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Autore: Melian    26/11/2014    11 recensioni
Egitto. Thutmosis, scultore reale, sta lavorando alla sua opera più bella ad Akhetaton, l'Orizzonte di Aton, la città voluta da Amenofi IV. : "[...] Così, in quest'opera io ho trasfuso tutto me stesso e in essa ho esaurito tutta la mia arte: non creerò nulla di più bello. Ma in essa sei racchiusa tu, con il tuo enigma e lo sguardo che coglie ciò che nessun uomo riesce. Il suo sorriso è il tuo sorriso. Questa scultura è te e tu sei tutte le donne. In te Hathor si rallegra e Iside si esalta, perché tu sei loro. [...]"
“Partecipa al contest Salvatore Quasimodo contest indetto da katniss_jackson sul forum di EFP”
[Seconda classificata e vicintrice dei premi "Antichità", "Miglior Romantica", "Premio Lui", "Premio Giuria" all'Historical Contest - Perle dal passato indetto da Black_Hunter sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
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Lo Scultore di Akhetaton



"Mi chiedi parole. Ma il tempo
precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe
da offrire se non quelle silenziose
del sangue legate al tuo nome,
o mia vita, mio amore senza fine.”
— Salvatore Quasimodo, Mi chiedi parole


 

Thutmosis stava fermo sulla soglia della propria bottega e teneva sollevata la stuoia arrotolata che segnava l'ingresso.
L'abitazione aveva una facciata bianca e intonacata e si snodava su due livelli: il pian terreno era adibito a studio, mentre quello superiore costituiva l'appartamento privato. Era stata costruita in uno dei quartieri più ricchi di Akhetaton, l'Orizzonte di Aton, la città fortemente voluta dal faraone Akhenaton e che gli artigiani avevano costruito, mattone su mattone, e abbellito con instancabile tenacia.
L'uomo si scostò di lato per lasciar passare i due ragazzini che trasportavano una cassa di legno recante, su un fianco, il sigillo della casa reale; fece loro un rapido cenno, indicando un angolo del pavimento coperto di una fine coltre di sabbia che il vento si ostinava a sollevare e spingere nel locale.
«Posatela lì, con attenzione. Contiene qualcosa di molto prezioso», si raccomandò Thutmosis, lasciando ricadere la stuoia.
La penombra tornò a regnare nella stanza e i due ragazzi, grati per quell'improvvisa frescura, si asciugarono le fronti imperlate di sudore. Indossavano un semplice gonnellino corto e bianco ed erano magri e longilinei, benché la loro somiglianza si riducesse solo a questo: i loro visi – uno più aquilino e l'altro maggiormente squadrato – comunicavano personalità diverse.

«Se non c'è altro che ti occorre, maestro, torneremmo al Villaggio», disse il maggiore tra i due, senza lesinare un'occhiata attorno a sé con evidente interesse.
Lo studio era essenziale, affatto spoglio e colmo proprio della scintilla di vita che ci si sarebbe aspettata da un artista come Thutmosis, mosso dal genio divino. Su ogni muro spiccavano gli incredibili affreschi che la mano dell'artigiano sapeva creare con tanta maestria, distribuendo i colori con effetti sorprendenti: le figure sembravano voler quasi balzare dalle pareti e parlare, i colori vibravano tra i chiaroscuri quando la luce penetrata dalle finestre li colpiva.
L'apprendista dal naso aquilino sorrise nello scorgere un ritratto del maestro stesso: un uomo dai capelli scuri e corti, gli occhi penetranti, e le mani sollevate nell'atto di salutare il Disco Solare.

«Sì, non c'è altro e potete andare. Ringraziate da parte mia Hori per avermi mandato quello che gli avevo chiesto. Avvisatelo che verrò presto a trovarlo», li accomiatò, riscuotendo i due ragazzi dalla contemplazione in cui erano scivolati.
«Non vuoi dirci a cosa stai lavorando?»
L'artista sorrise indulgente, ma scosse il capo, ammettendo: «Non posso svelarvelo, perché temo che la mia lingua ancora non sappia parlare di ciò che le mie mani hanno imparato ad amare e le mie orecchie ad ascoltare. Quando sarà il momento, mostrerò la mia opera.»
I due apprendisti non insistettero oltre e, ben presto, lasciarono lo scultore da solo.
L'uomo sedette sul suo sgabello e si chinò sulla cassa; la esaminò con cura: il sigillo reale era la prova che quelle erano materie di prima qualità senza alcun dubbio. Con uno scalpello, diede un colpetto secco e forzò le assi, scoprendo il contenuto tanto prezioso con un sorriso soddisfatto.

 

La fortuna di Thutmosis era dovuta essenzialmente all'occhio attento del re che, quando aveva attraversato il deserto ed era entrato per la prima volta nella città sul suo carro, aveva scorto le sue statue realizzate da con grande perizia e amore.
Akhenaton amava l'arte e aveva sempre avuto come massima aspirazione quella di rendere la città di Aton degna dello sguardo del Dio.
L'artigiano ricordava bene che, dopo qualche giorno dall'insediamento ufficiale della Coppia Reale ad Akhetaton, un messo si era precipitato a bussare alle porte del Villaggio degli Artigianii che sorgeva poco lontano dalla città, portando con sé una tavoletta recante il sigillo del re.
Al Villaggio c'era stata un po' di chiacchiericcio, tanto che lo Scriba della Tomba Horiii, – incaricato dallo stesso Faraone di amministrare quel piccolo mondo indipendente dal resto dell'Egitto – aveva dovuto farsi avanti e rispedire tutte le donne alle loro occupazioni, prendendosi carico di consegnargli di persona il messaggio.
Thutmosis si era seduto nell'ufficio dello Scriba e aveva letto a voce alta la convocazione a corte.
«Perché proprio io?», aveva chiesto allo Scriba.
«Sembra che la tua opera sia gradita al Signore delle Due Terre. Non dovresti temere questa convocazione, perché è un chiaro segno che tutti i tuoi sforzi sono stati ricompensati. Ricordi quando non eri che un giovane apprendista? Ora sei un maestro di bottega, sei stato iniziato ai Misteri, quindi conosci i segreti del Villaggio e sai come rendere vive le tue opere e far fluire l'energia creatrice affinché il Khaiii del Faraone ne sia rinfrancato. Come tutti gli Artigiani del nostro villaggio, tu possiedi non solo abili mani, ma uno spirito mondo e che ha conosciuto la bellezza e l'armonia che noi serviamo. Tutto questo è per il Faraone e, dunque, tu vieni chiamato ad assolvere il tuo compito e null'altro.»

