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Autore: Amaya Lee    26/11/2014    1 recensioni
[Zankyou no Terror]
Lisa Mishima è la prova vivente che dare valore alla propria vita, anche quando questa sembra perdere di significato, è possibile. Ma non è cosa da chiunque. E al centro del suo mondo, di un mondo che è vivo e vivace, che le conserva ancora un posto, per quanto piccolo, c'è la promessa di non dimenticare quanto è accaduto. Lei non potrebbe mai dimenticare, neanche se lo volesse. A impedirglielo sono un legame, un'illusione cristallina, e un sentimento difeso a costo di qualsiasi sacrificio.
La felicità che si cela dietro un numero.
[tratto dal testo]
Una donna sulla cinquantina, con un abito indaco, afferrò la tazza contente la cioccolata bollente e si scaldò le dita. Subito dopo, distogliendo l'attenzione dall'amica seduta di fronte a sé, scorse con la coda dell'occhio una ragazzina fragile entrare nel piccolo bar conosciuto da tutti con il nome di “Mae-Kawa”.
[...]
Lisa, con la mano rivestita da un guanto nero, si sistemò dietro l'orecchio una ciocca in balia del vento. L'altro braccio era disteso lungo il suo fianco.
Un istante dopo, Lisa si accigliò.

{One-shot Hisalisa senza pretese.}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Fate's arrow is a snowflake

















 

Nel locale si insinuò un refolo di vento non più spesso di un mignolo, che fece rabbrividire i clienti più vicini all'entrata, e li costrinse a stringersi brevemente nei loro cardigan rossi, verdi, grigi. Una donna sulla cinquantina, con un abito indaco, afferrò la tazza contente la cioccolata bollente e si scaldò le dita. Subito dopo, distogliendo l'attenzione dall'amica seduta di fronte a sé, scorse con la coda dell'occhio una ragazzina fragile entrare nel piccolo bar conosciuto da tutti con il nome di “Mae-Kawa”.

Poteva sembrare insignificante, al primo sguardo di un passante che andava di fretta, al pian terreno di un edificio alto e di colore vagamente simile al bianco, circondato da palazzi alti e moderni. Il volto di quel bar non aveva, in effetti, nulla di speciale. Ma, esattamente come funziona con le persone, per farsene un'opinione completa e, soprattutto, esatta, bisogna scavare a fondo. Bisognerebbe, per così dire, vedere con i loro occhi. Chi aveva l'intraprendenza di varcare la soglia del Mae-Kawa, non rimpiangeva senza dubbio la sua scelta. Non per l'atmosfera accogliente e pacata, o per il cordiale sorriso che ogni singolo dipendente era solito rivolgere al cliente, ma perché, seduto comodamente su una delle panche accanto alla vetrata, sorseggiando caffè aromatizzato, egli poteva godersi in tutta tranquillità la vista del fiume. Questo scorreva esattamente di fronte al locale, come lasciava intendere il nome del bar stesso, diviso da questo solamente da una strada generalmente poco trafficata.

Non è mai da sottovalutare, il fascino di un fiume. Con il suo scorrere, un individuo non eccessivamente sensibile può rimanerne colpito. In maggior misura se le sponde sono rivestite da un morbido manto di neve, e candidi fiocchi danzano nell'aria gelida di dicembre, dissolvendosi al contatto con l'acqua, come accadeva quel giorno.

Erano le cinque e quaranta del pomeriggio quando la porta d'ingresso si richiuse dietro all'esile figura che la signora in abito indaco cominciò a fissare, senza curarsi di mantenere la discrezione. Il caldo tornò a diffondersi all'interno del locale, dissipando il freddo che ci si era infiltrato solo per un secondo, e che ora spariva come la tiepida foschia che si elevava dalle tazze calde.

La donna, si rese conto, aveva già visto quel viso pallido. Il suo sguardo incrociò i due occhi scuri della giovane, e frugarono nella sua memoria, alla ricerca di qualcosa che, la donna ne era certa, si trovava lì, sepolto.
La ragazza fece una cosa strana. Sorrise.

Quel sorriso rubava quel qualcosa che di meraviglioso aveva il paesaggio innevato fuori dai vetri, appannati dal caldo. La donna ne rimase colpita, e ciò la spronò ulteriormente nella ricerca di quel ricordo smarrito.

Osservava ancora la nuova cliente, non rendendosi conto che chiunque altro nel locale stava facendo lo stesso.

