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Autore: Ser Balzo    23/11/2014    3 recensioni
Tutto è bene quel che finisce bene, o almeno così si usa dire. Ma per il signore e la signora Darcy, la fine non è che un intermezzo. E in una fredda notte di ottobre, il destino verrà a bussare per il secondo atto.
"Il destino dell’Inghilterra è in pericolo... tu sei in pericolo. E finché avrò vita, non posso permettere che questo accada."
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elizabeth Bennet, Fitzwilliam Darcy
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.

Private Eyre

 

 

“Se si fosse sempre  buoni e e obbedienti verso quelli che sono 
crudeli e ingiusti, i cattivi avrebbero il sopravvento: non 
avrebbero mai paura e diventerebbero sempre peggiori.
Quando ci colpiscono senza ragione, dovremmo agire colpendo 
ancora più forte; sono certa che dovremmo: tanto forte da
insegnare a chi ci ha colpito a non colpirci più."

- Jane           

 

 

 

 

 

Il numero quarantadue di Fayrmonton Road era stato, ai suoi tempi d’oro, una modesta villetta a due piani. Niente di esclusivo, ma certamente meglio dei palazzi fatiscenti che dominavano il circondario. Ora che però il tempo e l’incuria avevano stabilito il loro dominio indiscusso sulla proprietà, della graziosa abitazione restava soltanto la squisitezza delle decorazioni sull’architrave della porta d’ingresso e sotto le finestre, anch’essa però profondamente intaccata dalle intemperie e dall’incessante degrado.
Come sempre, la quiete era quasi assoluta: la vita mondana della città si svolgeva da ben altra parte, e nessuno passava da quelle parti a quell’ora così tarda della notte.
O almeno, nessuno dotato di buone intenzioni.
Due ombre erano ritte davanti al cancelletto d’ingresso della villetta. Sebbene intabarrate nei loro pesanti mantelli, le loro figure erano inconfondibilmente esili: fatto che attestava forse una giovane età, sicuramente una nutrizione non del tutto sufficiente e probabilmente l’appartenenza alla categoria a cui il senso comune ha dall’alba dei tempi donato l’appellativo di “gentil sesso”.
Una delle due ombre si chinò in avanti, afferrando le sbarre del cancelletto e sbirciando all’interno del giardino incolto che separava la strada dalla vecchia casa.
«È più carina, di giorno» sentenziò l’altra, in una melodiosa voce di giovane ragazza.
«È una schifosa catapecchia» ribatté la prima ombra, il cui tono era più tagliente, ma senza dubbio appartenente anch’esso ad una fanciulla. «E se l’intuito non m’inganna, anche questo cancelletto è in linea con il resto della proprietà.»
«Jane…»
«Che c’è?»
«Credo che qualcuno ci stia seguendo.»
Il corpo della ragazza si immobilizzò, attraversato da un brivido incontrollabile. Fu solo un istante, però: in men che non si dica, la giovane donna chiamata Jane riuscì a riprendere il controllo delle proprie facoltà. «Ne sei sicura?» mormorò, mentre continuava a spiare il giardino.
«Ragionevolmente convinta.»
Jane sospirò. «Probabilmente è un vagabondo…»
«…o peggio.»
Jane tolse le mani dalle sbarre e si girò verso la sua interlocutrice.
«La vuoi piantare? Sbaglio, o dici sempre che il Signore veglia su di noi?»
«Assolutamente.»
«Ecco.»
«Ma se possibile, è meglio non…»
Facendo svolazzare i lembi del mantello, Jane si girò, si piegò all’indietro come una molla che si carica e sferrò una violenta spallata al cancelletto, che protestò gemendo e si aprì di qualche centimetro.
«…forzargli la mano…» 
Un’altra spallata, accompagnata da un grugnito, e il cancelletto si spalancò completamente.
«…ancora una volta.»
La ragazza emise un gemito di dolore, massaggiandosi la spalla dolorante. «Ricordami di non farlo mai più. Stavi dicendo qualcosa, Helen?»
«Niente di particolare… vacue parole riguardo agli anni di Purgatorio guadagnati rispettando le leggi dell’Uomo.»
«Non stiamo facendo niente di male.»
«Non so quanto Scotland Yard sarebbe d’accordo.»
«Puoi tornare a casa, se vuoi» ribatté acida Jane.
«Jane Eyre, in nome di Nostro Signore» esclamò Helen piccata, i pugni sui fianchi e l’aria battagliera «vorresti farmi perdere tutto il divertimento?» 