«Il mio compito dovrebbe essere quello di restare qui e lavorare alle Dimore dell'Eternità del Re e della sua famiglia e abbellire Akhetaton. A corte come potrei farlo? Qua ho i miei compagni e i miei lavori.»
«Stai cercando scuse, figliolo. Hai paura di lasciare questo Villaggio, adesso? Non ti ho visto accedere a nuovi livelli di conoscenza perché tu adesso ti possa schermare dietro l'indecisione», borbottò Hori, burbero.
«Non è questo.»
«Cosa, allora?»
Non aveva risposto, ma aveva lasciato l'ufficio dello Scriba della Tomba e, così come voleva il Faraone, preso licenza per recarsi nella città che aveva contribuito ad erigere, sorta dal nulla tra le sabbie del deserto, come la collina delle creazione su cui Atumiv aveva riposato all'inizio dei tempi.


Anche il giorno in cui era stato a corte per la prima volta il sole batteva con forza e la calura si era fatta insopportabile, quasi Aton volesse ricordare a tutti la propria presenza.
Thutmosis non riusciva ancora a comprendere la portata della rivoluzione religiosa di Akhenaton, quel re che era più che altro un sacerdote e un filosofo, che un guerriero.
Aton, il Disco Solare dispensatore di calore e quindi di vita per l’intero mondo, veniva raffigurato con molte braccia e mani tese verso la terra ed era uno degli Dei adorati nelle Due Terre. Ma Amon-Rav era sempre stato il Dio dei Faraoni e il suo clero ricco e potente, oltre che molto influente nella vita politica del Paese. Da centinaia di anni, ormai, nei grandi tempi del Dio Nascosto, si decidevano le sorti di molti affari di stato e della fortuna di parecchi uomini legati a doppio filo ai santuari.
Eppure Akhenaton aveva scardinato le certezze dei sacerdoti di Amon e minato quel millenario sistema alla base, tranciato di colpo l'approvvigionamento di ricchezze e di beni, assicurando nelle proprie mani non solo il potere temporale, ma anche quello spirituale, investendo se stesso del compito di essere diretto tramite tra divino e umano come primo sacerdote di Aton e diretto interprete del suo volere.
I sacerdoti avevano dovuto incassare il colpo, almeno apparentemente, preferendo rimuginare nell'ombra astiosi e rancorosi. Una fitta rete di inganni e di pericoli minacciavano il re che aveva deciso di lasciare Tebe, millenaria capitale del regno e dominio indiscusso di Amon, per fondare la propria città.
Akhetaton era, quindi, il frutto di un sogno, il grandioso sogno di un sovrano che desiderava la pace e deprecava la guerra, benché i nemici bussassero ai confini egizi. Akhetaton era seducente quanto un miraggio, con i suoi quartieri eleganti e le case squadrate fatte con piccoli e maneggevoli mattoni tutte imbiancate e con ampie terrazze, i viali lastricati adorni di statue, il grandioso palazzo reale attorno a cui tutto ruotava. l vento del deserto cercava di erodere pezzo dopo pezzo quell'opera grandiosa, come se Sethvi volesse divertissi a guastare ciò che gli uomini si affannavano a creare.

Vestito con un semplice panovii, un gonnellino di lino bianco di modesta fattura, Thutmosis si era fermato davanti all'assembramento di persone sotto un'ampia balconata del palazzo reale: dalla Finestra delle Apparizioni stava affacciato il Faraone e, accanto a lui, c'era la Grande Sposa Reale.
Il cuore di Thutmosis aveva perso un battito. Anche se era piuttosto lontano, non aveva potuto non notare Nefertiti, la più bella tra le donne di Kemetviii, piena della grazia di Hathorix. La vide sorridere disinvolta e salutare con un elegante gesto della mano i sudditi che la acclamavano innamorati.

