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Autore: Alex Wolf    17/11/2014    1 recensioni
Sono solo dodici i segni zodiacali riconosciuti, ma ce n'è uno ormai dimenticato, nascosto nell'ombra che non aspetta altro di scatenare l'ira degli altri fratelli: il tredicesimo, Ofiuco.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il concilio degli dei.
 


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Chateau Miranda – Celles, Belgio
 
Passeggiava per i corridoi del grande maniero a piedi nudi, le travi decrepite che scricchiolavano ad ogni suo passo leggero sotto i pesanti tappeti che, anni prima, erano stati d’ornamento per quell’enorme casa. Col tempo i muri erano ammuffiti e avevano preso un colore verdognolo, i quadri si erano rovinati e le loro cornici rotte cadevano per lo più storte sopra la brutta carta da parati azzurra che sostava in quel posto da anni, ormai tutta rovinata dallo stato d’abbandono in cui la casa si trovava.
Guardò fuori da una delle numerose piccole finestre che si affacciavano sul giardino: vide solo la solita, anonima strada che conduceva all’ingresso, grigia di ciottoli e nera di fango, e il tanto conosciuto giardino secco dai colori spenti. L’ormai dimenticata foresta, gli alberi spogli, i rami che si allungavano verso il cielo con la speranza di toccarlo la salutarono con un tacito, lugubre silenzio.
Il rintocco dell’orologio della torre l’avvertì che doveva sbrigarsi, era giunta l’ora. Staccando i magnetici occhi rossi dallo scenario esterno Aries si raggruppò il bianco vestito che aveva deciso di indossare per quell’occasione fra le braccia e lo strinse poi nelle mani pallide. Una ciocca di capelli candidi le ricadde sugli occhi quando corse giù per le scale e saltò un pezzo di pavimento crollato dal piano superiore. Si fermò davanti a una porta di legno nero scrostato, sopra c’era ancora incollata la targhetta che contrassegnava quella stanza come “presidenza”. Che cosa strana, si ritrovò a pensare sfiorandola appena, tutto crolla tranne questa. Poggiò un palmo sul dorso dell’uscio, graffiandosi la pelle morbida che subito andò a rimarginarsi, e aprì.
«Aries» la voce dolce della sorella Virgo la portò ad abbassare lo sguardo verso terra. «Finalmente sei arrivata. Ti stavamo aspettando.»
Aries era alta pochi centimetri in più della sorella, tutta via la poca distanza si faceva sentire in momenti come quelli in cui la giovane albina entrava in una stanza e Virgo la chiamava.
«Woho, che felicità» commentò sarcasticamente un’altra voce nella stanza, il proprietario nascosto agli occhi di Aries. Ma non era un problema: lei avrebbe riconosciuto ovunque quel timbro costantemente annoiato, si conoscevano da milioni di anni dopo tutto.
 La pallida figura della ragazza, colorata solo dal rosso degli occhi –che parevano due macchie di sangue scarlatto depositate su una tenda bianca- sorrise alla giovane dagli occhi azzurri e i capelli color dell’ebano che ancora le stava davanti.
«Mh, scusa il ritardo» annuì alla sorella la Dea dell’Ariete.
L’albina fece qualche altro passo nella stanza ed andò a sedersi su un treppiedi di velluto rosso che, come  tutto l’ammobiliato portato da Virgo all’interno di quella stanza viva per miracolo, stonava con il resto della casa. Con delicatezza si stese sul divano romano, poggiando un gomito sul braccio dai fini ricami e il viso fra le dita pallide; davanti a lei Scorpio l’osservava con i suoi occhi rossi, come il sole al tramonto.
Il giovane si passò una mano fra i lunghi capelli neri, facendo fondere la pelle pallida con le tenebre e socchiuse le palpebre, donando al proprio viso una nota stonata che lo faceva apparire come un dio della morte. «Mi annoio, quanto manca ancora? La campana ha suonato da quasi tre minuti e loro sono in ritardo» borbottò annoiato il ragazzo, gettando la testa oltre il bracciolo del proprio divano romano azzurro. Lunghi fili neri e brillanti ricaddero verso terra, sul morbido tappeto persiano dalle sfumature arancioni e gialle.
