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Autore: emotjon    18/11/2014    3 recensioni
«Zay..? Quella nuvola a cosa somiglia?».
«Somiglia al tuo sguardo grande da bambino, alle tue labbra sempre rosse e alla storia della tua vita che ti porti scritta addosso; e somiglia al velo di barba che non ho mai voglia di tagliare, alle mie ciglia lunghe che so che invidi da morire e alle canottiere che infilo di fretta per non andare ad aprire la porta mezzo nudo perché mi vergogno; e somiglia ai tuoi ricci che non sono più ricci, al tuo modo di ridere che mi manda completamente in tilt e alle tue labbra che sanno di pesche anche se tu le pesche non le mangi mai… Somiglia al tuo non essere etero e non saperlo e somiglia alla mia voglia di baciarti che mi annebbia la mente da anni e non te l’ho mai detto perché sono uno stupido e non riesco a smettere di guardarti perché sei un’opera d’arte e…».
«Somiglia a noi, quindi?».
«Somiglia a noi».
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5513 parole.
[Zarry]
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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nota dell'autrice:
quello che leggerete è quello che la mia mente partorisce quando le vengono suggerite parole come "coperta".
a proposito, grazie a S. per la parola magica.
perchè gli Zarry? perchè sono carini e pucciosi.
no, beh, anche. gli Zarry, perchè ho una mente che più contorta non si può.
essendo io una Zayn's girl ed essendo innamorata di lui ed essendo che con Perrie non lo posso vedere...
è come se il mio inconscio mi suggerisse che "ehi, meglio con un uomo piuttosto che con lei".
e niente, mi sono resa abbastanza ridicola.
vi lascio leggere, un abbraccio,
- emotjon.










White clouds.


 
 

C’era talmente silenzio da poter sentire il suono dei battiti delle ali delle poche farfalle che in quell’afa atroce si erano azzardate ad avventurarsi al sole, tra i fili d’erba verde un po’ secca per l’arsura e le poche margherite sopravvissute al caldo. L’aria era tanto immobile che i respiri dei due ragazzi sdraiati su quella coperta sgualcita erano pesanti come macigni che cadono nel mare dopo una frana. Pesanti, rilassati, inspirati ed espirati all’unisono senza nemmeno farlo apposta.
C’era talmente silenzio che i loro respiri erano gli unici suoni di cui le loro orecchie avrebbero potuto nutrirsi di lì a un milione di anni. Sazie di respiri calmi e placidi, di lingue passate sulle labbra inferiori per inumidirle, del suono delle dita di uno a stringere la coperta per impedirsi di fare qualcosa di cui poi si sarebbe sicuramente pentito, o del suono di altre dita passate tra i capelli che una volta erano ricci e ora erano solo troppo lunghi per esserlo ancora.
Guardavano entrambi il cielo, i due ragazzi.
Entrambi coi capelli troppo lunghi per quella stagione troppo calda e con gli occhi protetti dagli occhiali da sole con le lenti scure. Entrambi con le braccia ricoperte di tatuaggi che ad occhi esterni non avrebbero avuto senso; per loro quei tatuaggi erano l’unico modo per raccontare una storia senza parlare; erano dolore e sofferenza e libertà assoluta. Entrambi a petto nudo. Entrambi con un velo di sudore a ricoprire quelle pelli tanto diverse ma segnate dagli stessi incubi, dalle stesse cicatrici.
Il primo ragazzo – quello con la mano stretta nervosamente sulla coperta rossa a scacchi – aveva i capelli neri. Neri come le ombre, come i demoni, come i tatuaggi che gli decoravano la pelle, ambrata di natura e per niente abbronzata, a dispetto del sole di agosto che la baciava come fosse l’amante di una notte, una notte e niente più. Non si rasava da qualche giorno, e la barba forse troppo lunga lo rendeva più vecchio di quanto non fosse in realtà, ma anche decisamente più sexy.
Sembrava un principe arabo, ma senza alcun tappeto volante. Sembrava il figlio di un pirata, che non metteva piede a terra da mesi e viveva solo di mare. Era uno di quei ragazzi che faceva girare la testa alle persone per strada, non importava che fossero uomini o donne, a lui in fondo non era mai importato. Era bello davvero, della stessa strana bellezza che hanno i fiori, o gli animali; bello come un’orchidea, selvaggio come una tigre.
Si stava mordendo piano un labbro già screpolato come sempre, per poi schiudere le labbra come per dire qualcosa, ma senza dire niente che non fosse l’invisibile fantasma di un sospiro tanto pallido da non esistere davvero se non sulle sue stesse labbra. Un attimo, ed era scomparso.