Già, tutti erano innamorati di Nefertiti... proprio come lui.
Quando venne ricevuto nella sala delle udienze, Akhenaton sedeva su un alto seggio, cingeva la Doppia Corona bianca e rossa e reggeva il Pastorale e il Flagello. Vestito del tipico schentisx di lino pregiato e plissettato, conservava l'aria aristocratica soffusa di una malinconia tipica delle persone fatte di spirito più che di azione. Aveva gli occhi scuri e penetranti, le labbra carnose e un viso dai lineamenti leggermente allungati. Anche il suo fisico suggeriva quanto poco amore avesse avuto per le armi, poiché non era temprato come un guerriero, ma possedeva la mera elasticità di chi si diletta nella caccia come passatempo.
Accanto a lui, Nefertiti era l'incarnazione della bellezza e il nuovo nome che aveva adottato – Nefer-neferu-Aton, Perfetta è la bellezza di Aton – incarnava perfettamente la sua personalità.
La kalasiris, la sua veste, era di leggerissimo tessuto pieghettato e scendeva fino a terra, lasciando trasparire le fattezze del corpo per via della linea aderente. Cingeva una collana d'oro e lapislazzuli e braccialetti ai polsi sottili. Il volto era armonioso, espressivo, con alti zigomi, le labbra piene e gli occhi dal taglio allungato, resi più intensi dalla linea di khol nero che li contornava, opera di una ancella abilissima nel trucco. Portava una parrucca acconciata in modo elaborato, com'era d'uso a corte a quel tempo, e che emanava un piacevole profumo di fiori di loto. Il suo corpo appena abbronzato, infine, era soffuso di polvere d'oro e i seni orgogliosi facevano capolino sotto le larghe e lunghe bretelle del vestito.
Per un istante, lo scultore era rimasto senza parole mentre i raggi del sole, le lunghe mani di Aton, penetravano dalle ampie finestre e giocavano sui volti dei due sovrani.
Thutmosis si era prostrato, toccando il suolo con la fronte e riconoscendo nella Coppia Reale l'incarnazione delle potenze che permettevano a Kemet di prosperare, l'Horo d'Oro e la sua Sposa, colei, cioè, attraverso cui veniva conferita la regalità al sovrano e che lo giustificava agli occhi degli Dei, incarnando Maat, l'Equilibrio Cosmico e la Regola a cui tutti gli egizi retti si attenevano.
Akhenaton gli aveva sorriso e offerto la seduta comoda di uno sgabello; un servò gli offrì una coppia di frizzante vino d'acacia con solerzia che Thutmosis si sentì in dovere di assaggiare.

«Ora che siamo comodi, Thutmosis, possiamo discutere di quanto è mio desiderio vedere realizzato e che tu plasmerai», gli aveva detto il Faraone, per poi continuare: «Vorrei che tu realizzassi tutto ciò che la mia mente concepisce per la gloria di Aton, poiché io sono suo figlio e desidero che egli sia compiaciuto.»
«Maestà, non capisco. Perché io? Ci sono scultori molto più esperti di me, con una lunga carriera alle spalle e una solida preparazione. Al Villaggio, i mastri scalpellini hanno fatto meraviglie ed esse sono disseminate in tutta la città.»
«Hai qualcosa che ho colto osservando le tue statue, una sensibilità che cercavo da tempo. Tu puoi penetrare tra i veli che comuni uomini non potranno mai anelare a sollevare e potrai rendere onore ad Aton», interloquì Akhenaton con la sua voce profonda e pacata e lo osservò con l'acutezza di un sacerdote che voglia sondare l'animo altrui durante un'orazione
«Cosa pensi della pietra, Thutmosis?» intervenne Nefertiti improvvisamente; era leggermente accigliata, quasi fosse preda di pensieri vorticosi.
L'uomo rimase per qualche istante zitto, spiazzato, con le mani strette contro le ginocchia con forza.
«Le pietre nascono nel ventre della terra, cullate dal suo grembo. Oppure cadono dai cieli, pregne di calore ed energia. Tuttavia ogni pietra reca su di sé l'impronta di ciò era e che sarà: anche se ad un occhio profano potrà sembrare inerte, infatti, la pietra è viva; ma il suo tempo è lento, non è come il nostro, non può esserci paragone. Quando uno scalpellino tocca una pietra, però, avverte immediatamente l'energia segreta che corre nelle vene della cava, riesce a percepire la memoria della pietra stessa, immagina cosa diverrà e sa che essa attraverserà il tempo e perdurerà. Se si riesce a percepire questo, cioè l'eco della voce di ogni minerale, allora noi possiamo essere testimoni dell'eternità e lasciare un'impronta in essa, modellandola in foggia di statue.»

Nefertiti sorrise e inclinò il capo di lato, seducente; le lunghe trecce della parrucca le scivolarono sulla spalla e le perline che le ornavano tintinnarono.
«Vedi? La pietra ti parla e tu hai orecchie in grado di comprenderla. Per questo motivo tu sei degno di servire il Faraone», gli fece notare con tono arguto e sicuro, lo stesso con cui conduceva tutti gli affari di Stato.

Senza attendere replica da parte di Thutmosis, Akhenaton aveva sollevato i simboli del potere e aveva fatto un cenno ad uno scriba che – sedendosi su una stuoia nella tipica posa a gambe incrociate e preparando tutto l'occorrente per la scrittura – si accinse a registrare le parole che il sovrano pronunciò subito dopo.
«Da questo momento in poi, Favorito del Re, sei nominato Maestro dei Lavori della Casa Reale. Così è deciso, nel nome di Aton. Adesso va', sarai condotto nei quartieri residenziali vicini al palazzo dove troverai la casa in cui potrai rendere viva la pietra. Tutto ciò di cui avrai bisogno ti sarà fornito senza indugio e potrai andare e tornare liberamente dal Villaggio degli Artigiani.»

