Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama
Ricorda la storia  |      
Autore: Xenja    19/11/2014    6 recensioni
La colpevolezza di aver commesso. O l'essere colpevoli di aver assistito?
Potrebbe indurre alla perdita di qualcosa, all'invenzione di qualcos'altro, alla mancanza di valori fondamentali per la vita. Muta le persone, le incastra, le rinchiude in un universo... Grigio.
E se invece si gioca a scoprire chi è chi? Chi ha fatto cosa? Come scagionarlo? Come auto-scagionarsi?
Ma la coscienza è preziosa, è meglio imparare ad usarla nei migliori dei modi, altrimenti i danni potrebbero essere irreversibili.
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Obitorio

Quello che l’uomo chiama cielo, io lo definisco un intreccio di vapori neri e fumi che si sgretolano sotto i colpi della pioggia. O almeno è questo ciò che mi dice il mio sguardo che vaga oltre la vetrata. Le gocce di condensa lacrimano lungo il freddo vetro, scoprendo lentamente uno sconfinato mondo. Grigio. Un intreccio di fili grigi tessuti da un telaio grigio che viene manovrato da una sagoma grigia.
Sospiro. C’è qualche colore oltre al grigio che i miei occhi grigi possano cogliere?
Domande troppo complesse per te, Gwen. E’ meglio non porsele in momenti come questi.
Ultimamente la mia testa non è altro che un puzzle monocolore da comporre. Un affare impossibile per chi avesse una pazienza e un tempo limitato. C’è chi dice che la parola impossibile sia solo per gli stupidi. Allora io augurerei agli intelligenti di provare l’impossibile e di morire provandoci. Ciò che è impossibile, è impossibile, punto.
I miei occhi vagano dalla finestra appannata alla gente che continua a correre per i corridoi sterili, passando per la sala d’aspetto, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Se un’infermiera inciampasse in una sedia e cadesse a terra o almeno perdesse per un attimo l’equilibrio, sarebbe divertente. Donerebbe qualche sorriso al piano terra di un ospedale come tanti. Ecco il modo migliore per far sorridere un paziente, fargli godere la vista della sofferenza altrui. Chi non abbozzerebbe un sorriso?
Ma io non sono una paziente, io sono solo una ragazza che attende. Da quanto attendo? E io che ne so, la mia mente è troppo pigra raggiungere a conclusioni così semplici. Ricordo solo di aver visto la luna quando fui stata trascinata fuori casa. E ora è giorno, non c’è il sole, ma sono sicura che sia giorno.
Mi stiracchio osservando svogliatamente le mie unghie. Devo ripassare lo smalto, è tutto mangiato!
Da quando mi mangio le unghie? Sono forse una bambina stressata che non ha niente di meglio da fare se non mordersi le dita? Oh, no. Non quando sono cosciente. Non mi ritingo le unghie da quando un mattina mi ritrovai tre graffi sul seno destro e della pelle insanguinata sotto le unghie della mano sinistra. Quando li vidi pensai subito di essere stata violentata, ma l’assurdità di quel pensiero era talmente irragionevole da schiaffeggiarmi da sola. La sera seguente avrei voluto chiudere a chiave la porta della camera per accertarmi che nessuno entrasse, ma non lo feci. Avevo paura di scoprirla aperta . Eppure ero stata io a farmi quei graffi, il sangue sotto le unghie era la spudorata conferma.
Voglio alzarmi e camminare un po’, l’aria che mi circonda attorno l’ho già respirata tutta, me ne serve altra. Faccio per alzarmi, sto per darmi la spinta con i braccioli della sedia quando mi dico “E se poi svenissi di nuovo?”
Era così che mi avevano trovato gli uomini che mi hanno portato qui, all’ospedale. Svenuta. Sdraiata a terra, in una posizione del tutto scomposta, fredda come un cadavere. Come se già uno non bastasse.
No, meglio non alzarsi.
Dovrei pensare a come abbia fatto quel disgraziato a morire. Io sono l’unica testimone, ma sono come un cieco che deve riconoscere una persona semplicemente guardandola: è impossibile.
Chiunque abbai ucciso quel ragazzo era un killer esperto, non aveva nemmeno forzato la porta dell’appartamento. Anzi, era ancora chiusa dall’interno, gli uomini che mi hanno portata qui l’hanno abbattuta.
Ciò vuol dire che era in casa, magari nascosto…
Un colpo al cuore. Violentata!
Per l’amor del cielo, Gwen! Non ti avrebbe lasciato dei semplici graffi!
Pensa, Gwen. Pensa.
