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Autore: kirlia    27/11/2014    5 recensioni
[Sequel di "Eternal Flame - Un amore perfetto"] 
Continuano le avventure di Miles e Franziska, insieme alla piccola Annika. 
Cosa dovranno affrontare i due procuratori? Riusciranno a fare chiarezza sui loro sentimenti e finalmente vedere coronato il loro sogno d'amore segreto? 
E chi sta tramando nell'ombra - e forse dall'aldilà - per distruggere la loro felicità? 
Dal capitolo 5: 
Insomma, Miles aveva ammesso di amarmi, magari non direttamente, ma le sue intenzioni erano chiare! La mia felicità, quella che avevo intravisto nei miei sogni e nei momenti di pericolo era a portata di mano, così vicina da poterla afferrare in un attimo e stringerla al petto, rendendola finalmente mia.
Eppure esitavo. Perché lo facevo?
Perché avevo paura. Paura che tutto si rivelasse una sciocchezza, paura che Miles si sarebbe stancato di me, mi avrebbe abbandonato o avrebbe fatto solamente finta di volermi bene come Manfred von Karma aveva fatto dal giorno della mia nascita.
E avevo paura di deludere me stessa, cedendo a qualcosa che avevo rifiutato per anni. Avevo paura di cambiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Franziska von Karma, Miles Edgeworth, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Perfect for Me'
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Capitolo 5 – I wish You were Here
I can be tough
I can be strong
But with you, It’s not like that at all
Theres a girl who gives a shit
Behind this wall
You just walk through it

I wish you were here.
 

{Katherine Payne}

«Francamente, signorina Payne, non capisco perché dovrei accettare di farmi carico di tutto ciò» rispose la persona dall’altra parte del telefono, dopo il silenzio che si era protratto per alcuni minuti e che mi aveva fatto pensare che non avesse ascoltato una parola di tutto quello che le avevo detto.
Alzai gli occhi al cielo e mi sistemai meglio i piccoli occhiali lucidi sul naso, scocciata. Perché dovevo essere circondata da una massa di incompetenti?
«Cosa intende dire?» chiesi, cercando di apparire quantomeno cortese nei suoi confronti. Mi ribolliva il sangue nelle vene e avrei solo voluto ordinare di fare ciò che volevo, semplicemente perché era così che dovevano andare le cose. Tuttavia non potevo, non se volevo il suo appoggio.
Ecco perché mi trattenevo, mi rimangiavo tutte le imprecazioni. Ero ormai diventata brava in questo: non era passato molto tempo da quando ero diventata procuratore, e mi ero ritrovata in questi uffici dove il mio nome era oggetto di derisione da parte di tutti i colleghi.
Ah! La figlia di Winston Payne, il peggior legale che Los Angeles abbia mai avuto dall’inizio dei tempi…!
Avevo sopportato i sorrisi falsi e i bisbigli dietro le spalle per anni, prima di riuscire a raggiungere il mio nuovo stato di procuratore capo. E non era stato facile nemmeno ottenere quella carica, visto che c’erano molti colleghi con più esperienza e più anni di servizio, eppure ci ero riuscita grazie a una manovra poco legale che nessuno aveva mai scoperto. Nessuno si era fatto domande, e io avevo ottenuto il mio ruolo.
Credevo che quello sarebbe stato abbastanza per rendermi felice e per ristabilire il buon nome della mia famiglia, invece non era cambiato nulla. La gente continuava a ignorarmi, a ignorare la mia autorità, rivolgendo il proprio rispetto verso altri procuratori, il cui nome era stato infangato più di una volta… Nomi come von Karma.
Quella ragazzina vantava ben quattro anni di esperienza più di me – pur essendo più giovane – ed era considerata il Prodigio della Procura, pur essendo stata più volte battuta in tribunale. Persino la vergogna dell’omicidio compiuto da suo padre non era riuscita a cancellare il timore e rispetto che incuteva su tutti, persino l’accusa di aver ucciso sua sorella non era stata abbastanza!
Quella dannata von Karma riusciva sempre a camminare a testa alta, e nessuno le aveva mai contestato niente! Io, invece, che non avevo mai commesso un errore da quando avevo preso il mio distintivo di pubblico ministero, rimanevo sempre agli occhi di tutti una Payne. Niente di eccezionale, insomma. Nessuno che meritasse un po’ di considerazione.
