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Autore: Chains_    18/11/2014    1 recensioni
«Oltre ad alcuni miei amici, non ho mai trovato qualcuno che valesse la pena ritrarre» le risposi garbatamente. Mi accesi una seconda sigaretta, prendendomi una pausa. In realtà non ero stanco, affatto, ma lei... sembrava gridare “ho bisogno di te e della tua attenzione”. «Qualcuno di... colorato?» azzardò un po' dubbiosa. Scossi la testa, rimasto ancora a bocca asciutta. Assurdo come quella ragazza, sebbene la conoscessi da solo qualche ora, sembrava essere sempre stata al mio fianco. Mi capiva.
«Esattamente, o almeno così credevo.»
«Che intendi?»
Scrollai le spalle. «Che forse ho trovato un'altra persona colorata» dichiarai, alzando le mani vicino la testa, in segno di innocenza. Non volevo farle capire che quella persona era proprio lei.

[...]
Con mano tremante iniziai a calcare sulla tela da lavoro con una matita leggera, giusto per delineare una linea guida del suo profilo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A te che non ti piaci mai e sei una meraviglia
A te che mi sopporti supporti in ogni caso,
 A te che odi aspettare.
 
 
Quello sarebbe stato un giorno come un altro. Ne ero convinto mentre uscivo dalla porta del palazzo in cui abitavo, con il solito cavalletto stretto sotto il braccio, la solita tavolozza per le tempere in una mano e l'ancor più solito astuccetto nell’altra. Londra dormiva ancora, all'alba, ma io non potevo di certo far lo stesso se volevo guadagnarmi da mangiare. Avevo appena compiuto diciott'anni quando fui sbattuto fuori di casa da mio padre. «Abbandoni il liceo? Vuoi diventare uno di quegli artisti maledetti che vanno tanto di moda? Fa pure» mi aveva urlato contro, appena mi fui deciso a rivelargli che no, non avevo più voglia di proseguire gli studi visto che di certo non volevo realizzarmi come medico, filosofo o chissà chi. «Ma non in questa casa.» Poche parole e le sicurezze che avevo maturato nel corso di anni, crollarono in un secondo. Ricordo le lacrime di mia madre quando le dissi che stavo preparando i bagagli, che me ne sarei andato. Ricordo quelle delle mie tre sorelle, della piccola Safaa, che si accucciò alle mie gambe, per impedirmi il minimo movimento. «Non è un addio, Saa» le dissi fingendo un sorriso, poi misi lo zaino in spalla e varcai subito la soglia di casa senza fermarmi a salutare. Allora incominciai a piangere, non ho mai capito bene per cosa. Forse per la rabbia, forse perché già le ‘mie donne’ mi mancavano, o magari perché ci avevo sperato, in un consenso di mio padre. Plausibile anche che avessi paura, lo ammetto.  Giovane sì, ma ero altrettanto consapevole che sarei dovuto andare incontro a preoccupazioni che fino a quel momento mai avevo considerato e che avrei dovuto ricominciare o, meglio, cominciare a vivere. Se una cosa rimaneva certa, in quel turbine di eventi di cui ero caduto vittima, è che quella non era mai stata la mia vita. Vivere nella minuscola mansarda di un pallazzaccio in decadenza che trovai sfittata, nella solitudine e pace più totale, lo era. Non provavo solitudine, né passavo momenti di depressione. Uscire a dipingere, stare tutto il giorno immerso a cogliere dettagli di vie cittadine che nessuno pareva cogliere, si era rivelata una sana terapia contro la mancanza di casa. Stavo bene con i pochi amici che avevo, con i quali di certo non mi mettevo nei guai seguendo le cazzate degli young angry men, finti anticonformisti capaci solo - almeno nel mio ambiente - a nascondere fragilità e insicurezze dietro violenza e cinismo. Se avevo una cosa pulita, io, non era il mio alloggio, né i miei vestiti macchiati di pittura, bensì la fedina penale. Quella, posso dire, sbrilluccicava dalla mia buona condotta.

«Lou, buongiorno» mormorai ancora addormentato, quando vidi uno dei ‘miei uomini’ ad aspettarmi seduto su una panchina malridotta adiacente al condominio. «Ho trovato questo, forse potrebbe piacerti!» esclamò tutto su di giri e, se io ero ancora assonnato, lui sembrava non essere stato mai così sveglio. Con gli occhi illuminati da una sconosciuta felicità, mi passò un volantino stropicciato. «Ehm... L'ho messo in tasca e poi sono corso da te... L’ho trovato su un sedile della metro» si giustificò, portandosi una mano dietro la nuca sentendosi probabilmente in difetto. Incrociai prima il suo sguardo, poi abbassai gli occhi sul foglio che tenevo stretto le mani. «Si avvisa i gentili cittadini dell’organizzazione di mostra e asta d’opere di pittori emergenti, in King’s Road, il venti luglio, alle prime ore del pomeriggio. L’ingresso ai visitatori è gratuito. Chiunque sia interessato a partecipare all’esposizione, è pregato di chiamare il numero in sovrimpressione» lessi tutto d’un fiato e mi parve di sognare. Non sicuro di aver capito davvero, tornai a guardare Lou. Era felice per me, glielo si leggeva in quel suo sorriso luminoso. Di slancio, lo abbracciai. Ricordo la sua risata, il suo «Dai, amico mio! Questa è la tua svolta, cazzo!» come se tutto questo fosse successo appena ieri. E, soprattutto, non posso scordare quanto sperai che avesse ragione, con tutto me stesso, non aspettandomi nulla di quello che sarebbe successo poi. Ancora attonito, infilai il volantino in una tasca a caso. Louis mi puntò d’improvviso un dito contro. «Stasera siamo tutti a casa di Niall» disse con tono severo. Sapeva che la puntualità e il ricordarmi le cose non erano di certo da considerarsi due mie grandi qualità. Risi tra i denti, supponendo che, alla fine, si sarebbe preso la briga di venirmi a prendere sotto casa. «Voleva esserci anche Harry a salutarti stamattina, ma diciamo che...» aggiunse, arrossendo, fermandosi poi quando scoppiai in una fragorosa risata. «Diciamo che ieri sera ha finalmente lasciato prendere a te le redini e si è ritrovato con il sedere spaccato in due!» esclamai poi, portandomi una mano sullo stomaco per cercare di fermarmi: come mi faceva ridere Louis nessuno riusciva.