Era magro, forse troppo. Mangiava patatine fritte per noia e si nutriva di caffè al caramello e di sigarette per non morire di fame. Andava a correre tutte le mattine per godersi la vista del sole che sorgeva dietro le colline e per spegnere i pensieri che puntualmente lo tenevano sveglio la notte, insieme agli incubi, i demoni, e un paio di labbra che in quel momento erano schiuse in cerca d’aria poco lontano da lui.
Guardava il cielo in silenzio, Zayn, continuando a mordersi le labbra e a cercare di smettere di pensare, con gli occhi che avrebbero voluto voltarsi verso l’oggetto del loro desiderio senza farsi notare, nonostante non ne fossero capaci. I suoi occhi, di un castano che era oro e quasi nero da quanto era profondo, facevano rumore quanto un sorriso lanciato nel vento e perso tra i battiti delle ali delle farfalle e i petali di un fiore.
Il secondo ragazzo teneva un braccio sotto la testa, con la mano un po’ intorpidita che passava pigra tra i capelli, a renderli anche più scompigliati e inguardabili e meno ricci di un tempo di quanto già non fossero. Aveva i capelli castano scuro, anche se nel sole di quella giornata perfetta sembravano decisamente più chiari di quanto non fossero. Aveva le spalle larghe, che avevano retto tutto e reggevano più demoni di quanti in realtà non fossero; aveva anche demoni non suoi, su quelle spalle larghe. Demoni che sembravano pirati e principi arabi e che erano nebbia per i suoi occhi verdi e droga per la sua mente confusa come non mai.
Non un velo di barba, su quel viso ancora da bambino. Le fossette ai lati delle labbra rosse dai morsi che comparivano quando sorrideva, con quel sorriso che splendeva come la luna riflessa sulla superficie dell’acqua ferma dei laghetti. Le sue labbra erano schiuse come se anche lui volesse dire qualcosa; non ne usciva niente che non fossero placidi respiri e sospiri che avrebbe voluto solo trattenere dentro, ma che uscivano come richiamati dal vento, dalle nuvole bianche che viaggiavano sopra le loro teste.
Ed era bello, ma bello davvero, con le spalle larghe, le labbra rosse, la pelle di solito bianco latte ora resa più abbronzata dal sole e quegli occhi che più li guardavi e meno riuscivi a capire di che colore fossero. Verdi, ad una prima occhiata. Forse non lo erano nemmeno, ma chiunque li guardasse finiva per classificarli come tali.
Era muscoloso, frutto della palestra in cui andava per sollevare pesi e levarseli dall’anima, sulla quale pesavano peggio di macigni. Muscoloso ma non magro; quello non lo era mai stato. Gli piaceva mangiare quasi quanto amava cucinare, e si sarebbe nutrito mi muffin al cioccolato per il resto della vita, fino a diventare un ometto con pochi capelli, i tatuaggi sbiaditi dal tempo e la pancia un po’ flaccida.
In quel momento però non gli importava, aveva tutto quel di cui aveva bisogno lì con sé.
Guardava il cielo in silenzio, Harry, continuando a mordersi le labbra e a cercare di smettere di pensare, con gli occhi verdi nascosti dietro le lenti scure che poco per volta si voltarono verso l’oggetto del loro desiderio senza farsi notare, perché anche se il coraggio era poco e non era convinto fino in fondo, ne erano capaci. I suoi occhi, che erano verdi e argento e grigio fumo, avevano imparato a non far rumore, a non farsi notare a meno che non li si guardasse.
E guardava il suo migliore amico da dietro le lenti, lasciando perdere per un momento le nuvole bianche che centinaia di metri più in alto vagavano trasportate dal vento. Osservava il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del proprio respiro, in sincrono come fossero una sola anima divisa in due corpi. Osservava il profilo della mascella in tensione; digrignava i denti, e Harry non ne capiva il motivo, per quanto si sforzasse. Osservava le labbra schiuse e le ciglia che riflettevano la propria ombra sugli zigomi e una piccola goccia di sudore che luccicava sulla punta del naso.
Avrebbe continuato a guardarlo ancora e ancora, pur di capire cosa fosse il tremito che gli scuoteva le mani e le faceva sudare, o a cosa fossero dovuti i sospiri che gli si bloccavano in gola rendendogli il respiro affannato, o perché sentisse un brivido attraversargli la spina dorsale ogni volta che lo sentiva ridere o lo vedeva sorridere. L’avrebbe osservato fino a che non avesse avuto impresso a fuoco ogni minimo particolare, ogni goccia di inchiostro e ogni più piccolo movimento che la sua lingua si trovava a fare per inumidire le labbra secche.