«Intendo, cara, che non ci guadagno niente a fare quello che mi chiede. Inoltre, ci vorrebbe del tempo, e sa benissimo che non ne ho» spiegò il mio interlocutore, con una voce falsamente gentile che riusciva quasi a battere la mia, distogliendomi dai miei pensieri.
Bene, nessuno faceva niente per niente, e lo capivo, anche se stavo discutendo con qualcuno che di certo non aveva qualcosa da perdere. Voleva che dal mio piano uscisse fuori una fetta di torta anche per lei. Anche se tutto ciò non aveva niente a che vedere con me.
Sorrisi. In fondo sarebbe stato facile accontentarla: dovevo solo farle credere che ci sarebbe stato un guadagno anche per lei e avrebbe lavorato per me. Mi bastava darle quella speranza.
«Posso salvarla. Posso fare in modo che la legge non venga applicata su di lei» spiegai, anche se in realtà non potevo proprio fare nulla per evitare la sua condanna. Andava ben oltre le mie capacità e per quanto avessi molti “amici” in quell’ambito, non potevano aiutarmi.
«Non mi basta. Voglio la certezza che lei faccia qualcosa per…» aveva cominciato a rispondermi la persona oltre il telefono, me non riuscii più a sentire le sue parole, quando la porta del mio ufficio si spalancò con un boato e una figura dalla stazza enorme irruppe nella stanza.
Il Detective Gumshoe arrivò di fronte alla mia scrivania con ampie falcate e il respiro affannato, come se avesse fatto a piedi e di corsa tutte le scale dell’edificio fino ad arrivare qui.
Lo guardai alzando un sopracciglio, senza comprendere il perché di quell’improvvisa visita, e congedai la persona con cui stavo parlando con delle brevi scuse, spiegando che l’avrei ricontattata io appena avrei potuto.
Chiusa la telefonata, mi volsi di nuovo verso il detective, che nel frattempo sembrava essersi un po’ calmato e si era riaggiustato l’impermeabile malconcio sulle spalle.
«Ebbene?» chiesi, guardandolo e aspettandomi un rapporto su qualsiasi cosa avesse intenzione di dirmi.
Lui mi guardò stupito, come se non sapessi qualcosa che invece avrei dovuto sapere, e poi mi fece un sorriso soddisfatto, mettendosi sull’attenti e facendomi il saluto militare.
«Signora procuratore capo! Il blocco all’ascensore è stato risolto e i procuratori intrappolati dentro sono stati salvati» spiegò lui.
Cosa? Io non ero assolutamente stata avvisata di tutto ciò! Dovevo essere io lì dentro a dare le direttive su cosa si doveva o non doveva fare, e soprattutto dovevo sapere se c’era qualche disagio e quando era necessario chiamare una squadra di soccorso.
Avrei dovuto immaginare che la scossa di terremoto che c’era stata poco prima che cominciassi a discutere al telefono avesse causato qualche malfunzionamento all’interno del palazzo, ma visto che nessuno mi aveva fatto notare dei problemi avevo sperato che tutto fosse andato bene. In fondo, l’edificio della procura era piuttosto robusto, lì in piedi da anni.
Invece a quanto pareva c’era stato un blocco nell’ascensore, e persino alcune persone intrappolate! La prima cosa che mi era venuta in mente, a dirla tutta, era stato di chiedere chi fosse stato l’incompetente che aveva pensato di poter giocare a fare il capo, chiamando i soccorsi. Ma, cercando di apparire calma e gentile, decisi di interessarmi di coloro che avevano rischiato di morire asfissiati dentro una scatola d’acciaio a pochi metri dal mio ufficio.
«Oh? C’era qualcuno bloccato dentro l’ascensore?» chiesi quindi, con voce sorpresa.
Chissà chi poteva essere: magari quel neo laureato che se ne andava in giro per i corridoi a suonare la chitarra elettrica quasi fosse sul palcoscenico, o forse un agente come tanti che svolgeva le sue mansioni lì.
«Sì, signora. C’erano il signor Edgeworth e la signorina von Karma» rispose il Detective, e tutta la svogliatezza con la quale lo stavo ascoltando si trasformò prima in reale stupore, poi in irritazione.
Di tutta la gente che poteva restare bloccata in un luogo isolato e piccolo, perché proprio quei due procuratori?
