesta Casa.

“AIOROS!”

Non poteva parlare Saga, che nessuno parla nel giardino, eppure la sua voce sembrò giungere forte e chiara. La nuca china di riccioli perfetti, si sollevò senza il minimo sforzo, sotto tutta quella pietra. Il volto di Aioros era il volto che Saga ricordava e ancora Gemini si sentì morire dentro.

“Sei davvero tu, Aioros?”

Aioros appoggiò gli occhi verdi in quelli di Saga e Saga seppe di averli ricordati con odio feroce, quegli occhi, nei giorni del suo pontificato, con amore straziante nelle notti del governo, quando i confini tra se stesso e se stesso diminuivano.

Aioros sorrise. Senz’ombra di fatica nel sorreggere tutto il Sesto Tempio. Sorrise e la Tenebra, dolce antica Tenebra, sfumò nella luce.

Sorrise anche Saga senza poterselo impedire. La luce è contagiosa.

E prima ancora di accorgersene, Saga pianse.

Emise un singulto terrorizzato e pesante al proprio pianto, guardò Aioros con colpa, il luminoso Aioros.

Sagitter non lo rimproverò. Allargò il sorriso, anzi, a dischiudere il cuore di Saga.

Non c’era al mondo niente più pesante del timpano della Settima Casa, se non colpa che Gemini sentiva gravare sulle proprie spalle, eppure Aioros sorreggeva entrambi con il suo sorriso e le sue ali.

“Non credevo che ti avrei rivisto più” Saga ingoiò un singhiozzo salato e parlò in fretta, a nascondere le lacrime “E invece adesso che sono qui per prendere la sua testa, compari davanti a me per proteggermi.”

 

Nelle vicinanze di Atene, della città. Un boschetto sacro delle Eumenidi, con ulivi, viti, allori e una pietra al di fuori del bosco sacro.

Le dee tremende, le figlie della terra e della Tenebra. Dolci figlie dell’antica Tenebra.

Ma quando ci si recava con lui le tenebre si dissolvevano, come sciolte nella luce, perdevano loro stesse. Aioros con un’armatura a forma di angelo, Aioros che non capiva.

Saga lo affiancava fremente in quei giorni sottili di ricordo. Spalla a spalla, tra un allenamento e l’altro, procedevano nel sole, nel bosco sacro delle figlie della terra e della Tenebra.

Kanon era da qualche parte, sfuggente da un po' di tempo, e il piccolo Aioria probabilmente era con lui o lo stava cercando ridendo il suo nome o quello dei loro fratelli.

Saga invece procedeva nel sole con Aioros, che non capiva. Saga fremeva perché bastava essere con lui, che scioglieva le tenebre nella propria luce, sedersi sull’erba sotto l’ulivo verde e azzurro, senza osare toccarlo se non come fa un compagno d’arme, trafiggendosi nell’amore.

Aioros non capiva. Gli sorrideva, caldo, ma il suo sguardo era su Athena e non su di lui. Non si accorgeva che Saga avrebbe voluto dare alle sue mani la forma di angeli, né dell’ombra che serpeggiava nell’animo del compagno.

E gli sarebbe bastata una sua sola parola per essere salvato.

O Atene, tra tutte le città la più gloriosa, che appartieni alla grandissima Athena.

Aioros gli sorrideva, compagno a compagno. Gli toccava le spalle, sereno, fratello a fratello.

Saga abbassava lo sguardo, che gli bastava essere con lui sotto l’ulivo verde e azzurro, ma voleva prendere le mani di Aioros nelle proprie e dare loro la forma di angeli, amante ad amante.

Aioros non aveva capito mai, sempre bellissimo con il suo sguardo rivolto verso Athena, e aveva continuato ad andare nel bosco sacro alle Eumenidi, figlie della terra e della Tenebra, insieme a Saga che alla tenebra regalava giorno dopo giorno un chicco del suo animo verde e azzurro.

E sarebbe bastato dire soltanto una parola perché fosse salvato.

 

Un nuovo singulto, davanti al volto sereno di un Santo: “Mi dispiace…! Aioros, sono così disperato per quello che ti ho fatto io… tutto quello che ho fatto… e adesso che sono venuto per prendere la sua testa, com’è possibile che tu…”

“Saga”.

Saga tacque col il respiro schiacciato in gola, lo sentiva raschiare. Com’era possibile che lui…

“Saga”. La sua voce. Era come la ricordava? La sua mente nei tredici anni trascorsi non l’aveva deformata? Non si era appannata, quella voce, nella morte di entrambi? “Non parlare, Nobile Saga”.

Non si parla nel giardino. Saga tacque.

“Ascolta”.

Saga ascoltò. Le proprie lacrime irrefrenabili, di sangue sulla sua anima, di sale sul suo viso; e le parole di Aioros.

“Tutto ti è stato perdonato e i tuoi peccati sono redenti dalla dea bambina, da Athena divina. Non aggiungere altro, mio Nobile Saga. Come allora, sono al tuo fianco. Come nelle notti piovose, sono al tuo fianco. Come negli anni che ci hanno visto allievi e pretendenti alle armature d’oro, mio Saga, sono ancora al tuo fianco”.

Aioros premette i palmi sul marmo e fece pressione, come per alzarsi. Saga lo trattenne, con forza, per il polso. Nonostante le parole di Sagitter, si sentì blasfemo a chiudere la sua mano inguantata nel metallo di Hades sull’oro della cloth. La ritirò con un sibilo.

“Aioros…”

“Non parlare”.

Non si parla nel giardino.

“Non aggiungere altro, mio Saga. Verrà il momento in cui saremo riuniti, ma prima…”

“Aioros…”

“…devi compiere…”

“Mi dispiace…”

“…la tua missione.”

“Per quello che ho fatto”.

“In piedi, Cavaliere. Solo questo ricorda, adesso, mio Saga”.

“Aioros, aspetta… se adesso resti con me, io… resta e io…”

“Non ancora” Aioros dischiuse le labbra e la luce del suo sorriso offuscò la vista di Saga, i contorni dell’armatura d’oro. Gemini sentì un crescente senso d’allarme, la forza fredda dell’adrenalina contrarre ancora i suoi muscoli.

“Aioros, aspetta!”

Mosse una mano verso Aioros, ancora, quando si accorse che adesso Sagitter  si alzava da lui e dal marmo gelido, allungò il braccio non nel gesto potente di un guerriero, ma in quello di un uomo.

Non lo raggiunse, Aioros che lo guardava, il sorriso luminoso e gli occhi verdi come li ricordava.

Non lo raggiunse.

“AIOROS!”

Con tutte le forze concesse al suo corpo affaticato, Saga spinse il braccio verso l’alto.

 

Con tutte le forze concesse al suo corpo affaticato, Saga spinse il braccio verso l’alto.

Non raggiunse Aioros.

Raggiunse le macerie, sopra al proprio corpo, quelle pesanti e gelide del Settimo Tempio che non lo avevano schiacciato, ma era come se fossero state appoggiate su di lui, delicatamente.

Spinse il braccio contro la pietra, nell’impeto dell’inseguimento di Aioros, e la sua mano si insinuò tra le rovine, uscendo al cielo di Atene.

Milo si girò, all’erta, quando sentì il Cosmo di Gemini vibrare intensamente alle sue spalle. Spalancò gli occhi, quando vide la sua mano aperta, le dita tese verso il cielo.

“Ancora vivo!” mormorò.

   
 
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