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Autore: Shomer    22/11/2014    11 recensioni
Quando eravamo piccoli, le stelle le vedevamo ogni notte. Prima di andare a dormire, gli scienziati Sovrumani ci concedevano due ore di libertà in una specie di foresta grande almeno due chilometri quadrati, che però era recintata ai lati e superiormente da rete elettrificata.
In un posto come Città Regresso, invece, dove ci vivono tossici e ubriaconi, dove puoi morire come un cane in mezzo alla strada senza far voltare nessuno, dove la gente si accoltella nei vicoli... di stelle non ce ne sono mai.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Per Alessia. Buon compleanno in ritardo, tesoro!
 

 

Quando ero piccola, mia madre mi diceva sempre che coloro che ci avevano ridotto in schiavitù erano gli eroi della sua infanzia.
«Però loro facevano molte più cose» sorrideva «Quelli della televisione sapevano diventare invisibili, leggere nel pensiero, fermare il tempo... ad uno di loro uscivano perfino degli artigli dalle nocche.»
Io guardavo i volti di quegli uomini nel piccolo televisore scassato che tenevamo sul pavimento e mi domandavo che cosa ci fosse di diverso tra noi e loro.
«Sono più intelligenti» rispondeva sempre mia madre «Più furbi. E più veloci, più in salute, più belli da vedere, più abili, più lungimiranti... sono quello che siamo noi, però lo sono di più. Molto di più.»
A volte le chiedevo di raccontarmi com'era il mondo prima della loro comparsa, prima che le persone perdessero completamente il libero arbitrio, ma lei diceva di non ricordarselo. Io non le credevo, perché a volte si perdeva in pensieri riguardanti la sua infanzia e mi raccontava di festività strane, posti che non avevo mai visto, usanze ormai dimenticate. E poi mi parlava di loro, degli eroi di cui leggeva in libri o fumetti.
«Però loro erano buoni» diceva sempre «C'erano anche quelli cattivi, ma venivano sempre sconfitti. Ci hanno fatto crescere con l'illusione che, semmai fossero esistiti personaggi del genere, non ci avrebbero fatto del male. Forse sono stati proprio loro a mettere in giro certe storie, quando ancora non sapevamo della loro esistenza.»

L'ultimo ricordo che ho di mia madre si riduce ad una forte raffica di vento, alla pioggia che mi scava il volto e al suo sorriso che brilla come un faro nell'oscurità.
Aveva i polsi legati dietro la schiena, due uomini a tenerle le braccia e un furgone blindato ad aspettarla dall'altra parte della strada. Però la speranza non abbandonava il suo volto: quasi riesco a vederla ancora mentre, con un rapido movimento delle labbra, mima un «andrà tutto bene.»
Ma non è andato tutto bene.
Il sistema dei superuomini è sostanzialmente semplice: se non sei uno di loro, sei sotto di loro. 
Non so di preciso come hanno fatto a prendere il potere, so solo che nel momento esatto in cui l'hanno preso, hanno anche deciso che tutti gli umani al di sopra dei diciott'anni avrebbero dovuto trascorrere la vita a servirli. Le donne tra i diciotto e i venticinque, invece, avrebbero avuto la possibilità di avere dei figli – con l'inseminazione artificiale – e di crescerli fino al loro settimo anno di età: in quel momento, sarebbero state prese e portate nei centri rieducativi dove avrebbero imparato a svolgere delle mansioni degradanti, ma utili ai superuomini.
I bambini, invece, avrebbero avuto tre possibilità.
La prima: non sei abbastanza per loro, dunque ti strappano da tua madre e finisci in uno dei Centri Educativi per bambini, dove passi tutta la vita sentendoti dire che il destino che ti spetta una volta compiuti diciott'anni è proprio quello che ti meriti, un onore, un servigio che doni all'umanità. Tanto che alla fine finisci pure per guardarli negli occhi e dire «grazie» mentre muori in una delle loro miniere, in un pozzo petrolifero, nelle fogne.
La seconda: hai qualche malformazione, un deficit mentale grave, una malattia congenita, o magari sei semplicemente allergico al nichel e allora finisci in una delle Città Discarica, a vivere con altri “scherzi della natura”, quelli nati “sbagliati”, quelli che non servono a niente. Ti lasciano lì a marcire finché la morte non ha pietà di te e ti prende con sé. Molti pensano che questo sia il destino migliore, che è meglio condurre una vita di stenti piuttosto che una da schiavi.