#


Quando la vidi per la prima volta la prima cosa che pensai - e qui sembrerò anche rude - fu «Cazzo». Sì, non mi ero mai sentito un tipo romantico né puntavo a diventarlo, sebbene molti usassero definirmi tale. Mi reputavo, infatti, abbastanza convinto che esser romantici corrispondesse ad usare parole smielate nel parlare, una certa delicatezza nel comportarsi, immischiarsi in tante grandi follie d'amore. Mi sbagliavo e solo ora posso affermarlo, ma lì per lì potei ragionarvi poco su, mentre lei era ad un passo da me, bella tanto da accecarmi. Passo scattante, leggiadro, mi sentii morire alla vista dei suoi lineamenti delicati, i suoi occhi grandi, il nasino alla francese, l’arco di cupido marcato quanto bastava a far cadere facilmente lo sguardo sulle labbra carnose dipinte di rosso. E quei capelli scuri che, ricadendo in boccoli appena accentuati, le cingevano le spalle, e il fisico tanto bello da ricordarmi quello di una ninfa del Classicismo dipinta ad affresco. Seduto sul marciapiede sporco, smisi di abbozzare il monumento avanti a me, rivolgendo unicamente a lei la mia più completa attenzione e vendendola così intenta a leggere un avviso alle mie spalle. O meglio, questo pensavo, considerando che «Li dipingi tu?» mi chiese, poco dopo, in un sibilo di voce. Subito mi innamorai anche di quella, al primo ascolto, decisamente, e così, a prima vista, mi innamorai anche di lei. «Hai mai provato ad usare i colori?» aggiunse ancora, non avendo ricevuto una mia risposta. Scossi la testa. «Varrebbe davvero la pena usare colori per questo mondo in bianco e nero?» le domandai di rimando, ridacchiando. Fu allora che incrociai il suo sguardo indagatore e il mio mondo, da quell'istante, prese a ruotare intorno a lei. La osservai cambiare espressione. Sembrava incredula. «Mi hai spiazzata» confessò stringendosi a riccio nel maglioncino lilla che indossava sopra un succinto vestitino a vita alta dalla gonna sfasata, la cui stoffa riprendeva i colori di una primavera che quell'anno si era rivelata piuttosto rigida. «Non ti pensavo così... profondo, ecco.»
La guardai infastidito. Mi chiesi se davvero mi avesse pensato così ignorante. «Non perché non ho finito il liceo sono da considerare un idiota» le risposi e l'attimo dopo di questo mi pentii. La sentii singhiozzare. «Ma io non intendevo questo...» mormorò, passandosi la manica del cardigan appena sotto agli occhi per evitare che il mascara le colasse. «Solo che la maggior parte dei ragazzi di adesso, del dopoguerra, non fanno altro che pensare alle belle macchine, alle donne, ai balli e alle bevute. Nessuno di quelli che conosco avrebbe risposto come hai fatto tu» aggiunse, poi fece un passo indietro. Mi chiesi se avesse paura di me. «Scusa. Da un bel po' ormai non penso più al peso che potrebbero avere le mie parole e sto sempre in allerta, per evitare delusioni.» Mi alzai, camminando verso di lei, così da guardarla negli occhi. Solo allora mi accorsi di quanto fosse minuta in confronto a me. Constatai ci passassimo quasi venti centimetri d'altezza, Possibile che una ragazza così bella, di alto rango - a giudicare dalla marca dei vestiti che indossava -, non fosse strafottente o acida con un straccione come me? Non sapendo che fare, abbassai lo sguardo. Ero più alto di lei, eppure la sensazione di starle sotto le converse che portava ai piedi si faceva sempre più grande dentro di me. «Però, anche se dipingi solo in bianco e nero, i tuoi quadri sembrano così realistici, sei bravo. A mio padre piaceresti» commentò lei tutt'un tratto, ritrovata quella sicurezza che poi seppi, la contraddistingueva. La guardai perplesso. «Mio padre è un fanatico d'arte. Pittore, da quando si è ammalato di Parkinson non riesce più a dipingere. Organizza mostre, adesso, con aste annesse, è l’unico in città.»
«Magari avessi avuto un padre così» mormorai e subito collegai alla ragazza che avevo davanti il volantino stropicciato che tenevo in tasca. «A quest'ora avrei avuto ancora una famiglia, una casa.» Mi sorpresi di me stesso. In fin dei conti ero io quello che se ne stava sempre sulle sue, riservato. Con lei scoprii com'era facile parlare. «Una casa?» Sembrava preoccupata. «Una soffitta un po' incerta» confessai imbarazzato. «Non fraintendere, mi piace. E poi dà una visuale mozzafiato su tutta la città.» Come se avessi detto chissà cosa, lei mi guardò stupita. «Ti va se resto un po' a guardarti dipingere?» propose con dolcezza. «Certo, figurati. Prendi lo sgabello» le risposi, sedendomi allora sul marciapiede. «No, non ci siamo capiti. Mi siedo io sul marciapiede. Sono stanca di esser vista come la perfettina di papà» borbottò, sedendosi di peso sul marciapiede, accanto a me. «Io non sono solo questo» aggiunse e incrociò le braccia al petto, sbuffando. Percepii la sua voce vacillare, poi la vidi evitare il mio sguardo. Stava piangendo? «E chi direbbe queste cavolate?» chiesi infastidito e, come ero solito, mi accesi una sigaretta. Non capivo perché, ma la sola idea che qualcuno la offendesse mi urtava. Si voltò appena il fumo fuoriuscì dalle mie labbra, mi guardò un istante e vidi i suoi occhi stracolmi di lacrime. «I tre quarti della mia classe, probabilmente. Dovrebbero semplicemente capire che non è colpa mia se sono figlia di un pezzo grosso. Le ragazze mi parlano alle spalle, i ragazzi vogliono solo il mio corpo, nient'altro» spiegò. Serrai le labbra sulla cicca, cercai di controllarmi, ma non ci riuscii. «Che stronzi!» esclamai di getto e per un momento pensai di aver rovinato tutta l'atmosfera tra noi. Ma lei no, non si scandalizzò e mi sorprese ancora. «Stronzi è un complimento!» commentò divertita e allora chi rimase interdetto, invece, fui io. «Ma che cattiva ragazza, dici pure le parolacce!» sghignazzai, strozzandomi con un po' di fumo. Lei si unì alla mia risata. «Ecco, ben ti sta!» esclamò, poi mi diede una lieve spinta, allontanandomi da sé. «Non mi distrarre, o ti caccio via» la minacciai in risposta senza rendermi conto che avrei potuto offenderla.
Subito infatti lei parve risentita, quasi dispiaciuta. «Okay... Okay» mormorò. Bastò un mio stupido sorriso perché i suoi occhi ripresero a luccicare d'un emozione che non riuscivo ancora a spiegare.