 

Dopo quell'incontro, Thutmosis si era dedicato ad arredare la sua nuova casa e aveva preso confidenza con la bottega e il quartiere dove la gente che passeggiava, ogni tanto, si affacciava incuriosita ad osservare il suo lavoro.
Non ebbe modo di rivedere la Coppia Reale troppo presto, ma prestava ben orecchio a ciò che si vociferava. Apprese così delle celebrazioni mattutine in onore di Aton tenute in templi all'aria aperta: in un bagno di folla, i sovrani percorrevano sul loro carro il lungo viale che dal palazzo tagliava la città, fino a giungere il luogo sacro con ricche offerte, lodi e canti.
Akhenaton rifiutava che qualsiasi altra divinità avesse la stessa importanza di Aton, tanto da arrivare a vietare ai suoi sudditi il culto degli antichi Dei.
Fu un momento di grande incertezza per l'Egitto, come se un gigante stesse trattenendo il fiato prima di battere fragorosamente su un tamburo: la popolazione non voleva rinunciare agli Dei che aveva sempre venerato da generazioni e i sacerdoti di Amon ne approfittavano per sobillarla.
Eppure, Akhenaton possedeva un fascino che solo i grandi sacerdoti, più che i politici, possedevano: riusciva sempre a riportare a sé i cuori dei suoi sudditi, li lusingava con le promesse di un'era di pace, amore e uguaglianza agli occhi di Aton.
Forse solo l'esercito non fu davvero mai placato e continuò a rumoreggiare sommessamente, una belva pronta a mordere la mano che la nutre. Horemheb, a capo degli eserciti del re, avrebbe dovuto mediare tra il volere di Akhenaton, che rifiutava di muovere guerra, e la necessità del Paese di vedere i propri confini protetti, gli alleati soccorsi e le tribù ribelli represse.
Thutmosis si chiedeva quando quel fragile equilibrio si sarebbe spezzato e quali sarebbero state le sue conseguenze.
Comunque, la vita all'Orizzonte di Aton era ricca di sorprese e lì la sua arte conobbe il suo massimo splendore.

 

Una sera fu invitato ad un banchetto al palazzo reale dove incontrò Bek, il mastro scultore che aveva già servito Amenhotep III, padre di Akhenaton.
Bek era un uomo dalla pelle brunita dal sole e il capo rasato, slanciato e dalla corporatura possente; aveva una mascella squadrata e un'espressione gioviale e occhi scuri e mobilissimi. Le sue mani, per quanto grandi, accarezzavano la pietra con la devozione con cui un amante potrebbe sfiorare una donna.
Durante quella festa, Akhenaton in persona passeggiò con i due artisti nei giardini. Portava un gonnellino pieghettato rosso e dorato e una collana d'oro e placche di lapislazzuli; sul capo cingeva la Doppia Corona e la portava con la disinvoltura di un re convinto della sua essenza e della sua stessa divina regalità, malgrado le malelingue lo ritenessero un debole e un folle.
Fiancheggiando le vasche piene d'acqua dove nuotavano esotici pesci variopinti, il re li interrogava e si dimostrava un brillante conversatore: ad Akhenaton l'eloquio non mancava e compensava con esso la scarsa prestanza fisica.
«Aton mi ha parlato e voi, miei fedeli amici, sapete che ciò che il Dio mi ispira deve essere compiuto. Stasera, io voglio parlarvi della Verità. Ma cos'è la Verità?»

«Suppongo, sire, che la verità sia nota solo al Dio e che gli uomini non possano giungere a conoscerla se non quando si presenteranno al suo cospetto. Ma poiché tu sei suo figlio, conosci ciò che a noi uomini comuni è celato. Certo, coloro che hanno appreso i moti segreti della pietra, del colore, dell'intaglio e di tutte le tecniche che rendono un uomo un costruttore, un artista, un artigiano, potrebbero esserne messi a parte, in quanto i loro occhi vedono», rispose Bek con energia e tono franco.
Akhenaton si sedette sul bordo della vasca e sfiorò i petali di una ninfea in un gesto che, su di lui, acquistava una sorta di magnetismo spirituale unico. Guardò gravemente Bek e poi Thutmosis, cui chiese: «Tu che ne pensi? Sapresti tradurre la Verità in simboli visibili per la gente comune?»

Thutmosis non rispose subito. Al contrario del suo collega, era di indole più riflessiva e non aveva preso sottogamba l'espressione e il senso nascosto nella domanda del sovrano.
Infine, rispose: «Se la Verità è davvero tale, allora arriverà al cuore di ogni uomo con immediata semplicità e lo illuminerà. L'arte permette questo e io sono un artigiano: la pietra continua a parlarmi e io ad ascoltarla.»

«Molto bene!» interloquì Akhenaton e sembrò soddisfatto; sorrise e fece un cenno ai due artigiani: «La Verità che io vi porto è che l'arte debba farsi specchio di ciò che è realmente. Aton vuole che ogni artificio decada e che il popolo veda il suo re e la sua sacra famiglia così come sono, con le loro gioie e i loro dolori. Ciò che voglio è che rappresentiate fedelmente quanto i vostri occhi vedono, senza più idealizzare la realtà. Siate spontanei e abbandonate la rigidità dei modelli!»
Fece una pausa e i suoi occhi brillavano di emozione, il suo sorriso si era fatto più ampio e caloroso. «Sotto i raggi del sole di Aton, tutto diviene chiaro e ciò che essi illuminano non può essere mutato dal gusto degli uomini. Quindi vorrei che vi occupaste di scolpire e dipingere statue, bassorilievi, cartigli, e affrescare le sale del mio palazzo con immagini di gioia, vive e vere. Ritraete me, le mie figlie e la mia splendida Nefer-neferu-Aton così come appaiamo ai vostri occhi.»
Thutmosis scambiò una veloce occhiata con Bek e i due compresero che avevano appena preso parte alla rivoluzione di Akhenaton e che la loro arte sarebbe stata motivo di rottura con tutti i canoni precedenti, dove tutto era codificato in simboli che costituivano l'armonia, la regola, la bellezza, il legame eterno con gli Dei. Adesso la bellezza diveniva ritrarre fedelmente pregi e difetti. Cosa sarebbe accaduto? Le loro creazioni avrebbero posseduto ugualmente la scintilla di vita che avrebbe permesso loro di percorrere l'eternità ed essere il ricettacolo delle energie che avrebbero nutrito i Kha? Era una sfida e avevano appena accettato tacitamente di iniziarla.