La terza: hai qualcosa che a loro interessa. Sei bello o intelligente o abile. In questo caso, ti portano nei Centri di Ricerca dove ti fanno vivere come un re mentre ti iniettano strani sieri e monitorano le tue risposte al computer, dove ti fanno operazioni a cuore aperto solo per vedere come sei fatto, per capire come possono potenziarti, come renderti come loro o addirittura migliore di loro.
Vogliono sviluppare delle attività: telecinesi, telepatia, cose del genere. Cercano di creare un siero che possa potenziarli e i prototipi li sperimentano sui bambini che più somigliano a loro. Il quaranta per cento di questi muore dopo tre anni. Gli altri, quelli più forti e quindi più interessanti, anche se non sono diventati dei superuomini, a diciott'anni vengono mandati nei Settori di Rieducazione, dove li imbottiscono di farmaci particolari e fanno loro lavaggi del cervello in modo da farli uscire di lì talmente plagiati e talmente servizievoli che alla fine vanno a lavorare in uno dei loro Centri di Controllo, occupandosi di tutti quegli aspetti necessari, ma che annoiano i superuomini. Sono quelli che una volta si chiamavano “poliziotti”, insomma.
Questo è il destino peggiore, perché non sai mai ciò che potrebbero farti fare. Mia madre, che aveva diciott'anni quando i superuomini hanno preso il potere e quindi non ha intrapreso nessuna di queste tre vie, diceva sempre che il bambino a cui faceva da baby sitter da piccola era finito nei Centri di Ricerca. Lo rivide dieci o dodici anni dopo, quando venne a prenderla insieme ad altri uomini.
Guardò fuori dalla finestra e mi disse: «Lui è Jordan, il ragazzino che dovevo costringere a fare i compiti.»
Io appiccicai la faccia al vetro, guardando quello sconosciuto che si avvicinava a casa mia con le armi attaccate alla cintura. «È venuto a trovarti?» chiesi.
Mia madre fece un sorriso triste. «No» rispose «È venuto a prendermi.»
Era il giorno del mio settimo compleanno.

 

La stazione di Città Regresso

0.Sovrumani


Non ho mai creduto nel destino né in una qualche forma di vita ultraterrena che monitora le nostre vite dall'alto dei cieli, anzi, mi sono sempre ritenuta una figlia del caso: frutto di scelte del tutto casuali prese per la maggior parte da terzi, il risultato di azioni giuste e sbagliate, abominevoli e caritatevoli, tutte fatte senza pensarci, tutte commesse per caso.
La mia vita è stata una scommessa dall'inizio alla fine: l'Inseminatrice ha scelto il mio donatore maschile rovistando tra un mucchietto di fogli e prendendone uno qualsiasi, e per puro caso mia madre era la prima della lista di donne fertili. A sette anni sono finita al Centro 23 perché per caso era l'unico con dei posti liberi. Non sono morta precocemente perché, per caso, nel giorno in cui dovevano fare gli esperimenti sul cervello io avevo il raffreddore. Sono scappata dal Centro perché, per distrazione, una Rieducata ha scambiato il mio siero con quello destinato ad un altro ragazzo, e così quel giorno ho preso lo stesso di Jay e Mail. E, solo quella volta, ha funzionato.
Però, nonostante adesso sia quella che sono per pura casualità, mentre guardo il vetro sporco del treno che sta accelerando, non posso fare a meno di domandarmi se non sia stato proprio il destino a condurmi di nuovo qui.
Guardo il paesaggio che scorre fuori dal finestrino senza vederlo davvero: davanti agli occhi le spalle larghe di Mail che si allontanano e nell'orecchio la voce fredda e tremolante di Jay.
«Non voltatevi mai indietro» ha detto dieci minuti fa, in un mormorio contorto «Forse riusciremo a ritrovarci ancora... in un'altra vita.»
E l'abbiamo fatto. Un ultimo sguardo e un addio muto.
Un lungo sospiro da parte mia. Sulle spalle il peso dello zaino con lo stretto indispensabile per sopravvivere, nel cuore il ricordo malandato degli anni spensierati e degli errori che mi hanno condotta qui, ancora una volta, alla stazione di Città Regresso, senza la certezza di riaprire gli occhi dopo essere andata a dormire.
Ma è una cosa che posso sopportare. L'ho già fatto, in passato.
L'abbiamo fatto tutti.