Sarei stata semplicemente preoccupata se fosse accaduto qualcosa a Miles Edgeworth – a quanto ne sapevo grazie alle chiacchiere dei colleghi, gli ascensori non gli piacevano affatto a causa di trascorsi giovanili – però, se c’era di mezzo quella von Karma, di certo la situazione non poteva essere così semplice.
Stavo per aprire bocca per informarmi sul loro stato attuale, quando vidi Gumshoe sogghignare e successivamente mettersi una mano accanto alla bocca, quasi a non volersi fare vedere mentre mi confidava un segreto.
«E a dire la verità, li abbiamo trovati… Lo sa no? Avvinghiati» aggiunse, alzando poi le sopracciglia quasi a voler fare intendere il doppio senso molto evidente nelle sue parole.
La matita che mi stavo rigirando tra le mani, in quel momento si spezzò con un sonoro schiocco.
Cosa aveva appena detto?! Il procuratore Edgeworth e quella von Karma… Avvinghiati… E soli in uno spazio angusto per un periodo di tempo non esattamente determinato?!
Oh no! Non l’avrei permesso!
Questa cosa doveva essere stroncata sul nascere, e per farlo non c’era niente di meglio di un bel diversivo coi fiocchi.


{Miles Edgeworth}

Ero rimasto davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Franziska per alcuni interminabili secondi, prima di accorgermi che i vari agenti e vigili del fuoco in corridoio mi stavano ancora guardando con curiosità. Avevo cercato quindi di darmi un certo contegno e, ravviandomi i capelli che si erano scompigliati vagamente, mi ero diretto verso il mio ufficio in fondo al corridoio e mi ero rifugiato lì dentro.
Solo in quel momento, con la schiena poggiata sulla parete fredda e lo sguardo rivolto al vuoto, in direzione della finestra oscurata dalle spesse tende rosse, mi ero reso conto di quanto fossi sembrato sciocco ai suoi occhi.
Come avevo potuto? Come aveva fatto il mio istinto a superare i miei principi e i miei propositi?
Mi ero ripromesso che mai e poi mai avrei ammesso al mondo l’attrazione che provavo verso quella che doveva essere semplicemente la mia “sorellina”, che mai avrei rischiato di rovinare la nostra relazione – da poco risorta e fattasi sempre più forte – per dare sfogo ai miei sentimenti verso di lei. E invece, ero stato così fragile da non riuscire più a trattenere i miei pensieri e non solo le avevo praticamente dichiarato tutto ciò che provavo, ma mi ero spinto talmente in là da baciarla!
Sentivo ancora il suo sapore sulle labbra, dolce e intenso, e non potevo non dire che fosse la cosa più bella che avessi mai provato. Di certo mi ero ritrovato spesso, ultimamente, a fantasticare su come sarebbe stato un possibile bacio tra di noi – rimproverandomi sempre di evitare questi pensieri, che mi facevano solo del male – ma non ero mai riuscito a immaginare la vera sensazione delle sue vere e morbide labbra sulle mie. Aveva superato qualsiasi mia aspettativa, trasformando un momento di panico e angoscia in uno dei più belli mai provati nella mia vita.
Questa emozione in quel momento, però, si mescolava a un senso di colpa tale da distruggermi dentro.
Quanto mi sarebbe costato quell’errore? Quanto avrebbe sconvolto il nuovo equilibrio nelle nostre vite che mi ero così impegnato a creare?
Avevo già visto la reazione di Franziska: era fuggita via da me, sconvolta e probabilmente confusa da un gesto che per lei era inaspettato. Probabilmente in quel momento stava riflettendo attentamente su cosa fare.
Non potevo non immaginare quanto doveva essere complicato per lei: non solo aveva ricevuto un bacio, una dimostrazione d’affetto che le era stata espressamente proibita dal padre da sempre, ma l’aveva ricevuto da una figura che doveva essere fraterna. Come avevo potuto…? Dovevo aver distrutto ogni certezza della sua vita, con un singolo gesto.
Inoltre, pur essendo vero che io e lei eravamo stati distanti per molti anni, non l’avevo mai vista in compagnia di qualche ragazzo. Che le avessi persino rubato il primo bacio? Non me lo avrebbe mai perdonato, e lo sapevo.
Di certo stava già programmando di fare le valigie quella sera stessa per ripartire per la Germania, lasciandomi qui in balia dei miei complessi e della solitudine.