«Sta buono e aspetta. Se sono in ritardo avranno una buona scusa» replicò spiccia Virgo, sedendosi compostamente sulla sua poltrona di pelle di un bel tono cioccolato, dalle rifiniture d’oro. La giovane dea congiunse le mani all’altezza del petto, accavallò le gambe e mantenne la solita posizione regale.
Pensandoci bene Aries non l’aveva mai vista sedersi in nessun’altro modo. Virgo era sempre stata così composta - ogni tanto faceva venire i brividi persino all’albina- che solo tentare di immaginarla mentre rideva, oppure si comportava in modo diverso riusciva impossibile
«Ogni anno la stessa storia: noi in anticipo e loro sempre in ritardo» continuò imperterrito il giovane Dio, che di giovanile, poi, aveva solo l’aspetto.
«E come ogni hanno tu ci torturi con le solite chiacchiere» commentò Aries per la prima volta e  la sua immagine di dolce ragazza cadde a terra in frantumi. La sua voce era severa, anche se manteneva un qualcosa di caldo che aveva avuto durante i suoi primi anni di vita, secoli prima.
«Se hai dei problemi nel sentirmi parlare, potevi benissimo arrivare in ritardo come tutti gli altri, Dea cornuta.» D’istinto la ragazza si accarezzò le massicce, pallide e lucenti corna ricurve che le spuntavano fra i capelli.
«Hai qualcosa contro le mie corna, sottospecie di insetto velenoso mal riuscito?» Ringhiò fuori l’albina, rizzando la schiena pronta a scattare.
 Scorpio le puntò contro la lunga coda dal pungiglione ricurvo. «Brutta vipera cor…»
«Adesso basta!» Esclamò Virgo, facendo tremare la stanza. Fuori dalla porta si sentì un tonfo, probabilmente qualcosa all’interno del castello era crollato, di nuovo. «Ogni anno la stessa storia, le stesse scene. Siete Dei, per l’amor del cielo, e per di più fratelli. Se non tentate neppure di andare d’accordo allora tacete e quietatevi l’anima» ordinò la giovane, rilassando poi i muscoli.
I due fratelli osservarono la mora con tanto d’occhi: era raro che Virgo intervenisse alzando la voce in quel modo, ricorrendo a un briciolo del suo potere astrale, specialmente nel mondo degli uomini dove la loro presenza doveva rimanere segreta.
«Tzk» esclamò Scorpio, tornando a guardare il soffitto accarezzandosi la lunga coda da insetto. Un pezzo d’intonaco gli cadde sul viso, portandolo a rotolare su un fianco e cadere a terra contro il tappeto. Aries non trattenne la risata divertita che le uscì dalle labbra, guadagnandosi così un’altra occhiataccia da parte della sorella.
Quando la situazione fu riportata all’ordine, la Dea dell’Ariete si concesse di osservare meglio la stanza in cui avrebbe avuto luogo l’annuale riunione dei tredici Dei delle Stelle: era uno spazio grande e ben tenuto, anche se a girovagare per il resto della casa non si sarebbe detto, rotondo con tredici treppiedi ( tre rossi, tre marroni, tre bianchi, tre azzurri e uno verde) disposti in circolo alle sue estremità, tutti rivolti verso un tavolo di vetro al centro della sala; sul pavimento era steso, poi,  un grande tappeto persiano che copriva il parquet di legno, le pareti erano di un calmo color azzurro, o quello che ne rimaneva, con qualche sfregatura da graffi qua e la, e la luce che si presumeva dovesse illuminare quella stanza sarebbe dovuta provenire da due spoglie finestre scrostate dai vetri neri di sporco.
I colori vivaci dei divani e del tappeto erano in netta contrapposizione  con il reso della stanza, lasciato marcire negli anni.
Aries sbuffò, scacciandosi da davanti agli occhi pulviscoli di polvere, e si accomodò meglio sul treppiede: stese le lunghe gambe sulla soffice seta rossa, il vestito le scivolò verso l’alto sulle cosce pallide e ben allenate; poggiò la testa fra le braccia, raggruppate sul bracciolo del divano.
«Questo posto è un mortooooorio!» Trillò a un tratto una voce squillante, portando la giovane albina ad aprire gli occhi appena chiusi.
Marmocchi, pensò scocciata.
