Goodbye
my lover
goodbye
my friend
you
have been the one
you
have been the one for me.
Goodbye my lover. James Blunt
Goodbye my lover
La sala principale del War-R!ot
era gremita di chiacchiere già dai toni sfasati per via dell’alcool, come tutte
le sere.
Gale prese il bicchiere che il barman gli stava porgendo
e ne buttò giù il contenuto tutto d’un fiato, ignorando la domanda di Quinn.
“Non fare lo stronzo e rispondimi” insistette il compagno
di accademia, dandogli un calcio da sotto lo sgabello.
Gale abbozzò un mezzo sorriso; se l’ufficiale del loro
corso li avesse visti in quel momento, intenti a bere e a punzecchiarsi come
due ragazzini, probabilmente avrebbe condannato il loro intero squadrone a tre
giri dell’accademia di corsa in
piena notte. In fondo, agli allievi, non era nemmeno consentito uscire liberamente e senza permesso. Tuttavia, al R!iot,
nessuno faceva mai caso ai due soldati; chiunque conosceva quella testa calda
del Gancio[1],
ed era bastato poco perché anche la presenza di Gale diventasse consuetudine
agli occhi di tutti.
“Parlami della tua bella” tentò ancora Quinn, prima di
ordinare un secondo giro. “Ci sarà pur stata una qualche signorina che ti abbia
fatto girare la testa, in quel buco di Distretto dove sei cresciuto.”
Il compagno lo freddò con un’occhiata, prima di annuire.
“Forse” ammise infine, giocherellando col suo bicchiere. Lestat riconobbe in fretta il bisogno di bere impresso nei suoi
occhi e glielo riempì di nuovo.
Quinn sorrise canzonatorio.
“Katniss?” chiese, voltando lo sgabello verso di lui.
Gale gli rivolse un’occhiata sorpresa; una punta di
nervosismo incominciò a stuzzicarlo.
“Dici il suo nome quando ti svegli, qualche volta” spiegò
l’amico, stringendosi nelle spalle. “Sei fottutamente imbarazzante, e non mi
lasci nemmeno dormire. Non è il nome della tizia che facevano sempre vedere in
televisione?”
Gale si limitò a stringersi nelle spalle.
“Sul serio, che fine ha fatto?” lo interrogò ancora
Quinn, osservandolo buttare giù il secondo bicchiere.
Il compagno scosse la testa.
“Non lo so” rivelò, prima di passarsi il dorso della mano
sulle labbra. “Le ho addetto addio tre volte. E l’ultima è stata quella
definitiva.”
Quinn aggrottò le sopracciglia, prima di attirare
l’attenzione del barman, bussando sul legno del bancone.
“Tre volte? Perché?”
Gale sbuffò e tornò ad osservare il contenuto del suo
bicchiere, facendolo ondeggiare. Erano passati tre mesi dal suo trasferimento
nel Due, ma il pensiero di Katniss riusciva ancora a far bruciare delle ferite
che ormai credeva avessero incominciato a cicatrizzarsi.
Tre volte era stato costretto a salutarla; tre volte era
stato sul punto di perderla.
Serrò una mano a pugno, sul bancone, e incominciò a
raccontare, dapprima con riluttanza, poi sempre più in fretta, guidato
dall’ebbrezza dell’ alcool.
***
Riprese a camminare avanti e indietro per la cucina,
cercando qualcosa con cui occupare la
notte, che sembrava interminabile. Non aveva nemmeno cercato di dormire: se
chiudeva gli occhi per qualche istante, ogni immagine o suono che gli aveva
provocato dolore quel pomeriggio tornava a echeggiare nella sua testa; le urla
di Prim e le lacrime che la ragazzina aveva versato
fino a sera, prima di riuscire ad addormentarsi. Il volto sofferente della
signora Everdeen e i suoi silenzi carichi di
debolezza e disperazione. Le mani tremanti di Katniss, l’insistenza con cui la
ragazza aveva cercato il suo petto per rannicchiarvisi contro durante i saluti,
la paura che s’intravedeva nel suo sguardo al di là della determinazione.
Perciò, Gale tenne gli occhi aperti. Si alzò più volte
dalla sedia, per andare a controllare che sua madre e i suoi fratelli stessero
dormendo, contò i soldi, preparò delle trappole per il giorno dopo e consolò
Posy quando la bambina incominciò a
piagnucolare nel dormiveglia, infastidita da un brutto mal di pancia. Aveva
bisogno di tenersi occupato, di ignorare la sensazione di inquietudine che
continuava a minacciare di travolgerlo. Katniss aveva lasciato il Distretto
Dodici più di dieci ore prima, ma ancora si sforzava di rifiutare il pensiero
di averla persa. Scacciò via l’immagine della caccia in solitario che avrebbe
caratterizzato le sue giornate dall’indomani, senza qualcuno con cui
condividere i propri guadagni, il peso di due famiglie da sostenere, il silenzio dei boschi. Nessuno con cui avanzare per la
radura senza mai dire nulla, muovendosi come due parti dello stesso essere. Nessuno.
