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Autore: Hika86    16/11/2014    7 recensioni
"Allora Aragorn fu turbato perchè vide la luce elfica sfavillare nei suoi occhi insieme con la saggezza di molti anni; e da quel momento egli amò Arwen Undómiel figlia di Elrond" [...] "E sul colle di Cerin Amroth, quando abbandonammo sia l'Ombra che il Crepuscolo, accettammo il nostro destino." ["Il Signore degli Anelli", Appendice A]
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aragorn, Arwen, Elladan, Elrohir, Elrond
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Quando Elrond vide entrare Aragorn nella sala, notò subito il suo sguardo acceso di entusiasmo ed emozione, eppure vi lesse una preoccupazione di fondo. Poteva capirlo, era così anche per lui, perché erano mesi che non si vedevano solo loro due: si erano incrociati in giro per la Casa, alle cene e nella Sala del Fuoco, certo, ma per settimane Aragorn si era incontrato solo con i gemelli, per discutere del loro viaggio -anche se erano più loro che ne discutevano e il ragazzino che ascoltava- e quando non era stato con loro, aveva studiato le mappe che mostravano i luoghi dove sarebbero passati, le aveva ricopiate con grande pazienza e aveva letto racconti di viaggio che li riguardavano e si era informato sui popoli che vivevano in quelle terre e sulle loro tradizioni. Elrond gli aveva fornito tutto il materiale che aveva chiesto, ma più di questo non aveva fatto perché nella sua mente vi erano altre preoccupazioni, incombenze più gravi. Risultato: i loro soliti incontri erano finiti ormai alcuni mesi prima.
Era tardo pomeriggio dell’ultimo giorno che Aragorn avrebbe passato ad Imladris e finalmente l’Elfo lo sentì arrivare alle spalle. Si trovavano in un padiglione di pietra circolare, con una bellissima vista dall’alto della gola e un ruscello che scorreva sulla sinistra per poi lanciarsi nel vuoto in una piccola cascata. Sulla destra stava un tavolo in pietra chiara e alcuni scranni, ma Elrond era in piedi vicino ad una delle colonne dalla parte opposta del padiglione: oltre di esse c’erano dei gradini e un balcone di pietra senza alcuna protezione.
«Grazie» disse per congedare l’Elfo che aveva accompagnato il ragazzo. Questi si inchinò leggermente e tornò sui suoi passi, lasciando Aragorn da solo sulla soglia. «È tanto che non ci incontriamo» disse ancora il padrone di Imladris, continuando a guardare il panorama, rimanendo di fianco alla colonna deliziosamente scolpita. «Sai perché ti ho fatto chiamare?». Si girò infine, e fece un sorriso dei suoi: gentile, caldo, paterno. Allora vide lo sguardo di Aragorn per la prima volta e ne lesse le emozioni. Il ragazzo scosse il capo e strinse le labbra. Che sguardo pulito che aveva, ed Elrond provava affetto per quegli occhi luminosi: il viaggio lo avrebbe cambiato, era quella l’ultima volta che li avrebbe visti così puri?
«Domani parti e volevo consegnarti una cosa, vieni». Si avvicinò al tavolo in pietra dove si trovava un rotolo tenuto chiuso da un laccio. Una volta slegato e srotolato, si rivelava essere una striscia di pelle scamosciata marrone scuro: da una parte erano state cucite due file di piccole tasche lungo i due lati lunghi ed ognuna riportava una runa nanica, dall’altra parte invece, quella che si vedeva esternamente una volta chiuso, era liscia senza segni di cuciture.
«È per te» disse l’Elfo passando lentamente le dita sulle taschine gonfie. «Ogni runa è l’iniziale dell’erba conservata all’interno. Ho scelto io stesso quali mettere e mi sono preoccupato della loro conservazione e preparazione per il viaggio. Ti ho insegnato molte cose sulle erbe e le loro proprietà, ma certo altre ne imparerai nel tuo viaggio, quindi le quattro tasche finali sulla destra sono vuote e non hanno scritte. Quando deciderai cosa metterci, scalda la punta di un pugnale e premilo leggermente sulla pelle per scrivere la nuova runa»
«Perché questo regalo?» domandò Aragorn dopo aver osservato l’oggetto. Era straordinariamente semplice e rustico per essere il dono di un Signore degli Elfi come quello che aveva davanti.