«Lo pensa pure la nostra sorellina. Che ne dici Gemini, non è adorabile quando impreca contro di noi nella sua mente?» Squittì una seconda voce apparsa dal nulla e poi, all’improvviso, accanto ad Aries apparve un giovane ragazzo dalla pelle bianca come la sua e gli occhi neri, un bel viso felino contornato da corti capelli color mogano.
Il Dio si fece avanti sporgendo il busto verso la giovane ancora sdraiata, che lo guardava con le sopracciglia aggrottate, e allungò una mano ad accarezzare le corna d’ariete che le spuntavano dalla testa. La ragazza si sottrasse dal contatto con una scrollata di spalle e un movimento repentino, calciando poi il giovane giù dal proprio territorio.  Il moro venne affiancato da una sua identica copia, dalla pelle color nocciola e gli occhi verdi, luminosi come quelli di un gatto nero messi in risalto dai capelli bianchi.
«Sei sempre così avventato, Gimini. Non mi sorprende che le nostre sorelle siano propizie alla violenza nei tuoi confronti» rise il suo gemello, aiutando il fratello ad alzarsi. «Aries, buon pomeriggio» mormorò poi, con un sorriso furbo stampato sulle labbra sottili.
«Si si, come ti pare: intanto mentre tu te la ridi io mi sto contorcendo dal dolore. Mi hai fatto male al sedere sorella!» Si lamentò il giovane Dio, mentre assieme al compagno andavano a prendere posto su uno dei treppiedi bianchi.
«Ciao anche a te, Virgo» salutarono l’altra sorella i due, dopo essersi messi comodamente nella loro postazione. Gimini era completamente  steso sulle gambe del fratello che, a contrario suo, aveva incrociato le proprie.
«Ciao ragazzi» sorrise la giovane Dea, piegando leggermente il capo verso sinistra e lasciando che qualche ciocca nera le sfuggisse dalla complessa capigliatura orientale che si era fatta.
Virgo era sempre stata attratta dalla cultura medio orientale, tanto che nei secoli aveva seguito e, di tanto in tanto, persino aiutato i popoli che ne facevano parte a vincere guerre che altrimenti sarebbero durate anni. Anche quel giorno non aveva fatto testo al suo ideale: indossava uno splendido yukata di cotone, di un bel color crema abbellito da stampe dei fiori di loto bianchi e rosa; il trucco, splendidamente curato, era formato da linee di eye-liner e ombretti dello stesso colore dell’abito. Le labbra erano di un rosso talmente scuro che sarebbe potuto parere lo stesso tono di quello degli occhi di Aries.
«E io cosa sarei, scusatemi, un fantasma?» Intervenne Scorpio, visibilmente frustrato dal fatto che i due Dei l’avevano ignorato.
I due gemelli alzarono all’unisono le sopracciglia, voltandosi stupiti verso il fratello dagli occhi rossi che li stava fulminando con lo sguardo. Sbatterono le palpebre sorpresi, sorrisero sornioni e poi si allungarono con il busto verso la parte opposta della stanza, dove sostava lo scorpione.
«Ciao fratello» esclamarono all’unisono, i due timbri di voce che creavano una perfetta armonia. «Non ti avevamo visto.»
«Rassegnati sottospecie di insetto mal riuscito, nessuno ti saluterà mai di propria iniziativa» commentò sotto voce Aries, giocando a far passare ciocche bianche di capelli fra le dita lunghe. «Sei invisibile.»
I gemelli risero, suscitando un leggero sorriso divertito sulle labbra rosa pallido della sorella.
«Aries» la riprese canzonatoriamente Virgo, sistemandosi meglio sulla sua poltrona scura.
«Idioti, tutti e tre» sbuffò Scorpio, sdraiandosi nuovamente sul proprio divano e dando a tutto le spalle. «E, tanto per la cronaca cari Gemelli: siete in ritardo» aggiunse acidamente.
«Abbiamo trovato traffico, le anime continuavano a fermarci per delle informazioni» si affrettò a rispondere Gemini, accarezzandosi i bianchi capelli con noia.
«E poi non mi pare che siamo gli unici a non aver rispettato l’orario» aggiunse immediatamente Gimini, scuotendo la testa castana come un cane che si asciuga.