Avrebbe voluto ammettere quanto gli piacesse osservarlo, o semplicemente ammettere che lo guardava perché lo trovava terribilmente bello. Era quello il motivo. Le sue iridi verdemare si ritrovavano a guardarlo perché lui era bello, affascinante, misterioso, eccitante da morire. Lo guardavano perché non riuscivano a farne a meno, perché erano come calamitate verso la sua pelle ambrata, verso quelle labbra rovinate dal nervosismo e verso i suoi occhi che erano pozzi di tenebra ma anche fonte di luce.
«Har…». La voce roca del moro gli provocò una scossa lungo la schiena, mentre si affrettava a tornare a guardare il cielo azzurro, le nuvole che passeggiavano indisturbate sopra di loro, le poche farfalle che di tanto in tanto entravano inaspettatamente nel suo campo visivo. E quel nomignolo lo fece sorridere, perché Zayn lo chiamava così da quando erano piccoli e col suo strano accento esotico non riusciva a pronunciare tutto il suo nome. Una volta si era fermato alle prime tre lettere, e da quel momento a Harry era andato bene così.
Forse, però, non avrebbe mai ammesso che ci provava gusto a farsi chiamare così da lui.
«Dormi?», aggiunse il ragazzo dalla pelle ambrata pur sapendo che fosse sveglio. Sveglissimo. Aveva sentito il suo sguardo addosso, era ovvio. Si era sentito penetrare da tutto quel verde, aveva fatto di tutto per non arrossire, aveva pregato che lui distogliesse lo sguardo perché era ovvio quanto stesse stringendo i denti per non urlare. O forse stringeva i pugni, i denti e tratteneva il fiato, solo per impedirsi di saltargli addosso e mordergli le labbra e pizzicargli quei fianchi che erano decisamente più da donna che da uomo.
Harry gli era sempre piaciuto. E non solo come amico. Non era mai stato solo quello.
Harry era l’amico che lo aiutava coi compiti, il confidente al quale diceva tutto – o quasi. Harry era l’armadio dentro il quale poteva seppellire i propri scheletri senza la paura che quelli scappassero. Era gli occhi verdi che lo tenevano sveglio la notte, era quella fossetta più accentuata sulla guancia destra, dentro cui avrebbe voluto infilare un dito solo per dargli fastidio o magari per sentirlo ridere a crepapelle. Era un bel paio di gambe, Harry. Era una canotta bianca sgualcita e bucata, infilata di fretta e senza far caso a niente. Era la bandana verde militare con la quale cercava inutilmente di tener fermi i ricci ribelli.
Harry era battito di cuore, respiro affannato, labbra che tremano. Harry era pensieri che non lo facevano dormire, pensieri che lo facevano piangere, ricordi che gli donavano il sorriso e aneddoti che inevitabilmente lo facevano scoppiare a ridere, con la punta della lingua perfettamente e ironicamente incastrata tra i denti bianchi. Harry era la ragione del suo respiro, e nemmeno se ne accorgeva. Harry gli faceva battere il cuore e arrossare le guance, eppure non lo sapeva. O, al contrario, ne era fin troppo consapevole.
«Fa troppo caldo per dormire…». Sei troppo sexy perché io possa dormire.
E il riccio quelle parole avrebbe davvero voluto dirle. Avrebbe voluto avere il coraggio di pensarle ad alta voce, di farle scivolare via dalle labbra senza la paura che Zayn scappasse da lui. Non voleva che lui se ne andasse, non voleva rimanere a fissare le nuvole da solo, ascoltando solo il proprio respiro e privandosi del suo.
«Fa troppo caldo per vivere, Harry», lo prese in giro Zayn passandosi una mano tra i capelli, per poi togliersi gli occhiali da sole e voltarsi appena per osservarlo. Era un’opera d’arte, quel ragazzo. Avrebbe potuto e voluto guardarlo all’infinito e senza mai stancarsene. Perché era come dire che si sarebbe potuto stancare di dipingere, di disegnare schizzi per i graffiti. Smettere di guardare Harry era come dire che si sarebbe potuto stancare di cantare sotto la doccia canzoni che apparentemente non conosceva nessun altro.
Harry quelle canzoni le conosceva. E non si sarebbe mai stancato di sentirgliele cantare. Erano canzoni d’amore, forse. O canzoni di dolore. Canzoni che lo facevano sorridere, gli facevano venire i brividi e a volte lo facevano piangere. Ma questo Zayn non l’avrebbe mai saputo, perché lui cantava solo sotto la doccia e Harry dal salotto o dalla sua camera avrebbe potuto fare qualsiasi altra cosa, ascoltare l’immobilità della polvere che cadeva lenta sul parquet, ad esempio.