Erano ormai le quattro del mattino, quando un passo
leggero s’intrufolò in cucina, distogliendolo da quei pensieri. Vick sbadigliò
e lo raggiunse al tavolo, stringendosi nel vecchio maglione del padre: era
sempre più logoro e consunto, ma di tanto in tanto il ragazzino lo indossava
ancora, specialmente nei momenti in cui si sentiva triste o nervoso per
qualcosa.
Vick strinse una spalla del fratello, prima di sedersi di
fianco a lui. Gale si accorse che aveva gli occhi ancora gonfi, per via delle lacrime
che gli avevano rigato gli zigomi con costanza, quel pomeriggio. La sensibilità
di suo fratello era qualcosa di sorprendente, nonostante la sua giovane età.
Soffriva, quando riconosceva il dolore negli altri e cercava di rassicurarli
come poteva. Quel pomeriggio aveva pianto
per lui, perché percepiva lo smarrimento che il fratello maggiore aveva
provato, quando si era visto strappare via la sua migliore amica. Aveva pianto
per Prim, perché sapeva quanto lui avrebbe sofferto
se al posto della maggiore delle sorelle Everdeen ci
fosse stata Posy su quel palco o se Gale avesse preso il posto del ragazzo dei
Mellark. E aveva pianto per la signora Everdeen,
perché ricordava ancora bene le lacrime silenziose che Hazelle
aveva soffocato nel cuscino per giorni e giorni, quando suo padre era morto.
“Non dormi?” chiese Gale, sistemandosi i capelli
arruffati sulla fronte.
Vick si strinse nelle spalle.
“Posso venire a cacciare con te, domani?” chiese,
avvolgendo le dita nelle maniche del suo maglione. “Tanto è domenica.”
Gale chiuse gli occhi per un istante, avvertendo la
stanchezza gravargli sulle palpebre. La domenica era sempre stata il suo giorno preferito; da ragazzino lo
dedicava alla caccia con suo padre ma, in seguito alla morte dell’uomo, aveva
sostituito quei momenti con i pomeriggi trascorsi assieme a Katniss.
“Meglio di no, Vick” rispose, scuotendo la testa. “Tu e
Rory, però, potreste andare da Prim per farle
compagnia. Ne ha molto bisogno, in questo momento” aggiunse, incrociando il suo
sguardo.
Vick si morse il labbro inferiore, guardandolo con
espressione preoccupata.
Anche tu, stavano mormorando i suoi occhi; Gale
finse di non accorgersene.
"Lei hai detto addio?” chiese il minore dei due
fratelli.
L’espressione di Gale si fece più nervosa.
“Non c’era bisogno che lo facessi” rispose asciutto.
“Potrebbe tornare; potrebbe vincere.”
Dirle addio avrebbe significato arrendersi. Avrebbe
suggerito a Katniss che la stesse dando già per spacciata, che non avesse
fiducia in lei, e non era così.
“Lo so” bisbigliò in fretta Vick, scuotendo la testa. “Lo
so, ma a volte stai un po’ meglio quando dici addio. Aspettare e basta è più
difficile, perché continui a pensarci e ti arrabbi o ti viene da piangere; l’ho
scoperto quando è morto papà” aggiunse, rivolgendo al fratello un sorriso
triste. “Ma quando fai finta di arrenderti, quando dici addio… allora va un po’
meglio. Ci penserai sempre meno.”
Gale aggrottò le sopracciglia, mentre ascoltava quel
ragionamento insolito; Vick aveva solo dieci anni e appariva spesso distratto e
con la testa fra le nuvole, ma in momenti come quello il fratello maggiore si
rendeva conto che riusciva a capire e ad ascoltare le persone meglio di quanto
lo sapessero fare lui e Rory.
“Andrà meglio, Gale” sussurrò ancora Vick, alzandosi
della sedia e posandogli un’ultima volta una mano sulla spalla. “Te lo
prometto."
Sbadigliò e si stropicciò gli occhi gonfi con un pugno,
prima di tornare in camera da letto.
Gale rimase in cucina ancora per qualche ora, sforzandosi
di tenere gli occhi aperti, ostinandosi a non cedere.