 

Nella mia mente si affaccia sempre più prepotentemente il sorriso spensierato di Mail, i suoi occhi scuri piegati, le piccole rughe spuntate sul suo viso troppo presto, forse per le troppe sigarette. La sua risata leggera, cristallina, il suo tocco delicato. Le promesse che non ha mantenuto.
«Le nostre vite scorrono insieme» diceva, mentre Jay scoppiava a ridere «Non ci separeremo mai.»
«Molto romantico, Mail, ma adesso torna ad essere uomo» ghignava Jay, con un largo sorriso.
A volte ripenso con malinconia a quel giorno, a Mail che ci credeva veramente, a Jay che era felice. All'epoca non ci importava niente delle sue frasi ingombranti, dei suoi silenzi fastidiosi; era solamente “Jay la serpe”, ma le sue parole non facevano male a nessuno.
Eppure lo sapevamo, lo sapevamo che c'era qualcosa che non andava in lui. C'era qualcosa che non andava in tutti noi, ma ormai eravamo liberi, senza regole, senza paura. E prima di dormire non pensavamo a niente.
«Sei forte, per essere uno scherzo della natura» mi diceva sempre Mail, dopo che con un lieve gesto della mano riuscivo a sfilare i portafogli alle superdonne impellicciate.
«Anche tu» rispondevo con un sorriso.
Mail non era mai offensivo quando si riferiva a noi come a degli “scherzi della natura”, perché era esattamente ciò che eravamo. Ragazzi come tanti che però nascondevano un piccolo segreto: io muovevo gli oggetti con la mente, Jay riusciva a farti cambiare stato d'animo solo toccandoti, Mail riusciva ad intrufolarsi nei sogni della gente e, quando era sveglia, a fargli vedere ciò che voleva.
Non eravamo superuomini, o “Sovrumani” come preferivano farsi chiamare. Non eravamo nemmeno storpi.
Per quanto riguarda me, non ero né abile né tantomeno intelligente. Non c'era niente nel mio cervello che mi rendesse superiore alla media – forse ero e sono addirittura inferiore da quel punto di vista –, non sapevo fare nulla di particolare, di sorprendente. Però ero bella. E i bambini piacevoli da guardare, venivano presi insieme ai cervelloni. È difficile capirne i motivi, apparentemente non ce ne sono... ma i Sovrumani ricercano la perfezione. Che sia fisica o mentale, non importa. Qualsiasi cosa rasenti la perfezione anche solo in un campo, viene portata via e sottoposta ad esperimenti per potenziarla anche negli altri campi. Io ero una di questi. Anche Mail e Jay lo erano, perché sono intelligenti.
Quando avevamo scoperto che gli esperimenti dei Sovrumani su di noi avevano avuto effetto, avevamo fatto di tutto per tenere nascosta la cosa.
Che cosa ci avrebbero fatto, se avessero scoperto che eravamo diventati come loro o addirittura meglio? Avrebbero continuato a studiarci, ci avrebbero sezionato il cervello per capire come mai su di noi i sieri avevano effetto e sugli altri ragazzi no? Ci avrebbero integrati nella loro comunità?
Avevamo solo sedici anni e non volevamo scoprirlo.
Usando la mia abilità, senza farmi vedere da nessuno, cercavo il momento adatto per far scivolare fuori dalle boccette il sedativo che ci davano per evitare rivolte e fughe. E dopo mesi passati a programmare e ripassare, usando le nostre abilità siamo riusciti a scappare dal Centro 23.
Solo noi eravamo riusciti a fuggire... ed eravamo andati a vivere ad Amaranta, una delle poche città abitate contemporaneamente da mamme, storpi e superuomini. Ma erano riusciti a localizzarci, complice il fatto che per vivere eravamo diventati dei piccoli delinquenti. Di quelli che si vedono ai bordi delle strade e che fanno girare le persone dall'altra parte. Cercavamo di mimetizzarci con gli storpi, ma quando sei troppo bello o troppo abile o troppo intelligente, qualcuno se ne accorge.
Mail e Jay erano bravi a mimetizzarsi tra gli scarti, dovevano solo far finta di essere più stupidi e incapaci. Ma io no. Ero stata portata nei Centri di Ricerca solo perché ero bella, e questa è una cosa che difficilmente si può nascondere.