E Annika? Cosa sarebbe successo ad Annie? Che fine avrebbe fatto la nostra bambina quando lei avrebbe deciso di andarsene via?
Era vero che era sotto la mia custodia, ma era anche chiaro che la colpa di questa rottura fosse tutta mia. L’avrebbe portata via, e io gliel’avrei lasciato fare, perché sapevo di essere in torto e probabilmente era la giusta punizione per quello che avevo fatto. E dire che mi ero impegnato così tanto per trattenerle qui in America entrambe, persino adottando la piccola, solo perché non potevo più vivere senza di loro al mio fianco!
Franziska non aveva mai avuto torto, quando mi aveva dato dello sciocco
Scossi la testa, come per liberarmi di tutti quei miei problemi che comunque non avevano intenzione di sparire, e mi sedetti davanti alla scrivania, decidendo che per il momento era meglio occuparmi del lavoro.
… Però non riuscii a leggere nemmeno una parola di tutto quello che c’era scritto sui fogli di fronte a me. Se anche avessi tentato per tutto il giorno di occuparmi di quell’indagine, non sarei mai riuscito a togliermi dalla mente tutto quello che era successo.
Avevo ricordi un po’ disconnessi della prima parte del nostro discorso, quando il terremoto ci aveva colpiti e io ero completamente andato nel panico a causa della mia fobia. Ricordavo che al volto di Frannie si era più volte sovrapposto il ricordo – sempre terribile – di quell’incubo che era stata la mia infanzia, del momento in cui avevo perso mio padre e avevo persino dubitato di me stesso, credendo di averlo ucciso con le mie mani. Ricordavo di averle detto che avevo paura di perderla come avevo perso lui, e la sua mano gentile sulla mia guancia.
Mi aveva sorriso come spesso faceva con Annie, in quel modo che tanto le invidiavo. Non si era rivolta mai a me con tale dolcezza, nemmeno quando ero stato malato in ospedale e si era occupata di me. Eppure, in quel momento, dovevo essergli sembrato talmente fragile da permettere che lei si liberasse del tutto della sua maschera di perfezione per me.
Per me, mi ripetei, l’aveva fatto per me. Ma non dovevo rallegrarmi di questa convinzione: mi aveva trattato come qualunque amica, o sorella, avrebbe fatto con il proprio fratello. Non c’era stato in lei altro tipo di sentimento che quello, ed era inutile sperare in qualcosa di più.
Mi rigirai una penna dorata tra le mani, fissandola senza vederla davvero, continuando a riflettere su un dettaglio che mi sfuggiva.
Era vero che molti dei miei ricordi erano ancora confusi, in quanto mi ero sentito destabilizzato e non ero del tutto cosciente di ciò che avevo fatto, ma… Forse era la mia mente a giocarmi degli scherzi, ma ricordavo che lei aveva risposto a quel bacio.
L’aveva fatto? Non mi sembrava che si fosse sottratta, anzi. In realtà sul mio corpo era ancora impressa la sensazione delle sue braccia che mi stringevano, delle sue labbra che si muovevano sulle mie con una tale timidezza da renderla persino più dolce, per poi farsi più sicure e approfondire il bacio.
Era forse la mia speranza di avere ancora una possibilità con lei ad aver distorto quello che rammentavo o era la realtà? Non avrei saputo dirlo. Ma il dubbio mi attanagliava, e con esso la certezza che se avessi ancora atteso a lungo l’avrei persa per sempre.
Per questo decisi che era meglio parlare a quattr’occhi con lei, spiegarle i miei motivi, e convincerla a non abbandonarmi proprio adesso, a non privarmi della sua presenza e di quella di Annika. E magari… Avrei scoperto se l’eventualità che Frannie provasse qualcosa per me era fondata o solo frutto della mia fantasia.
Dovevo farlo in quel momento, non c’era più necessità di attendere.


{Franziska von Karma}

Erano passati forse cinque minuti o forse delle ore, da quando avevo chiuso la porta in faccia al mio… “fratellino”? Non credevo mi fosse più permesso definirlo così.
Ero rimasta lì, al centro della stanza, a fissare quel pavimento dove una volta c’era stato un costoso tappeto, ma ora non c’era più nulla. Tutto era stato ripulito dalla morte di Angelika, il parquet era stato talmente strofinato per eliminare ogni traccia di sangue da aver perso il proprio colore, lasciando una macchia chiara proprio al centro della stanza.