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«Hai mai pensato di dipingere le persone?» mi chiese dopo un po'. Vederla interessata a ciò che facevo mi entusiasmava. Era gentile e le dovevo già così tanto dopo che aveva attirato qualche passante e venduto un bel po' di vecchi disegni.  «Oltre ad alcuni miei amici, non ho mai trovato qualcuno che valesse la pena ritrarre» le risposi garbatamente. Mi accesi una seconda sigaretta, prendendomi una pausa. In realtà non ero stanco, affatto, ma lei... sembrava gridare “ho bisogno di te e della tua attenzione”. «Qualcuno di... colorato?» azzardò un po' dubbiosa. Scossi la testa, rimasto ancora a bocca asciutta. Assurdo come quella ragazza, sebbene la conoscessi da solo qualche ora, sembrava come essere sempre stata con me. Mi capiva.
«Esattamente, o almeno così credevo.»
«Che intendi?»
Scrollai le spalle. «Che forse ho trovato un'altra persona colorata» dichiarai, alzando le mani vicino la testa, in segno di innocenza. Non volevo farle capire che quella persona era proprio lei.


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Il tempo passò tranquillo, tra momenti di risate e assoluto silenzio. Al tramonto avevo tra le mani un bel po' di sterline, tante come mai. «Okay, qui direi che ho finito» dissi, contando più volte i miei guadagni: la matematica non era mai stata il mio mestiere.
La sguardo della mora si posò sul mio portafogli. «Se solo avessi i soldi con me, comprerei tutti questi tuoi lavori e li appenderei in camera» ammise e non so esattamente perché, ma capii subito che era sincera. I suoi occhi incrociarono i miei, poi volarono verso una piccola tavola che non avevo mai voluto vendere, né mettere in mostra: un piccolo fiore, cresciuto a smozzichi e bocconi da una crepa del marciapiede. «Questo te lo regalo volentieri!» le proposi d'impulso, pensando che sì, quell'unico fiore dipinto potesse valere quanto un mazzo di rose fresche. Lei sgranò gli occhi, afferrandolo tra le dita sottili. Non se lo aspettava? «Domani te lo pago» esordì autoritaria e allora le posai una mano sulle labbra. Non volevo aggiungesse altro. «No» scossi la testa, «questo è un regalo che ti faccio, a patto che...» «Che?»
«Che un giorno ti lascerai dipingere da me.» La guardai cambiare espressione.  «Ero io?» domandò sorpresa, estasiata sapendo benissimo che avrei capito a cosa alludesse.  «La persona colorata a cui mi riferivo poco fa?» finsi di cercare conferma. 
«Decisamente» aggiunsi prima che potesse aprir bocca.
Vidi i suoi occhi brillare da una che credevo insensata felicità. «Quando vuoi, dove vuoi»
Iniziai a sistemare i disegni nella valigetta.  «Prima lasciami guadagnare qualcosa per comprare i colori!» esclamai.
«Domani starai ancora qui?» mi domandò guardandosi intorno.
«Sì, stessa ora»
«Perfetto!»
«Che hai in mente?»
«Nulla di particolare, a domani!» «A domani... Cattiva ragazza» la salutai con un sorriso spontaneo sul volto. La vidi allontanarsi incerta, per voltarsi dopo il secondo passo. Uno sguardo, poi si riavvicinò, per stamparmi letteralmente un bacio sulla guancia. Le sorrisi e chiusi gli occhi, sfiorando il punto in cui le sue labbra avevano aderito alla mia pelle, tanto che riuscivo a distinguere l'impronta del rossetto sotto i polpastrelli. In quel momento, resomi conto del mio gesto, lo capii. Capii che non volevo, non volevo affatto lasciarmela sfuggire.


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Come previsto, c’erano volute le imprecazioni di Louis contro la mia lentezza, ma quella sera riuscii ad arrivare puntuale a casa di Niall.
«E così hai conosciuto questa ragazza... Come hai detto che si chiama?» mi chiese distrattamente il biondo, disputando un'aspra partita di flipper con Louis.
In quel momento sbiancai. «Non l'ho detto...» sibilai. Del resto, lei stessa non aveva trovato urgente che lo sapessi.
Harry sgranò gli occhi, «No, non dirmi che non le hai chiesto il nome!» esordì sghignazzando sulla spalla del fidanzato. In quel momento tutta l'attenzione dei miei amici fu rivolta unicamente a me.
«Non ho pensato fosse importante...» mormorai, abbassando la testa. Ma quanto ero stato stupido?
«Sulle nuvole! Tu vivi sulle nuvole...» esclamò Liam ridacchiando e così si sedette vicino a me sul divano.
«Era così bella» balbettai, nascondendomi nella sua spalla.
Niall rise. «Per l'appunto!»
«Domani la rivedrò...»
«No, dai, Zayn innamorato!» intervenne nuovamente Harry.
Sbuffai. Come poteva pensare una simile assurdità? Non pensavo di credere nell'amore, figurarsi al colpo di fulmine. «Ma cosa dici!» borbottai.
Louis scrollò le spalle, facendo una linguaccia a Niall: aveva ottenuto ancora il punteggio più alto. «Harry ha ragione, è così palese» aggiunse poi.
«Lou, io capisco che tu tenga al tuo sedere, ma smettila di prendere sempre le sue parti!» esclamai. Adoravo metterlo in imbarazzo.
Liam e Niall si guardarono afflitti. «Ma poveri noi...» commentarono all'unisono.