Non può avere più di vent'anni, pensò la donna.

La ragazza, in realtà, ne aveva ventitré. I contorni ben delineati del suo viso erano nascosti da ciuffi di capelli neri come inchiostro, in netto contrasto con la carnagione bianca, quasi anemica.

Vestiva di giallo, la più chiara sfumatura di giallo che la donna avesse mai visto.

La giovane fece qualche passo vacillante nel bar, poi si diresse con sicurezza verso un tavolo di forma quadrata accanto alla parete, con due sole sedie. Ne occupò una, posando le mani in grembo, gesto che l'anziana donna identificò subito come timidezza.
Nel frattempo, un lembo alquanto confuso di memoria era tornato a galla, e finalmente aveva compreso chi fosse quella ragazzina.

Aveva visto quel volto innumerevoli volte, su giornali e schermi televisivi. La prima volta era stato, ora rammentava, nell'estate di cinque o sei anni prima. Quel ricordo sapeva di paura, ma anche, in un certo senso, di sollievo, rinascita. Spremendo ancora le meningi, la donna ricordò di quella foto in bianco e nero sulla prima pagina di un giornale comprato per strada con pochi centesimi, ritraente di sfuggita proprio quella ragazza. Solo che allora sembrava una bambina, anzi, un piccolo animale terrorizzato, stanato, torturato persino, messo all'angolo. Aveva fatto molto scalpore, a quel tempo.

Ciononostante, la donna non ricordò altro, non perché la memoria venisse meno a causa dell'età, ma perché la persona che si trovava in quello stesso locale insieme a lei, in quel momento, non aveva nulla a che vedere con la ragazzina di anni addietro.

Non disse una sola parola ad alta voce. Si limitò a bere la sua cioccolata calda in santa pace, lasciando che il presente tornasse ad affluire.

La giovane intanto si era persa nella contemplazione del fiume. Forse lei, come pochi altri, riusciva a vedere davvero con gli occhi di quell'edificio. Guardò la gente passeggiare sotto la neve, alcuni impugnando ombrelli per proteggersi, altri lasciando semplicemente che i fiocchi gli si depositassero sugli abiti. Lei di ombrelli non ne aveva.

Non voleva perdersi assolutamente niente. Ogni singola sensazione, per quanto minima, era preziosa. Anche il delizioso pizzicore gelido dei fiocchi di neve sulla pelle del viso, anche i brividi di freddo che ogni tanto le percorrevano le gambe.
Si accorse di colpo che qualcuno le si era avvicinato, attendendo al suo fianco. Voltò la testa e incontrò lo sguardo premuroso di una cameriera sui sedici anni, che reggeva una penna e un piccolo blocco per gli appunti.

“Cosa possiamo offrirle?” chiese questa con voce gentile.

La ragazza dai capelli corvini sorrise, non preoccupandosi di sembrare troppo allegra. Donò un sorriso, perché non c'era ragione di non farlo.

“Un caffè con la panna, per favore” replicò poi. E al cenno della cameriera, “Ti ringrazio molto” aggiunse.

Cercava sempre di parlare il più possibile, e di ringraziare per qualsiasi cosa, nonostante fosse di natura una persona di poche parole.

La cameriera si stupì del sorriso costantemente impresso sul volto della giovane, che da una curva appena accennata delle labbra pallide si allargava, diventando luminoso e aperto.

Era uno di quei sorrisi che fanno pensare alla gente Ti prego, sorridimi di nuovo.

E infatti la cameriera lo pensò, perché fu come se la cortesia e la gioia della ragazza le si fossero insinuate dentro, riscaldando quella giornata fredda e nevosa. Si chiese chi fosse la persona che le stava sorridendo in quel modo contagioso.

Poi le guardò gli occhi con più attenzione. Due voragini scure, vive e profonde, come ferite che non si sono mai richiuse. Erano occhi luminosi e ardenti voglia di vivere.

Un sorriso così, occhi così, ce li ha solo chi ha sofferto tanto, pensò.
Come fa dal dolore a sbocciare gioia? Si chiese in seguito, mentre stava lavando le tazze nel lavandino della cucina, sola, perché ormai anche il proprietario era andato a casa, e toccava a lei chiudere. Tuttavia, mentre assolveva a quegli ultimi, pochi compiti, la sedicenne non riusciva a indirizzare i pensieri su qualcosa di più leggero. E se ciò che si rifletteva negli occhi e nel sorriso della giovane donna non fosse gioia, ma qualcos'altro? Dal dolore poteva nascere qualcosa di buono, ma non la gioia.