«C'è solo una cosa...» Akhenaton li strappò da quel turbine di pensieri. «Poiché agli occhi di Dio maschio e femmina sono una cosa sola e di par importanza, suo figlio diletto non può essere da meno, non può avere una distinzione di genere. È lo stesso motivo per cui la Grande Sposa Reale ha nelle sue mani il mio stesso potere di Faraone. Perciò, voi darete voce a questa Verità creando statue che mi rappresentino adeguatamente come figlio di Aton.»


Un paio di giorni dopo quella conversazione, Bek e Thutmosis si erano ritrovati al Palazzo Reale con una squadra di scultori e pittori provenienti dal vicino Villaggio degli Artigiani e ogni angolo di quella dimora si era riempito della vitalità delle sculture e degli affreschi.
Nelle stanze delle figlie del re vennero dipinte spaccati di vita quotidiana; su formelle di pietra furono realizzati bassorilievi in cui il re e la regina baciavano le loro bambine o si tenevano per mano sotto lo sguardo di Aton; persino il trono di Akhenaton conobbe il tocco del pennello, perché alle sue spalle venne dipinto il Disco Solare con i suoi raggi sottili e dorati e le mani che reggevano Ankh, le Chiavi della Vita Eterna.
Più di ogni altra grande opera, furono create delle enormi statue che ritraevano Akhenaton come aveva desiderato: né uomo, né donna, ma una figura androgina dalle membra longilinee, con le spalle strette e il bacino largo e il ventre appena prominente. Il volto scolpito seguiva le stesse linee allungate, zigomi alti e un naso leggermente pronunciato su labbra carnose: il risultato era una singolare serenità nell'espressione.


Thutmosis si riscosse dai suoi pensieri mentre estraeva con cura il contenuto della cassa: erano pani di diversi colori che valevano una fortuna.
Il segreto delle preparazione dei colori stava nelle mani dei più valenti pittori e, per padroneggiarlo, occorrevano tempo, talento e ottime materie prime.
Il fatto che gli avessero spedito quei pani dal Villaggio riempiva Thutmosis di orgoglio: era ciò di cui aveva bisogno per dare l'ultimo tocco alla sua opera e per consegnarla alla vita e all'eternità.
Forse, tramite essa, lei avrebbe capito ciò che provava e anche il mondo avrebbe potuto gioire della sua luce.
Armato dei suoi pennelli dalle folte setole di fibra di palma, sembrò estraniarsi completamente mentre si occupava di preparare tutto il necessario. Usò delle piccole ciotole di legno in cui diluì frammenti di colore con bianco d'uovo, in un'altra ciotolina utilizzò del vischio: in base al colore e al minerale da cui era ricavato, Thutmosis sceglieva il diluente ideale, una sostanza collosa che permettesse di stendere bene la tintura sul supporto e perdurasse. Tenne vicino a sé anche della cera d'api di prima qualità e della gomma d'acacia.
Gli parve che fossero passati solo pochi minuti, quando sentì un vociare fuori dalla bottega.
Si ripulì le mani contro uno straccio e raggiunse l'uscio, aprendolo: venne investito dal sole del tardo pomeriggio che si avvia al suo declino, in un trionfo di aranci e gialli degni della tavolozza divina. Ciononostante, ad attrarre l'attenzione dello scultore fu il consesso di donne e bambini riuniti attorno ad una figura protetta da un parasole sollevato da due premurose ancelle.
Nefertiti si era fermata a conversare con le donne che reggevano i loro figli capricciosi tra le braccia, mentre delle ragazzette le offrivano coroncine di fiori intrecciati che lei accoglieva con un sorriso radioso. La Regina delle Due Terre aveva infranto la secolare distanza tra la Corona e il popolo e passeggiava tra le strade di Akhetaton con naturalezza.
C'era solo una guardia che seguiva lei e le sue ancelle, ma con discrezione: si teneva in disparte, muta osservatrice.
Thutmosis sorrise e attese in silenzio che la regina si accorgesse di lui, cosa che accadde dopo qualche istante. Nefertiti gli lanciò un lungo sguardo e poi, con ferma gentilezza, lasciò i suoi sudditi per avviarsi nella bottega dello scultore.

«Siano vita, salute e forzaxi, mia signora. Sono il tuo umile servo: ti prego di accettare la mia ospitalità», esordì Thutmosis in tono formale, inchinandosi.
Le cedette il passo e poi la seguì all'interno, chiudendo la porta.

Nefertiti rimase ad osservarlo con un che di allusivo, prima di mormorare: «Mi attendevi, dunque?»
«Come potevo non attenderti, mia regina? Devo mostrarti la mia opera, il mio capolavoro e, poiché tu me lo hai ispirato, desideravo davvero che posassi ancora per me, così che possa incidere tutta la tua bellezza nella pietr.», ribatté lui, accorato.
Si avvicino ad un basamento e sfilò il drappo che celava la sua creazione: sul piedistallo troneggiava un meraviglioso busto che ritraeva la stessa Nefertiti con la corona dei Faraoni, scolpito in maniera magistrale e in parte già dipinto.
La regina non disse nulla, ma osservò con cipiglio intenso quella scultura e non dissimulò la propria meraviglia. Si accostò a Thutmosis per guardare il busto dalla sua stessa angolazione e le sue labbra fremettero appena quando riconobbe la precisione delle proprie fattezze.