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Quando raggiungemmo la soffitta era giunto il tramonto. Fanny cercò dapprima un mio consenso, poi entrò, aprendo la porta d'ingresso che mai avevo trovato motivo di chiudere. All'istante vidi i suoi occhi guizzare da una parete all'altra del bilocale, osservandone ogni singolo angolo. Raggelai quando mi resi conto che se stavo serrando i pugni e stringendo i denti non era di certo dimostrazione di alcun fastidio, ma solo di nervosismo, credo. D'altra parte non posso esserne sicuro, infatti, sebbene fosse accaduto raramente, ogni volta in cui qualcuno si era soffermato a studiare quella stanza non mi aveva di certo fatto piacere. Con Fanny, scoprii, era diverso. Dolce, premurosa, e l'attenzione che nell'ultimo giorno aveva rivolto ad ogni mia più effimera caratteristica mi sembrava medicina alla solita apatia nella quale mi ero abituato a vivere. Sebbene non mi fossi tranquillizzato ancora, con la paura che schifata se ne sarebbe andata via correndo, cercai di non metterle fretta. Voleva conoscermi, studiarmi? Decisi di lasciarglielo fare, sedendomi sul pavimento con la schiena poggiata al muro, in modo da non intralciarle la visuale. I minuti passarono lenti e ad ogni singolo ticchettio dell'orologio a parete, l'ansia mi gonfiava il petto, mentre non smettevo di supporre quale fosse la sua impressione, consapevole che mai avrei ricevuto risposta.
«Allora, sei pronta ragazzaccia?» le chiesi dopo tempo indeterminato, sforzandomi di mantenere il sorriso.
Si strinse nelle spalle, fece un giro su se stessa e il vestito le scoprì buona parte delle gambe. «Si può andare in paradiso prima di morire?» Mi domandai osservandola con non immagino quale espressione stupida sul viso.
«Almeno credo.»
Di malavoglia, mi alzai dal parquet rovinato, la raggiunsi e immediatamente ogni parola mi morì in gola. «Bene, volevo...» «Ti fidi di me?» le chiesi.
«Sì.»
«Spogliati.»
La vidi rabbrividire sotto al mio incitamento, cercare con lo sguardo l'uscita e, neanche a dirlo, entrai nel panico. «Mi giro, ma fallo. Poi stenditi sul letto, copriti giusto un po' con il lenzuolo...» spiegai balbettante e portai le mani in avanti, in segno di innocenza.
Non potevo... Non potevo perderla e in quell'attimo capii che avrei fatto di tutto per tenerla stretta al mio fianco. «Non voglio metterti paura» mormorai, abbassando lo sguardo.
Fanny tirò allora un sospiro di sollievo, si tranquillizzò e poco dopo la sentii già carezzarmi il viso con la punta dell'indice della mano libera dalla pochette. «Non ho timore di te, mi vergogno» ammise giocando con l'accenno di barba incolta.
«Ma non devi. In fondo noi siamo arte, le nostre espressioni, il nostro corpo è arte e l'arte si ammira, non si nasconde.» Guardandola negli occhi scuri poggiai la testa sul palmo della sua mano, sentendo di essere io chi si stava spogliando. «Non ti farò del male, Fanny» aggiunsi, voltandomi quanto mi bastò per baciarne i polpastrelli.
Lei parve convincersi. «Girati, ti spiace?»
«Vado a preparare i colori» dissi sorridendole, poi le diedi la schiena, andando a sistemare i tubetti di tempera che lei aveva voluto regalarmi nonostante i miei «no», «non devi». Stetti in silenzio, smisi addirittura di respirare quando percepii lo scrosciare della stoffa ricadere sul suo corpo, per poi giungere a terra. Serrai gli occhi, concentrandomi unicamente su quel tenero rumore, lottando con tutto me stesso per frenare l'impulso di voltarmi, saltarle addosso, renderla mia.
«Okay, sono pronta!» esclamò lei poco dopo. Presi un respiro profondo e non aspettai un secondo in più per guardarla.
Sospettavo che l’avrei trovata ancora più bella, ma non immaginavo che mi avrebbe completamente tolto il fiato. Distesa su un fianco, poggiata ad una fila di cuscini, giaceva sul materasso con seni e parte del ventre coperti dal lenzuolo bianco. Con le guance arrossate, non faceva che cercare il mio sguardo e, quando ne perdeva il contatto assumeva un’espressione contrita. Si sentiva forse persa? Era facile intuirlo, ma ero consapevole che tanto, se mai glielo avessi chiesto, mi avrebbe risposto il contrario.
«Posso avvicinarmi?» le chiesi come stregato, perso nei suoi grandi occhi scuri.
Lei annuì e allora a passo lento la raggiunsi. E, se da lontano era bellissima, da vicino era impossibile per i miei occhi concepire il suo essere. Con una delicatezza che non pensavo possedere, le accarezzai il viso, scostandole alcune ciocche di capelli dalla fronte. Al tocco chiuse gli occhi, assumendo in viso quella che mi sembrava un’espressione di totale beatitudine.
« Metto su un po' di musica se vuoi.» Fanny scosse la testa.
Le piaceva il silenzio? Forse non era poi tanto diversa da me, forse in un certo senso eravamo molto simili. Sicuro ero che, quella ragazza, nella sua confusione, nelle sue sfaccettature, era diventata in poco tempo la mia calamita.
«Stai ferma il più possibile, finisco presto» aggiunsi tornando dietro alla tavola ancora intonsa e risi constatando che lei mi aveva preso alla lettera perché neanche mosse le labbra per rispondermi.
Con mano tremante iniziai a calcare sulla tela da lavoro con una matita leggera, giusto per delineare una linea guida del suo profilo.
 

* * *


Morii non so quante volte soffermandomi sui suoi fianchi morbidi, fantasticando su quanto mi sarebbe piaciuto affondare le dita in quella carne morbida. Fanny non lo capiva. Incarnava perfettamente il soggetto che ogni pittore avrebbe desiderato ritrarre, l’ideale di bellezza senza tramonto. Lei non era una stupida femmina, ma un perfetto equilibrio di dolcezza e malizia, una donna di quelle che ti seducono e che è difficile dimenticare. Soddisfatto del risultato ottenuto, dal corpo passai al collo, poi al viso e allora sì che mantenere il controllo mi riuscì difficile. Alla fine, riuscii a disegnarne degnamente i tratti somatici solo dopo svariati tentativi, tanto che arrivai a chiedere se fossero stati troppo perfetti da poter venire impressi su una tavola. Quando dovetti pensare a dipingere lo sfondo mi rilassai. Quello era sempre stato il mio campo, in fin dei conti.
«Ti fa strano ritrarre una persona?» mi chiese lei dopo avermi visto probabilmente più tranquillo. Possibile che riuscisse a leggermi dentro?
«Anche, ma non credo di esser capace a dipingere una dea.» Deglutii.
Lei mi guardò intenerita. «Una dea? Non... Non me lo aveva mai detto nessuno» mi rispose dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio.
Fiero di me stesso, le sorrisi. Di punto in bianco mi sentii così euforico che presi frettolosamente un primo pennello in mano, lo intinsi nel bordeaux ed iniziai a dipingere lo sfondo. Non volevo rappresentare la realtà, non volevo dipingere le travi di quella soffitta così squallida.
Avevo ultimato presto lo sfondo e stavo prendendo la tempera marrone da mischiare per ottenere la giusta tonalità della pelle, quando «Mi viene da piangere» mormorò tutt'un tratto Fanny. Sporgendomi dalla tela, vidi una lacrima bagnarle la guancia.
«Perché piangi?» le chiesi incerto, posando distrattamente il pennello sui miei jeans.
«Non sparire» mi rispose, con un tono di voce tanto delicato quando dolorante. A sentire quella richiesta lo stomaco mi si ritorse, un nodo mi si formò all'altezza della gola. Se era quello l'innamoramento di cui parlavano i libri, tutto sommato, mi piaceva. La guardai ancora e pensai che «Dannazione, è lei».
E difatti fu così, con il tempo scoprii che era proprio Fanny quella giusta.
«Rilassati» mi limitai però a risponderle sul momento.
Non volevo pensare a noi come una coppia, non volevo pensare a quanta differenza ci fosse tra me e quella ragazza altolocata dall'animo ribelle, differenza che pensavo ci avrebbe portati alla rovina. Tornai sul mio lavoro, mi persi nelle mille sfumature della sua pelle, nella fluidità con cui il lenzuolo risaltava le sue forme, nella grazia che le caratterizzava. Fanny non era la ragazza che avrebbe potuto sfilare per gli stilisti d'alta moda, ma non trovavo questo un difetto e mi incaponii pur di dipingerla in modo che anche ai suoi occhi sarebbe risultata bellissima perché, “cazzo”, lo era. Qualche pennellata finale, qualche altra punta di chiaro a mettere in mostra i giochi di luce che il sole proveniente dai lucernari proiettava sulla sua figura, poi finalmente ebbi la possibilità di considerare la tavola finita. La osservai bene. Tecnicamente non poteva di certo dirsi la migliore che avessi mai portato a termine, né la più maestosa. Ero sicuro, però, che in quei trenta centimetri per dieci fossero intrisi sentimenti e sensazioni senza precedenti né futuri rivali. Soddisfatto, spostai lo sguardo su Fanny e lì mi resi conto di quanto la ragazza ritratta le somigliasse e che, nuovamente, nella mia vita i colori non sembravano di troppo, non mi infastidivano. Lei mi osservò, spostandosi un po’ dalla posizione che era stata costretta a mantenere per più di un’ora, per poi «Posso venire a vedere?» mi chiese, con un insensato timore a farle tremare la voce. Ridacchiai.