«Dimmi cosa c’è scritto» ordinò, invece di rispondere. L’Elfo riarrotolò l’oggetto, rivelando che nella parte esterna la pelle era stata bruciata da una punta molto più sottile, tracciando una scritta in elfico, nel loro alfabeto sinuoso.
«Nar malyat colindar envinyamo» lesse il ragazzo
«Estel, in questo viaggio scoprirai te stesso: ti accorgerai dei tuoi limiti, ma anche delle qualità che possiedi. Tuo padre era un Ramingo, non un Uomo qualsiasi, e ci sono cose che solo i Raminghi possono fare, cose in cui né Elfi né Uomini possono sperare di competere. Tu sei come lui, ma finora sei stato in questa casa senza la possibilità di scoprire in cosa sei diverso da noi e qual è il tuo reale potenziale. Lo farai in questo viaggio» spiegò con un sorriso forzato e una lieve tensione negli occhi. «E di questo non posso che essere felice, ma…» aggiunse schiarendosi la voce. «Io voglio sperare che non ti dimenticherai di noi. Di me. Del tempo che abbiamo trascorso insieme».
Vide il giovane trattenere il fiato e tendere i muscoli intorno agli occhi, aggrottando le sopracciglia: stava cercando di trattenere le lacrime. «Come potrei?» esclamò dopo qualche secondo, con lo sguardo lucido, prendendo con uno scatto la mano di Elrond. «Mai!» insistette.
L’elfo sentì il respiro del giovane fermarsi e lo osservò deglutire a fatica. Se avesse detto altro, avrebbe sicuramente singhiozzato, quindi decise di non lasciare che un eventuale silenzio lo forzasse: gli strinse la mano a sua volta e parlò al posto suo. «Là fuori c’è un mondo grande da vedere, Estel. Avrai tante cose a cui pensare, tante scoperte da fare, luoghi da esplorare, persone da conoscere. Avrai la mente occupata in ben altri pensieri, ed ecco perché ti regalo questo, per farti tornare a me con la mente almeno ogni tanto» spiegò con un cenno del capo, tornando con gli occhi all’oggetto in pelle. «Viaggerete anche in luoghi pericolosi quindi dovrete dare poco nell’occhio, per quello ho voluto che fosse un oggetto molto semplice, ma ti sarà utile, e ti ricorderà di noi due».
Si sentì improvvisamente in colpa per aver usato tutto il suo tempo di quei giorni per occuparsi d’altro, senza aver mai trovato il modo di stare con il suo allievo, ma probabilmente non avrebbe potuto fare altrimenti e comunque ormai il tempo che era scivolato via non era più recuperabile.
«Mio signore» sentirono dire alle loro spalle. Il ragazzo lasciò la mano dell’Elfo e si passò il dorso della mano sugli occhi. «Saruman il Bianco è arrivato»
«Certo, fatelo venire, noi abbiamo finito» rispose Elrond, improvvisamente teso. Gli spiaceva dover passare quelle ultime ore ad occuparsi di faccende tanto importanti da mettere in ombra la partenza dell’Erede di Isildur, ma non poteva fare altrimenti. Mise il rotolo di pelle nelle mani di Aragorn con un sospiro. «Sono le tue ultime ore qui eppure non possiamo trascorrerle insieme, ho degli affari urgenti che non possono proprio aspettare»
«Non importa» il ragazzo scosse il capo. «So che sei impegnato. Il Signore di Imladris non è uno qualunque, ed io, ecco, io sono onorato di averti avuto come maestro» disse senza prendere fiato.