Il ragazzo dagli occhi verdi si lasciò andare ad una risata, che fece rabbrividire il suo migliore amico da quanto era bella e contagiosa e roca ed eccitante. Una risata che gli scosse il petto colorato di tatuaggi e lo portò a spostare la mano da sotto la testa per tenersi la pancia dalle risate. Era una visione, non c’era nient’altro da dire. L’unico problema era ammettere cosa gli stesse facendo, rendersene conto e accettarlo completamente. Magari confessarlo guardandolo negli occhi… no, probabilmente non sarebbe mai accaduto.
«Preferisci andare a casa, Zay?», gli disse divertito il più piccolo inarcando un sopracciglio e preparandosi con la coda dell’occhio ad assistere alla sua reazione. Anche quel nomignolo era frutto di un bambino che non riusciva a pronunciare un nome. Dalla sua c’era il fatto che il maggiore fosse straniero, con un nome arabo bello e dannato, ma difficile da pronunciare. Impossibile, a sei anni.
Come previsto, lo vide storcere il naso al pensiero di dover tornare a casa e abbandonare il sole al suo corso, senza godere dei suoi effetti sulla pelle. A casa c’erano gli esami da preparare, le tele da finire per la galleria d’arte, il bucato da fare, i rullini della macchina fotografica da portare a sviluppare. Vivere con la sorella era come vivere da solo, la maggior parte delle volte. E no, non che si lamentasse… ma decisamente se l’avesse saputo sarebbe corso a vivere con Harry, anche se era dall’altra parte della città e si imbarazzava da matti al solo respirare nella stessa stanza.
«Avrei voluto ascoltarti quando mi chiedesti di venire a vivere con te, sai?».
Ma quella era l’unica frase che non si aspettava. E trattenne il fiato fino a farsi esplodere i polmoni, per poi rilasciare il respiro e sfilarsi gli occhiali per posarli sulla coperta. Ora quegli occhiali erano l’unica cosa che potesse trattenerlo dall’eliminare le distanze e far sì che tutti quei pensieri confusi che gli affollavano la mente trovassero un senso, finalmente. Teneva gli occhi chiusi e respirava meglio che poteva, quando la voce gli sfuggì roca dalle labbra senza che se ne accorgesse.
«Sei ancora in tempo, sai?». Gli sfuggì anche un sorriso, con quelle poche parole, e Zayn fu costretto a deglutire il più pesante dei sospiri, per non farsi vedere debole e totalmente attratto da lui. Guardava le nuvole, Harry, quando gli venne in mente che quel pomeriggio forse non sarebbe stato totalmente inutile. Bastava solo avere fantasia. Sollevò il braccio tatuato dalla coperta rossa, per indicare il cielo immobile sopra di loro, e «A cosa somiglia, secondo te?», mormorò indicando la prima nuvola che gli saltò agli occhi, senza far caso davvero a cosa somigliasse.
La mente artistica era Zayn, tra i due. Lo era sempre stato.
Il moro prese un respiro profondo, prima di seguire la direzione indicata dal suo braccio con un mezzo sorriso a malapena trattenuto sulle labbra. Non sapeva dove volesse arrivare, o se avesse cambiato argomento solo perché magari si era accorto della sua reazione da ragazzino alla prima cotta. Respirò a pieni polmoni quell’odore di estate, di erba tagliata e di pelle sudata, finché il suo sguardo non fu catturato da una nuvola bianca, esattamente sopra la testa del riccio.
Zayn non avrebbe saputo dire a cosa somigliava. Le nuvole non somigliavano mai a niente. Erano solo ammassi di aria più fredda rispetto al resto. Ammassi senza forma, senza senso, e se anche una forma ce l’avevano, durava troppo poco perché si potesse capire che forma fosse veramente, o a che forma somigliassero.
«Somiglia a te…», si lasciò sfuggire il ragazzo, talmente piano che credette e sperò che il migliore amico non l’avesse sentito. Si morse un labbro tanto forte da rischiare di farlo sanguinare, ma il respiro spezzato che sentì arrivare da Harry gli fece capire che forse – forse – anche lui vedeva qualcosa di simile, o ci teneva, o provava qualcosa. L’ultima alternativa però era poco credibile, debole come la nebbia nelle mattine di primavera. «Basta un filo di vento per farle cambiare forma, come a te basta qualche secondo per farti cambiare idea», ammise con un sospiro, distogliendo lo sguardo dal cielo per guardare lui, che però aveva ancora lo sguardo perso verso l’alto, cercando forse le parole giuste per rispondergli.