«Direi, è tuo Fanny!» le risposi, sorprendendomi un secondo dopo per la spontaneità con chi riuscivo a parlarle. Lei si alzò arrotolandosi nel lenzuolo e allora venne verso me.
Appena mi fu abbastanza vicina, le chiusi gli occhi con una mano, così con l'altra la afferrai per la vita guidandola fino alle mie gambe. La presi in braccio, stringendola a me e al contatto con il suo corpo sentii il cuore iniziare a battere con frenesia. 
«Apri gli occhi» le mormorai e in quel momento, sentendola tremare alle mie parole, rabbrividii anche io. Capii che stava aprendo gli occhi quando la sentii affondare le unghie sulle mie braccia a cingerle la vita. Pianse, pianse forte, pianse d’improvviso e  come non avevo mia visto fare in tutta la mia vita. Di scatto si voltò verso di me, mi guardò un attimo e tra le lacrime mi baciò. Un istante di perplessità, poi mi sentii vivo nel sentire quelle labbra soffici poggiare sulle mie, sfiorarle, accarezzarle. Erano come avevo pensato, dolci e saporite - a causa del lucidalabbra - d’albicocca. Quello sì che era il tipo di bacio che sempre avevo desiderato e mai avuto. Niente di aggressivo, vorace, rude. Un bacio a fior di labbra, un bacio che forse non aveva ancora dell'amore, ma che era ricco di «Grazie» non detti.
«Non volevo farti piangere» riuscii a mormorare, stringendo gli occhi per ricacciare indietro qualunque possibile accenno di lacrime.
Lei scosse la testa, così tornò a fissare il quadro. «Quella sono io» mormorò, indicando la figura femminile che vi primeggiava.
«È una domanda? Certo che sei tu!»
«E sono bella.»
«Bellissima, ma guardati!»
Fece come le dissi, scattò in piedi e si avvicinò ad uno specchio sporco, posato accostato al muro su cui poggiava il letto. «Non avevo mai pensato...» mormorò mentre la raggiunsi, tornando ad essere un'altra volta dietro di lei.
«Di essere bella?» le chiesi, incatenando lo sguardo al suo, riflesso nel vetro.
La vidi annuire con la testa, stringendosi in se stessa. Aveva la pelle d’oca, ma non le chiesi mai se fosse per il freddo esterno o per il calore che stava percependo dentro.
La abbracciai, ancora. «Il collo elegante» mormorai e ne baciai una piccola parte rimasta scoperta dal telo chiaro.
«Le spalle larghe» aggiunsi, così poggiai ancora la testa su di lei. Per la prima volta respirai davvero il suo profumo, senza farlo di sfuggita. Lavanda, muschio, e qualcosa di troppo costoso perché lo conoscessi, ma indiscutibilmente inebriante.
Deglutii, quindi continuai. La situazione mi era decisamente nuova, l’esitazione altrettanto. «Il seno, i fianchi scolpiti.» Con una mano le alzai il viso, con l'altra scesi lungo il suo corpo, piano e senza pressione.
Fanny ricominciò a piangere, tremando dentro la mia stretta. «La vita sottile» aggiunsi e dopo questo passarono minuti e minuti di silenzio. Ero a corto di parole.
Rivolgendo lo sguardo verso il soffitto, scossi la testa, allontanandomi da lei. Sbuffai, lasciando ricadere pesantemente le braccia sui fianchi. «Non riesco neanche a spiegarmi!» sbottai, sedendomi di peso a terra.
«Tu non capisci...» Con un gruppo in gola, mi guardai intorno, finché non vidi Fanny a qualche passo da me. Non avevo mai provato ciò che stavo iniziando a sentire in quei discorsi, in quei gesti, in quegli sguardi. «Vedi le cose come la gente vuole che tu lo faccia. 'Magro è bello, magro è la scelta giusta, dovesse distinguersi un po’ di rotondità sotto le camicette estive', poi vai in giro, ti guardi intorno e vedi solo gente che somiglia ai manichini di negozi, bianchi e stereotipati. Tu invece sei un'esplosione di colori e non devi cambiare, capito? Altro che stand colmi di caramelle, altro che arcobaleni, altro che fondali marini, galassie.» La vidi sorridere tra le lacrime, poi si inginocchiò su di me, tenendosi su la stoffa bianca con una mano mentre l'altra, invece, era già tra i miei capelli e, sotto quelle carezze, desiderai essere un gatto, giusto per poter fare le fusa.
Mi fece alzare lo sguardo e mi baciò. «Zayn, io ho sempre avuto problemi con il mio corpo. Sin da piccola sono sempre stata paffutella, poi crescendo é stato un continuo di alti e bassi. Mangiavo per nervosismo, per tristezza, perché non riuscivo a trovare amici sinceri e poi rigettavo tutto, sentendomi in colpa. Ho imparato presto a stare sola, ha iniziato ad andare meglio e mi sono abituata, ma solo adesso, con te, mi sembra di respirare aria nuova. Sei l'unico che... L'unico che mi abbia mai trattato così, non soffermandosi su chi do l’aria di essere e non facendomi sentire questi chili in più che non riesco a trovare neanche importanti»
Mi alzai di scatto, poi tesi una mano verso di lei, ancora china sul pavimento. «Vuoi ballare? Con me?»
«Così?»
«Sembri una Venere.»