Prima che ci trovassero, ero una ladruncola da quattro soldi, Mail passava le sue giornate a vincere a poker online o a fare cose strane, sempre su internet, che in un modo o nell'altro ci facevano accumulare grana, e Jay a volte dava una mano a noi e a volte faceva cose “supersegrete” di cui non voleva parlare.
A quel tempo non lo sapevamo, non ce ne rendevamo conto, che non avremmo potuto continuare per sempre. Che avremmo dovuto pagare. E, di fatto, abbiamo pagato due volte. Ma io voglio raccontarvi della seconda volta.

 
1. Jay


Era la Città Discarica numero quattro, ma io la chiamavo Città Regresso, perché mentre giravo per quelle strade trafficate venivo colta dal dubbio che forse Darwin non avesse poi così ragione riguardo alla selezione naturale. Vedevo spacciatori vendere dosi all'uscita da scuola, tossici di Mevitol tirare fuori i coltellacci per pochi spiccioli, prostitute fare le bolle con le gomme da masticare rosa.
L'aria era grigia e umida, pesante; le persone si avvolgevano nei cappotti e quando passavano davanti a un vicoletto si giravano dall'altra parte, i ragazzini storpi stavano piazzati vicino ai lampioni a sussurrare cose ai passanti.
Mi avvolsi nel cappotto pure io, alzandomi la sciarpa fin sopra il naso e nascondendomi il resto del volto con gli occhiali da sole.
Passai davanti ad un vicoletto e mi girai dall'altra parte, in perfetta sintonia con gli abitanti del luogo. Città Regresso non era il posto adatto a me, avrebbe detto Mail. Ma se sei uno scherzo della natura e devi nasconderti da un esercito di scienziati pazzi, cosa c'è di meglio di una città piena di scarti della società e criminali?
Guardai a destra e a sinistra meccanicamente prima di estrarre le chiavi di casa dalla borsa e aprire il portone. Un'ultima occhiata all'esterno prima di chiudermelo alle spalle con un gesto secco, un sospiro e un ringraziamento muto: ancora una volta ero tornata a casa.
Salii i quattro piani di scale quasi di corsa, mentre lo squillo del mio telefono rimbombava nell'atrio fatiscente e umido.
«Pronto?» chiesi, appoggiando all'orecchio il cellulare con appiccicato quell'affare elettronico che mi aveva dato Mail per nascondere la mia vera voce.
«Parlo con Tess... mi scusi, non conosco il suo cognome» la voce della donna dall'altra parte del telefono era imbarazzata e insicura, esattamente come quella di tutte le persone che mi chiamavano.
Con un sospiro entrai in casa procedendo con il solito rituale: sguardo a destra e sinistra e occhiata all'esterno prima di chiudermi la porta alle spalle.
«Solo Tess» dissi sbrigativa, togliendomi il cappotto e lanciandolo sul divano. Mi guardai intorno: la tenda della finestra di fronte a me lasciava entrare un filo di luce. Io la chiudevo sempre completamente... con un sobbalzo mi resi conto che non ero sola in casa.
Feci per girarmi e uscire di corsa, ma sentii qualcosa di duro e freddo premermi sulla spina dorsale. Era la canna di una pistola. Chiusi gli occhi, pietrificandomi sul posto, mentre la donna al telefono mi parlava dei sospetti che aveva sul conto di suo marito.
«Finisci la conversazione come se niente fosse» disse una voce gelida alle mie spalle.
«Capisco» dissi, cercando di non farmi assalire dal panico «Sono trecento. Cento in anticipo e gli altri duecento a lavoro concluso. In questi giorni le manderò un indirizzo e una data al numero che ha usato per chiamarmi: porti lì i soldi, il nome di suo marito e una sua foto in una busta sigillata. Mi farò viva io.»
La donna mi ringraziò e riattaccò. Io feci un respiro profondo, sentendo la canna della pistola che premeva sempre più forte sulla mia schiena. Mossi la mano sinistra in maniera quasi impercettibile, cercando di allontanare l'arma con la forza del pensiero. Pensai che se fossi riuscita a sfilarla, però, poi avrei dovuto uccidere il mio aggressore per avermi visto usare il mio potere. Il sangue mi si gelò nelle vene.
«Niente da fare. Basta stringerla un po' di più.»
La voce alle mie spalle stava prendendo una piega conosciuta. Feci per girarmi e controllare chi fosse l'uomo che si era introdotto a casa mia, ma questo mi bloccò mettendomi una mano sulla spalla. Poi la fece scivolare sul collo, seguendo la linea tracciata dalla catenina che portavo da anni nascosta dai vestiti. Riconobbi quel tocco: le dita fredde e lisce da donna, la sensazione che avrebbero potuto arpionarmi il cuore dal petto e farlo scoppiare stringendolo in un pugno.