«Sono davvero tanto lunatico?».
«Da morire, sì…», rise Zayn, allentando sia la tensione nell’aria che la presa della mano sulla coperta. Era lunatico, da morire. Ma questo non gli era mai pesato. Al contrario, aveva imparato a sopportarlo, ad apprezzarlo, ad amarlo. Amava quel suo essere lunatico, quel suo non riuscire a stare fermo un attimo e quel suo cambiare idea continuamente. Era una sorpresa continua, c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire, e Zayn non se ne sarebbe stancato facilmente. «Ecco, ora somiglia ad un fungo, la nuvola», disse all’improvviso, guardandolo direttamente negli occhi.
Ci stava prendendo gusto, a flirtare con lui in quel modo.
E in realtà non aveva idea di che forma avesse assunto la nuvola. Nemmeno gli interessava. Preferiva il verde degli occhi di Harry al bianco delle nuvole. L’avrebbe preferito a qualsiasi altro colore, avrebbe preferito affogare in quel verde piuttosto che guardare qualsiasi altra cosa, preferiva affogare nel verde del suo mare piuttosto che imparare a nuotare nel mare vero.
«Un fungo… interessante…», mormorò di rimando Harry, girandosi direttamente su un fianco per poterlo guardare meglio, facendo scivolare il proprio sguardo in quello color tenebra dell’amico, che brillava di un sorriso che contagiava solo gli occhi e non le labbra. «E’ la prima cosa che ti è venuta in mente, vero?», gli chiese sollevandosi su un gomito, in modo da essere più in alto rispetto a lui, in modo da trovarsi nella traiettoria perfetta per baciarlo, se avesse trovato il coraggio o avesse perso – finalmente – la paura.
«Quella nuvola, invece?», ribatté Zayn sorridendo apertamente, con un sopracciglio inarcato e una ciocca di capelli che gli ricadeva sulla fronte, tramortita dal caldo e dalla forza di gravità. Indicò un punto a caso del cielo azzurro, e Harry si trattenne dallo scoppiargli a ridere in faccia, spostando a malincuore lo sguardo dal suo per portarlo su quelle nuvole che sembravano sempre le stesse ma in realtà mutavano ininterrottamente un secondo dopo l’altro.
Nemmeno Harry avrebbe saputo descrivere quella nuvola. Insomma, lui non aveva l’immaginazione necessaria per vederci quel che chiunque altro avrebbe potuto vedere con un minimo di fantasia. Zayn si era inventato un fungo dal nulla, senza guardare nemmeno la propria nuvola. Lui che avrebbe potuto dire? Non c’erano parole filosofiche che avrebbe potuto recitare per impressionarlo, anche perché probabilmente lo avrebbe solo fatto ridere di gusto; ma, per quanto l’idea non gli dispiacesse, non era la strada giusta.
«Somiglia a te», gli fece il verso, prestando ben poca attenzione ai cumulonembi e tornando a posare le iridi color prato sull’oggetto del proprio desiderio represso e non accettato. Si morse un labbro cercando di non farsi notare, ma il sorriso di Zayn raggiunse le labbra in un lampo, mentre distendeva il sopracciglio e scuoteva appena la testa, in attesa delle parole che avrebbe detto lui, forse tanto piano da far fatica a sentirle. «Somiglia al caffè al caramello che prendi tutte le mattine allo Starbucks davanti casa, alle sigarette che fumi per noia o per nervosismo, ai tuoi capelli troppo lunghi tirati indietro col cerchietto di tua sorella, ai pantaloni strappati e alla canottiera che usi per dormire anche se fa freddo, perché tanto hai il piumone che ti scalda… somiglia alle tue mani, alle tue labbra perennemente screpolate, al suono della tua risata…».
Non sapeva che altro dire per spiegarsi, Harry.
Al contrario, Zayn sarebbe voluto sprofondare, nascondere il viso tra le mani e piangere tutte le sue lacrime, perché semplicemente non ci poteva credere. No, doveva aver sentito male. Ma, guardandolo negli occhi, si accorse che l’amico faceva sul serio, che lo conosceva tanto da sapere tutte quelle cose e da dirle in quel modo, proprio come lui avrebbe voluto sentirsele dire, un giorno, magari proprio da lui.
«Stai davvero flirtando con me, Har?».
«Beh… tu non ti muovevi».