Più che ad un giardino, l’appezzamento di terra davanti alla villetta somigliava piuttosto ad un piccolo bosco selvaggio: il terreno era costellato di cespugli, felci, erbacce, carcasse di quelli che un tempo dovevano essere stati alberi da frutto e un paio di grossi e silenti abeti.
«È qui, me lo sento» disse Jane, decisa.
«Non sarebbe male chiudere il caso» affermò Helen. «Non amo il denaro, ma evitare che ci sbattano fuori di casa sarebbe l’ideale.»
«Stasera stessa saremo dal signor Groovesnore e riscuoteremo il nostro compenso» confermò Jane. «Forza, diamoci da fare: io controllo la parte sinistra, tu quella destra. Ci incontriamo sul retro della casa.»
Non appena la sua compare si fu allontanata tra le frasche, la sicurezza di Jane cominciò ad incrinarsi. Il giardino era piuttosto grande, e il loro obiettivo era instancabile e sfuggente.
Se non lo prendiamo stanotte, sparirà per sempre.
Era una notte di luna piena, quindi il giardino non era completamente immerso nelle tenebre. Jane aguzzò la vista, cercando di fare il meno rumore possibile mentre avanzava.
Il silenzio era quasi completo. Non c’era un filo di vento a far muovere le piante, ne’ alcun animale che potesse strisciare o zampettare fra l’erba.
Questo posto non mi piace.
Jane provò l’impulso di andare via da lì, adducendo una qualsiasi scusa, e riprovare un’altra volta. Ma, come aveva detto Helen, avevano disperatamente bisogno di soldi. Il signor Groovesnore era il primo cliente dopo mesi, e non potevano permettersi di fallire.
Forse avrei dovuto fare l’istitutrice. Sempre meglio che inventarsi un mestiere.
Non si accorse neanche di essere uscita dalla macchia intricata del giardino. Quando si trovò davanti il muro scrostato della villa, fu sul punto di andarci a sbattere.
Che profonda acutezza, miss Eyre. Non c’è da stupirsi se per sopravvivere raccatti avanzi da una lurida taverna.
Un profondo senso di spossatezza e malinconia la assalì. Si appoggiò con una mano al muro di pietra, ansimando.
Forza, Jane. Una cosa alla volta. Una cosa alla volta. Non lasciare che il mondo vinca. Non farlo. Mai.
Inspirò profondamente, staccandosi dalla parete fredda.
Una cosa alla volta, Jane. Una cosa alla volta.
Doveva trovare quello che stava cercando. Una volta risolto quel problema, sarebbe passata al successivo.
Così ti voglio, ragazza. Una cosa alla volta.
Poi i suoi occhi notarono, a qualche metro davanti a lei, una piccola finestrella al livello del terreno. In teoria doveva esserci un’anta orizzontale a schermare l’interno, probabilmente la cantina, dalle intemperie… ma l’anta non c’era. 
L’eccitazione sì infilò nel solco scavato dall’angoscia qualche istante prima, e la assalì in maniera così potente che si dovette trattenere per non farsi sfuggire un gridolino di gioia.
E in quel momento si rese conto perché non poteva essere da nessun’altra parte se non lì.
Sei mio.