Poco prima di arrendersi alla stanchezza, il pensiero di
Katniss tornò a trafiggerlo, alimentando la sua inquietudine. A quel punto una
parola gli attraversò la mente, aiutandolo a mettere da parte la rabbia e il dolore
fino all’alba.
Addio.
*
Si allontanò in fretta dal corridoio che portava al
Comando, diretto verso le scale; Boggs aveva concesso
dieci minuti ai volontari per la spedizione, dopodiché avrebbero dovuto
riunirsi sull’hovercraft in partenza.
Gale sfruttò i suoi rassicurando una spaventata Hazelle prima di scendere nell’ospedale del Distretto, per
controllare come stesse Katniss.
Ignorò Haymitch, seduto di fianco al letto della ragazza,
e si chinò su di lei per scostarle una ciocca di capelli dal volto sudato; era
ancora priva di sensi per via del sedativo e le sue palpebre fremevano, indici
di un sonno agitato.
Guardarla in quel momento, addormentata e vulnerabile, lo
riportò con la mente alla sera della prima Mietitura di Katniss, quando le era
stato accanto fino a quando la ragazzina non aveva preso sonno; lei aveva
cercato di farlo desistere, sforzandosi di nascondere la paura dietro il solito
sguardo determinato. Ma ogni volta che aveva aperto gli occhi di scatto,
spaventata al pensiero che l’indomani fosse già arrivato, aveva disteso i
lineamenti del suo volto, individuando la sagoma ben delineata di Gale nel
buio. La sua presenza e i suoi abbracci avevano
sempre avuto un effetto rassicurante, su di lei. Erano una certezza, un
appoggio al pensiero che, se mai le fosse successo qualcosa, lui sarebbe sempre
stato lì per prendersi cura di lei, di Prim, di sua
madre.
Adesso, però, non era più così: da quando Katniss era
partita per gli Hunger Games, lui sembrava aver perso
quella qualità ed erano altre le
persone a cui la giovane si rivolgeva per trarre conforto. C’erano Finnick e i
suoi nodi, che riuscivano a distrarla dalla paura costante di ciò che stava
accadendo a Peeta. C’erano Haymitch e i suoi abbracci; le strette di chi
condivideva con lei il timore di perdere qualcuno a cui voleva bene.
Quelle erano cose che Gale non poteva darle; non aveva
vissuto i Giochi con lei, né era disposto a rinunciare alla rivolta pur di
salvaguardare i propri sentimenti.
Eppure, quella sera, avrebbe combattuto anche per
Katniss.
Le sfiorò una guancia con delicatezza, avvertendo gli occhi di Haymitch puntati
su di sé; da quando era entrato nella stanza il Mentore del Distretto 12 non
aveva fatto altro che fissarlo e la cosa stava incominciando a infastidirlo.
Sostenne sfrontato il suo sguardo, aspettando che si decidesse a parlare.
Alla fine Haymitch
sbuffò, tornando ad appoggiarsi allo schienale della sedia.
“Non avresti dovuto offrirti” borbottò infine, prima di
indicare Katniss con un cenno del capo. “Se la nostra dolcezza qui presente
fosse sveglia, probabilmente ti chiederebbe di restare.”
“Lo so” rispose semplicemente Gale, tornando a guardare
la ragazza.
“Sei giovane e hai una madre e tre ragazzini a cui
pensare.”
“Lo so” ripeté il ragazzo, questa volta in tono seccato.
Gli scoccò un’occhiata piena d’astio e Haymitch ricambiò il suo sguardo con
fare impassibile.
Quella reazione lo infastidì ulteriormente; anche il
mentore aveva cercato di offrirsi volontario per la missione, ma Boggs aveva finto di non vedere la sua mano alzata. Per
quello avrebbe dovuto capirlo e non cercare di ostacolarlo usando Katniss e la
sua famiglia per trattenerlo al Tredici.
“Puoi dirmi quello che ti pare, tanto andrei comunque”
dichiarò infine.
Non c’erano parole o persone in grado di farlo indugiare
di fronte alla decisione presa.
Nemmeno lei, aggiunse mentalmente, sfiorando la mano di Katniss.
Haymitch abbozzò un sorrisetto, guadagnandosi una seconda
occhiata seccata da parte sua.
“Lo so” rispose poi, come a volergli fare il verso.
“Forse non sembra” aggiunse poi, indicandosi la pancia gonfia con il mento. “Ma
sono stato anch’io un ragazzo del Giacimento. So quanto possano essere testoni
quelli come noi.”