I loro occhi brillarono sapendo di aver colpito nel segno. Quelli verdi di Gemini parvero ad Aries come quelli di un gatto nero, tanto brillanti quanto inquietanti: pozzi di prati di smeraldi accesi dalla luce del sole estivo; al contrario quelli neri di Gimini le ricordavano la cenere, il fumo che si alza oscurando il cielo dopo gli incendi.
Quei due erano tanto diversi che era impossibile scambiarli, ma al contempo con quelle loro strane movenze e il tono di voce sempre allegro, i gesti estrosi e le frasi piene di vita erano tanto uguali da confonderli.
«Arriveranno» sussurrò Virgo, con la sua solita gentilezza fraterna. «Diamogli tempo.»
«Quei caproni non arriveranno prima di due ore, te lo dico io» gracchiò Scorpio, tirandosi a sedere di mala voglia. Si accarezzò i lunghi capelli neri per poi iniziare a intrecciarli con maestria in una complicata treccia.
Dietro di lui, avvolti dal buio e dal silenzio si ersero due imponenti figure apparse alle spalle del giovane Dio scorpione da un portale, che adesso andava a scomparire. La prima ombra alzò un braccio, chiuse a pugno la mano e colpì con forza il ragazzo sulla testa.
«Chi sarebbero i caproni?!» Gridò il nuovo arrivato, rifilando nuovamente un pugno sulla testa di Scorpio.
«Ma sei scemo? Mi hai fatto male!» Replicò velocemente la vittima, voltandosi verso l’assalitore.
Aries rinunciò all’idea di farsi un pisolino, si passò le mani sul viso e rizzò la schiena poggiandosi allo schienale del treppiedi. Mentre i gemelli se la ridevano divertiti, incatenati fra loro in una strana e alquanto bizzarra posizione, a lei scappò dalle labbra appena un riso. Certo, era divertente vedere Scorpio che veniva malmenato amorevolmente, ma cose come quelle accadevano ogni volta alla riunione annuale e sempre nello stesso modo, e lei non aveva più interesse per la solita monotonia. Quello che una volta la faceva sganasciare dalle risate adesso le faceva uscire appena un sibilo dalle labbra. Le sarebbe piaciuto che qualcosa cambiasse, che arrivasse un colpo di scena come succedeva spesso nei film che piacevano tanto agli umani. Avrebbe voluto che la sua vita subisse una rivoluzione, uscisse dagli schemi e prendesse una piega diversa. Ma questo non accadeva mai e lei si era rassegnata. E’ perché sono un essere immortale, si diceva sempre. Non potrò mai provare sentimenti reali, ne conoscere la sensazione di abbracciare un corpo che ha un cuore che batte. E’ perché sono una Dea, e agli esseri divini è proibito disobbedire alle leggi e vivere come vorrebbero.
«L’intento era quello, scemo» cinguettò Capricorno, grattandosi le corna appuntite e nere come la notte che puntavano dritte al soffitto. Fece qualche passo in avanti aggirando il fratello seduto a terra che lo fissava maledicendolo, e la sua figura venne catturata da un debole e fioco raggio di luce grigia: la pelle color noce, come quella di Gemini , e gli occhi cenerini, che come unico colore sgargiante avevano il verde pistacchio dell’iride brillarono sinistramente in contrasto con gli incolti capelli bianchi dalle sfumature argentee.
«Idiota» borbottò la voce roca della seconda figura apparsa dal portale.
Aries socchiuse le palpebre dalla bianche ciglia, riducendo gli occhi a due fessure per riuscire a scorgere i tratti del secondo Dio nascosto nel buio: da dove si trovava riusciva a vere solo due spalle ampie e dei bicipiti ben scolpiti nascosti da una tunica.
 «Vieni fuori, Leo» borbottò allora la Dea cornuta, poggiando i piedi nudi a terra. «Mettiti seduto e state tutti zitti» ordinò poi.
«Uh, la sorellona si sta irritando» esultò uno dei gemelli e l’altro rise divertito.
Si, era vero. Aries era ormai stufa di aspettare tutti gli altri, il tempo per lei era una cosa preziosa, così come avrebbe dovuto esserlo per tutti i suoi fratelli e sorelle. Secondo le Regole Astrali che gli Antichi Dei gli avevano imposto, i Guardiani delle stelle non potevano assentarsi dal proprio trono a lungo; avevano delle stelle, delle anime a cui fare conto e di cui occuparsi; dovevano mantenere l’equilibrio ultraterreno, e più si assentavano dai loro domini più questo subiva mutamenti inimmaginabili.