Ad Elrond venne naturale cercare di mantenere la compostezza, ma con Aragorn in quegli anni gli era capitato di non prestarci più molta attenzione davanti a lui e anche quella volta, involontariamente, si concesse di schiudere appena le labbra e aprire gli occhi, stupito da quelle parole. Non se le aspettava e la sorpresa le rese ancora più belle e care alle sue orecchie, ma prima che potesse dire qualcosa, il ragazzo dovette sentire di non poter sopportare oltre quel momento: era chiaramente l’istante in cui si stavano salutando definitivamente, la mattina dopo l’avrebbero fatto davanti a tutti e sarebbe stata più una formalità che qualcosa di sentito, mentre quello era il vero ultimo saluto tra il maestro e l’allievo. Non ce ne sarebbero stati altri. «Grazie del regalo. Non dimenticherò nulla, e quando tornerò mi dirai cosa ne pensi delle quattro erbe che avrò scelto» farfugliò questi infine, quando un rumore di passi che si avvicinavano lo distrassero dalla sua commozione. Elrond lo guardò chinare il capo, stringere il rotolo in pelle tra le mani e fuggire dal padiglione.
Così si era concluso il loro saluto. Elrond non aveva voluto pronunciare nessun “addio” o “arrivederci”; lui era stato un maestro e Aragorn il suo alunno e, nel rivedersi, gli avrebbe mostrato il suo lavoro e poi ne avrebbero discusso insieme come avevano fatto tante volte. Qualcosa nel suo cuore lo incoraggiava a pensare che sarebbe stato così.
«Nӑ hon?» chiese una voce sottile. Un frusciare di vesti appena percettibile seguì quelle parole. La luce del tramonto si intensificava, la figura a cui apparteneva la voce non era visibile, ancora in buona parte dietro la colonna vicino la quale Elrond si trovava prima che il ragazzo arrivasse, ma il modo in cui i raggi del sole scivolavano, accarezzando quel profilo in controluce, era unico e inconfondibile. L’Elfo non rispose, ma chinò leggermente il capo: aveva ancora infondo agli occhi l’immagine della schiena del ragazzo mentre scendeva a perdifiato le scale, per fuggire a quella separazione. «Se è questo l’effetto che ha su di te, renderà giustizia al suo nome: Estel»

Aragorn fuggì letteralmente dal padiglione, scendendo le scale quasi saltandole, incurante del pericolo di alcuni passaggi sospesi nel vuoto. Passò di fianco ad un Elfo e un’alta figura bianca che andavano invece nella direzione opposta, ma non li degnò né di uno sguardo, né di un saluto: in realtà si accorse di loro a malapena, come fossero stati un albero lungo il tragitto della sua fuga da emozioni troppo forti.
«Da quando girano bambini per Imladris?» domandò l’ospite in bianco, ma il ragazzo era già troppo lontano per sentire la risposta.
Finì le scale e si inoltrò a passo rapido per i corridoi degli edifici principali con il cuore che gli batteva a mille, ma non capiva se era per l’emozione appena provata, per la corsa o per l’idea che più persone avrebbe salutato, più la partenza sarebbe stata prossima.
Quei pensieri si interruppero quando, nello svoltare un angolo, finì con lo sbattere contro qualcuno che veniva dalla direzione opposta. Il colpo fu tanto forte che caddero entrambi a terra.
«Oooh, che bella botta!» esclamò questi dopo l’impatto, massaggiandosi il sedere. «Dove vai così di fretta? Tutto bene?».
Aragorn aveva battuto il gomito contro il muro e se lo massaggiò stringendo i denti. «Non è niente» rispose sollevando lo sguardo. In un primo momento pensò di trovarsi davanti ad un coetaneo perché erano più o meno grandi uguali, ma quando lo guardò si rese conto che il suo era l’aspetto di un adulto. Eppure non aveva la barba, quindi non poteva essere un nano. Non aveva mai visto nulla del genere, così il ragazzino rimase imbambolato a fissarlo.
«Sicuro? Non hai la faccia di uno molto convinto» rispose lo sconosciuto aggrottando le sopracciglia. «Ti do una mano, dai» aggiunse poi tendendogliela per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Stavo cercando la sala da pranzo, sai mica da che parte sta? Questo posto è un vero labirinto accidenti» spiegò mentre il ragazzino si rialzava con il suo aiuto. «Non che non mi piaccia, anzi, è bellissimo qui, ma se ci vivessi, farei meglio ad avere la camera di fianco alla cucina: non posso immaginare di camminare per mille corridoi prima di mangiare qualcosa, non so se mi capisci» concluse con un sorriso, quindi gli fece l’occhiolino.