Gale lo squadrò con attenzione, rimuginando sulle sue
parole; per la prima volta si sorprese a domandarsi che vita avesse fatto
quell’uomo, prima degli Hunger Games. Se avesse avuto
una famiglia, dei fratelli, una ragazza. Probabilmente le loro infanzie non
erano state poi così diverse. Al Distretto Dodici c’era da sempre un luogo
comune; si diceva che i ragazzi del Giacimento si assomigliassero un po’ tutti,
e non solo per l’aspetto fisico. Quell’affermazione di norma aveva una
connotazione negativa, ma Gale l’aveva sempre trovata piuttosto veritiera. E
doveva essere lo stesso anche per Haymitch. Al di là della patina di
stordimento dovuta all’alcool e dell’insensibilità che gli si era attaccata
alla pelle come uno strato di sporco, dopo tutti quegli anni trascorsi a veder
morire dei ragazzini, restava un ragazzo del Giacimento. E forse lo capiva più
di quanto non avrebbero potuto fare Boggs o altri
suoi compagni di squadra.
Per un attimo, la sua ostilità iniziale nei confronti
dell’uomo venne meno.
“Cerca di tornare indietro tutto intero” lo ammonì infine
Haymitch. “Fallo per tua madre. E per lei” aggiunse, tornando a voltarsi verso
Katniss.
Gale fece lo stesso, chinandosi un’ultima volta sulla giovane. La baciò
sulla fronte, fermandosi poi a fissarla, come se si aspettasse che da un
momento all’altro si sarebbe svegliata. Che avrebbe smascherato le sue
intenzioni solo guardandolo, come sapeva fare un tempo, e l’avrebbe supplicato
di non andare.
Lui sarebbe partito lo stesso, ma lo avrebbe fatto per motivi diversi,
forse per la prima volta da quando la rivolta era incominciata.
Avrebbe lottato per tornare da lei e non solo per i suoi ideali.
Avrebbe combattuto per farsi amare e concedersi la flebile illusione di un
futuro dove Katniss sarebbe stata al suo fianco, senza esitazioni né
vacillamenti. Lei e magari anche un figlio, che non avrebbe mai conosciuto gli
stenti e le paure che avevano nutrito l’adolescenza dei suoi genitori.
Ma Katniss non riaprì gli occhi, e in fondo Gale sapeva
che, se l’avesse fatto, probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Perché lei
non era più quell’attimo di respiro che sorprendeva entrambi nei boschi, quando
il grigiore del Giacimento li abbandonava per un po’, rimanendo impigliato
nella recinzione di filo spinato. Katniss era la fiamma che alimentava il fuoco
sul suo corpo cosparso di braci, pronto a bruciare sin dalla morte del padre.
Ed era per quella fiamma che la stava perdendo; lui non
avrebbe mai potuto essere come Peeta, che aveva conquistato la sua fiducia
dimostrandole di poter rinunciare a tutto, per lei. Non poteva e non voleva
sacrificare i suoi ideali pur di averla.
Per questo avrebbe cercato di salvarlo.
Non soltanto perché sapeva che, senza di lui, Katniss non avrebbe mai
compiuto alcuna scelta e i suoi baci sarebbero sempre stati vuoti, spenti dalla
resa e dalla disperazione.
L’avrebbe fatto per dar prova a se stesso di poter rinunciare a tutto, pur
di darle quel qualcosa che l’avrebbe riaccesa. Ma si sarebbe fatto avanti senza
tradire se stesso, lottando per sputare in faccia alla capitale ciò che credeva
giusto.
Avrebbe combattuto da ribelle,
perché da bambino suo padre gli aveva insegnato che se non si è liberi non si
può nemmeno amare fino in fondo. E lui non voleva vivere di contentini e cuori
concessi a metà: limitarsi a sopravvivere non gli bastava più.
Diede le spalle al letto, sentendosi addosso lo sguardo di Haymitch.
Resistette all’impulso di guardare ancora indietro e abbandonò la stanza,
accettando di lasciarla andare per la seconda volta.
L’addio che scivolò in un sussurro
dalle sue labbra venne mascherato dal rumore deciso dei suoi passi.
Forse, sarebbe stato l’ultimo.
*
Il centro d’addestramento di Capitol City era il
posto peggiore in cui Gale avrebbe voluto trovarsi in quel periodo, ma non
aveva avuto scelta. Era lì che si stava tenendo il processo su Katniss ed era
sempre lì che si erano stabiliti i soldati che, come lui, erano in attesa di
venire trasferiti all’accademia di aeronautica militare del Distretto Due.
Faticava a percorrere quei corridoi, dove perfino l’odore riusciva a
portare i segni del lusso con cui ogni anno i Tributi venivano coccolati prima
di venire gettati in pasto a se stessi. Le stanze affacciate a ogni androne
erano state le confezioni ammiccanti di centinaia di giovani costretti a
diventare giocattoli per un gruppo di adulti viziati.