E ad ogni parola – ad ogni sillaba – il moro sentiva l’aria mancargli sempre di più, diminuita dalla vicinanza del riccio, che al contrario aumentava un centimetro dopo l’altro, senza accennare a fermarsi. Poteva distinguere le pagliuzze d’argento che si nascondevano nelle sue iridi, così vicino. Poteva osservare i suoi denti che mordevano appena il labbro inferiore, rendendolo più rosso ed invitante di quanto già non fosse. Poté notare una ciocca di capelli sfuggire ribelle al disordine controllato che li caratterizzava di solito. E poté vedere il bellissimo sorriso che gli increspò le labbra, riflettendosi dopo pochi attimi sulle proprie.
«E io che credevo fossi etero», riuscì a mormorare il maggiore. Un soffio, come portato dal vento. Niente di meno udibile. Niente di più leggero, come l’ironia che impregnò quelle parole. Perché, anche se credeva e aveva sempre creduto con tutto sé stesso che il suo amico di infanzia e adolescenza e di tutta la vita fosse etero dalla radice dei capelli all’unghia dell’alluce, inutile negare che ogni fibra del suo corpo avesse sperato il contrario. Lo fece ridere, sempre più vicino, quando ormai era impossibile ritrarsi, impossibile distogliere lo sguardo dalle sue iridi, dalle ciglia… dalle sue labbra.
«Lo credevo anche io, Zay…», mormorò l’altro di rimando, ora ad un millimetro scarso dalle labbra che aveva cercato di ignorare ma che a mano a mano l’avevano tirato a sé, come fossero state sempre collegate senza saperlo, come calamite dalla polarità opposta che non vedevano l’ora di unirsi. E lo credeva davvero anche Harry, di essere etero. Totalmente etero, con ogni fibra del proprio corpo. Ma forse non lo era mai stato, o forse lo era solo per metà. Non gli importava, troppo concentrato a cercare di capire le reazioni di Zayn.
E bastò loro il tempo di un respiro, perché le palpebre del moro sfarfallassero e le labbra del riccio gli si avvicinassero ancora, tanto da sfiorarsi le une con le altre e da sentirsi appena ma non abbastanza da assaporarsi davvero. Le dita del primo avevano finalmente lasciato la presa sulla coperta, spiazzate dalla vicinanza dell’altro, dal suo odore e da quello che aveva appena detto, forse senza immaginare le conseguenze.
Voleva baciarlo, Zayn.
Voleva ricambiare il bacio, Harry.
Bastò loro un respiro, un sospiro, un attimo che passò senza che nemmeno se ne accorgessero, in cui le labbra di uno si attaccarono a quelle dell’altro. Nessuno dei due riuscì a capire chi avesse fatto il primo passo, chi si fosse mosso di quel millimetro che basta ad unirli. Ma del resto a nessuno dei due sembrava interessare, mentre Zayn faceva scivolare una mano tra i capelli di Harry e lui si sporgeva fino a sederglisi a cavalcioni sul bacino, incurante di tutto, perché non gli importava di niente che non fosse la risata del suo migliore amico contro le labbra, in quel momento.
Harry le aveva sognate, quelle labbra che ora stava baciando. Aveva cercato di fermare i pensieri prima che essi si scatenassero e gli mandassero in pappa il cervello. Aveva fatto finta di non guardargli le labbra quando lui fumava, o beveva il caffè o semplicemente quando parlava gesticolando e lui nemmeno lo ascoltava; gli veniva solo in mente che avrebbe voluto fermare quelle mani che si muovevano senza un senso e stringerle, prima di avvicinarsi e baciarlo senza conoscere il motivo del suo desiderio, senza chiederselo, senza pensare perché aveva pensato fin troppo e ne era stufo.
E aveva immaginato di toccare quelle labbra screpolate con le proprie. Aveva immaginato che consistenza e sapore potessero avere. Aveva immaginato la reazione di lui quando finalmente si fosse accorto di quel che stavano facendo. Aveva pensato troppo, immaginato troppo, riflettuto troppo.
Le labbra di Zayn erano screpolate come aveva pensato. Ruvide, contro le proprie. Non troppo carnose, ma terribilmente invitanti. E la barba gli faceva il solletico, ma si tratteneva dal ridere; e sapeva di fumo, di tabacco, di gomme da masticare alla menta e di caramello e di caffè; e le proprie labbra sembravano sapersi muovere contro quelle di un altro ragazzo come se l’avessero sempre fatto e quella non fosse stata la prima volta; e gli piaceva, baciare il suo migliore amico, era come se la forza di gravità fosse scomparsa e loro galleggiassero in un mondo che non era il proprio, con un altro cielo, un altro sole e altre nuvole da interpretare.