#


I giorni seguenti passarono veloci, i mesi si susseguirono nello stesso, dolce, modo.
«Zayn, buongiorno» sussultai, nel sentire Fanny stringermi. Ormai la nostra era diventata una routine.
Io alle otto uscivo di casa, le facevo sapere la sera prima dove sarei andato a vendere tavole e lei, puntualmente, dopo scuola mi raggiungeva. Quella mattina però erano scattate da poco le nove, quando la vidi arrivare.
«Non resisto, devo darti una notiziona!» esclamò entusiasta, girandomi intorno per incrociare il mio sguardo.
Era raggiante. «Amore, dimmi tutto.»
«Tra poco appenderanno i cartelloni in città e dovrebbe arrivarti una lettera a casa, ma ti anticipo che mio padre ha deciso di inserirti nella mostra!» Come se calato in un sonno profondo, restai ammutolito, finché lei non mi scrollò per le spalle.
«Non sei felice?» mi chiese poco dopo.
Avrei voluto gridarle di sì, ma la sorpresa era tanta che proprio non riuscivo ad aprire bocca. Abbozzai un sorriso, la strinsi impetuosamente a me e la baciai. In imbarazzo, cercò di allontanarsi e fu allora che aumentai la presa sul suo bacino. Quel suo lato timido, riservato, così contrastante con quello che voleva dimostrare di essere, mi faceva impazzire. Vederla arrossire, sentirla iniziare a balbettare mi piaceva, mi eccitava. «Okay, okay!» mugolò Fanny, spostandomi da sé. «Credo che tu sì, sia decisamente felice!» aggiunse ridacchiando, quindi si sistemò la gonna a ruota del vestitino che le avevo sgualcito, rossa quanto lo erano le sue guance.
 

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Nonostante non fossimo tanto lontani, la camminata verso quello che era diventato ormai il nostro rifugio sembrò così lunga da non avere fine. Quando arrivammo sotto il palazzo, un’occhiata e ci fiondammo su per le scale. Se c'era una cosa che caratterizzava Fanny era la propensione per le sfide. Le amava. Amava sfidarsi e sfidare gli altri, per mettersi alla prova, vedere fin dove sapeva spingersi. E anche in quell'occasione fu evidente, quando «Se arrivo prima diciamo a mio padre che sei il mio ragazzo e non un semplice artista emergente!» urlò, già due scalini avanti a me. Spalancai gli occhi, risi, quindi le corsi dietro. Non volevo che tutti scoprissero di noi, tanto meno il padre considerando che non mi sentivo alla sua altezza, nonostante lei mi ribadisse incessantemente che sì, lo ero e che non esisteva alcuna ‘altezza’. Stavamo ormai all'ultima delle tre rampe di scale, quando mi dovetti fermare, sentendo un lieve dolore all'altezza del cuore. Non era una novità per me. Nell'ultimo periodo, infatti, capitava molto spesso che mi si affaticasse il respiro. Fanny arrivò alla porta, poi si voltò di scatto e corse giù, verso me. Ricordo solo immagini sfocate di quel momento, un mio «Hai vinto, piccola!» detto con falsa spensieratezza, perché non volevo lei si preoccupasse e come poi tutto tornò alla normalità. Pregai affinché non si accorgesse di ciò che era accaduto e probabilmente fui ascoltato da qualcuno lassù perché non parve notare nulla di strano.
Un ghigno, piuttosto, le illuminò il viso.
 
«Stasera vestiti elegante! Sai, non capita tutti i giorni di incontrare il padre della propria ragazza» aggiunse scompigliandomi i capelli, poi mi prese per mano, sfilò dall'altra le chiavi. Ridacchiai, sfiorandole il collo con le labbra, mentre armeggiava a fatica per aprire la porta. «Ti amo» mi disse richiudendosela alle spalle, appena fummo entrambi dentro la soffitta. A primo impatto non capii il peso di quelle due parole poi, però, lo sentii pesare sulle spalle. «Ti amo anche io, Fanny» le risposi, tempestandole il viso di baci. Lei non esitò, mi si buttò addosso con delicatezza, spingendomi verso il letto sfatto. «Merda, mi dispiace» mormorai, rendendomi conto del disordine che regnava anche sul resto della stanza. Lei in risposta mi fece stendere sul materasso e quando aprii le braccia per farla stendere su di me  si allontanò, salendo dalla parte opposta. Mi incupii. Ancora non ero riuscito a toglierle il vizio che aveva, quella stupida paura che venendomi sopra mi avrebbe fatto male. «Ti amo, ti amo tanto!» Le presi il viso tra le mani e le stampai un bacio su una tempia. «Ti amo» ripetei, scuotendo la testa, perché, diamine, non lo credevo possibile, ma così era. La amavo, la amavo da morire. Con tenerezza, senza proferire una parola la spogliai dei suoi vestiti, scoprendola centimetro dopo centimetro. Sghignazzai incredulo dopo essermi reso conto di ricordare di ogni suo singolo neo e ognuna di quelle rosee, quasi impercettibili, smagliature sulle cosce. Per di più, non si stava opponendo alla mia audacia. «Ti vergogni ancora?» le chiesi. Fanny arrossì biascicando un qualcosa di incomprensibile. «Sei tenera» dissi mordendole la punta del naso. Presi un respiro e la guardai in intimo davanti a me. Sentivo di tenerla stretta nelle mie mani. Accucciandomi sul suo petto, le sganciai nel mentre il reggiseno e, cercando un «sì» nel suo sguardo, lentamente glielo sfilai. Senza concedermi il privilegio di guardarla, mi chinai affondando il viso nelle sue cosce. Tenendole le mani tra le mie, con la bocca afferrai l’elastico degli slip riuscendo a liberarmene dopo non poche imprecazioni. «Mi fido di te» mormorò e dacché era seduta sul materasso si sdraiò completamente dandomi la possibilità di sovrastarla. Alzai un attimo solo gli occhi dal suo viso, la sentii respirare affannosamente, e quando vidi alcuni barattoli di tempera colorata al bordo del letto fui felice di esser un disordinato cronico. Mi sporsi e li afferrai. «Vuoi fare una cosa stupida?» le chiesi euforico. Fanny annuì curiosa. Le carezzai una guancia, poi mi spogliai in fretta. Intimidita dalla situazione, si stropicciò gli occhi abbozzando un sorriso impacciato.
 «Colorami, vediamo come te la cavi» le dissi sperando di alleggerire l’atmosfera.
«Colorarti?»
«Sì.»
«Con le mani?» Assunse un'espressione speranzosa.
«Con le mani, come i bambini» acconsentii e allora Fanny sorrise, sorrise tanto che le si socchiusero gli occhi grandi. 
«Okay capo, ci penso io a te» affermò facendo il vocione. «E se sporco le lenzuola?» chiese poi.
«'Sti cazzi.» 
«Afferrato» mormorò, quindi mi fece cenno di passarle una prima latta. Subito dopo, il tempo che vi immerse le mani, fu nuovamente sotto di me.