La cameriera scosse la testa, afferrando le chiavi del bar e gettando un'ultima occhiata a dove, poche ore prima, era stata seduta la persona più insolita che avesse mai incontrato. E la risposta a tutte le domande venne da sé.

Dal dolore nasceva la speranza.

 

L'orologio digitale al posto destro di Lisa Mishima segnava le sei e dodici minuti precisi, nel momento in cui la ragazza stava percorrendo lentamente la via adiacente al fiume, nella direzione opposta da quella in cui l'acqua scorreva. Non aveva smesso di nevicare da quella mattina, perciò i passanti affondavano i piedi in cinque centimetri di neve, che si trasformava in pozze ghiacciate ai lati della strada. Lisa si riflesse in una di queste.

Ciò che vide la colmò di un lieve senso di smarrimento.
In quella lastra ghiacciata, stagliandosi su uno sfondo di figure confuse rannicchiate nei propri cappotti invernali, la fissava a sua volta una donna che riconobbe come se stessa, avvolta da un pesante abito giallo paglierino, e da una sciarpa color crema. Aveva comprato di proposito quei vestiti? Li possedeva da troppo tempo perché potesse ricordare. Probabilmente l'aveva fatto inconsciamente. I capelli corvini erano stati tagliati di recente all'altezza delle spalle, e vi si era depositata una moltitudine di fiocchi di neve, costellandoli di bianco.

Lisa, con la mano rivestita da un guanto nero, si sistemò dietro l'orecchio una ciocca in balia del vento. L'altro braccio era disteso lungo il suo fianco.

Un istante dopo, Lisa si accigliò. A turbarla era stato qualcosa di appena intravisto, lo spiraglio di una fantasia che la ragazza conservava gelosamente nel proprio cuore. Per un battito di ciglia, quella fantasia divenne realtà.

Lisa non vide solo sé stessa riflessa nel ghiaccio, ma anche una massa disordinata di capelli castani, un paio di grandi occhi color nocciola, e un sorriso che incendiò qualcosa dentro di lei, riportando alla luce un lucchetto impolverato nel suo animo, una serratura con la quale poteva combaciare una e una sola chiave.

La visione sparì com'era venuta. E Lisa si convinse di averlo immaginato.

Ignorò quel fuoco che aveva ripreso ad ardere a vuoto, ignorò il battito cardiaco accelerato. Distolse lo sguardo, fissandolo sull'orizzonte delineato dai grattacieli di Tokyo. Alcuni mancavano, naturalmente, ma i cittadini ci avevano fatto l'abitudine. Erano persino stati avviati i lavori di costruzione di un paio di edifici pubblici, in quegli spazi vuoti.

Lisa guardò il cielo con aria leggermente nostalgica, ma era felice che il mondo si stesse riprendendo. Sorrise a quella distesa che andava sfumando in violetto, e che presto sarebbe stata completamente oscura.

Il mondo sta andando avanti, pensò Lisa. Non si guarda indietro.

Passo dopo passo, stava andando avanti anche lei. Era cambiata, e non le ci era voluto molto per capirlo. Non c'era più traccia della ragazzina troppo insicura e troppo sottovalutata che era stata un tempo. Si era trasformata in donna, nello stesso modo in cui un fiore sboccia.

E sul suo volto non c'era più posto per vergogna o paura. Lisa amava sorridere al mondo, amava la vita per quello che era, anche se esisteva la sofferenza, anche se c'erano momenti buio e ostacoli apparentemente insormontabili. E poi aveva imparato ad accettare sé stessa, con tutte le proprie debolezze, che cercava giorno dopo giorno di aggiustare.

Aveva finalmente spiccato il volo, nonostante nessuno avesse mai creduto che ce l'avrebbe fatta, ad eccezione di una persona.

Sarebbe stato fiero di lei. Lo sapeva.

Lei aveva conosciuto quel qualcuno che le aveva fatto pensare Ti prego, sorridimi ancora, ed era meraviglioso. Ma la sua vita continuava, nonostante una parte di lei fosse stata distrutta per sempre una sera d'estate di anni prima, proprio nel momento in cui il giorno cedeva il posto alla notte. In lei, mentre l'arancio, poi il viola, poi l'azzurro tingevano il cielo, qualcosa era appassito. Morto.