Le vie del Signore sono infinite.
Helen non riusciva a pensare nient’altro che spiegasse la sua presenza lì, in quel luogo e a quell’ora della notte. Aveva sempre pensato di essere destinata a servire Dio, non a smanacciare tra gli arbusti.
Forse è anche questo un modo di servirLo.
Quando Jane le aveva proposto di trasferirsi a Londra “in cerca di opportunità”, Helen aveva pronto un ti ringrazio, ma temo che non sia la mia strada, fermo, cortese e accuratamente preparato, già scritto sulle labbra. Ma quella frase non era mai uscita dalla sua bocca.
Perché no, aveva risposto.
Perché no?
Quella notte, ancora una volta, nonostante Londra avesse fatto tutto quanto era in suo potere per darle numerosi suggerimenti in proposito, non era riuscita a darsi una risposta.
Era talmente immersa nei suoi pensieri che non si accorse di non stare seguendo più il percorso che si era prestabilita. Si stava dirigendo dritta verso un cespuglio spinoso quando qualcosa le tirò indietro il cappuccio, scoprendo una cascata di capelli ramati ingabbiati in una rigorosa treccia. Helen si girò di scatto, il cuore in gola.
Nessuno.
La ragazza rimase in apnea, scrutando le ombre; poi sollevò lo sguardo e vide chi era stato a tirarle quel simpatico scherzo: un lungo, secco e contorto ramo.
Fortunatamente Jane non è qui, o mi avrebbe preso in giro per tutto il resto del mese.
Helen si era appena rimessa il cappuccio in testa, sollevata, quando si accorse di cosa c’era dietro il ramo. Vecchia e silente, la facciata della villetta era un muro di densa e totale oscurità.
Buffo, non mi ricordavo di aver dato le spalle alla villa. Questo giardino è dannatamente intricato. Fu proprio quando stava per rimettersi al lavoro che Helen notò un ultimo, piccolo particolare nella facciata della casa.
Accanto al comignolo, inconfondibile nella sua silhouette ritagliata dalla luce della luna, qualcuno la stava osservando.

 