Per quello Gale non aveva resistito un solo giorno in quel palazzo, al
termine della convalescenza. Per quello e per via del lampo rosso che
infiammava i suoi incubi ogni notte, e che l’aveva spinto a rimandare più volte
la sua visita a Katniss in ospedale, fino a quando non aveva deciso di
andarsene. A lei, d’altronde, non avrebbe giovato la sua vicinanza.
Forse, saperlo lontano e in un altro Distretto, l’avrebbe fatta sentire meglio.
Era tornato solo per l’esecuzione, per consegnarle la freccia che avrebbe
dovuto rappresentare la fine della guerra. Per attendere un perdono che non era
mai arrivato.
Per quello non riusciva a capacitarsi di quel continuo viavai che lo stava
trascinando ogni giorno fino alla stanza in cui Katniss era tenuta sottochiave.
Del perché appoggiasse sempre l’orecchio alla porta, per captare anche il più
flebile lamento da parte sua, senza mai cercare di parlarle.
La visita che le stava facendo in quel momento, tuttavia, sarebbe stata l’ultima. L’indomani un Hovercraft
l’avrebbe riportato al Distretto Tredici, per permettergli di salutare i
familiari prima del trasferimento nel Due.
Raggiunse la stanza della ragazza e appoggiò l’orecchio
alla porta, ascoltando con attenzione. Non sentì nulla, proprio come i giorni
precedenti. Katniss era tornata a chiudersi nel mutismo che le aveva troncato
la voce dalla morte di Prim.
Gale adagiò la mano sul legno e fece pressione, come se
quel gesto potesse aiutarlo a farle sentire la sua presenza. Il silenzio
costante alimentava la sua apprensione, perché gli rendeva impossibile intuire
come stesse, se mangiasse e dormisse o avesse rinunciato a curarsi di se
stessa. La rabbia minacciava di serrare le sue dita a pugno ogni volta che il
ragazzo abbandonava quella porta. Lo incolleriva il pensiero che coloro che
l’avevano spinta a fomentare la rivolta la stessero abbandonando a se stessa,
permettendole di lasciarsi andare a quel modo. Isolandola da chiunque, ancora
malmessa e bruciante di rabbia.
Bussò gentilmente alla porta, talmente piano che poche
persone avrebbero potuto captarne il rumore: solo qualcuno intrappolato nel
silenzio ci sarebbe riuscito.
Qualcuno con l’orecchio allenato, come chi è abituato a cacciare per
sopravvivere.
La porta era chiusa a chiave e ogni contatto con la
ragazza era proibito, ma quel tocco leggero delle dita contro il legno era una delle poche cose che aveva
potuto fare per lei nei giorni precedenti. Per insinuare nella sua testa il
dubbio che non fosse sola. Che qualcuno, là fuori, l’aveva tenuta d’occhio con
costanza, seppur in silenzio, come aveva sempre fatto.
Un rumore di passi affrettati riempì il corridoio e Gale
si allontanò dalla porta, nel riconoscere la giovane donna che gli stava venendo
incontro; Annie aveva i capelli arruffati e i vestiti spiegazzati, quasi si
fosse appena svegliata. L’aria trascurata era accentuata dai suoi occhi gonfi,
ma aveva lo sguardo meno perso del solito, come se il troppo dolore la stesse
costringendo a rimanere vincolata alla realtà.
La ragazza gli rivolse un sorriso triste, prima di
appoggiare a sua volta una mano alla porta.
“A volte vengo qui a parlarle” ammise, senza guardare
Gale. Non era nemmeno sicuro che si stesse rivolgendo a lui. “È terribile
restare soli quando si viene torturati dai ricordi.”
Lo sguardo della donna si riempì tutto un tratto di
sgomento e Gale avvertì una punta di disagio; non voleva essere presente
durante uno dei suoi momenti di crisi. Non avrebbe saputo come calmarla. Non
aveva modo di aiutarla, perché l’unica persona che avrebbe potuto farlo era
morta e lui non aveva fatto niente per evitarlo. La sofferenza di Annie non era
altro che l’ennesima macchia sulla sua coscienza sempre più imbrattata.
“Dovresti entrare” mormorò a un certo punto la ragazza,
questa volta guardandolo negli occhi. “Puoi aiutarla a zittire i ricordi come
Finnick faceva con me.”
Gale distolse lo sguardo e si allontanò ulteriormente
dalla porta.