Eppure era ancora lì, dopo tutto quel tempo. Era riuscita a ricostruirsi, o quasi.

Tornò a guardare la pozza ghiacciata. Ma stavolta non ci fu modo di credere che fosse frutto della sua immaginazione.

Il riflesso di un giovane era limpido ed inconfondibile, e Lisa si pietrificò all'istante. I suoi occhi ebbero un fremito, la vista le si offuscò.
Non percepì che le proprie mani avevano cominciato a tremare, né che il viso le si era improvvisamente scaldato o che il cuore le stava galoppando nel petto più forte che mai, come se volesse sfondare la cassa toracica. Sapeva soltanto che gli occhi del ragazzo erano fissi nei suoi, attraverso quello specchio di ghiaccio.
Lisa, se pensò di impazzire, non se ne preoccupò minimamente. Pensò; se è questo che significa essere pazzi, allora mi sta bene.

Passò quale lungo secondo, durante il quale Lisa, confusa ed immobile, contemplò l'immagine chiara di Twelve. Poi si accorse che lui le stava sorridendo; quel sorriso che a lei era mancato come l'ossigeno, tanto che, spesso, si era sentita soffocare.

Gli rispose con il sorriso più imbarazzato che riuscì a produrre, piccolo come quelli che era solita regalargli molto tempo prima. Forse la vecchia Lisa non se n'era del tutto andata.

Gli occhi del ragazzo brillarono, e fu in quell'istante che la giovane sentì che avrebbe potuto piangere di gioia.

Ti prego, ti prego, sorridimi ancora, e ancora.

Invece lui le sfiorò la mano con la propria, facendo scivolare delicatamente le dita tra quelle della ragazza, che fu percorsa da brividi di emozione.

Twelve sollevò lo sguardo dalla pozza, spostandolo direttamente su di lei. O almeno, questo fu ciò che vide Lisa prima di distogliere anch'ella l'attenzione dalla lastra riflettente, credendo di poter finalmente incontrare gli occhi del ragazzo del quale il suo cuore implorava disperatamente il nome.

Ma accanto a lei non c'era nessun ragazzo dai capelli castani, e tutte le aspettative le crollarono addosso. Fu come se qualcuno le stringesse un pugno attorno al cuore.

Lisa si alzò sulle punte dei piedi, incapace di cedere all'unica spiegazione possibile, cercando tra la folla che le vorticava attorno quegli inconfondibili capelli castani.

Si guardò la mano destra, che non stringeva nulla. In un gesto istintivo si sfilò il guanto, esponendo le dita sottili all'aria gelida. I polpastrelli erano arrossati come il palmo, e ogni singolo centimetro di pelle formicolava, ogni cellula urlava di aver sentito quel contatto.

Ma Twelve non c'era, come ebbe modo di confermare Lisa sollevando nuovamente lo sguardo sui passanti.

Senti le lacrime formarlesi dietro le pupille, premere per uscire.

Lisa ripose il guanto nella tasca del cappotto, lasciando scoperta la mano destra, che si stava sensibilizzando al freddo. Le gote si erano tinte visibilmente di rosso e le labbra tremavano impercettibilmente, e mentre si faceva largo tra la gente che affollava la strada non tentò nemmeno di nascondere l'angoscia per l'accaduto.

La sua mente era stata inghiottita da un carosello di pensieri, che difficilmente riusciva a dominare. Tempo prima era stata abituata alla sensazione, ma da quasi un anno si era convinta di essere tornata normale. Non sentiva più il bisogno di fuggire da tutto.

Prima che se ne rendesse conto, Lisa cominciò a correre. La neve le adornava ancora i capelli e non smetteva di cadere, rivestendo il mondo di bianco.

Il respiro pesante della giovane si condensava in foschia grigia, che somigliava a quella emanata dalle tazze di cioccolata calda del Mae-Kawa, e che poi si disperdeva nell'aria. Improvvisamente il movimento e le luci della città, le quali si andavano accendendo man mano che la sera allungava le sue ombre, stordivano la ragazza, che si fermò a prendere fiato sull'orlo del marciapiede.

La mano le formicolava ancora, e Lisa desiderò che smettesse, così da poter dimenticare tutto, e nel contempo voleva che quella piacevole sensazione rimanesse impressa nelle sue dita per l'eternità, tanto le dava speranza.