Il mio pesciolino, Rot, era ancora vivo, anche se non avevo idea di chi si fosse occupato di lui mentre io ero… impegnata, diciamo, altrove.
Insomma, il mio ufficio era rimasto quasi uguale al modo in cui l’avevo lasciato circa dieci giorni prima, eppure non riuscivo a smettere di fissarlo. Non perché mi interessasse davvero osservarne i dettagli, ma perché in realtà la mia mente era rivolta a pensieri totalmente differenti.
Un bacio.
Avevo appena ricevuto il mio primo bacio. Non credevo sarebbe mai successo, in realtà, anche se una piccola parte di me era sempre stata curiosa di sapere cosa si provasse in uno scambio di emozioni simile, eppure era successo. Ed era stato proprio Miles Edgeworth a darmelo.
Quello stesso bambino che era arrivato una sera, durante una nevicata, in casa mia ed era diventato il mio fratello minore. Quello stesso ragazzo con cui ero cresciuta e mi ero confrontata per tutta la vita. Quello stesso uomo che era diventato pian piano la persona più importante della mia vita, facendosi strada nel mio cuore lentamente, senza che me ne accorgessi, se non quando era troppo tardi per tornare indietro.
Scoprii le mie dita a sfiorare leggermente le labbra, dove ancora riuscivo a sentire la sensazione di lui, quel profumo intenso di tè al gelsomino che lo contraddistingueva, il tornado di emozioni con il quale mi aveva investito solo poco tempo prima.
Era successo tutto così in fretta che quasi facevo fatica ad accettarlo. Eppure era accaduto, e la parte di me che ero sempre riuscita a tenere a bada per tutti quegli anni – quella piccola e sensibile Franziska che si annidava dentro di me – stava combattendo una battaglia ardua per vincere contro tutta la razionalità della mia maschera perfetta. Se da un lato, infatti, la mente mi diceva di continuare a seguire le regole che mio padre mi aveva imposto da anni, perché erano quelle che avevo seguito per tutta la vita e dovevano avere un fondo di verità, dall’altro il mio cuore urlava di cogliere l’occasione, di seguire l’istinto.
Insomma, Miles aveva ammesso di amarmi, magari non direttamente, ma le sue intenzioni erano chiare! La mia felicità, quella che avevo intravisto nei miei sogni e nei momenti di pericolo – come quando stavo per essere colpita dal proiettile di mio padre in tribunale – era a portata di mano, così vicina da poterla afferrare in un attimo e stringerla al petto, rendendola finalmente mia.
Eppure esitavo. Perché lo facevo?
Perché avevo paura. Paura che tutto si rivelasse una sciocchezza, paura che Miles si sarebbe stancato di me, mi avrebbe abbandonato o avrebbe fatto solamente finta di volermi bene come Manfred von Karma aveva fatto dal giorno della mia nascita.
E avevo paura di deludere me stessa, cedendo a qualcosa che avevo rifiutato per anni. Avevo paura di cambiare.
Un colpo alla porta mi distolse dai miei pensieri.
Mi ritrovai a raggiungerla in fretta e a poggiarmi su di essa, senza tuttavia aprirla, solo per sentire chi mi stesse cercando. Non avevo intenzione di parlare con nessuno, e volevo fare finta di non essere lì in quel momento, ma quando riuscii a percepire il respiro profondo della persona dall’altra parte capii subito di chi si trattava.
«Franziska… So che forse in questo momento non vuoi vedermi…» cominciò la voce sommessa di Miles, più esitante di quanto fosse di solito.
Sapeva esattamente che io ero lì dietro, volente o nolente pronta ad ascoltare le sue parole. Non avevo bisogno di rispondere per sapere che avrebbe continuato a parlare fino a quando lo avesse desiderato.
Il pomello della porta fece per girare, segno che lui si accingeva ad entrare, ma io lo bloccai dalla parte opposta. Non volevo ritrovarlo di fronte a me, avevo il timore che qualsiasi mia resistenza sarebbe crollata di fronte al suo sguardo plumbeo.
«Ti prego, lasciami entrare. Dobbiamo parlarne…» continuò lui, con voce più salda, probabilmente capendo che con un atteggiamento indeciso non sarebbe riuscito a fare breccia nel muro mentale e fisico che stavo cercando di erigere nei suoi confronti.