Zayn le aveva sognate, quelle labbra che ora stava baciando. Le aveva desiderate giorno dopo giorno, notte dopo notte, senza nemmeno provare a fermare quei pensieri, perché a quel punto non c’era modo né motivo di farlo. Non aveva senso provare a smettere, se poi quei pensieri gli si ripresentavano in mente come dotati di vita propria. Non aveva ragione di interromperli, perché tutto sommato quei pensieri gli facevano bene, lo facevano sorridere anche se erano solo sogni che magari non si sarebbero mai avverati, lo facevano piangere e lo tenevano sveglio. Ma erano la sua ragione per vivere, quei pensieri, per quanto potesse sembrare strano e melenso.
E aveva immaginato di toccare quelle labbra rosse con le proprie. Ne aveva immaginato la consistenza e il sapore, aveva sognato il momento in cui finalmente le avrebbe sfiorate un milione di volte nella sua mente, a ripetizione, all’infinito. Aveva immaginato la sua reazione, il suo irrigidirsi davanti a quel gesto inaspettato. Si aspettava che scappasse, Zayn. Ma aveva immaginato troppo, aveva sognato troppo, e aveva sbagliato tutto, come sempre.
Le labbra di Harry erano rosse e invitanti come aveva sempre immaginato. Morbide, contro le proprie. Carnose da morire, tanto da fargli venire voglia di prenderle a morsi, di mangiarle con tanta avidità da farle sanguinare. E il suo sorriso appena accennato contro le labbra gli faceva il solletico, ma si tratteneva dal ridere; e sapeva di cioccolata, di pesche, di gomme da masticare alla liquirizia e di sangue e di passione; e le proprie labbra sembravano sapersi muovere contro le sue come non avessero fatto nient’altro, come fossero nate apposta per baciare Harry e farsi baciare e mordere e desiderare; e gli piaceva, baciare il suo migliore amico, gli piaceva troppo, tanto da non voler smettere anche se l’aria era sempre più calda e quasi gli mancava il fiato e di lì a poco si sarebbe sentito svenire.
Zayn si aspettava che lui si ritraesse all’ultimo momento, prendendolo in giro. E Harry si aspettava che lui lo respingesse, che gli dicesse che quegli sguardi e quei sorrisi se li era sempre immaginati. Ma il riccio non si ritrasse, e il moro non lo respinse; al contrario, Harry gli succhiava il labbro senza riuscire a smettere di sorridere, accettando finalmente tutto sé stesso, e Zayn lo baciava trattenendo le lacrime agli occhi e un singhiozzo magari un po’ soffocato, perché era quello che aveva sempre desiderato.
E chi se ne frega se faceva caldo, se il sudore colava loro lungo la pelle e se erano due ragazzi, al centro di quel prato immenso, con solo quella coperta rossa a proteggerli dagli insetti. Chi se ne frega se magari quello sarebbe stato solo l’istinto di un momento e sarebbero passati pochi minuti e uno dei due si sarebbe pentito di tutto e sarebbero tornati a casa negando tutto, anche le evidenze più schiaccianti.
Il maggiore posò delicatamente una mano sul petto dell’altro, allontanandolo di qualche centimetro, quanto bastava per prendere fiato, per non soffocare e per rendersi conto di tutto. Chiuse gli occhi e posò piano la testa sul terreno, nascondendosi da quello sguardo che sembrava anche più verde e più luminoso e più peccaminoso e tentatore del solito. Prese fiato, Zayn, mentre quello che evidentemente non era più solo il suo migliore amico lo osservava trattenendo il fiato.
Fece per muoversi, ma un respiro profondo di Zayn e una sua mano stretta delicatamente sul suo fianco lo bloccarono. Prese fiato con l’ombra di un sorriso sulle labbra, mentre si chinava su di lui per lasciargli un bacio all’angolo delle labbra schiuse, provocandogli la pelle d’oca sulle braccia, che quasi non lo fece scoppiare a ridere contro di lui, solo per poter vedere la reazione che avrebbe potuto causare.
Non rise, però.
Gli lasciò un secondo bacio, nello stesso punto. Poi un altro, sul mento ispido. E un altro ancora, sulla gola. Avrebbe continuato all’infinito, se non l’avesse sentito ridere di gusto e portare una mano a sollevargli il mento, per poterlo finalmente guardare negli occhi, ora che i pensieri erano più o meno in ordine. «Baci bene per essere etero, sai?», gli fece notare con una piccola risata a stento trattenuta. E Harry si sentì andare a fuoco, solo al sentirlo ridere, solo a sentire le sue dita che gli accarezzavano un fianco, e la schiena e su, su fino alla spalla, al collo, all’attaccatura dei capelli.