«Bilbo!» una voce profonda tuonò dal fondo del corridoio. «Dove ti eri cacciato? Ci stiamo preparando, forza»
«Dwalin, oh, finalmente trovo qualcuno di voi!» esclamò lo sconosciuto girandosi. «Arrivo subito» gli disse. «Scusami ancora, eh! Buona serata» concluse tornando a guardare il ragazzo: agitò la mano in segno di saluto e trottò verso l’altro che invece era chiaramente un nano. Aragorn non trovò parole per rispondere: era stato travolto dal fiume di parole e ancora non riusciva a far pace con lo stupore che aveva provato nel primo momento in cui aveva realizzato la stranezza della creatura davanti a sé. Nel riprendersi, Aragorn realizzò che quello strano incontro, per quanto rapidissimo, gli aveva lasciato addosso una sensazione strana, meravigliosa e piacevole.

Non era ancora l’alba. La gola di Imladris era immersa nell’oscurità della notte e la natura era caduta in quel breve periodo di silenzio che segna la fine dei rumori notturni e il risveglio di quelli diurni. Solo il cielo che si stagliava appena dietro i picchi ad est si colorava lentamente di una tonalità più chiara risaltando la silhouette nera e spigolosa delle vette in controluce.
Avvolta in un mantello di velluto bianco, dai bordi in pelliccia argentata, Gilraen scendeva i gradini di Gran Burrone con al fianco il figlio. Era la primavera dell’anno 2940 della Terza Era e sette anni prima aveva perso il suo sposo e abbandonato la sua famiglia e il suo popolo. Ricordava che all’epoca aveva girato lo sguardo per la modesta sala di legno e pellicce che costituiva la stanza delle udienze del fuggitivo Erede di Isildur e aveva pensato che in vita sua non avrebbe provato un dolore più grande, perché pensava di star perdendo ogni cosa: l’amore, la famiglia, le persone care, la sua casa. Quel giorno invece, guardando i rami degli alberi al fianco dei gradini e dei camminamenti di Imladris; pietra levigata e legno intagliato finemente; mentre la notte ancora non si decideva ad abbandonare il cielo, si rese conto che quella notte di tanti anni prima si era sbagliata. Forse perché all’epoca era ancora una madre giovane e perché il suo amore e i suoi affetti non erano concentrati su una persona sola e ora tutto ciò che aveva di caro era concentrato nella figura di suo figlio Aragorn e il dolore della separazione era più sconvolgente di quello provato anni prima. O forse perché in quell’occasione era stata lei ad abbandonare qualcuno e si era quindi dovuta concentrare subito sul viaggio, mentre stavolta era lei a venire abbandonata. Scendeva i gradini con il ragazzino al suo fianco e provava tristezza persino nel constatare che lui era talmente cresciuto da non volerla più prendere per mano: era tutto preso a scendere le scale con aria seria , tenendo il fagotto sulla spalla con una mano e l’altra sull’elsa della spada che gli pendeva al fianco sinistro.
Il tempo era proprio volato.
Raggiunsero lo spiazzo dove erano attesi, lo slargo dal quale in quegli anni erano partiti tanti Elfi, dal quale tante spedizioni avevano salutato Imladris, e ora toccava al giovane Erede di Isildur. Quel giorno sembrava uno come tanti e a tutti doveva sembrare tale, anche al diretto interessato, ma c’era una manciata di persone nella Terra di Mezzo che sapeva quanto contava quel momento, che cercava di immaginare che tipo di mondo sarebbe stato quello che sarebbe cominciato una volta che il sole si fosse alzato in cielo. Gilraen guardò le tre persone con lei a conoscenza di quella verità: Elrond attendeva lei e suo figlio alla fine dei gradini, in una veste blu e grigia, un cerchio di fili d’argento gli girava intorno al capo, fermando una pietra larga e piatta color cobalto sulla sua fronte; i gemelli vestivano di marrone, con un mantello grigio, ed erano già in sella ai loro cavalli, Elladan teneva tra le mani le redini del giovane puledro destinato a portare Aragorn. Avevano tutti un viso molto serio e solenne e lei li ricambiò con la stessa occhiata, mettendo da parte i pensieri da madre angosciata: quel giorno doveva agire da regina, di modo che il principe cominciasse il viaggio che il destino aveva in serbo per lui.