«Ahi, ahi. Non vorrei essere nei panni degli ultimi che arriveranno» commentò pacatamente Capricorno, che era andato ad accomodarsi su una delle poltrone marroni. I suoi occhi neri brillarono incontrando quelli rossi della sorella, che gli aveva riservato uno sguardo a dir poco tagliente.
«Come minimo quegli incompetenti se ne saranno dimenticati del nostro incontro» azzardò Leo, raggiungendo il treppiedi rosso accanto a quello di Aries.
«Può anche darsi che si siano fermati in una delle loro dimensioni a discutere su qualcosa d’urgente» bofonchiò Scorpio, tornato seduto sulla sua poltrona azzurra.
 I corti capelli rosso scuro del possente Dio del Leone brillarono nella luce grigia mattutina, le dita smisero di accarezzare il pizzetto che gli ornava il mento e i penetranti occhi ambrati cominciarono a seguire i movimenti della Dea bianca che, come suo solito, aveva ignorato il fratello e si stava dirigendo al centro della stanza.
«Sta per farlo!» Rise entusiasta Gemini, protraendosi verso il fratello e circondandogli il collo con un braccio.
«Non vedo l’ora di vederlo!» Esclamò Gimini, copiando i movimenti del gemello.
«Le loro facce saranno la parte migliore!» esultarono all’unisono.
«Tzk.» Fu la semplice risposta della giovane albina. Detestava quando i gemelli iniziavano a commentare ogni cosa, diventavano terribilmente pesanti. L’unica cosa da fare, allora, era ignorarli.
Aries si posizionò sul piccolo tavolinetto al centro di quello che una volta era stato un ufficio e spalancò le braccia come se fossero ali. Attorno a lei si era fatto tutto silenzio e l’aria aveva iniziato a vibrare come smossa da una forte corrente elettrica. Tutti gli occhi dei suoi familiari le erano addosso: alcuni ansiosi di vederla all’opera, altri rassegnati al fatto che nulla le avrebbe fatto cambiare idea, impedendole così di fermare quel rituale. Quando Aries si metteva in testa qualcosa, nessuno poteva fermarla.
La Dea gettò la testa all’indietro e un’onda di luce le cinse il corpo brillando con talmente tanta intensità da nasconderla agli occhi di tutti, trascinando con una ventata i suoi capelli verso l’alto e facendoli sibilare come miriadi di serpenti; i suoi occhi brillarono simili a rubini bagnati nel sangue, illuminando per qualche secondo di sfumature rosse il bel volto pallido come la neve. Una profonda crepa si fece spazio sul lato sinistro del suo viso tagliandolo con un profondo e intenso CRACK! mentre una delle due pupille si colorava di un nero tenebra che andava inghiottendo l’intero occhio, e l’altra di un rosso così scuro da riportare la memoria ad un campo di battaglia. Della bellezza giovanile che era solita risiedere sul corpo della Dea adesso non restava traccia, perché si stava mostrando com’era realmente: una creatura che di umano aveva poco, con quel suo corpo  metà ariete nascosto sotto il vestito e le lunghe corna pallide affilate come rasoi che le spuntavano dal cranio.
«Chiamo a me gli spiriti di tutte le costellazioni», proferì con un tono secco e deciso, «che varchino il portale adesso! Che seguano la volontà del primo dei Segni dello Zodiaco! Che le costellazioni eseguano i miei ordini, io lo comando!» Con le mani fendette la luce, alzando le braccia al cielo per poi rigettarle verso terra.
Un turbine di vento si propagò per l’intera stanza, mettendo a soqquadro le poche cose al suo interno, le imposte delle finestre tremarono con forza fino a spaccarsi e volare lontano verso il bosco. Gli Dei stessi furono costretti a ricorrere al proprio potere per restare ben ancorati al suolo, tanto la forza del primo dei Segni dello Zodiaco era potente.
«Arrivano!» Si sentì gridare in mezzo a tutto quel baccano, e Aries che aveva serrato gli occhi li spalancò all’improvviso scorgendo in lontananza le figure di tutti i suoi fratelli che crollavano verso il basso.