«N-Nein» dissi soltanto, con una voce che mi uscii un po’ strozzata, e subito mi maledissi per la mia imperfezione. Se volevo tentare di apparire convinta delle mie ragioni, avevo appena fallito. Era bastata quella parola, quell’unico no, a rivelare quanto tutta quella situazione mi destabilizzasse e mi rendesse completamente indifesa.
E, consapevole che anche lui l’avesse capito, mi decisi ad aprire la porta, ritrovandomelo di fronte, con uno sguardo un po’ stupito per il mio gesto. Probabilmente si aspettava che lo evitassi fino alla fine dei tempi, ma avevo deciso che forse era meglio mettere subito in chiaro le cose e risolvere al più presto quell’imbarazzante situazione.
Incrociai le braccia, fissandolo con un atteggiamento scontroso che però non riuscì molto nel suo intento, poi feci un passo indietro, come a volerlo invitare e allo stesso tempo a voler mettere una certa distanza tra di noi.
«Se non vuoi che l’intera procura spettegoli su di noi, ti consiglio di entrare in fretta, sciocco» dissi semplicemente.
Lo vidi guardarsi intorno, prima di fare un passo avanti velocemente e chiudersi la porta alle spalle, convinto anche lui di non volersi far vedere mentre si intrufolava nel mio ufficio. Bastavano già tutte le chiacchiere sul fatto che abitassimo insieme  ad alimentare i pettegolezzi, inoltre ero del parere che anche la scena in ascensore sarebbe stata all’ordine del giorno per le voci di corridoio.
«Bene. Adesso, herr Miles Edgeworth, spiegami il motivo della tua visita» dissi, dandogli le spalle per andare a prendere posto sulla poltrona dietro la mia scrivania. In questo modo lui avrebbe dovuto sedersi dall’altra parte e io avrei garantito un certo distacco tra di noi. In realtà non ero sicura che fosse quello che volevo, ma mentre valutavo le mie alternative volevo essere capace di pensare bene, e avevo paura che se lui mi avesse sfiorato avrebbe provocato in me delle reazioni incontrollabili come quella che avevo avuto in macchina solo pochi giorni fa.
Lui si sedette proprio dove mi aspettavo, guardandomi poi con uno sguardo profondo che era capace di farmi venire milioni di dubbi su quello che dovevo fare o non fare. La sua voce, inoltre, sembrava sicura, calma come sempre.
«Hai intenzione di trattarmi come uno dei tuoi agenti, Frannie?» mi chiese, fissandomi come se riuscisse a leggermi dentro l’anima. Chiunque avrebbe notato in lui la solita tranquillità che lo contraddistingueva, ma io riuscivo a leggere il breve tremito nei suoi occhi grigi, più cupi del solito, quasi le nuvole si stessero addensando in attesa di un temporale.
Mi agitai sulla sedia, sotto quello sguardo, ma riuscii a mantenere il controllo della mia espressione e corrucciai il volto, stringendo in mano la frusta come se fossi pronta a colpirlo.
«Smettila di chiamarmi in quel modo. Non siamo più dei Kinder [ragazzini]» dissi con voce tagliente, sperando così di fargli capire che ero piuttosto seria sulla faccenda.
Probabilmente mi conosceva troppo bene, e avrebbe capito che il mio comportamento dipendeva più da un meccanismo di difesa che da altro. Tornavo sempre ad essere soltanto una von Karma, quando mi sentivo in qualche modo minacciata, e quello era forse uno dei momenti in cui mi ero più nascosta dietro il muro che avevo eretto con tutto e tutti. Però non mi importava che lui lo sapesse, era già di conforto per me sapere di poterlo benissimo cacciare fuori dalla stanza a suon di frustate se quello che stava per dire non mi fosse piaciuto. Forse volevo semplicemente fuggire da qualcosa che non capivo, eppure non riuscivo a conciliare me stessa, ed era così che reagivo.
Lui sembrò ignorare il mio commento e sospirò, finalmente dimostrando di nuovo un po’ di preoccupazione e disagio per la situazione in cui ci trovavamo.
«Franziska, dobbiamo discutere di quello che è… Successo…» disse indeciso, mordicchiandosi il labbro inferiore come se si fosse pentito di quello che aveva fatto.