«Estel, ti stavamo aspettando!». Una voce allegra ruppe il grave silenzio che si era creato e Arwen spuntò dalle spalle di suo padre, vestita di viola e porpora, con un grande sorriso sul viso e solo un vago accenno di tristezza negli occhi.
«Vuoi dire che sono in ritardo?» rispose il ragazzo affrettando il passo, scendendo più velocemente gli ultimi gradini. «Accidenti, ho dormito pochissimo e sono pronto da ieri sera, ma alla fine ho fatto tardi?» chiese ancora
«Ma no, ma no» rise lei andandogli incontro. «Ma forse i miei fratelli sono più agitati di te e quindi sono arrivati ancora prima. È buffo non credi? Sei tu che parti per la prima volta, non loro. Forza, giovane esploratore, fatti vedere!» gli disse mettendogli le dita sulla testa e premendo leggermente mentre ruotava il polso, invitandolo a fare un giro su se stesso.
Aragorn indossava dei pantaloni di pelle nera, una camicia di lino rosso scuro nascosta sotto una casacca nera tenuta chiusa dai lacci, degli stivali anch’essi neri e un mantello grigio, come i gemelli. Teneva la spada sul fianco sinistro e un pugnale sul destro.
«Non ho mai visto un Ramingo-recluta, ma secondo me ti somigliano!» esclamò la giovane
«Non prendermi in giro, ho pensato tanto a cosa mettermi per il viaggio»
«Ti assicuro che sono serissima».
Gilraen osservò i due giovani scambiarsi quelle battute con tanta spontaneità che non poté fare a meno di sorridere. Entrambi erano all’oscuro di molte cose, ma la loro allegria le fece ricordare che tutto quello era fatto per avere la speranza di una felicità maggiore, e il solo fatto di avere quell’occasione avrebbe dovuto essere un motivo di gioia anche per lei. «Allora? Non vorrai far aspettare ancora i tuoi amici spero» disse quindi ad alta voce, finendo di scendere i gradini e mettendosi a fianco di Elrond, infine sorridendo.
«No, no» scosse il capo lui. «Andiamo» annuì.
Gilraen lo vide mordersi il labbro inferiore e girarsi verso il cavallo, prima di ripensarci e correre un’ultima volta tra le sue braccia. Lei si chinò e lo strinse a sé. «Mi mancherai mamma» sussurrò lui nelle sue orecchie
«Anche tu, ma ricordati quello che ti ho detto ieri sera» rispose con un sorriso.
Madre e figlio si erano salutati a dovere prima di andare a dormire, volendo evitare il rischi di una scena strappalacrime davanti agli altri. Quella sera si erano fatti il bagno insieme, si erano lavati la schiena e i capelli a vicenda, chiacchierando e giocando nella vasca come se fossero ancora una mamma con il suo piccolo bambino, invece che una madre con un ragazzo pronto a partire da solo per il mondo. Una volta stanchi di tutto quel giocare, quando l’acqua si era ormai raffreddata, si erano avvolti in morbidi asciugamani e, spostata una poltrona vicino alla finestra, si erano accoccolati insieme a guardare le stelle. «Finché siamo sotto lo stesso cielo non saremo mai troppo lontani» aveva detto Gilraen, stringendolo a sé. «Cercala nel cielo e guardala: Eärendil e la sua luce. Io probabilmente la starò guardando come te, in quello stesso momento» gli aveva suggerito passando le mani tra le ciocche bagnate dei suoi capelli castani.
In quell’ultimo saluto il ragazzo ripeté in un sussurro le sue parole. «Finché siamo sotto lo stesso cielo non saremo mai troppo lontani». Quindi sciolse l’abbraccio e annuì con il capo, quindi andò verso il cavallo.