“Dov’è Peeta?” chiese, in tono di voce più brusco rispetto
a quanto si fosse aspettato.
Annie tornò a distogliere l’attenzione da lui e appoggiò
l’orecchio alla porta.
“Non lo so; con il dottor Aurelius,
forse. Ha cercato di convincere la Paylor a farlo
entrare, ma non c’è stato verso; vogliono che Katniss resti in isolamento fino
alla fine del processo.”
Un mezzo sorriso amaro piegò le labbra del ragazzo.
“Non fanno passare lui e dovrebbero permetterlo a me?”
Annie scosse la testa.
“No, non te lo lascerebbero fare” confermò, arricciandosi
una ciocca di capelli attorno all’indice. “Ma penso che, se solo lo volessi,
troveresti il modo di entrare comunque.”
Gale non rispose alla sua ultima osservazione; Annie
aveva ragione. Avrebbe trovato una via d’uscita da quella situazione, se solo
l’avesse voluto. Ma per quanto fosse forte il desiderio di starle vicino per
poterla rassicurare, sapeva anche che averlo accanto in quel momento non
sarebbe stato giusto, per lei. Katniss non si sarebbe più rintanata fra le sue
braccia, sollevata dalla sua presenza. Trovarlo seduto vicino al suo letto ogni
volta che apriva gli occhi non l’avrebbe più aiutata a scacciare gli incubi.
Gale era diventato una leva che faceva perno sul suo dolore. Forse insistendo nel voler stare al suo
fianco, quella leva prima o poi si sarebbe arrugginita. Forse, un giorno,
Katniss sarebbe riuscita a mettere da parte l’angoscia che la investiva quando
il pensiero della perdita di sua sorella la riportava istintivamente a quello
del suo migliore amico. Ma il riavvicinamento fra di loro sarebbe stato
forzato: le fratture nel loro rapporto sarebbero guarite male, e avrebbero
continuato a comportarle del dolore.
Per quello, Gale preferiva prendere le distanze da lei.
Per quello, aveva deciso di rinunciare a starle accanto.
Ciò di cui Katniss aveva bisogno in quel momento non
aveva più a che fare con lui; Gale era diventato il promemoria costante del
momento che l’aveva privata di tutto e la sua presenza non avrebbe fatto altro
che spingerla più a fondo nel baratro che già la stava risucchiando. Quella era
una cattiveria che non poteva infliggerle; a costo di essere costretto a dirle
addio.
Sospirò, appellandosi all’ostinazione con cui aveva
convissuto fin da piccolo, per convincersi a lasciarsi alle spalle quella porta
di legno.
In quel momento, dei rumori dall’interno della stanza
catturarono la sua attenzione. La voce attutita di Katniss affiorò nel
corridoio, soffocata dal muro che lo separava da lei, ma comunque nitida. Non
stava piangendo, né parlava da sola, cercando un contatto con l’esterno della
sua stanza: stava cantando.
Gale tornò ad appoggiare la mano al muro, come a volersi
avvicinare al canto. Conosceva la melodia che la ragazza stava eseguendo: era
una vecchia ninna nanna che le madri cantavano ai figli dei ribelli, durante i
giorni bui. Suo padre ricordava tutte le strofe: era stato Caleb Everdeen[2]
a insegnargliele. Di tanto in tanto Joel gliene aveva canticchiato qualche
pezzo per farlo sorridere, viste le sue stonature. Tuttavia, le parole
racchiuse in quei versi gli erano sempre rimaste impresse. Raccontavano di
persone come lui, come suo padre; i figli dei ribelli non avevano scelta: erano
destinati a ribattere alle ingiustizie con violenza, come i genitori, perché
fin da piccoli si addormentavano al suono di una ninna nanna che parlava di
libertà e giustizia. Anche per lui era andata così; era diventato un ribelle
prima ancora di riuscire a comprendere a pieno il significato di quella parola.
E adesso, ne avrebbe pagato le conseguenze.
Avvicinò l’orecchio alla porta un’ultima volta, prima di
notare lo sguardo di Annie puntato su di sé. La donna, che fino a qualche
momento prima gli era sembrata completamente assorbita dal canto di Katniss,
gli aveva appoggiato una mano sull’avambraccio. Il suo tocco era talmente
leggero che lo avvertì a malapena.
“Puoi ancora salvarla, se ci provi…” mormorò a quel punto
la giovane. “…Capitano[3]”
aggiunse all’ultimo, distogliendo lo sguardo: i suoi occhi, adesso, erano umidi
di lacrime.
Gale voltò bruscamente la testa, avvertendo il disagio crescere dentro di lui.