«Così tutti sapranno che la luce di Akhetaton vibra e brilla per te...», sussurrò l'uomo, con la voce bassa e arrochita da un improvvisa emozione.
Aveva accanto a sé la donna che reggeva le sorti di Kemet, poteva avvertire il profumo della sua pelle e vederne la delicata abbronzatura, poteva spiare ogni più piccolo cambiamento nel suo volto e l'accentuarsi di minuscole rughe d'espressione.

«Quando eravamo bambini avevi sempre avuto talento. Mio padre lo aveva detto. Ay era sicuro che saresti divenuto un vero artista: aveva ragione», la voce di Nefertiti acquisì un tono molto più intimo e confidente. Fece correre lo sguardo in quello dell'artista con una improvvisa risolutezza, con la stessa forza che la contraddistingueva e lasciava abbagliati tutti gli uomini di potere che si erano misurati con lei.
Anche Thutmosis provò quel fascino e l'imperativo di abbassare lo sguardo, ma resistette e le sorrise malinconico.
«Eppure, ben misera accoglienza posso donarti nella mia modesta bottega, a parte uno scomodo sgabello che non si addice alla Grande Sposa Reale. Adesso come allora, tu riesci a spiazzarmi: cammini tra le strade come una qualunque, fai visita ad un umile scultore e rievochi vecchi ricordi.»
«Che importa? Abbiamo assistito a profonde innovazioni, questo è un nulla al confronto di quanto è stato messo in moto nel resto del Paese. Il Faraone crede fermamente che il popolo debba conoscere chi lo governa e sentire direttamente dalla sua bocca la lieta novella di Aton», commentò Nefertiti immediatamente e si accostò maggiormente al proprio ritratto, sfiorandolo in punta di dita, per poi sedersi sullo sgabello su cui aveva già posato.
Come se fosse un rituale che conoscevano entrambi benissimo, Thutmosis si accomodò su un altro sgabello, accanto al tavolino su cui aveva preparato le ciotole con i colori. Afferrò un pennello e lo intinse, iniziando a spalmare la tinta con cura e cipiglio concentrato; ogni tanto osservava la sua modella, la sua musa, e cercava di cogliere il segreto che si celava dietro ai suoi lineamenti.

«Tu ci credi davvero, allora? Credi che l'Egitto sia pronto e che tutti accetteranno queste condizioni? Si vocifera che molti desidererebbero vedere capitolare questa città e coloro che la reggono. Non hai timore di una guerra civile?»
Nefertiti teneva le mani conserte in grembo e guardò un punto indistinto sopra la spalla di Thutmosis mentre rispondeva: «La verità è che il Faraone aveva un duplice obiettivo. Chi parla di lui come un visionario e un sognatore dice il vero, ma chi si limita solo a questo ha una opinione superficiale e distorta del suo disegno. Egli è davvero fedele ad Aton, davvero desidera che tutti riconoscano la verità del Dio, ma quanto è stato compiuto ha riguardato l'interesse di Kemet, il suo benessere. Akhenaton non è uno sprovveduto.»
La donna si prese una pausa, come volesse trovare le parole adatte. Thutmosis non intervenne e continuò a dipingere, dandole agio di proseguire il discorso secondo i suoi tempi.
«Il clero di Amon aveva troppe ingerenze negli affari di stato e si arrogava il diritto di compiere certe scelte al posto del trono o, comunque, di influenzarlo. Questo aumentava la corruzione del sistema e scatenava gravi lotte per il potere. Il clero non si occupava più della religione, ma cercava di ottenere i suoi interessi facendosi scudo di essa», continuò allora Nefertiti, rannuvolandosi.

«Quindi è stato fatto tutto per tagliare le gambe alle pretese dei sacerdoti? Ma che senso ha avuto vietare il culto degli altri Dei? La gente non scorda il potere di Iside, o la bellezza di Hathor, nemmeno i doni di Ptah e i sacri riti di Osiride», si schermì Thutmosis, mentre la sua mano, leggera e amorevole, muoveva il pennello che percorreva la linea dello zigomo destro della scultura e spalmava il colore, rendendo luminoso l'incarnato.
«La superstizione e la pretesa di ingannare il popolo ha segnato la rovina di tutti gli ordini sacerdotali. Si sono ingrassati prendendo più del dovuto ai lavoratori, ripagandoli con ignoranza e la paura del malocchio e degli spiriti maligni. È stato imperdonabile e Akhenaton mal sopporta la menzogna: il suo culto è la verità e la sola verità che conosce e promulga è quella che vede tutti uguali sotto la luce di Aton», ribatté Nefertiti e lo guardò gravemente. «Non hai fede?»
Thutmosis fermò la mano e il pennello. Sollevò gli occhi e cercò quelli della donna: «Ho fede nella pietra: non mi tradisce mai. Ho fede negli Dei, così come in Aton, ho fede nel Faraone e... in te.»
La Grande Sposa resse lo sguardo e piegò il capo di lato, come una gatta: «Avverto che sei turbato. Sento che il tuo cuore è oscurato e mi nasconde qualcosa.»
«A te non posso nascondere nulla, poiché – se tu comandi – il mio cuore non può che svelarti ogni suo segreto.»
Nefertiti socchiuse gli occhi bistrati e le folte ciglia sembrarono battere come ali di farfalla. La sua voce si fece bassa, sempre più intima: «Eppure sei infelice, lo sento dalla tua voce. La mia presenza di causa dolore. Dipingi come se ne andasse della tua esistenza, ma nella tua opera infondi malinconia e rimpianto, oltre che amore.»
«Forse si tratta di passione, oltre che di amore. La tua bellezza contiene ogni sentimento, Nefertiti.», mormorò Thutmosis con un gemito di frustrazione. Gli sembrò così ingiusto e doloroso che lei gli dicesse quelle parole!
«Thutmosis, in nome della nostra vecchia amicizia, dovresti essere sincero con me e lasciare da parte la vuota cortesia», ingiunse Nefertiti. Era implacabile.
Si alzò e allungò la mano fino a posarla su quella dello scultore, stringendo le dita contro le sue nocche e il pennello che lui impugnava. Era seria e troppo vicina all'artigiano, che quegli quasi fece uno scatto indietro come se un aspide lo avesse appena morso.