Gli Dei colpirono il pavimento con forza, cadendo uno sopra l’altro come miseri pesci rivoltati dalla rete al ponte della nave. Non appena l’ultima divinità ebbe attraversato il portale, la Dea bianca richiamò a se la forza dell’Ariete e la luce svanì, così come il suo vero aspetto di creatura eterna.
«Fantasticooo! Possiamo rifarlo?» Esclamò Gimini, battendo le mani mentre rideva di gusto. A volte lui e il gemello sembravano realmente dei bambini troppo cresciuti, con quella loro esuberanza troppo esagerata.
 «C’era davvero bisogno di ricorrere all’apertura forzata di un portale e al richiamo delle stelle, sorella?!» imprecò furioso Saggitarius, distinguendosi da quella massa contorta di braccia e gambe in cui era capitato. Con forza il Dio si fece largo fra gli altri, emergendo dalla montagna di corpi ancora rintontiti dalla caduta improvvista.
«Se tu non avessi avuto tutto questo ritardo, probabilmente no» proferì Aries, tornandosene al proprio posto con tranquillità.
Il Dio del Sagittario roteò gli occhi al cielo e si erse imponente oltre i fratelli, con quel suo abbigliamento azteco che gli lasciava nudo il torace, mostrando i diversi e intricati tatuaggi neri che percorrevano i suoi muscoli ben scolpiti, e copriva dai fianchi in giù la sua figura con una semplice gonna bianca rifinita d’oro; sulla testa, che nascondeva gli scuri capelli rossi, risiedeva un copricapo piumato di svariati colori che si abbinava all’abbronzatura del ragazzo dagli occhi di rubino.
«Saggitarius, fa il bravo e aiuta a scendere una signora.» Lo richiamò all’improvviso una voce.
Aries, distogliendo gli occhi da lui li puntò sull’unica dei fratelli che era atterrata in un modo teatrale: Aquarius. La giovane Dea dai capelli azzurri se ne stava comodamente seduta all’amazzone su tutti i fratelli, fregandosene del peso che dava loro, con le gambe incrociate e gli occhi castani posati sul viso sconcertato dell’unico Dio in piedi.
 La solita esibizionista si ritrovò a pensare l’albina, scuotendo il capo con vigore.
«E dove sarebbe la signora, io non la vedo» rispose Saggitarius, causando la risata di tutti gli Dei della stanza.
«Idiota!» Gracchiò allora la sorella, saltando con maestria a terra in un tripudio di dolci e morbide danze di seta azzurra che si mescolavano a perfezione con i capelli. «Idiota!» Ripeté ancora, colpendogli la testa con il proprio bastone astrale prima di andarsi a sedere.
 
 
«Bene, ora che ci siamo tutti credo sia tempo di iniziare» prese la parola Virgo, com’era solita fare da sempre durante le loro riunioni.
La sua voce si espanse per l’intera stanza attirando gli sguardi di tutti gli Dei li presenti, incantati dalla melodia delle note che la Dea della Vergine aveva creato con quel timbro candido che Aries aveva imparato ad apprezzare negli anni.
Tutti gli occhi degli Dei delle tredici costellazioni seguivano con attenzione la sorella, bramosi di conoscere e apprendere ogni cosa; solo una cosa stonava: Ofiuco, il Dio della costellazione del Serpente ormai dimenticata dagli uomini, aveva deciso di non farsi vivo. La cosa non stupiva nessuno però, per di più che l’argomento principale della riunione di quel giorno era proprio lui. Perché un assassino dovrebbe venire di spontanea volontà al proprio processo?
«Sappiamo tutti il motivo della nostra discesa sulla Terra, dico bene?» Tutti gli Dei annuirono alle parole della Dea mora, che se ne stava con la schiena retta sulla sua poltrona marrone.
«Ofiuco, come sempre» commentò Libra, con una voce talmente incolore da far sembrare la casa in cui si trovavano un parco divertimenti.
La Dea bianca annuì impercettibile alle parole del fratello, voltandosi a guardarlo. Gli intensi occhi grigi di Libra erano fissi sulla lattina di birra che teneva a penzoloni nella mano sinistra, mentre con l’altra andava ad accarezzarsi i lunghi capelli candidi che gli scendevano sulle spalle.