Quel soprannome, Capitano, non fece altro che ricordargli quante impronte
sporche di sangue imbrattassero la sua coscienza.[4]
Quelle di Prim, quelle di Finnick, quelle di bambini
senza nome, né volto. Quelle di chi li aveva persi e li avrebbe pianti per sempre. Non voleva altro sangue
addosso. Non voleva che anche le impronte rosse di Katniss facessero presa
dentro di lui, cicatrizzandosi al suo interno. Il suo istinto di salvare
chiunque schiacciava con violenza il suo bisogno di amare. E per salvare lei,
occorreva lasciarla andare.
“Hai ragione” ammise infine, spostando il braccio per
allontanare la mano di Annie. “Posso farlo.”
Appoggiò la fronte alla porta, lasciando che il canto della Ghiandaia
Imitatrice gli echeggiasse dentro per l’ultima volta.
“Addio” mormorò, serrando la mano a pugno contro il legno. Si scostò poi
con decisione e si lasciò alle spalle il corridoio, Annie, e quel granello di
speranza che aveva conservato fino a quel momento e che finalmente si era
convinto a gettare per terra. Diede le spalle al ragazzo e alla ragazza che si erano incontrati per
caso nei boschi e che avevano imparato a prendersi cura l’uno dell’altra,
diventando inseparabili.
La ninna nanna per i figli di Ribelli continuò a risuonare
nella sua testa fino a quando il giovane soldato non si lasciò alle spalle
anche Capitol City. E Catnip con lei.
***
Il ragazzo del Distretto Dodici si schiarì la voce, prima
di passarsi il dorso della mano sulle labbra. L’alcool consumato quella sera
aveva incominciato a fare il suo effetto e nella sua mente si mescolavano
stralci di ricordi un po’ confusi; non ricordava con esattezza cosa avesse
raccontato a Quinn. Probabilmente la maggior parte di ciò che aveva rievocato
nel corso degli ultimi venti minuti era rimasto nella sua testa. Quello era ciò
che sperava, quanto meno. Non gli piaceva parlare del suo passato.
Ricambiò lo sguardo di Quinn, che durante il suo racconto
si era mostrato insolitamente silenzioso. L’amico continuò a essere di poche
parole anche durante il resto della serata, come se avesse capito di aver
stuzzicato un nervo scoperto. Aveva intuito al volo che frecciatine e
battutacce non sarebbero state bene accette quella sera e si guardò bene dal
punzecchiare il compagno di accademia come era solito fare in altre occasioni. Quando Quinn
sparì nel retro del locale, per assistere a qualche match di pugilato
clandestino, Gale si trascinò di malavoglia fuori dal pub per andare a prendere
una boccata d’aria. Si sentiva insonnolito, come se rivivere quei tre momenti
del suo passato avesse prosciugato gran parte delle sue energie. Appoggiò una
spalla alla porta d’ingresso e rivolse un’occhiata distratta alla cabina
telefonica di fronte al Pub. Ricordò tutto a un tratto che aveva promesso a
Rory di chiamarlo, ma non si sentiva nelle condizioni migliori per farsi una
chiacchierata con suo fratello. Raggiunse comunque la cabina, facendo scorrere
fra l’indice e il medio il gettone che aveva in tasca. Di fianco alla moneta
riconobbe al tatto una strisciolina di carta che Hazelle
gli aveva inviato assieme all’ultima lettera, scarabocchiandoci dietro un nome.
Il ragazzo esitò, appallottolando il foglietto dentro il pugno chiuso, assieme
al gettone. Ripensò a sua madre, a ciò che gli aveva detto l’ultima volta che
si erano sentiti per telefono. A come gli avesse consigliato di chiamare quel
numero, perché risentirla avrebbe
aiutato entrambi. A come avesse cercato di convincerlo che non fosse troppo
tardi per recuperare almeno parte del legame che li univa un tempo. E a quando
le aveva raccontato che Rory la sorprendeva ancora spesso nei boschi, appoggiata
con la schiena alla roccia che per anni era stata il loro punto di ritrovo.
Quando Hazelle gliene aveva parlato una prima volta
Gale l’aveva ignorata, ma il bigliettino con il numero era comunque rimasto
nella sua tasca. E in quel momento, mentre la stanchezza e l’alcool
collaboravano per far inceppare la sua mente su due parole ripetute allo strenuo,
“tre” e “addii”, un altro pensiero si formulò nella sua testa.
Agli Hawthorne, il numero tre aveva sempre
calzato stretto. Per loro, l’unico numero degno di attenzione era il quattro[5].