Non poteva fare a meno di provare una sorta di vaga inquietudine. Certo era raro portare in missione un ragazzino, ma pure pensando a questa variabile, Arwen non trovava una motivazione valida per tutta la preparazione che era stata fatta prima di quella partenza. Non si era mai interessata a quel genere di discorsi, quindi non era certo rimasta a sentire cosa si dicessero i capitani a riguardo, ma non aveva potuto fare a meno di notare i visi seri e il tono di voce più basso del padre e dei fratelli quando parlavano della questione. Tra l’altro era assai raro che Elladan ed Elrohir non dessero un possibile periodo di rientro: fin da quando erano piccoli, sapevano che lei era sempre un po’ preoccupata quando se ne andavano e che sentiva la loro mancanza, quindi quando avevano avuto l’età per partire da soli, avevano preso l’abitudine di dare alla loro sorellina una scadenza per la loro assenza, almeno indicativa. Stavolta non c’era stato nulla del genere e non sembravano nemmeno essersene preoccupati: se n’erano dimenticati? Lei lo credeva poco realistico, era più probabile che una data di rientro non esistesse, nemmeno indicativa, e questo non poteva che significare una cosa: guai. Ma quali, con un bambino alle costole? La stranezza della situazione insomma, anche se non la riguardava, non le era certo sfuggita.
Accarezzò i cavalli dei fratelli sussurrando loro parole di raccomandazione e di saluto, nella speranza che li portassero lungo cammini sicuri, che non li abbandonassero, che avessero il cuore saldo e i muscoli scattanti, pronti a qualsiasi fuga. Infine guardò gli occhi del giovane puledro che avrebbe cavalcato Estel e vi lesse eccitazione e purezza: non aveva idea di cosa lo aspettava fuori da quella casa, ma era certamente impaziente di mettersi a correre fuori da quella gola. Arwen sorrise e passò la mano sul muso dell’animale: tra padrone e cavalcatura ci sarebbe stata una grande sintonia, sembrava. Al giovane puledro non disse nulla, avrebbe avuto altri maestri, e tutto sommato di sentiva meno preoccupata per il giovane Uomo di quanto non lo fosse per i suoi fratelli. Forse non avrebbe dovuto esserlo dato che i secondi erano guerrieri provetti da anni, mentre il primo non aveva ancora affrontato un vero combattimento; eppure non poteva farne a meno: anche se voleva bene ad Estel e si rendeva conto dei pericoli che andava ad affrontare, la sua apprensione era più per Elladan ed Elrohir. Infondo erano la sua famiglia.
Quando sentì i passetti del ragazzo avvicinarsi, si girò per guardarlo e lo vide che si passava una mano sugli occhi cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli avevano reso lucido lo sguardo. «Non dirmi che ti metti a piangere, giovane Ramingo» disse allora la giovane a mezza voce. Forse non si preoccupava per lui perché era tanto giovane da sembrarle onnipotente: nulla e nessuno avrebbe mai fatto male ad un ragazzino tanto dolce e fragile. Aveva fiducia nella fortuna del suo piccolo amico.
«Tu non sei triste perché parto?» chiese Estel per evitare di parlare delle sue quasi-lacrime.
Lei piegò il capo da un lato riflettendo sulla risposta, poi fece un sorriso lieve. «Sì che lo sono, ma non voglio che l’ultimo ricordo che avrai di me sia una ricordo pieno di tristezza» confessò infine. «Se ti ricorderai di me, dopo tanti anni, voglio che l’immagine che avrai di me sia sorridente»
«Cosa significa “se”? Certo che mi ricorderò di te» borbottò Estel prendendo le redini del puledro e fissando il proprio fagotto alle cinghie della sella. «Non è possibile che me ne dimentichi»
«Non si può mai sapere» ribatté Arwen stringendosi nelle spalle. «Vivrai tante avventure e imparerai tante cose. Incontrerai tante persone, tante ragazze» precisò facendo un passo indietro. «E non è nemmeno detto che io sia qui il giorno in cui dovessi tornare»
«Magari sì, chi può dirlo?» insistette Estel salendo in sella e girando lo sguardo sui pochi altri Elfi presenti. Sul suo giovane viso fu subito chiara la delusione.