L'uomo insinuò due dita sotto la mia maglietta, mentre un'espressione di puro disgusto mi si stampava in viso, e tirò fuori la collana con il ciondolo a forma di clessidra.
«Ce le hai ancora» disse «Le nostre vite che scorrono.»
Spalancai gli occhi quando anche quella voce fredda, sottile e strisciante mi riportò alla mente sensazioni che per il mio bene avrei dovuto dimenticare.
Jay ritirò la pistola e io mi voltai di scatto, strappandogli di mano il ciondolo. Era proprio lui: gli occhi grigi, scuri, perennemente impegnati in un'espressione di derisione; la bocca sottile come quella di un serpente, i lineamenti da ragazzino nonostante avesse ventidue anni. I capelli biondi che una volta teneva lunghi, adesso erano corti corti, come a volergli ricoprire di velluto tutta la testa. Era vestito di nero, con pantaloni e giacchetto di pelle, ed era infinitamente più magro di quanto lo ricordassi.
Sembrava un condannato a morte.
«Jay...» mormorai, non riuscendo a smettere di guardarlo. Aveva una cicatrice rosso scuro che partiva dall'orecchio sinistro e finiva alla base del collo. Allungai una mano per toccarla, mentre lui continuava a guardarmi con quegli occhi liquidi e assottigliati, ma poi la ritrassi.
Fece scoccare la lingua. «Anche io ce l'ho ancora» disse «La clessidra.»
Fece sventolare il polso fasciato di pelle nera e dalla manica uscì fuori il ciondolo attaccato ad una catenella. Era identico al mio.
«Che ci fai qui, Jay?» domandai, con voce rotta «Perché mi hai puntato contro una pistola, perché ti sei introdotto in casa mia?»
«Sono venuto a trovarti» spiegò, come se fosse la cosa più normale del mondo «Diventare bionda non ti basterà per nasconderti da me, anche se all'inizio non ero del tutto convinto che fossi tu... per questo la pistola. Stavi meglio con i capelli scuri, Theresa.»
«Tess» lo corressi «Adesso mi chiamano Tess.»
«Tess?» mi domandò, stupito.
«Il nome di battesimo è qualcosa che quelli come noi non possono permettersi.»
«E fai l'investigatrice?»
«Scatto foto agli storpi che si fanno di Mevitol» dissi, abbassando lo sguardo.
Il Mevitol è una droga sintetica che da qualche anno si è diffusa nelle Città Discarica. Quelli che la prendono diventano temporaneamente più forti e felici, non sentono più la fame perché all'organismo basta quella per sopravvivere, ma non appena si smette di assumerla la pelle comincia a raggrinzirsi e il cervello a morire. Una volta che la prendi, sei fregato: il tuo fisico non può più farne a meno. Alcuni storpi cominciano a drogarsi, col presupposto di non smettere mai, per tentare di condurre una vita senza troppe preoccupazioni e tristezza. L'unico effetto collaterale sono i raptus violenti che li colgono di tanto in tanto. Agli altri storpi questa cosa non piace, così non appena ne beccano uno lo giustiziano.
«Li mandi a morire, insomma.»
«Sono degli assassini, stupratori, violenti. Non è forse quello che si meritano?»
Jay annuì, con quel suo solito sorrisetto stampato sul volto. Si guardò intorno, passando in rassegna tutto l'umile mobilio che arredava la mia abitazione: il tavolino malconcio su cui tenevo il computer, il divano sfondato, la tv ammaccata. Si appoggiò allo schienale del divano, studiandomi con lo sguardo.
«E tu che cosa fai?» gli domandai, temendo la risposta.
Lui allargò le braccia, sorridendo e assottigliando quegli occhi da serpe. Era magro, molto più magro di quanto lo ricordassi: tutti i muscoli di un tempo erano spariti, lasciando il posto ad un ventre incavato e a delle gambe sottili, da donna sottopeso. Dalla sua maglietta rosso scuro quasi si riuscivano a contare tutte le coste.
«Secondo te?» mi domandò, lanciando una rapida occhiata al suo corpo per poi puntare gli occhi grigi nei miei.
«Fai la puttana» dissi, scuotendo la testa.