«Quello stupido dimenticato dal mondo crea solo guai. Perché ci diamo ancora tanta pena per un essere simile?» L’unico tocco di colore sul suo corpo, una piccola pietra rossa rinchiusa in una prigione di sottili linee di ferro tenuta a penzoloni su una sottile corda nera che fungeva da collana, brillò come a intensificare la rabbia che il Dio si teneva dentro. Le lentiggini che aveva sul naso scomparirono dietro la facciata verde della lattina di birra, quando questo ne bevve un sorso.
Bello. Anzi no, splendido. Si, splendido era l’aggettivo che Aries avrebbe affibbiato a quel fratello che, più di tutti, l’aveva sempre incuriosita con quei suoi modi di fare calmi e il tono di voce serio.
«E che ti aspetti che facciamo? Darci pena è l’unica cosa che sa fare, quel buono a nulla; di certo non accadrà mai che un giorni si svegli e decida di andare in giro a regalare fiori a tutti quelli che incontra. Non credi anche tu fratello?» Il Dio che aveva parlato su accede un sigaro, per poi scrocchiare le nocche con forza.  «Le possibilità che abbiamo sono solo due: o lo leviamo di torno noi, e sapete in che modo, oppure gli diamo una bella scrollata –per l’ennesima volta- e lo rimettiamo sulla retta via. Questa volta ha davvero esagerato.» Taurus gettò la cenere del suo sigaro sul tappeto a terra, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Virgo.
«Tu parli con convinzione, fratello, ma non ragioni troppo» intervenne Pesci, comodamente sdraiato a pancia in su sul suo treppiedi. I lunghi capelli blu rasentavano i suoi bicipiti, qualche ciocca penzolava anche verso terra, mentre gli occhi grigi come il cielo quel giorno esaminavano quelli castani scuro del Toro. «Come pensi che qualcuno di noi si azzarderebbe a far svanire la costellazione del Serpente solo perché uno dei nostri fratelli è…»
«Il suo crimine è grave, c’è poco da discuterci sopra» lo zittì Taurus, guardandosi le unghie e successivamente spazzandosi via dal vestito nero gessato qualche granello di polvere. «Potevo passare sopra le urla di disperazione in pieno giorno, quando arrivava nella mia costellazione e irrompeva fra le mie anime sconvolgendo l’equilibrio che avevo creato. Potevo passare sul fatto che abbia cercato più volte di rubare delle anime di mia proprietà, e l’ha fatto con tutti voi, non mentite, ma non posso passare sul suo ultimo crimine. Mi rifiuto di farlo.»
«E allora è questo che proporresti, rasta-man in giacca e cravatta?» S’intromise pacatamente Cancer, carezzandosi il corto ciuffo biondo che gli cadeva sulla fronte; gli occhi rosso sangue che esaminavano quelli del fratello. Il pesante mantello di pelliccia con cui era arrivato adesso gli sostava accanto, donando alla figura del Dio un aspetto meno curato di quello usuale: aveva infatti indosso una semplice veste vichinga che senza l’ornamento principale –il mantello appunto- sembrava consumata, con una spada nascosta dentro una faretra  riposta sulla schiena.
Lui e la sua mania per i popoli nordici, si disse Aries andando poi a guardarsi le gambe semi nascoste dal morbido vestito bianco alla greca.
«Distruggere la sua costellazione è l’unica cosa da fare, io la penso così Mr. Non-mi-faccio-mai-la-doccia-e-la-barba.»
«C’è odore di rissa! Quest’anno il Concilio è una vera figata» esultarono all’unisono i Gemelli, con gli occhi brillanti come stelle nel cielo notturno. «A quando le botte?»
«Smettetela, per favore» intervenne immediatamente Libra. «Le vostre discussioni sono snervanti.»
«Concordo» aggiunse Leo, seguito a ruota da Cancer che annuì vigorosamente.
«E voi due, gemelli, smettetela di aizzare alla violenza. La riunione dell’anno scorso non vi ha aiutato a schiarirvi le idee?» Chiese ai due quest’ultimo.
«Ad ogni modo, dov’è adesso Ofiuco?» Domandò Aquarius accarezzandosi con noia i capelli turchini, ignorando completamente i discorsi degli altri Dei. La voce suadente non mancò di attirare gli sguardi dei fratelle a se che, nonostante la prendessero in giro costantemente, ogni volta ne rimanevano incantati.