«Non è qui» sussurrò la fanciulla notando quell’occhiata. «È dovuto partire di fretta nel cuore della notte. Ci state lasciando tutti!»
«E non mi ha salutato?» chiese il ragazzo sorpreso
«La Terra di Mezzo è vasta, ma le nostre missioni sono collegate: è probabile che lo incontreremo un giorno su un sentiero, o che vedremo il suo fuoco brillare in una notte buia» si intromise Elrohir facendo muovere il cavallo per affiancarsi ad Estel. «E questo, Glorfindel lo sa bene. Avrà lasciato che tu dedicassi i tuoi saluti a chi difficilmente incontrerai di nuovo».
Arwen fissò il ragazzo annuire, non del tutto convinto, quindi gli Elfi presenti intonarono un canto di saluto alla partenza e i tre cavalieri fecero il loro saluto definitivo al Signore di Imladris. Questi rivolse loro le sue ultime parole di speranza sul viaggio, quindi le briglie vennero tirate e i cavalli si avviarono verso l’uscita: Elladan in testa, Estel al centro ed Elrohir per ultimo.
Prima che il puledro varcasse l’arco e imboccasse il sentiero per lo spiazzo di pietra dell’ingresso, il giovane si voltò un’ultima volta. Aveva gli occhi brillanti, ma quella luce non era data da delle imminenti lacrime, né da paura o rimpianto: era una luce di pura eccitazione, erano occhi carichi di aspettative, di speranze e di emozione. E quella sua ultima occhiata non fu per chi era stato suo padre pur non essendolo realmente, né per l’unico familiare rimastogli in vita. Arwen si scoprì stupita di constatare che quell’ultimo sguardo rivolto al passato, prima di lanciarsi al galoppo nel futuro, fu per lei.

Per lungo tempo dentro di sé si erano agitati sentimenti contrastanti: quella non era una partenza temporanea come già ne aveva fatte, e non sarebbe tornato dopo quattro giorni, né dopo una stagione o dopo un anno; si parlava di molti anni. L’aveva desiderata a lungo e poi aveva realizzato anche che molte delle persone con cui aveva sempre condiviso la sua vita non ne sarebbero più state parte per lunghissimo tempo, e forse non le avrebbe riviste prima di dieci anni. Questo pensiero lo aveva lacerato a lungo, facendogli evitare di parlare della partenza con Arwen, Glorfindel, sua madre ed Elrond: aveva temuto cos’avrebbero detto e non aveva voluto sentire parole con il sapore amaro della separazione.
Qualcuna l’aveva sentita lo stesso e quella mattina si era svegliato ancora diviso tra il voler passare intensamente quegli ultimi momenti con le persone che amava, salutandole con calore, e il non volerlo fare affatto, fuggendo subito sul cavallo, per il timore che la separazione fosse troppo struggente.
Alla fine non aveva fatto né l’una né l’altra cosa, ma più una via di mezzo. Quello che lo sorprese fu che, una volta girata la schiena a tutto e tutti, il suo cuore era diventato improvvisamente leggero.
Lui e i suoi compagni di viaggio trottarono a passo sostenuto lungo gli stretti sentieri della gola di Imladris. Varcarono il primo arco e attraversarono lo spiazzo di pietra. Sfilò di fianco alle due statue dei guerrieri elfici e improvvisamente, dopo tantissimi anni, gli riaffiorò alla mente un ricordo di quando era molto piccolo: guardava quelle stesse statue dal basso e le ammirava, ma Elrond gli aveva detto che non avrebbe mai potuto essere come loro. Superandole e imboccando il primo stretto sentiero, con il vento freddo dell’alba gli pungeva la pelle e lo costringeva a socchiudere gli occhi, ricordò anche un’altra cosa. “Non potrai mai essere come loro” aveva detto, ma poi aveva aggiunto: “Tu puoi essere molto di più di un semplice guerriero”. Non sapeva come mai quel ricordo gli tornasse alla mente solo in quel momento nonostante fosse passato più volte vicino a quelle statue negli anni passati, ma strinse le mani sulle briglie e respirò profondamente sentendosi un po’ più sicuro di sé, un po’ meno affranto e più coraggioso.