Sembrava a dir poco incredibile che fosse accaduto solo nella sua testa.

La giovane si guardò intorno cercando di capire dove si trovasse esattamente, e per cercare una fermata della metropolitana, ma ciò su cui lei si concentrò fu diverso.
Il sole regalava gli ultimi istanti di luce, e Lisa si concesse un sorriso stanco. Un altro giorno finì.

Lisa fece per dirigersi in direzione della fermata più vicina, a meno di sessanta metri dal punto in cui si era fermata, quando scorse con la coda dell'occhio un lampo rosso. Fu più forte di lei.

Si voltò, e il suo sguardo trovò immediatamente ciò che cercava.
Non aveva mai dimenticato quella felpa rossa che lui indossava quel lontano giorno, quando l'aveva incontrata in biblioteca, poco prima di minacciare di ucciderla.

Ricordava di aver provato paura, e ricordava anche di essere stata ancora più attratta dal ragazzo, dopo quell'incontro. Aveva provato un'attrazione magnetica ed inspiegabile per lui fin dalla prima volta che le loro vite si erano incrociate irrimediabilmente.

Ed era rimasta stupefatta da quanto la vita fosse potente in lui, fin dal primo sorriso che lui le aveva rivolto.

Fin dal primo momento, Lisa avrebbe potuto giurare di aver percepito qualcosa unire il suo destino a quello di lui, e forse quel legame non si era mai davvero spezzato. Perché si mosse qualcosa dentro di lei, nell'istante in cui vide la sua immagine dal lato opposto della strada.

Qualcosa simile ad una serratura scattò, e si aprì.

Lisa sfrecciò in strada con l'intenzione di raggiungerlo, ma non ci riuscì mai.

 

 

Il mondo era bianco. Non bianco come d'inverno, quando tutto è coperto dalla neve, perché in quel momento non nevicava di certo. Anzi, sembrava quasi estate. E il bianco era semplicemente una luce diffusa, che non proveniva da nessun posto in particolare.

Forse quello non era neanche il mondo; Lisa non lo sapeva.

Non sentiva caldo. E nemmeno freddo. E non era del tutto certa che il suo corpo occupasse materialmente uno spazio, nonostante potesse vedere i suoi piedi fissi sul terreno e le sue gambe, chinando lo sguardo. Poteva muovere anche le braccia e le mani, e ogni singolo dito.

Quindi in effetti il suo corpo c'era.

Una volta constatato questo, Lisa cercò di capire dove fosse. Riconosceva vagamente il paesaggio attorno a sé: una sopraelevata le si tagliava di fronte, dietro un gruppo di alberi, mentre moltissimi edifici si innalzavano tutt'intorno a lei, in lontananza. Si trovava in uno spiazzo sterrato, che distingueva nonostante tutti i colori sembrassero essere stati risucchiati dalla tela, oppure essersi confusi tutti tra loro, annullandosi a vicenda e lasciando un bianco troppo ambiguo per essere chiamato bianco.

“Mi hai fatto aspettare parecchio” disse dolcemente una voce. Una voce che fece vibrare delle corde che non producevano più una melodia da troppo tempo, in Lisa.

Lei trattenne il fiato.

Twelve incrociò le braccia al petto, inclinando di poco la testa a un lato.
Cinque metri a separarli. Cinque miseri metri che Lisa non riuscì a percorrere di slancio, malgrado l'avesse voluto con tutte le proprie forze, per paura che lui scomparisse ancora.

Aveva il terrore che potesse trattarsi ancora di un'illusione.

Lo sguardo di Twelve, se possibile, si addolcì di più. Come se le avesse letto nel pensiero, disse “Sono qui, Lisa.”

La ragazza sbatté le palpebre, titubante. E se si fosse trattato di un sogno?
Così tante volte aveva sognato di rincontrarlo, in mille modi diversi.

E altrettante volte si era svegliata con le guance umide, il respiro affannoso, il petto contrito.

“Hai paura?”

Lisa annuì.

“Non devi più averne.” Lo sguardo del ragazzo era velato di melanconia, e anche di commozione. “È successo ciò che, evidentemente, doveva succedere.”

Lei non capì, ma lasciò che il suo sguardo interrogativo parlasse al suo posto.

“Ti ha investita in pieno, sai?”