Lui scrollò le spalle. «L'avevi detto tu, che faccio l'amore come una puttana.»
«Già» risposi, guardando in basso «L'avevo detto io.»
Lo sentii ridacchiare. «Beh?» fece «Non ti arrabbi? Non mi chiedi niente?»
«Del tipo?» sibilai a denti stretti.
«Una delle tue solite domande stupide con delle risposte scontate. Tipo “e se ti prendi qualche malattia?” o “usi i preservativi, vero?” o ancora “hai un pappone che ti picchia e ti costringe?”» scoppiò a ridere.
«Non è divertente.»
«Non lavoro in mezzo alla strada, se ti può interessare» disse con un tono un po' più serio.
«Non me ne frega niente» mentii.
Jay lo capì e ammiccò.
Strinsi i pugni lungo i fianchi, chiudendo gli occhi. Niente di tutto quello era giusto: le cose sarebbero dovute andare in modo completamente diverso. Avevamo sbagliato ogni cosa.
Quando ancora vivevamo tutti insieme ad Amaranta, Jay ogni tanto se ne tornava a casa con più soldi del previsto e alle nostre domande rispondeva solo con un “sgraffignati”. Ma lo sapevamo, che non era vero, perché una volta l'avevo seguito.
Quando rialzai gli occhi, lui era ancora appoggiato al divano e mi guardava con le braccia incrociate. Aveva uno sguardo tra il divertito e il compiaciuto, come se gli piacesse vedermi reagire in quel modo. Ma se lo conoscevo bene, e lo conoscevo bene, sapevo che non aveva ancora finito.
Andai alla finestra, sorpassandolo senza guardarlo, i pugni ancora stretti e la disperata voglia di piangere. Scostai le tende scure che avevo piazzato lì per protezione e guardai il cielo nero su cui non si vedeva nemmeno una stella.
Quando eravamo piccoli, le stelle le vedevamo ogni notte. Prima di andare a dormire, gli scienziati Sovrumani ci concedevano due ore di libertà in una specie di foresta grande almeno due chilometri quadrati, che però era recintata ai lati e superiormente da rete elettrificata. Una volta un ragazzo ci era finito sopra per sbaglio... nessuno di noi aveva dormito per almeno un mese, dopo aver visto il cadavere.
In un posto come Città Regresso, invece, dove ci vivono tossici e ubriaconi, dove puoi morire come un cane in mezzo alla strada senza far voltare nessuno, dove la gente si accoltella nei vicoli... di stelle non ce ne erano mai.
«Non mi chiedi se so qualcosa di Mail?»
Il sussurro di Jay era appena percettibile, ma mi sfiorò la pelle del viso come un graffio. Appoggiò le dita gelide sul mio braccio facendomi rabbrividire.
Non l'avevo nemmeno sentito arrivare. Ma lui era così: silenzioso, invisibile, letale.
«Sei sempre la Serpe» mormorai, sorridendo amaramente. Appoggiai le mani sul davanzale premendo con forza i polpastrelli sul marmo freddo.
«Soprannome che mi hai dato tu» replicò, secco.
Respirai a fondo. «Hai avuto sue notizie?» domandai, cercando di mantenere un certo contegno nella voce.
Lui rimase alle mie spalle, il fiato caldo che mi solleticava il collo. «Sono stato da lui, prima di venire qui.»
«Che succede, Jay?» chiesi, voltandomi per guardarlo dritto negli occhi «Come hai fatto a trovarmi?»
«Mail ti tiene d'occhio» disse, mellifluo «Me l'ha dato lui, il tuo indirizzo.»
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. Dovevo aspettarmi una cosa del genere. «E come hai fatto a trovare Mail?»
«Non l'ho trovato» spiegò «Sapevo già dov'era. Quando ci siamo separati, due anni fa... lui ha pensato che, per sicurezza, avremmo dovuto tenerci in contatto in qualche modo. E così appena si è stabilito in un posto, mi ha fatto sapere dove si trovava. Non ci siamo più visti né sentiti da quel giorno. A parte oggi, s'intende.»
«Perché sei venuto da noi, allora?»
Lui sorrise. «Dimmelo tu» sogghignò «Sei un'investigatrice, giusto?»
Lo guardai senza capire. Cercai di indagare i suoi occhi, sempre così impenetrabili, per trovare una risposta.
Due anni prima, avevamo deciso che per la nostra sicurezza avremmo fatto meglio a dividerci per non rivederci mai più.