Mi posò una mano macchiata di rosso sul petto, all’altezza. Tremavo, sotto le sue cure. La vergogna evidente che l’aveva frenata fino a qualche istante prima pareva essersi volatilizzata e forse mi mancava, perché quell’espressione maliziosa con cui l’aveva sostituita mi stava già mandando al manicomio. «Amo quando sorridi così, con la lingua schiacciata tra i denti. Lo fai solo quando sei davvero felice» rivelò con scioltezza, quindi incominciò ad impasticciarmi il resto del torace, scrivendovi frasi che lì per lì non riuscivo a distinguere. Ero entusiasta di come stava andando, ma presto lo stare sopra di lei, reggendomi sulle braccia per lasciarla muoversi e dipingermi stava iniziando a pesare. Un lamento fuoriuscì dalle mie labbra e ciò che questo comportò mi lasciò a corto di fiato. Fanny mi diede un colpetto al braccio, lasciò che cadessi sopra di lei e poi rotolò su un fianco. L’istante successivo la ritrovai seduta sul mio bacino, nuda e bellissima. Forse perché presa dai colori, che stavano spargendosi anche sul suo corpo e le lenzuola, non dava l’aria neanche di vergognarsi. Affondando le mani nei restanti barattoli di pittura, continuò imperterrita il lavoro che aveva preso a carico.
 
«Non nascondere più i tuoi colori, sono bellissimi» mormorò, firmandosi sul mio ventre, rimasto ancora intonso.
«Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata, anche se non te ne rendi conto, è così» le risposi quasi senza accorgermene, alzandomi sulla schiena per poterle pizzicare una guancia.
E l’unico rumore che riuscivo a distinguere, a quella vicinanza, era il rincorrersi dei nostri cuori. Forse sì, entrambi eravamo preda e predatore dell’altro, entrambi ci inseguivamo davvero dal nostro primo incontro, fino a raggiungere i meandri più bui e nascosti del nostro essere. Lentamente si avvicinò a me. «Manca il tocco finale!» ghignò.
Confuso, m’accigliai e fu allora che lei mi colorò di sfuggita il naso di rosso, poi aggiunse all’opera un paio di baffi arricciati con della tempera blu rimastale sull’indice.
«Stupendo, Mr Malik!» commentò.
«Stupenda anche tu, Mrs!» risposi di rimando e credendo ciò che stavo vivendo irreale, prima che lei trovasse il tempo per indagare sulle mie intenzioni, le colorai il naso sfiorandola con il mio ancora bagnato.
Lanciò un gridolino. «Stronzo!» urlò allontanandomi da lei. Le sorrisi, quindi mi riavvicinai.
«Mai quanto te, amore.» La vidi cambiare espressione. Dall'essere un clown divenne una maschera di stupore. Non capii subito perché, poi però ripensai alle mie parole e allora fu chiaro.
«Amore, Fanny. Amore» mormorai, perdendomi inevitabilmente nella profondità del suo sguardo.

E poi fu come spiegare di due mondi che si uniscono, di due corpi che si intrecciano. Ciò che seguì fu tutto un susseguirsi di baci a fior di pelle, di tocchi fugaci, quasi spaventati, dolci e delicati che poi, quando qualche ora più tardi, risvegliandomi, riaprii gli occhi, mi parvero la cosa più naturale di sempre.

Aprire gli occhi e ritrovare Fanny tra le mie braccia, sentire il suo peso, il suo calore su di me, la pelle a contatto con la mia era ciò mi era mancato prima che lei entrasse nella mia vita. Tra tutto quel bianco delle lenzuola e quei colori, tenendo gli occhi semichiusi pensai di essere addirittura finito in paradiso. Poi la sentii muoversi, sporgendosi per baciarmi in un punto indefinito del collo. «Non hai dormito neanche un po'?» le chiesi interrogativo. «Non riuscivo a dormire.» Rise imbarazzata, quindi si coprì il volto con il lenzuolo macchiato di un colore indefinito. «Ho preferito stare a pensare, vederti dormire con la bocca semiaperta, baciarti il rivolo di bavetta che ogni tanto ne usciva e stringerti forte» ammise, accoccolandosi se possibile ancor di più a me.
 
Il pomeriggio lo passammo così, niente poco di meno che vedendo il sole tramontare dalle grandi vetrate poste proprio sopra di noi e trovando la voglia di alzarci dal letto solo a spettacolo finito.
«Va tutto bene?» chiesi guardando Fanny stritolarmi la mano tra le sue quando fummo per strada.
«Ho paura di perderti. Sento che scomparirai. Sei troppo bello per stare qui, Zayn» mi rispose giocherellando con un anello che portavo all'indice. Troppo eccitato dalla serata, non diedi peso alle sue parole, eppure forse inconsciamente strinsi più forte la sua mano nella mia.
 

#
 

Quella sera la villa bianca sulla strada di benestanti parallela a quella che percorrevo io ogni mattina era decisamente sovraffollata di gente. Famiglie, intenditori d'arte, pittori. Nella mischia fu difficile anche stare al passo di Fanny.
«Alla fine siamo arrivati molto in anticipo, stanno servendo il buffet» mi avvisò, alzando la voce per farsi sentire oltre lo spesso drappeggio di musica classica che aleggiava nella sala principale.
Chiusi gli occhi. «Vorrei che mio padre fosse qui, vorrei fargli vedere che suo figlio è riuscito in qualcosa, che...»
«Zay, vai da lui, no? Hai tempo, fallo venire qui.» Fanny posò la mano sul mio cuore, ancora un'altra volta.
«Vado...?» chiesi confuso.
«Ti aspetto, così poi presenterò entrambi a mio padre!» esclamò, poi mi diede una lieve spinta per farmi uscire da lì.
«Fatti valere, cucciolo» mi disse in un filo di voce, carezzando con il parlare le mie labbra, così vicina al mio viso. La baciai, poi mi voltai verso il portone principale.
 