«Sai che la parola sacraxii che indica il colore, ioun, significa anche pelle e capello?» esordì l'altro mentre la sua mano tremava al contatto con quella della regina. Deglutì e si costrinse ad osservarla apertamente. «I colori rendono davvero tutto vivo, come se riuscissero a sigillare nella statua l'essenza di chi viene ritratto e di colui che scolpisce nello stesso momento. Così, in quest'opera io ho trasfuso tutto me stesso e in essa ho esaurito tutta la mia arte: non creerò nulla di più bello. Ma in essa sei racchiusa tu, con il tuo enigma e lo sguardo che coglie ciò che nessun uomo riesce. Il suo sorriso è il tuo sorriso. Questa scultura è te e tu sei tutte le donne. In te Hathor si rallegra e Iside si esalta, perché tu sei loro. Abbiamo avuto un destino diverso, Nefertiti, ma, come quando eravamo dei ragazzini, io ti ho amato e ti amo ancora. Guardarti mi ferisce il cuore, lavorare a questa scultura riempie i miei amari silenzi di illusioni e mi consuma fin nelle ossa. Quest'opera mi ha svuotato, perché attraverso di essa ho proclamato al mondo intero il mio amore per te e, se qualcuno dovesse scorgerla, lo capirebbe. Cosa sarà di me, quando il Faraone saprà che un umile artigiano desidera la Regina, la Signora che regna sul Giunco e sull'Apexiii
Nefertiti non rispose, ma rimane ad osservarlo a lungo, assorta, con una ruga di sofferenza che le correva sulla fronte. Infine, si chinò e gli posò un bacio sul capo. Rimase a lungo così, con le labbra che fremevano per una violenta emozione e gli occhi lucidi. Lentamente, fece un passo indietro e gli mormorò, grata: «Sei un uomo sincero e leale. Sei un amico e hai il mio affetto incondizionato. Capisco la tua sofferenza, ma ti sono grata di non esserti mai spinto oltre il lecito.»
«Come potrei? Tu sei l'Egitto», rispose tristemente l'uomo. La pena era scolpita sul suo volto in maniera inequivocabile.
Furono interrotti dal bussare alla porta e dall'ingresso di un'ancella che annunciò: «Maestà, è l'ora dell'incontro con gli alti funzionari. Dobbiamo rientrare.»
Nefertiti si avviò all'uscio, il passo leggero e sinuoso di un leopardo a caccia, la determinazione e la disinvoltura di una creatura divina che concepisce esattamente il suo posto nel mondo. Eppure, si guardò indietro, melanconicamente: «Se io non fossi stata Nefertiti e non fossi divenuta moglie del Faraone, forse saremo potuti essere felici, insieme.»
«Se tu non fossi stata Nefertiti, non avrei potuto amarti», chiosò amaramente Thutmosis e le sorrise.


Rimasto solo, l'artigiano contemplò il busto che aveva scolpito e dipinto: mancava un occhio, quello sinistro. L'opera era incompiuta, come incompiuto il suo desiderio. Non avrebbe più potuto perfezionare quella scultura, poiché altrimenti la sua smania sarebbe divenuta follia.
Fu in quel momento che decise: il busto non sarebbe mai uscito dalla sua bottega e sarebbe rimasto lì, confinato in quelle mura come il suo amore proibito.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Note dell'autrice

 

Questa storia è stata scritta per un contest, ovvero: “Historical Contest – Perle dal Passato”, indetto da Black_Hunter sul forum di EFP.

Da tanto tempo desideravo scrivere qualcosa ambientato nell'Antico Egitto che non fosse la mia fanfiction su Yu-gi-oh, quindi questo contest me ne ha dato l'occasione e sono molto felice. Ho scelto il periodo amarniano, perché credo che sia uno dei miei preferiti in assoluto di tutta la storia egizia. Sappiamo davvero relativamente molto poco di Akhenaton, alias Amenofi IV, ancor di meno – addirittura – di Nefertiti; eppure sono tra i personaggi più importanti della storia, perché segnano l'avvento di una rivoluzione non solo religiosa, ma anche politica e artistica.
Meno sappiamo di certe figure, più esse ci affascinano, in effetti.

Tra queste figure io ho scelto Thutmosis, lo scultore a cui è stato attribuito il famoso busto di Nefertiti (tralasciando le dispute sul fatto che sia o meno un falso storico, sigh!), ritrovato proprio nella bottega che era stata di questo artista tra i resti della città di Akhetaton, la moderna Tell-el-Amarna.
Ho voluto prendere questo personaggio e tentare di creargli una vita, una identità, un modo di fare, una passione. E ho voluto credere che il busto di Nefertiti fosse il frutto non solo del suo genio, ma di un profondissimo amore dell'artista per la regina.
Tutti i personaggi citati, a parte lo Scriba Hori, sono personaggi realmente esistenti a cui ho dato la mia impronta e la mia visione, anche se ho cercato di essere fedele ai fatti storici. Anche per quanto riguarda le concezioni artistiche ho provato a dare una chiave di lettura che fosse verosimigliante con le credenze di Amenofi IV in campo religioso, poiché è chiaro che l'arte del periodo amarniano e unica e peculiare rispetto alle dinastie precedenti e successive.