Io ero scesa alla stazione di Città Regresso, senza avere la più pallida idea di dove si trovassero i miei compagni di furti, mentre in testa mi rimbombavano le parole maledette.
“Non dobbiamo cercarci per nessun motivo.”
Allora perché adesso Jay si presentava da me e da Mail, infrangendo quel giuramento terribile?
Lui fece scoccare ancora la lingua e poi se la passò sulle labbra sottili. «Ieri il mio ragazzo ha notato un'auto nera parcheggiata davanti casa sua» spiegò, pratico «Quindi stanotte ho fatto i bagagli. Credo che la mia moto non sia mai andata così veloce...» ridacchiò «Ci ho messo solo quattro ore per arrivare da voi.»
I miei occhi si spalancarono piano piano, mentre la consapevolezza di qualcosa di terribile si faceva strada dentro di me. Jay era lì, fermo, il volto deformato da un sorriso noncurante, come se in gioco non ci fosse la sua vita. 
«Ci hanno trovati» mormorai con voce rotta.
«Ci hanno trovati» confermò.

 
Raccogliere le mie cose in fretta e furia, con Jay che se ne stava appoggiato al muro a guardare fuori dalla finestra, fu un'agonia.
La sensazione di panico che mi stringeva le viscere era paragonabile solo a quella che avevo provato due anni prima quando, tra le urla di Mail e i mormorii sommessi di Jay, avevo dovuto fare la stessa cosa. Ma allora eravamo insieme e non avevamo ancora deciso di separarci. Allora credevo che, in qualsiasi posto e in qualsiasi tempo, sarei stata con loro.
Come fai a decidere cosa mettere nello zaino, quando la tua vita si avvicina pericolosamente alla fine? Come puoi scegliere le cose da scartare, come fai a selezionare ciò che vuoi portare con te nel momento in cui nel tuo immediato futuro vedi solo uno sconosciuto che ti attacca elettrodi su tutto il corpo per osservare le tue reazioni al computer?
«Puoi fare anche più lentamente» borbottò Jay «Magari hanno beccato solo me. Non sappiamo se sono arrivati in città.»
«Sinceramente non voglio scoprirlo» replicai.
Continuai ad infilare vestiti e soldi nello zaino, lanciandogli un'occhiata di sbieco. Il suo volto non era attraversato da nulla se non dalla noia.
Mi ero sempre chiesta come facesse a rimanere così freddo e controllato. Anche quando due anni prima avevamo capito che loro ci stavano seguendo, lui non si era scomposto. Quando poi, grazie ai nostri “poteri”, eravamo riusciti miracolosamente a salvarci dall'agguato che ci avevano teso quattro uomini in giacca e cravatta, Mail gli aveva urlato che stavolta non l'avremmo passata liscia, che ce l'avrebbero fatta pagare per essere scappati e per aver ucciso quattro dei loro uomini, che avrebbero capito che possedevamo degli strani poteri.
«Quel taglio che ti hanno fatto sul collo» gli aveva detto Mail «Ti sembrerà quasi un gesto gentile in confronto a quello che ci faranno.»
Ma Jay se ne era stato lì, impassibile, a guardare fuori dalla finestra di quel motel, con le garze sporche di sangue appiccicate a quella ferita che non sarebbe mai guarita del tutto. 
«Dove andiamo?» domandai, prendendo la pistola dal cassetto del comodino e infilandomela nei pantaloni.
«Da Mail» rispose Jay «È più intelligente di noi e vuole chiudere questa storia una volta per tutte.»
Rabbrividii. Lui si voltò a guardarmi con il suo solito sorriso storto e compiaciuto.
Si scostò dal muro, uscendo dalla mia stanza con passo lento, ma deciso. Lo seguii, arresa e abbattuta, ma d'un tratto lo bloccai tenendolo per un braccio.
«Perché non sei scappato via, non appena ti hanno detto della macchina? Perché sei venuto qui ad avvertirci?»
Lui mi guardò negli occhi a lungo, cercando di indagarmi. Poi, la sua bocca si aprì nel primo vero sorriso da quando era entrato in casa mia. Alzò il polso sinistro da cui pendeva ancora la piccola clessidra.
«Le nostre vite scorrono insieme» disse e poi si voltò dall'altra parte.
Lasciai il suo braccio e lo seguii all'ingresso.
Prese le chiavi della mia macchina dal tavolo e aprì lentamente la porta di casa, sporgendo il capo fuori per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Io mi misi il cappotto, mi caricai lo zaino in spalla e aspettai un suo cenno prima di uscire.