Se non fosse stato per i pallidi raggi lunari che filtravano dalla finestrella rotta, Jane sarebbe stata impossibilitata a orientarsi nella cantina.
Quella dove si era appena calata era una stanza dalla pianta quadrata, stipata di scaffali disposti in rigidi intervalli che sfioravano il soffitto basso, dalle cui volte a botte erano caduti numerosi mattoni. O almeno, così era la parte che la luce riusciva a raggiungere.
Cercando di non fare il minimo rumore, Jane si accostò ad uno degli scaffali. Allineati sugli scaffali, un vasto campionario di quelli che parevano rottami di metalli di varia natura giacevano coperti di polvere. 
Incuriosito, lo sguardo di Jane cadde su una piccola ruota dentata. Doveva essere piuttosto vecchia, dato che la superficie era irregolare e ammaccata, e dallo strato di polvere che la circondava sembrava stare lì da molto tempo.
Inutile ferraglia.
Senza riflettere su quello che stava facendo, Jane prese la piccola ruota e se la mise in tasca.
In quel momento, qualcosa si mosse.
Jane, presa alla sprovvista, soffocò un’esclamazione di sorpresa tappandosi violentemente la bocca. Poi vide da dove proveniva il rumore, e un ghigno di soddisfazione comparve sul suo volto.
Ti ho preso.
Quatta quatta, avanzando come un giovane felino, la ragazza si diresse alla sua sinistra, lì dove le pareti della cantina formavano un angolo retto. Una grossa cesta di vimini, in piedi sopra una pila di piastrelle di coccio, sembrava sfidarla nella sua stoica e inossidabile immobilità.
Jane trattene il respiro, i piedi che si posavano sul pavimento umido con la leggerezza di petali di rosa. 
Sei stato bravo, lo ammetto. Ma io sono più furba di te.
Due metri. Un metro e mezzo. Un metro.
La cesta era immobile. L’aria era immobile. Anche il tempo sembrava essersi fermato.
Quando fu ad un passo di distanza, Jane ebbe la netta sensazione che l’intero creato stesse trattenendo il fiato.
Ora.
Fu più rapida di un falco in picchiata. Si avventò contro la cesta e tuffò le braccia nella grande cavità oscura.
E le sue mani strinsero qualcosa di morbido.
Scacco matto, vecchio mio.
Con la delicatezza che il suo organismo travolto dall’adrenalina poteva consentire, Jane Eyre trasse dalla cesta di vimini il suo obiettivo.
Un magnifico, enorme e morbidissimo esemplare di gatto siamese.
«Eccoti qua, signor Tuttle» disse Jane con il tono di una madre amorevole che trova il figlio con le mani nella marmellata «ci hai fatto penare, lo sai sì? Il signor Groovesnore era molto in pensiero per te.»
Per tutta risposta, il gatto emise un sordo miagolio di resa.
«Lo so: onestamente, non stento a credere che tu sia voluto fuggire. Ma che ci vuoi fare, vecchio mio? È la vita.»
«Jane? Jane?»
La ragazza sorrise al sentire la voce di Helen. «L’abbiamo preso, Helen! Ce l’abbiamo fatta!» Raggiante, tornò alla finestrella rotta, dalla quale sbucava il volto tondo della sua amica. Alcune ciocche ribelli erano sfuggite alla rigida treccia e scintillavano alla luce della luna, ma il volto era completamente in ombra.
«Jane, c’è qualcuno sul tetto.»
Il vivo terrore con cui queste parole furono pronunciate spense qualunque entusiasmo in Jane, soffocato da una marea montante di panico irrazionale.
«Cosa…»
«Andiamo via, ti prego!»
Jane non se lo fece ripetere due volte. Senza alcun riguardo nei confronti della povera bestia, scagliò il gatto fra le braccia di Helen, si issò sulla finestrella e arrancando riuscì ad uscire rapidamente dalla cantina.
«È ancora lì?»
«Non lo so e non mi interessa! Andiamo via, adesso!»
Jane non aveva mai visto la sua amica così spaventata: la sua profonda fede la rendeva sempre tranquilla e sicura di se’. Improvvisamente, sentì una morsa potente stringerle il petto, togliendole il respiro.
«Smettila, dannazione!» 
Helen spalancò gli occhi, mentre le gote avvampavano di vergogna. Jane si sentì improvvisamente in colpa, e solo in quel momento si rese conto di quanta rabbia avesse messo in quelle parole.
«Helen, io…»
Un tonfo sordo, proprio alle loro spalle. 
«Non importa» esclamò Helen, afferrando la mano di Jane. «Andiamo via. Ti prego.»
Ancora una volta, Jane non se lo fece ripetere. Si tuffò nel giardino, seguendo la corsa forsennata di Helen, incespicando in mezzo ai cespugli, graffiandosi tra i rami aguzzi, lasciandosi alle spalle la villa oscura e chiunque, o qualunque cosa, fosse in agguato tra le tenebre.