#
 

Fortunatamente, di taxi, quella sera ce n'erano parecchi in zona. Approfittandone, salii sul primo che mi trovai davanti. Non avrei voluto sprecare soldi, ma, comunque sarebbero andate le cose dovevo sbrigarmi. Non potevo permettermi affatto di tardare neanche di un minuto alla mostra.
«Si fermi alla via successiva, grazie mille» mormorai impaziente.
Appena il tassista spense il motore, sentii per l’ennesima volta il cuore affaticarsi, il respiro farsi corto.
Tornare lì, in quella via di case a schiera, equivalse ad un viaggio nel tempo bell’e buono.

Mi rividi, da mero spettatore, dipingere con i gessetti lungo tutto il marciapiede, riassaporai per un attimo l'idea di casa, di famiglia e in un istante mi tornarono alla mente, invadenti e dolorosi, tutti i ricordi che tenevo chiusi a chiave dentro me da anni. Scocciato, li accantonai ancora tra i marciumi della mia memoria, mi affrettai a pagare ed uscii dall'automobile. Solo, con i piedi sullo stesso marciapiede ormai grigio, chiazzato solo da chewing gum e non più dai miei colori, mi sentii incredibilmente debole, pronto a rompermi. Incapace di aspettare oltre mi avviai verso la mia vecchia casa. Sorrisi mio malgrado, quando al naso m’arrivò l'odore della torta alla cannella che tanto amava cucinare mia madre. Era il mio dolce preferito, quello delle feste. Respirai a lungo, e stavo esalando un ultimo grande sospiro per calmarmi, il portone si aprì senza che io facessi niente.
 

«Papà!» esclamai a bocca asciutta. Lui, ancora con un piede dentro casa, si voltò verso di me, mi guardò ed allora nei suoi occhi  riuscii a distinguere il riflesso del mio timore.
«Zayn? Vattene da qui» tuonò, scostandomi dall'uscita.
Restai per qualche secondo impalato, poi mi voltai e lo seguii. «Papà, ascoltami!» gridai, accelerando il passo verso la sua direzione.
«Papà!» Con forza, con tutta quella che credevo possedere in corpo, cercai di aprire lo sportello della Mercedes in cui si era rifugiato. ‘Gli faccio così ribrezzo?’ chiesi a me stesso.
«Ascoltami, cazzo!» Urlai ancora, ma lui non mi sentiva, non voleva sentirmi.
«Perché non mi consideri? Perché sono così invisibile per te?» con le lacrime agli occhi, rivolsi lo sguardo al cielo. Fu guardando il buio, ritrovando in esso aperta la voragine che l’assenza della mia famiglia aveva lasciato in che persi completamente la concezione di me stesso.

Troppa emozione, troppa rabbia repressa, troppa tristezza, troppa delusione, voglia di essere apprezzato che mi portarono a dare pugni sullo portellone del guidatore, ad urlare così forte da squarciare il cielo. Ma mio padre doveva sapere, doveva sapere che quella sera avrebbe dovuto essere fiero di me. Infastidito, mi guardò ancora una volta, un'ultima volta, poi mise in moto. L’apparenza della propria famiglia, per lui, contava più della famiglia stessa e solo a ripensarci lo capii, mentre lì, testardo e completamente preda della disperazione, tutto mi sembrava senza senso. Istintivamente, l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu correre, muovere le gambe e correre, correre verso l'uomo che da sempre avevo considerato un eroe e per cui avrei voluto essere anch'io tale. E mi sembrò la cosa più giusta da fare; addirittura e unico oggetto a cui rivolsi attenzione divenne la macchina che, per quanto forte corressi, non riuscivo a raggiungere, e si allontanava, e si allontanava sempre più. Non le urla di Safaa e delle mie due sorelle minori mi diedero la forza di fermarmi, non le imprecazioni di mia madre che sapeva, riuscirono a farmi restare appigliato alla vita. Mio padre mi stava sfuggendo, la mia dignità mi stava scivolando tra le dita come acqua cristallina. Sinceramente? Non credevo che questo valesse anche per la mia vita. Erano le 21:23, o almeno credo, quando caddi a terra agonizzante e la strada incominciò a sembrare  instabile, e la vista incominciò ad appannarsi. Con una guancia premuta sull’asfalto, rivolto verso la direzione nella quale il Mercedes bianco era diventato un minuscolo puntino, capii che non mi sarei più rialzato.

Ci fu un istante poi in cui riuscii a sentire nient’altro che il silenzio dentro me e ogni altro rumore esterno ovattato. Il volto di Fanny apparve e scomparve fioco nei miei ricordi, e insieme a lei i miei quattro ‘uomini’. La vidi avanzare verso di me con un lenzuolo bianco macchiato di tempera tra le mani, e solo ora capisco che quella visione non fu altro che la mia immaginazione.

Eppure - questo un po’ mi consola -, da quando me ne sono andato, qualche volta lei lo fa, stringe davvero il nostro telo tra le mani e lo custodisce stretto al suo seno come fosse il quadro più bello di sempre. Quando le chiacchiere con suo marito sfociano in litigate, quando tutto sembra crollare sulle sue spalle, quando è stanca ma non riesce a dormire subito raggiunge lo sgabuzzino in cui è la sola a metter piede, fruga nel grande armadio bianco che gli fa da protettore e ne sfila il lenzuolo. Poi piange, piange tanto per minuti che sembrano ore e invoca il mio nome, lo carezza a bassa voce. Che non voglia insospettire quel pallone gonfiato che è suo marito? Lo pensavo anche io, lo ammetto, ma poi la sentii mormorare ‘Non te ne andare, Zay’ e da allora sono convinto lei mi riesca a percepire abbracciarla, raccoglierle le lacrime che le si incastrano tra le rughe del viso sciupato dall’età, ma ancora illuminato da quegli occhi senza fine. Ogni tanto poi mi ringrazia, non ho ben chiaro il perché, ma le rispondo sempre che - qualunque cosa io abbia fatto - l’ho aiutata volentieri e ricambio, la ringrazio anche solo per essere ciò che è, per aver guardato avanti senza smettere di amarmi.  

 

Questo perché tante sono le persone che passano nella nostra vita, ma non altrettante quelle che lasciano un'impronta sul nostro 'telo bianco'. 
 
 
   
 
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