Chissà? Forse, se fosse tornato indietro, non avrebbe ripetuto quel gesto tanto inatteso quanto improvviso. Forse era stato un attimo di sconforto a spingerlo a baciarmi, ma in realtà non provava nulla di quello che aveva ammesso. Magari era stata la pressione di quel momento, lo stress che aveva causato, a spingerlo a comportarsi in un modo che non era da lui.
Volevo che fosse così? Non ne ero certa… Sarebbe stato più semplice se avesse detto qualcosa del genere, ma non potevo non ammettere che mi avrebbe ferito. Eppure una parte di me non voleva che quello che era successo fosse stato vero.
Dischiusi le labbra per parlare, ma non sapendo cosa dire, rimasi in silenzio. Ero imbarazzata, di certo tanto quanto lui, ma non sapevo proprio come gestire la cosa. Non ero pratica di sentimenti, figuriamoci di discutere di essi come se stessimo parlando del più e del meno.
«So che è stato tutto molto improvviso, che deve esserti sembrato assurdo. E capisco che tu non abbia mai pensato a una possibilità del genere fino a questo momento…» disse lui, lentamente, come stesse soppesando le parole una per una. E io mi resi subito conto che stava davvero prendendo in considerazione l’idea che io potessi accettare un suo interesse verso di me, che potessi in qualche modo valutare la cosa. Perché? Credeva davvero che ci fosse una possibilità con me, una von Karma? Una seguace della perfezione?
«Però, Franziska, quello che ho detto in quell’ascensore è vero: perdere te e Annika è la cosa che temo di più. E non voglio che quello che è accaduto ti faccia scappare via» concluse, allungandosi sulla scrivania in modo inconscio, cercando in tutti i modi di avvicinarsi a me.
Io mi ritrassi istintivamente, cercando di mantenere una distanza tra noi che ritenessi accettabile, e il mio gesto sembrò fargli notare che stava esagerando. Si rimise subito al suo posto e tossicchiò brevemente, come se stesse cercando di darsi un contegno. Possibile che non si fosse accorto di quello che stava facendo? In generale era sempre stato un gentiluomo, però sembrava proprio che in quell’occasione non fosse in grado di controllare il suo istinto di starmi vicino.
Questa osservazione mi fece palpitare il cuore: allora davvero provava qualcosa per me! E io ne ero felice. Ma questo era giusto? Papa non avrebbe mai accettato una cosa del genere…
«Di’ qualcosa, Sie bitte [per favore]» concluse lui, probabilmente incapace di dire altro o sperando che io potessi in qualche modo rispondergli. Aveva persino fatto appello alla mia lingua madre proprio per attirare la mia attenzione su di lui, e malgrado tutto c’era riuscito. Non che riuscissi a pensare ad altro in quel momento.
Io riflettei su quello che avrei potuto rispondere.
Miles sembrava terrorizzato dall’idea che potessi lasciare la Germania insieme ad Annika e abbandonarlo lì, e non era la prima volta che dimostrava il suo attaccamento nei nostri confronti e la sua intenzione di tenerci presso di sé per sempre. Credeva che sarei fuggita via, e in effetti non potevo dire di non aver tentato di rifarmi una vita nella mia vecchia nazione lontano da lui e da tutti gli sciocchi di questo paese.
Però… In quel momento la possibilità non mi aveva nemmeno sfiorato. Ero stata così occupata a chiedermi se quello che lui provava per me era vero da aver dimenticato le mie macchinazioni per evitare i sentimenti e le tentazioni che potevano portare. Mi ero concentrata solo su di lui e su quelle sensazioni che provavo ogni volta che lo sfioravo, chiedendomi quale interpretazioni avrei dovuto dare loro.
E neanche adesso che mi era stata suggerita quella via d’uscita, riuscivo davvero a prenderla in considerazione. La realtà era che io non volevo tornare in Germania. Per quanto avessi orribili ricordi, qui negli Stati Uniti, cominciavo ad abituarmi alla routine di questo posto, il mio spirito si era in qualche modo sentito a casa quando aveva messo piede qui, in quel giorno di pioggia, in attesa di raggiungere il centro di detenzione dove mio padre sarebbe stato giustiziato.
Alzai lo sguardo su di lui, indecisa. Cosa dovevo fare adesso?
Lui mi fissava con una vaga speranza che non potevo ignorare, inoltre immaginavo già Annika piangere a dirotto all’idea di abbandonare la nuova casa dove ci eravamo trasferiti per fare ritorno in Deutschland.