«Sono spiacente, signorina Eyre, ma il signor Groovesnore si è appena coricato. Abbiate la compiacenza di ripassare domattina.»
«È quello che avremmo fatto, ma domattina il signor Groovesnore parte per affari, e noi non possiamo aspettare che ritorni.»
«Il signor Groovesnore ha espressamente richiesto di non essere disturbato dopo che si è ritirato nelle sue stanze.»
«Beh, il signor Groovesnore capirà, dannazione!»
«Desolata, ma non posso aiutarvi. Signorina Eyre, signorina Burns, arrivederci.»
Jane aprì la bocca per replicare, rubizza in volto, ma Helen le mise una mano sulla spalla e si rivolse all’arcigna governante che si frapponeva fra loro e il loro sudato compenso.
«Signora Fogg, perdonate la mia amica: ha molto a cuore il signor Groovesnore, e sa che non può partire serenamente senza aver rivisto il suo fedele compagno. Non ci permetteremmo mai di disturbare a quest’ora della notte, se non fosse che il signor Groovesnore stesso ci ha pregati di venire a riferirgli qualunque progresso nella nostra indagine, a qualsivoglia ora della giorno o della notte. Voi sapete quanto ami il signor Tuttle meglio di me.»
L’anziana donna le rivolse uno sguardo carico di diffidenza, ma la mano che stava chiudendo la porta di casa Groovesnore si fermò.
Helen non perse tempo ad infilarsi nel pertugio che era riuscita ad aprire. «È con noi da neanche un’ora, eppure ci è bastato per comprendere perché il signor Groovesnore lo ami così teneramente: è una creatura straordinaria, di rara grazia e affettuosità. Il signor Groovesnore lo considera alla pari di un figlio, e onestamente non vedo come potrebbe essere altrimenti. Lei sa, mia cara signora Fogg, quanto forte sia l’amore nei confronti di un figlio: Nostro Signore ama noi tutti, voi amate vostro figlio Joshua e il signor Groove ama il signor Tuttle.
«Signora Fogg, so che siete una brava donna, perciò so che rispondere a questa domanda con cuore aperto e sincero: se venissero a bussare alla vostra porta portandovi vostro figlio che ormai ritenevate perduto per sempre, scaccereste forse chi è venuto a darvi la buona novella? Li sgridereste per l’ora tarda, oppure correreste da Joshua per abbracciarlo?»
La governante non si aspettava un simile discorso, e non riuscì a restare indifferente di fronte al tono caldo e compassionevole della giovane fanciulla. «Io…» balbettò.
«Se avete timore dell’ira del vostro padrone» continuò Helen, avanzando di qualche passo «cosa che, vi assicuro, non dovete temere -  ci annunceremo da sole, affermando di avervi ingannata a causa dell’incrollabile e commovente senso del dovere che provate nei suoi confronti.» Sul volto della ragazza compare un sorriso tenero e affettuoso. «Io tengo a voi, signora Fogg: siete stata sempre cortese e gentile con noi. Se ritenete che non è il caso di svegliare il signor Groovesnore, noi toglieremo il disturbo; ma in caso contrario, nulla ci renderebbe più felici che restituire la gioia nel cuore di un uomo triste.»
La signora Fogg non rispose. Rimase a fissare quella ragazza dal volto piatto e tondo e dagli occhi piccoli ma pieni di luce, mentre dentro di lei infuriava una lotta silente e senza quartiere.
Jane tratteneva il fiato; Helen continuava a sorridere; persino il signor Tuttle sembrava attendere con ansia il verdetto della donna.
E alla fine, la governante del signor Groovesnore prese una decisione.
«Mi dispiace, non posso aiutarvi.»
E chiuse la porta in faccia alle due ragazze.