Aries incrociò le braccia al petto e alzò le spalle, muovendo leggermente la mascella. «Probabilmente con quella donna umana di cui si è innamorato. Povero idiota, innamorarsi di una simile, inutile e immonda creatura.» Accavallò le gambe con fare annoiato, mentre l’ultimo rimasuglio dell’eco freddo e rigido della sua voce svaniva nell’aria fredda della stanza. Tutti la guardavano. Nessuno parlava.
Che avesse detto qualcosa di sbagliato? Certo, lei era solita dire cose sbagliate e questa volta non aveva fatto eccezione. Sapeva benissimo cosa i suoi fratelli pensavano degli umani, creature a cui portare rispetto perché donavano le loro anime alla vita delle stelle, eppure lei non riusciva ad esse d’accordo con questo pensiero. L’Ariete non era mai riuscita, e non si sforzava nemmeno di capire il desiderio che spingeva i fratelli ad amare quegli esseri mortali, ma soprattutto cosa portasse Ofiuco a sperare, a ricambiare l’amore di quella donna umana. Lui era una creatura eterna, il tempo non poteva distruggere il suo corpo ne tanto meno la sua mente, mentre quell’essere umano era… era destinata a soccombere sotto l’inarrestabile, lento corso della vita. Perché, allora, amarla nonostante un giorno sarebbe morta? Perché andare contro una delle regole più importanti del Concilio dello Zodiaco e giocarsi il tutto per tutto con una donna che poi sarebbe svanita nell’aria, dissolvendosi come polvere sottoterra? Perché amare qualcuno che poi non saresti stato più in grado di vedere, che ti avrebbe lasciato un vuoto in quel petto vuoto dove non batte cuore? Perché tradire i propri fratelli, le proprio leggi così?
Perché?
«Possiamo scoprirlo» propose Virgo.
Aries sbadigliò portandosi una mano dinnanzi alla bocca, mentre tutte quelle domande continuavano a rimbombarle nel cervello, e rimase a osservare la sorella che, con un movimento circolare della mano, stava aprendo un portale specchio sul tavolino al centro delle poltrone. Tutti gli Dei si sporsero per guardarvi all’interno: dentro il varco creato dalle Dea della Vergine si potevano distinguere varie cose ( un cielo grigio, un parco agghindato di alberi dalle fronde autunnali colorate di svariati colori caldi che andavano a perdere le foglie nella corrente, danzanti nel vento come sinuose ballerine) e una coppia di giovani seduti su una panchina isolata, nascosta agli occhi indiscreti dei rari passanti ma non a quelli degli Dei.
Aries socchiuse le palpebre e passò una mano sulla superficie fredda e liscia del tavolo, sussurrando una frase nell’antica lingua. La visione del parco si fece più chiara a tutti, mentre si alzava dal tavolino di vetro e si fermava a mezz’aria.
Ripresero a guardare.
La ragazza, una giovane donna umana dal viso gentile e i capelli di un intenso biondo brillante stava sorridendo ad un uomo che pareva poco più grande di lei, anch’esso dai capelli d’oro e gli occhi di un’ambra così intensa da fare quasi male. I due sembravano bearsi della quiete che regnava in quel luogo così semplice, o almeno lei che si stava carezzando il ventre pieno che conteneva il frutto del loro peccato con fare dolce.
E pensare che l’essere che ama e chiama già “figlio” è destinato a morire per mano di uno di noi. Aries poggiò il mento sul palmo aperto della mano, ticchettandosi la guancia destra con le dita sottili.
Al contrario della compagna che continuava a respirare tranquilla con gli occhi chiusi, l’uomo aveva iniziato a guardarsi intorno perplesso, come se qualcosa l’avesse smosso dentro. I suoi movimenti veloci, ansiosi non venivano notati dalla compagna. A un certo punto poi l’uomo parve capire e si decise ad alzare il capo verso l’alto, puntando gli occhi gialli –così simili a quelli di un serpente pronto a uccidere- al cielo grigio: Ofiuco li aveva sentiti, percepiti nell’aria.
«Lo so che siete li, vi sento.» La sua voce glaciale rimbombò nella stanza del Concilio degli Dei.
 
  
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