L’arma del delitto è un piccone, ma in casa non c’era mai stato nessun piccone, per cui il killer l’aveva con sé. Un omicidio programmato. La vittima era morta sul colpo, una picconata dritta al cuore talmente violenta d’aver quasi strappato l’organo fuori dalla cassa toracica, per cui l’assassino doveva avere una forza bruta. Era senza dubbio un uomo. Non c’era alcun segno di DNA di nessun tipo. Niente impronte digitali. Niente ciocche sporadiche di capelli se non quelle dei residenti. Niente gocce di saliva. Niente tracce di epidermide o simili sul corpo del cadavere. Esito? Nessuno. Come se un fantasma fosse entrato e uscito spargendo sangue dietro di sé. E’ assurdo! Eppure, la porta era chiusa dall’interno. Quindi secondo la teoria che gli spiriti passino attraverso i muri, non c’è da escludere che il killer sia un fantasma.
No, l’assassino era sicuramente nascosto in casa e non ce ne siamo accorti. Eravamo stanchi, l’università è dura, era buio, chi si sarebbe accorto di un’altra persona in casa?
Sì, ma come ha fatto ad uscire di casa poi? Si è buttato dal quinto piano della palazzina? La porta era chiusa dall’interno…
Se fosse rimasto in casa anche dopo l’omicidio, gli uomini che mi hanno portato via si sarebbero accorti della sua presenza. Dopotutto l’appartamento non è poi molto grande.
E’ troppo difficile, sono stanca… Però, perché l’ha ucciso? Perché proprio lui? Non poteva fare lo stesso come me? E che cosa ci facevo io distesa a terra? Avevo trovato il cadavere?
I miei piedi intanto si stanno muovendo, io nemmeno ricordo di essermi alzata e di aver percorso le scale che portano al piano -2. Non controllo più me stessa. La mia mente. Lei, io non so nemmeno se abbia una mente, in questo momento. Eppure se riesco a pensare, vuol dire che qualcosa c’è nella mia testa. Allora ciò che manca non è una mente, ma una coscienza che mi permetta di controllare me stessa.
La donna che cammina di fronte a me, trascinandomi per un braccio, apre una pesante porta con una barra di metallo che stranamente mi attira ipnoticamente. Le luci opache si alternano in una tetra danza ad intermittenza, il freddo qui si fa più pungente. Dal tatto della pianta dei miei piedi mi rendo conto di essere scalza. C’è tanta polvere tra le mie dita, il pavimento è sporco. Mi da fastidio, distorco la bocca, assottiglio lo sguardo.
Ma io cosa ci faccio qui? Ma chi mi ci ha portato? Che rottura di palle, cazzo!
Nel frattempo, qualcosa scivola davanti a me. E’ bianco, sembra nascondere qualcosa, mi ricorda il mio letto. Lo fisso immaginando di distendermi sopra di esso e dormire. Però prima devo scoprire il tesoro che nasconde, c’è qualcosa sotto lì, lo so!
E come se una mano alzasse la distesa bianca, ecco che compare il tesoro. Marmo bianco con venature viola e sangue su quello che mi sembra un petto umano. Un cadavere? Eh, sì. Un uomo morto per una picconata al petto. Pare che il cuore stesse per essere strappato fuori dalla cassa toracica, le ossa toraciche sono ben visibili, tagliano quell’incarnato marmoreo in un modo così sublime… Eppure, non ci sono tracce di DNA. La porta, quella maledetta porta! Avrei dovuto pensarci prima! Avrei dovuto aprirla! Minchia, Gwen! Razza di rincoglionita! Pensarci prima, no?
Disperazione. Completa follia. Quella ferita, il cuore stava per schizzare fuori, se solo fosse stata usata più forza… Le ossa della cassa toracica sono tutte storte per la violenza dello strattone… Ma che sadica spregevolezza!
Sul mio volto si allarga un sorriso talmente ampio che le mie labbra si crepano per la troppa tensione. Gli occhi strabuzzano e le iridi rimpiccioliscono. Inizio a tremare convulsamente, la mia testa si volta a scatti, le mie mani iniziano a scorticare il mio petto. Intorno a me tutto è grigio. Il cadavere tende al grigio, le pareti sono grigie, le luci opache hanno un colorito grigio, il pavimento sporco è grigio… Tutto! Tutto grigio!!!
Urlo. E allora sento l’infermiera che mi blocca con bracci possenti e mi trascina via. So quello che pensa, ma non è vero. Non è possibile! E’ impossibile!
“Non è così!” strillo.
E invece sì!
“Nooo!” e scalcio, mordo, picchio. L’infermiera continua a trascinarmi via, su per le scale. Come fa ad ignorare i miei attacchi? E’ semplice, non sto attaccando lei, ma me stessa.
Come faccio a trovarmi qui? E’ morto… ma chi? Come faccio a conoscere alla perfezione lo svolgimento dell’omicidio se non ero cosciente? Ma che cosa ci faccio qui? Quella porta! Quella maledetta porta! Avrei dovuto pensarci prima!
Varco un ultimo pianerottolo, sono completamente immune all’ambiente che mi circonda. Non so dove sono, non so che cosa di faccio qui, non so nemmeno se sono sospettata di qualcosa riguardo a quanto accaduto non so quando.
La risposta alle mie domande arriva scritta su un pezzo di plastica “Reparto psichiatria, area di sicurezza. Vietato l’accesso ai non autorizzati”
Rido fino a sputare sangue.

 
-1427 parole
 
 
 
  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama / Vai alla pagina dell'autore: Xenja