«Io non ci credo! Quella viscida, vecchia, disgustosa bal…»
«Abbiamo il gatto, Jane: è questo quello che importa. Quando il signor Groovesnore tornerà, glielo porteremo e otterremo il nostro compenso.»
«Sarà troppo tardi! Il signor Grogg minaccia di buttarci fuori già da due settimane…»
«Sono certa che una volta che gli avremo esposto la situazione comprenderà. Meglio avere denaro in ritardo che non averlo affatto.»
«Spero che tu abbia ragione, Helen.»
«E poi, il signor Tuttle è così morbido…»
«Leva quella bestia dal tavolo. Adesso.»
Erano quasi le quattro di notte, stando a quanto segnava il vecchio orologio ammaccato di Helen. A parte le due ragazze e il loro degno compare felino, nessun altro cliente si trovava nella vecchia locanda in quel momento.
Canticchiando sommessamente una vecchia aria marinaresca, Joey Dobb, il proprietario della locanda, sbucò dalle cucine portando con se’ due piatti di legno.
«Ecco a voi, mie graziose fanciulle» disse affabile, posando i piatti davanti ad Helen e Jane «trippa e cavolo bollito, come piace a voi.»
«Potresti evitare il finale sarcastico?» disse Jane tagliente, osservando la propria cena con assai poco entusiasmo.
«Lo farei se voi mi pagaste, miss Eyre.»
«Hai ragione, perdonami» replicò la ragazza, mettendosi le mani sulle tempie e strizzando le palpebre. «Sei già fin troppo gentile ad offrirci gli avanzi della giornata.»
«Se voi arrivaste ad un’ora consona, potrei provare anche a conservare qualcosa di più buono» disse il locandiere, stropicciandosi le mani «ma se voi continuate a cenare quando le brave persone si alzano dal letto…»
«L’ultima volta siamo venute alle nove e mezza» ribatté Jane con cipiglio spavaldo.
«E la volta prima siete arrivate alle cinque. E la volta ancora prima alle tre. E la volta ancora prima…»
«Va bene, va bene» lo interruppe Jane, alzando le mani in segno di resa. «Ma non è colpa nostra se il lavoro ci costringe a fare le ore piccole.»
«A tal proposito, immagino che il vostro amico faccia parte dell’ultimo intricato caso a cui state lavorando…»
«Lui è il caso, caro Joey» disse Helen, accarezzando il felino acciambellato sulle sue gambe. Per tutta risposta, l’animale emise un ronzio di fusa piuttosto sentito. «Ad essere onesta, mi si spezza il cuore a riportarlo al signor Groovesnore. È così affettuoso…»
«Noi ridaremo quel dannato coso al suo proprietario, a costo di tirarglielo dalla finestra.»
A queste parole, il gatto spalancò gli occhi incredibilmente azzurri e drizzò le orecchie, pronto alla fuga.
«Oh no, va tutto bene» disse Helen amorevole. «Lascia stare zia Jane, mister Tuttle. Lei è un po’…»
«Un po’ cosa?»
«…singolare
«Ah, io sarei singolare, miss Burns? Sbaglio o qualche ora fa stavate cercando di corrompere un’anziana signora facendo leva sui suoi sentimenti?»
«Mi limitavo ad esporre la verità» rispose Helen, fin troppo compita. «Date a Cesare quel che è di Cesare…»
«Non fare la suora con me, Helen Burns. Agli altri puoi darla a bere, ma so fin troppo bene quanto sotto sotto tu sia una inclassificabile fara…»
Jane si interruppe di colpo, gli occhi spalancati che fissavano qualcosa al di sopra della spalla di Helen. Stupita e incuriosita, l’amica si girò.
«Uh.»
Sulla soglia della locanda c’era qualcuno. Era completamente ammantato in un pesante mantello da viaggio, e un grade cappuccio gli nascondeva il volto.
«Mi scusi, buonuomo» disse la figura, rivolta a Joey Dobb «è questo l’Old Dempsey Inn?»
Il locandiere, stupito quanto le due ragazze di sentire una voce di donna provenire da sotto il cappuccio, avanzò timoroso, stropicciandosi le mani più vigorosamente che mai.
«Esattamente, ma’am. Posso esservi d’aiuto?»
«Credo proprio di sì.»
La sconosciuta si tolse il cappuccio. Le luci delle candele proiettarono le loro ombre su un volto sottile, illuminato da due occhi castani vivaci ed estremamente intelligenti.
«Mi servono tre pinte di Locksley ben fermentato.»
Il locandiere impallidì per qualche istante, poi si inchinò con deferenza e mostro con un gesto della mano il retro della locanda.. 
«Prego, da questa parte.»
La donna avanzò, troppo impettita per non mostrare di essere a disagio, facendo frusciare il mantello sul pavimento lurido. Jane la osservò passare accanto a loro senza il minimo segno di essersi accorta della presenza delle due ragazze e la seguì con lo sguardo finché non scomparve dalla sala, diretta alla cantina della locanda.
Quando riportò i suoi occhi su Helen, sapeva già cosa stava per dire.
«Jane, in qualità di amica, ti sconsiglio vivamente di mettere in atto quello che stai pensando. Immagino ricordi cos’è successo l’ultima volta che abbiamo provato a seguire un Locksley ben fermentato…»
«Helen…»
La ragazza dai capelli rossi alzò un dito, in un gesto che sanciva in modo chiaro e inequivocabile il suo desiderio di non essere interrotta. Jane - la stessa Jane che giusto due giorni prima aveva contrattato per un’ora e tre quarti il prezzo di due libbre di carne secca con un corpulento droghiere con un passato da furiere nell’esercito - assisté impotente allo spettacolo della sua bocca che si chiudeva come per magia.
«… dicevo, ricordi cos’é successo, e personalmente non gradisco che mi si punti un coltello alla gola più di due volte in una giornata. Senza contare che ci andremmo a cacciare in un groviglio di rovi la cui complessità va ben oltre la nostra abilità di districarlo e perderemmo giorni preziosi che potrebbero essere spesi alla ricerca di qualche altro distinto gentiluomo in cerca di animali o oggetti scomparsi…» La ragazza afferrò un pezzo di cavolo bollito, se lo ficcò in bocca, masticò con classe ed eleganza e mandò giù senza fare il minimo rumore. «Ah, il cavolo di mastro Dobb… mi chiedo come faccia a dargli questa sfumatura di straccio lurido. Ci vuole abilità» aggiunse, spingendo leggermente il piatto lontano da se’, per poi appoggiare i gomiti sul tavolo e intrecciare le dita.
«Come amica, dunque, ti sconsiglio vivamente di seguire quella donna. Ma come amica avrei dovuto anche sconsigliarti di andare a tentare la fortuna nella nostra amata capitale per sfamare i tuoi appetiti di giustizia e libertà, perciò parlerò come tua socia e co-fondatrice della nostra folle impresa: quella donna probabilmente non è di queste parti, probabilmente ha una villa in campagna, una comoda rendita e la cosa più rischiosa che ha fatto in vita sua è mettere le mani su uno scapolo in possesso di un solido patrimonio… e ancora più probabilmente, non ha la minima idea di come funzionino le cose in questa città: senza qualcuno a farle da guida, Londra se la mangerà in un attimo e sputerà le sue ossa lucide prima che spunti l’alba. Perciò, cara Jane, forse è il caso che ci affrettiamo, perché la porta della cantina di mastro Dobb ha una tripla serratura a quattro mandate, e dopo che è stata chiusa l’unico modo di aprirla é farla saltare in aria.»


