«E’ un complimento?», si ritrovò a mormorare il riccio, accarezzandogli una guancia quasi soprappensiero. Vide l’altro sorridere apertamente – con la punta della lingua appena incastrata tra i denti – e annuire come fosse naturale, la cosa più normale del mondo. «E tu baci bene per…».
«Lo so», lo interruppe Zayn stampandogli un altro bacio. Perché non ci poteva credere, e gli sembrava quasi un sogno e non voleva smettere di baciarlo, ora che ce l’aveva. Ironico oltre ogni limite e senza riuscire a smettere di sorridere. Nemmeno ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva sorriso tanto apertamente davanti a qualcuno, o per merito di qualcuno.
Il ragazzo dagli occhi verdi scoppiò a ridere scuotendo la testa, lasciandogli un bacio sulla punta della spalla, prima di muoversi e tornare a sdraiarsi accanto a lui. Più vicino, quella volta. E con la mano ancora stretta nella sua, senza pensare a quello che sarebbe potuto succedere se li avessero visti perché, ehi, ci voleva provare e basta, e fanculo il parere degli altri.
«Zay..?», provò a chiedere rindossando gli occhiali scuri e riprendendo a fissare quel cielo azzurro che non era niente in confronto al color nocciola di certe iridi. Il ragazzo al suo fianco cambiò la presa sulla mano, intrecciandone le dita e mormorando qualcosa che nemmeno lui riusciva a capire davvero fino in fondo. «Quella nuvola a cosa somiglia?». Cercò di trattenere il sorriso che gli aleggiava indisturbato sulle labbra, ma non c’era niente da fare. Sorrideva e basta, senza sosta e senza possibilità di ritorno.
Zayn seguì il suo sguardo e l’ombra del suo sorriso, non trattenendone uno anche sul suo viso. C’era una nuvola, bianca come tutte le altre. E, come le altre, non somigliava a niente di particolare ma sarebbe anche potuta sembrare qualsiasi cosa. Dipendeva dai punti di vista, dai sorrisi, dagli sguardi, dalle mani che si intrecciavano nel modo più naturale possibile e della forza di gravità che pareva scomparire insieme alla ragione e alla fantasia. Era grande, quella nuvola, e all’improvviso il ragazzo trovò le parole adatte da poter dire.
«Somiglia al tuo sguardo grande da bambino, alle tue labbra sempre rosse e alla storia della tua vita che ti porti scritta addosso; e somiglia al velo di barba che non ho mai voglia di tagliare, alle mie ciglia lunghe che so che invidi da morire e alle canottiere che infilo di fretta per non andare ad aprire la porta mezzo nudo perché mi vergogno; e somiglia ai tuoi ricci che non sono più ricci, al tuo modo di ridere che mi manda completamente in tilt e alle tue labbra che sanno di pesche anche se tu le pesche non le mangi mai…». Fece una pausa per voltarsi a guardarlo, Zayn, e quello che vide gli fece quasi fermare il cuore da quanto era bello e da lasciare senza fiato. Harry aveva gli occhi verdi fermi sul suo viso, un po’ sgranati e resi lucidi dall’emozione, mentre si mordeva il labbro per trattenersi dall’interromperlo. «Somiglia al tuo non essere etero e non saperlo e somiglia alla mia voglia di baciarti che mi annebbia la mente da anni e non te l’ho mai detto perché sono uno stupido e non riesco a smettere di guardarti perché sei un’opera d’arte e…».
Si fermò di nuovo, sentendo la mano di Harry stringerlo più forte e vedendo le sue labbra stendersi nel sorriso più bello e inaspettato di sempre. E si rese conto che avrebbe voluto vederlo sorridere più spesso, e che avrebbe voluto essere sempre lui, a farlo sorridere, soprattutto in quel modo, soprattutto col sole che gli rendeva lo sguardo acquoso e terribilmente verde e impossibile da evitare.
«Somiglia a noi, quindi?», gli chiese il riccio avvicinandosi per nascondere il viso contro il calore della sua spalla tatuata.
Gli lasciò un bacio che lo fece sospirare, mentre annuiva con l’ennesimo sorriso di quella giornata troppo calda, con le poche farfalle che si erano avventurate via dall’ombra e i loro respiri che facevano più rumore dei bambini che giocavano sulle altalene a parecchi metri da loro.
«Somiglia a noi», annuì Zayn, voltando la testa per lasciargli un bacio sui capelli ricci.
E quello era il loro modo di dire che ci volevano provare, sotto il cielo troppo azzurro e con quelle nuvole troppo bianche e coi battiti delle ali delle farfalle che gli riempivano le orecchie dove i respiri e gli schiocchi dei baci non riuscivano ad arrivare.


 


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