«Ho promesso che non mi avresti perso, e sarà così» cominciai, e lo vidi illuminarsi. Un sorriso minacciò di disegnarsi sulle mie labbra, vedendolo molto più sollevato di prima, però lo trattenni. Non avevo ancora concluso, e lui l’aveva capito.
«Ma…?» disse infatti, avvertendo l’inizio di quella frase insito nel tono della mia voce.
Io sospirai, rigirandomi la frusta tra le mani, non con l’intenzione di colpire, ma semplicemente per usarla come oggetto nel quale incanalare tutte le mie preoccupazioni di quel momento. Stavo facendo la cosa giusta?
«Ma quello che è successo in quell’ascensore rimarrà in quell’ascensore» conclusi, cercando col mio sguardo di fargli capire che era la mia decisione definitiva.
Lui alzò un sopracciglio a quelle mie parole, quasi non si aspettasse che io raggiungessi una conclusione del genere. Cosa si aspettava? Che gli mettessi le braccia al collo e lo baciassi, dicendogli magari “Miles, Ich liebe dich”? Quest’ultima immagine mentale mi fece avvampare, ed ero sicura di essere arrossita. Un momento, ma da dove mi venivano certe idee…?
«Vuoi che fingiamo che niente sia accaduto, Franziska? È davvero questo che vuoi?» mi chiese sottovoce, e con uno sguardo così cupo da farmi sospettare che dentro di sé fosse decisamente in subbuglio, per quanto all’esterno quel conflitto emergesse solo nel colore sempre più scuro delle sue iridi.
Io mi mordicchiai il labbro per un attimo, dimenticandomi di dover apparire completamente sicura di me, e abbassai lo sguardo. Era quello che volevo? Volevo scordare tutte le emozioni, tutto quel tornado di sensazioni che quel bacio mi aveva donato? Volevo davvero fare finta che tutto quello che era accaduto fosse stato soltanto frutto della mia immaginazione, un incubo o un sogno?
Non ero certa che la mia risposta fosse affermativa, eppure come sempre ascoltai la voce della ragione e dei von Karma, e la mia risposta fu quella che tutto il mondo si sarebbe aspettato da me.
«Sì, Miles. È quello che voglio.» 


Ed eccomi tornata! 
Visto quanto sono brava? Questa volta ci ho messo poco. D'altronde, era d'obbligo, considerato il modo in cui lo scorso capitolo si era concluso. 
Che dire? Mi sono impegnata a fondo per scavare dentro quelle menti contorte che sono Miles e Franziska, e spero - mi affido al vostro giudizio, come sempre - di essere riuscita a renderli al meglio. Non uccidete Frannie per aver deciso di far finta di niente. Non so se vi aspettavate che si arrivasse a una situazione del genere, ma sappiate che comunque si tratta di un punto di svolta per i nostri personaggi: per quanto vogliano "fingere" che tutto sia  come prima, non riusciranno ovviamente a dimenticare l'accaduto. 
Inoltre! Ecco un primo punto di vista della Payne, che come credo immaginavate avrà un ruolo molto più importante in questa nuova storia rispetto alla precedente. Che ne pensate di lei? Avete un'idea di quello che potrebbe fare per mettere i bastoni tra le ruote a Frannie? Sono curiosa ^_^ 
Infine, so che vi interessava sapere cosa sta succedendo ad Annika nel suo primo giorno di scuola, ma state pure tranquilli: il prossimo capitolo sarà in gran parte dedicato a lei e alle sue vicende. Vi voglio anche porre una domanda riguardo al suo "amichetto speciale" di scuola. Secondo voi deve essere imparentato con qualcuno di Ace Attorney? Avete dei suggerimenti? Io ho qualche idea in mente ma non sono ancora sicura... 
Beh, vi lascio questa vignetta che ho trovato e che mi fa ridere troppo ogni volta che la vedo XD 

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(Ovviamente Mei è Franziska, mentre Reiji è Miles, nel caso non lo sappiate!)
Non ho altro da dire, quindi vi lascio alla lettura e vi saluto. Alla prossima, un bacio enorme a tutti voi *_*
Kirlia <3

P.S.: Avete notato le due citazioni che ho fatto in questo capitolo? Vi sfido a trovarle: una è letteralmente una battuta, l'altra è più un "parallelismo"... E sono entrambi film Disney!

 
   
 
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