Poiché mi piace particolarmente documentarmi, ho cercato a lungo notizie di Thutmosis e del busto stesso e ho fatto un ripasso della situazione socio-politica in cui ho deciso di ambientare la storia, ma anche di alcuni riferimenti alle tecniche artistiche.

Ci tengo molto ai rimandi alla cultura egizia, quindi ne ho disseminati qua e là nel testo e che riporto sotto forma di note più sotto, sperando di fare cosa gradita.

 

Grazie a chiunque sia passato anche solo per una lettura,

 

 

Melian

 

iEsistevano almeno tre grandi Villaggi degli Artigiani, uno vicino alla moderna Giza, l'altro vicino alla moderna Deir el Medina, e il terzo sorgeva proprio vicino alla odierna Tell-el-Amarna, cioè Akhetaton. Praticamente in essi vivevano tutti gli artigiani che avevano il compito di costruire le città, scavare le tombe, creare statue e manufatti per conto del re, della sua famiglia e dei nobili. Uno dei villaggi più famosi resta quello di Deir el Medina, “Set Maat”, il Luogo della Verità, perché ospitava gli artigiani che scavarono e decorarono le tombe nel Nuovo Regno, in particolare riferimento ai ramessidi. Tutti gli artigiani erano degli iniziati ai misteri, poiché il loro compito era non solo manuale, ma anche spirituale, poiché le loro opere dovevano fornire l'energia necessaria per la vita nell'Aldilà. Approfondimento: http://www.aton-ra.com/egitto/approfondimenti-antico-egitto/42-approfondimenti-egitto-vari/212-artigiani-operai-regno-faraoni-egizi.html

iiLo Scriba della Tomba era il capo degli scribi che si occupavano di amministrare i Villaggi degli Artigiani, dipendeva direttamente dal Faraone. In questo caso, Hori è un personaggio originale, ma sicuramente al Villaggio accanto ad Amarna vi era un funzionario simile.

iiiKha o Ka: è la forza vitale di un individuo, una delle parti in cui gli Egizi credevano fosse divisa l'anima. Approfondimento: http://it.wikipedia.org/wiki/Anima_%28religione_dell%27antico_Egitto%29

ivAtum o Atem: venerato ad Eliopoli, veniva considerato il dio Creatore del mondo, da cui avevano avuto origine Shu e Tefnut, da cui sarebbero quindi nati Geb e Nut, ovvero la terra e il cielo. Fu successivamente identificato con Ra.

Gli animali a lui sacri erano il leone e il serpente.

v Amon-Ra: Amon, in origine, veniva adorato ad Ermopoli ed era una delle otto divinità primordiali, il cui nome significa “Il Misterioso, l’Occulto”. Quando venne associato a Ra, divenne la divinità suprema del panteon egizio, e il suo tempio principale fu collocato a Tebe. Qui, assieme alla moglie Muth e al figlio Khons, formò la cosiddetta “Triade di Tebe”. Il suo animale sacro è l’ariete, particolare intuibile dai molto affreschi rinvenuti sulle pareti del tempio di Karnak.

Ra, invece, veniva ritenuto la personificazione del Sole, e per questo, venne associato anche ad Atum, “Il Tutto”, il Creatore del Mondo. Il corso del Sole, per gli egizi, era descritto come il viaggio compiuto da Ra sulla sua barca. Di giorno Ra era a bordo della barca Mandjet, mentre quando calava la sera, il dio del Sole passava sulla sua seconda barca chiamata Meserket o Masket, con la quale attraversava l’aldilà, prima di tornare ad illuminare la terra.

 

viSeth: il tempio più importante di questo dio si trovava ad Ombos. Seth era l’incarnazione del male, il dio della siccità, del cattivo tempo, degli stranieri e della distruzione e, nel Nuovo Regno, protettore dell’esercito. Difficile identificare l’animale con cui veniva raffigurata la sua testa, una via di mezzo tra un cane e un asino, è il fratello e l’uccisore di Osiride.

viiIl Pano: Indumento del popolo, era un gonnellino, di lino o di cotone, che faciava semplicemente le anche; s'incrociava sul davanti e la sua lunghezza non raggiungeva le gioncchia.

viii Kemet: significa “Terra Nera”, antico nome con cui gli Egizi chiamavano il proprio paese. Contrapposta a Deshret, “Terra Rossa”, ovvero il deserto.

ix Hator: patrona di Afroditopolis e Dendera, era raffigurata come una vacca o una donna con un copricapo recante le lunghe corna di quest'animale che racchiudevano il disco solare, e il suo emblema era il sistro. Dea dell’amore, della musica e della danza, rappresentava anche la volta celeste ed era ritenuta la nutrice del Faraone.

xLo Schentis: Utilizzato in genere dagli alti funzionari, i giudici e i re.

Si differenzia dal Pano per la maggiore ricercatezza, sia per la foggia che per la finezza del tessuto. Le decorazioni sono personali. I lati del triangolo di stoffa erano tenuti da giunchi o fili di metallo simbolo della distinzione delle classi nobili.

xiUna formula rituale di saluto con cui ci si rivolgeva ai sovrani, era anche un augurio.

xii“Parola sacra” indica i geroglifici che, appunto, venivano considerati la scrittura sacra propria dei sacerdoti, dei re e di tutti quei documenti di particolare rilievo. Esisteva anche un tipo di scrittura più semplice, lo ieratico.

xiii“Giunco e Ape” indicano, rispettivamente, l'Alto e il Basso Egitto.

 
   
 
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