Avrebbe voluto galoppare in testa a quel piccolo trittico e lanciarsi di corsa fuori dalla gola, ma da quel momento in poi si rese conto che non stava più giocando, che non era più nella fase dell’allenamento. Si faceva sul serio e se in futuro avesse voluto rendere orgogliose le persone che aveva salutato quel giorno, se voleva rendere onore a suo padre, anche se il suo era un pensiero su cui non si era mai soffermato molto spesso, si doveva impegnare al massimo: ascoltare, stare alle regole, sopportare, non lamentarsi. Elladan ed Elrohir non erano più dei maestri, ma dei compagni più esperti: un suo errore e avrebbero potuto rimetterci anche loro.
In quella prima alba di cammino, proprio all’inizio del suo viaggio, Aragorn realizzò che combattere, sopravvivere, uccidere, non erano azioni che avrebbe svolto meglio pensando a proteggere se stesso, ma piuttosto pensando di farlo per gli altri: perché non corressero pericoli, perché potessero rivedersi. Si era messo in sella con l’infantile fantasia di arrivare un giorno a comandare un drappello di guerrieri coraggiosi, in qualità di loro valoroso capitano; ma usciva dalla gola di Imladris con il desiderio un giorno di stare al fianco di quei cavalieri e non alla loro testa, sperando di essere semplicemente un compagno degno di fiducia, quello che qualsiasi guerriero vorrebbe avere a guardargli le spalle.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
Siano le tue mani portatrici di guarigione (la scritta sul regalo di Elrond)
È lui?
• Lo spazio in cui si incontrano Elrond e Aragorn è lo stesso che vediamo in Un'Avventura Inaspettata, dove si svolge il Bianco Consiglio


Il ritardo è imperdonabile. Abbiate pietà, la sottoscritta sta facendo una fatica enorme nel costruirsi una vita da zero in paese dove niente risulta facile (devo fare persino attenzione quando compro le uova, altrimenti finisco per comprare il tipo sbagliato… che nervi!). Questo periodo è pieno zeppo di studio, ma in seguito avrò un mese di vacanza ed è mia ferma intenzione darmi da fare con i capitoli, quindi, vi prego, non abbandonate il nostro Estel! Soprattutto non ora che viene il bello!
Un appunto. La quest di Erebor si svolge nel 2940 della Terza Era, quando Aragorn ha 11 anni e Bilbo 50, ma non sappiamo a quanti anni di preciso il ragazzo lascia Imladris per il primo viaggio, quindi mi son presa la libertà di decidere che i due avvenimenti coincidessero. Mi ha dato la possibilità di far fare al nostro adorabile Hobbit un cameo che mi ha divertito molto scrivere, ma poi ho pensato anche al film e ho voluto includere la scena del Bianco Consiglio che PJ ci ha mostrato. O meglio, ho narrato alcuni minuti prima che quella scena avvenga, dando occasioni di cameo anche ad altri personaggi.
Il capitolo è più breve dei precedenti, ma sinceramente non mi andava di dilungarmi troppo sui sentimenti dei personaggi, né di descrivere quelli di tutti quanti: sarebbe stato anche un po’ palloso da leggere. Già così ho il timore di essere stata noiosa, in realtà! Ma ci vuole un capitolo di stacco. Nel prossimo avremo il nostro eroe finalmente alle prese con il vero campo di battaglia, con la vera crescita da ragazzo a uomo. E Arwen? Penserà a lei?

I miei più sentiti ringraziamenti a quelle due sante donne che si prestano alla cura della parte in elfico dei capitoli: melianar e tyelemmaiwe; e a chi ha dedicato un po’ del suo tempo a lasciare una recensione scrivendomi i propri pensieri riguardanti lo scorso capitolo: Kikyou, Venice93, Magali_1982 e leila91; le critiche e le osservazioni aiutano sempre a migliorare e mi sostengono nonostante le difficoltà di tempo. Grazie!

  
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