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Sembrava impossibile, ma ce l'abbiamo fatta. (naa naaa naaa naranaaaa)
Probabilmente l'attendevate, molto probabilmente no, ma in ogni caso ecco qui un nuovo capitolo della nostra mirabolante centrifuga che prende classici intramontabili e li trasforma in un telefilm di scarsa qualità. Dopo aver bistrattato  i poveri signori Darcy, la vittima del giorno è nientepopodimenoche la tenace e indipendente Jane Eyre, insieme alla sua degna collega Helen Burns. Sì, la cara Helen in teoria stira miseramente da brava martire cristiana, ma quelle due insieme formavano una coppia troppo fantastica perché non decidessi di giocare a fare Dio e resuscitare personaggi per i miei perversi scopi: Jane è fiera, testarda, idealista e passionale, mentre Helen è tranquilla, saggia, umile, con quel velo di distaccata ironia che solo i personaggi comprimari possono avere: una strana centrifuga tra Calvin e Hobbes e Sherlock e Watson (sì, avete letto bene). In parole povere: io le adoro.

In questo universo parallelo dove giovani Whickam sfondano le porte di Pemberley a cavallo e con una scorta di sgherri, anche la timeline della nostra cara Jane non poteva che subire qualche "piccola" modifichina: invece di rimanere a fare da insegnante nel convento dove è stata educata, Jane convince la povera Helen, che non è morta e che quindi non ha potuto insegnare alla sua cara amica l'arte di essere n'attimino umili e e farselapijàbbene, che è giunto il momento di fare le cose in grande e di andare a Londra a cercare fortuna, e una volta lì di trovare di che sopravvivere nel modo più assurdo e inverosimile che esista: fare le detective private. Lo so, ho qualche problema, ma prima di essere internato non posso fare a meno di dire che Jane Eyre come detective/vigilantessa sgangherata paladina del bene è tipo troppo una figata. Ecco.
Insomma, spero vi faccia piacere questa robba quissù; e se temete che qualche altra vostra eroina del secolo decimonono possa venire maltrattata e buttata nel fango... fate bene, perché abbiamo appena cominciato.

Alla prossima dunque, Locksley ben fermentato per tutti e tante care cose!






 

  
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