Come se qualcuno avesse aperto all'improvviso una diga e tutto ciò che tratteneva si fosse riversato fuori, i ricordi della ragazza tornarono. Solo che non la travolsero, né la turbarono. Erano nitidi come vecchie fotografie, consumate, ma ancora chiaramente riconoscibili.
L'immagine di due fari che si facevano sempre più vicini ad una velocità impressionane non ebbe alcun effetto su Lisa, che finalmente divenne consapevole.

“Ah, ma non è finita subito. Sei stata in coma per due mesi, prima di... beh, non ha importanza, comunque.” Twelve si passò una mano tra i capelli, leggermente imbarazzato.

“T-Twelve...” La voce di Lisa tremò ed oscillò come il pendolo di un orologio, e la ragazza temette di poter scoppiare in singhiozzi.

Solo che il motivo non era la perdita della vita.

Aveva capito, finalmente, che lui era di fronte a lei realmente, se quella si poteva chiamare realtà. Era con Twelve. Tutto ciò che contava era questo.

“Mi dispiace tanto, Lisa. Tu... tu meritavi molto di più” disse il ragazzo, ma si interruppe non appena si accorse dell'espressione sul volto di lei, che aveva mosso qualche passo traballante nella sua direzione.

“Lis-”
La giovane cadde tra le sue braccia, gettandogli le braccia al collo, dando sfogo al pianto. Lui la strinse forte, sostenendola.
Lisa sorrideva tra le lacrime, intenzionata a dire qualcosa di senso compiuto tra un singulto e l'altro.

“G-grazie... di avermi aspettata...” le uscì alla fine, stringendo la maglietta bianca di Twelve tra le dita. Lo sentì ridere contro il suo petto, e quel caldo suono fece uscire altre lacrime di gioia.
“Che altro avrei potuto fare?” le rispose, sussurrandole all'orecchio. “Ti sono stato vicino ogni giorno, fino alla fine.”

Lisa fece intrecciare le loro mani, sciogliendo l'abbraccio per poter guardare il ragazzo negli occhi. Fece per dire qualcos'altro, ma riuscì solo a perdersi nella contemplazione di ciò che lui rappresentava per lei, un tipo di felicità che non era più stata sicura di riuscire a provare ancora.

Le era mancato. Ed era strano per lei pensare qualcosa del genere, ma non rimpiangeva la morte.

Tutto nella vita aveva uno scopo, persino la fine. Che, pensò Lisa, mentre Twelve la accompagnava mano nella mano verso un punto all'orizzonte dove la luce si faceva molto più intensa, e che in qualche modo la richiamava, non era davvero una fine.




















Beh, salve! 
Comincio col presentarmi, anche se spero di non fare un angolo autrice lungo più dell'os in sé: sono Amaya e, anche se è la prima storia su zankyou no terror che pubblico su efp, non sono nuova in questo fandom. Ho infatti seguito l'anime in contemporanea all'uscita degli episodi in Giappone, e ho scritto questa fic tempo fa, ma ho atteso prima di renderla pubblica, ma oggi una mia carissima amica mi ha ricordato che magari era il momento di farlo. 
Vorrei ringraziare, appunto, in modo speciale Ayako Yume, che mi supporta e sopporta in continuazione, e anche per aver condiviso la mia sofferenza alla fine della serie (che mi ha letteralmente devastata psicologicamente).
Come avrete sicuramente già capito, sono un'Hisalisa shipper! Già, questi due mi hanno fatto soffrire più di qualsiasi altro pairing in assoluto, eppure la mia è una scelta senza rimpianti. ♥ In questa fic ho un po' dato sfogo a tutto il mio dolore e a uno dei miei tanti film mentali, che riguardano maggiormente il futuro di Lisa (personaggio che adoro). So che non molti condivideranno l'idea della sua morte, ma per me è ciò a cui potrebbe giungere senza voler fuggire dalla vita, che anzi diventa qualcosa che accetta e a cui da importanza, comprendendo che essa è importante, e bellissima nonostante tutto. Lisa è andata avanti ed è riuscita a ritagliarsi il suo posto nel mondo, cosa che, prima di aver conosciuto Twelve e Nine, non si riteneva capace di fare. Poi c'è l'intervento del destino, e bam! il fluff è capitato e non ho potuto proprio fermarlo.
Spero abbiate apprezzato la one-shot, e se l'avete fatto, ne sono davvero lieta! Mi piacerebbe leggere la vostra opinione, e spero che non vi dispiaccia lasciarmene una.♥
Un abbraccio grande, 
Amaya.

  
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