«Possiamo andare» mormorò, alzandosi il colletto del giubbotto di pelle per coprirsi quell'orrenda cicatrice che solo un'arma sovrumana può causare.
Io lanciai un'ultima occhiata al posto in cui avevo vissuto per due anni e uscii. Stavo lasciando tutto per la seconda volta.
Mentre scendevo le scale e seguivo il mio amico di un tempo nel parcheggio, pensavo che eravamo stati stupidi a credere di poter vivere come ci pareva senza aspettarci che, ad un certo punto, qualcuno sarebbe venuto a chiederci il conto.
Alla fine si paga tutto, fino all'ultima goccia di sangue.
Indicai a Jay la mia auto e salimmo a bordo.
«Dove hai lasciato la tua moto?» gli domandai, mentre mi allacciavo la cintura.
Lui inserì la chiave nel quadro e il suo volto venne attraversato da un fugace lampo di malinconia. «L'ho buttata nel fiume» disse, secco.
Già. Dovevo immaginare che se n'era sbarazzato, dato che c'era il rischio che qualcuno l'avesse seguito a Città Regresso.
Mise in moto e uscì dal parcheggio. Cercai in tutti i modi di non guardarmi indietro, perché tanto non stavo lasciando niente di importante.
«Come te la passi, Tì?» mi domandò, la mano destra sul volante e la sinistra sulla pistola appoggiata alla coscia.
«Tiro avanti» borbottai, la fronte premuta sul vetro freddo del finestrino. «E tu? Hai un ragazzo?»
«Già. Dylan. È uno storpio... daltonico e asmatico. È anche un mio collega di lavoro» fece, tenendo gli occhi fissi sulla strada «L'avresti mai detto?»
«No» ammisi.
Lui sogghignò. Sapevo che in quel momento stava pensando a tutte le donne con cui aveva passato una notte di follie prima di scomparire nel nulla e a tutte le ragazzine che aveva abbindolato quando ancora vivevamo al Centro 23.
“Compresa me”, pensai con una stretta allo stomaco. Da un suo sguardo fugace capii che anche il suo pensiero era corso lì, a quella notte trascorsa nell'angolo più buio di quella sottospecie di foresta-giardino. Arrossii, ma non feci in tempo a voltare il capo per nascondermi.
«Non dirmi che ci pensi ancora» disse, con una nota di scherno nella voce. Jay la Serpe. Insensibile, noncurante, crudele. «Sono passati sei anni» aggiunse, poi.
«Mi avevi spezzato il cuore» borbottai, incrociando le braccia strette strette mentre mi facevo più piccola nel sedile.
Lui ridacchiò, sbattendo un paio di volte la mano destra sul volante e io mi rabbuiai: l'avrei picchiato, se solo non avessi avuto l'impressione che solo sfiorandolo avrei potuto romperlo.
«Più che di cuore, parlerei di orgoglio di donna» disse, facendomi arrossire ancora di più.
«Ma che ne sai, tu?» sbottai.
Mi voltai a guardarlo, arrabbiata, ma vidi l'espressione divertita che aveva sul viso morire in un lampo.
Sospirò. «E comunque alla fine hai vinto tu» disse, in un sussurro appena percettibile.
Premetti di nuovo la fronte sul finestrino freddo. «Già» mormorai «Ho vinto io.»
Jay fece scoccare la lingua, mentre un lampo scuro attraversava i suoi occhi grigi. Tutti i suoi muscoli, benché fossero ormai pochi, erano contratti. Con la mano sinistra teneva ancora la pistola, facendo scorrere l'indice lentamente sulla canna.
Non volevo guardarlo. Le viscere mi si stringevano mentre nella mia mente si faceva strada il ricordo di una vecchia ossessione che credevo di aver dimenticato.
Ma non riuscii ad impedirlo e la mia mente cominciò a vagare da sola, perdendosi nei giorni in cui Jay era ancora un donnaiolo incallito, in cui spendeva le sue giornate alla ricerca di qualcosa. Poi, però, i miei pensieri si fermavano al momento in cui, noncurante delle lacrime che mi bagnavano il volto, mi diceva che il problema non ero io, ma che forse non gli piacevano le donne.
Ci aveva messo altri anni, però, a capire che l'uomo che cercava era Mail.
Ma Mail me l'ero già preso io.

   
 
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