Così raggiunse la cabina, infilò il gettone e sollevò la cornetta. Pigiò i
numeri sul tastierino con gesti quasi meccanici, senza concedersi il tempo di
rimuginarci su troppo a lungo. Non sapeva che ora fosse, né aveva idea di chi
avrebbe trovato all’altro capo del telefono – forse lei, forse Peeta - ma in
quel momento non gli importava poi più di tanto. Non stava chiamando per
parlare con qualcuno. Lo stava facendo, semplicemente perché sentiva di doverlo
fare.
Il telefono suonò a vuoto tre o quattro volte, ma Gale non mise giù. Attese
fino a quando il segnale acustico non cominciò a farsi fastidioso, prima di
venire interrotto bruscamente da una voce.
“Pronto?”
C’era una punta di esitazione, in quell’unica parola. Forse non le piaceva
rispondere al telefono ed era per quello che aveva aspettato così tanto, prima
di accettare la chiamata. Forse continuava a preferire i silenzi, proprio come
un tempo. Gale non disse nulla; si limitò ad ascoltare la sua voce ripetersi un
paio di volte. Non era il coraggio a mancargli; se l’avesse voluto, avrebbe
trovato il modo di parlarle, di chiederle come stesse. Di dirle che gli
mancava, anche se con il tempo aveva imparato ad anestetizzare la sensazione di
vuoto provocata da quell’assenza. Non era riuscito a fare lo stesso con il
senso di colpa, che continuava a tormentarlo ogni notte.
Avrebbe potuto dirle tutto questo, sapeva che ci sarebbe riuscito, eppure
non lo fece. Non voleva farlo, perché sentiva che per lei sarebbe stato meglio
così. Come le altre volte, finì per arrendersi a ciò che pensava le avrebbe
fatto meglio. In passato non era stato in grado proteggerla e alla fine era
stato Peeta a sanare le sue ferite. Ma tutto questo non lo infastidiva, non
più. L’aveva accettato, perché con il tempo si era reso conto di aver preso la
decisone giusta.
Perché, scegliendo di non salvarla, era lui che la salvava sempre.
Spinse la cornetta contro l’orecchio, attendendo l’interruzione della
linea. Katniss non demorse; smise di parlare, ma rimase in attesa e il silenzio
appeso fra di loro incominciò a farsi pesante. Gale l’ascoltò respirare e
immaginò che anche lei stesse facendo lo stesso con lui. Per un attimo ripensò ai due ragazzi che
erano stati in passato; a quando nel silenzio dei boschi riuscivano a
riconoscere l’uno il respiro dell’altro, così come riuscivano a distinguere il
battito dei rispettivi cuori[6].
E in quel momento, proprio mentre i suoi tentativi di immagazzinare aria
avevano incominciato a farsi più irregolari, la voce di Katniss cancellò
l’assenza di parole intrappolata fra i due capi del telefono.
"Gale?”
Il giovane esitò, stringendo con più forza la cornetta. Riconobbe la fatica
con cui il suo nome era riuscito a farsi strada attraverso le labbra della
ragazza. Percepì una punta di paura, ancorata a quelle quattro lettere. La
paura di rimanere delusa, di essersi sbagliata. L’imbarazzo per essersi
aggrappata ai respiri di una persona qualunque, pensando a qualcuno che non
l’aveva più cercata da mesi.
Gale scosse la testa più volte, arrendendosi al dolore che gli parve di
avvertire ancorato ai sospiri spazientiti della donna. Interruppe la linea e
mise giù la cornetta, pur continuando a stringerla con forza. Faticò a
lasciarla andare, come se quel gesto significasse abbandonare ancora una volta
la persona all’altro capo del telefono. Quando riuscì a separarsene, la sua
mano corse a rifugiarsi nella tasca dei jeans, dove il bigliettino spiegazzato
cercò di donarle un po’ di conforto. A quel punto uscì dalla cabina,
lasciandosi stordire dal freddo pungente di dicembre.
Il quarto addio a Katniss lo pronunciò più tardi, nel dormiveglia, prima
che gli incubi tornassero a ghermirlo come ogni notte.
E quello fu l’ultimo.
Note finali.
Per questa storia partecipa all’iniziativa del gruppo “Fan Fiction challengers II” con il prompt “Gale/Katniss - Abbandono”.
Anzitutto ringrazio infinitamente Macy McLaughlin per il betaggio
della storia, visto che si è sorbita questo polpettone di introspezione!
Buongiorno! Non so bene come cominciare con le note,
visto che sono un po’ in imbarazzo. L’Everthorne è la
coppia che porto nel cuore più in assoluto da un anno a questa parte, ormai,
eppure ho scritto veramente poco, su di loro. Probabilmente l’ultima mia Everthorne è stata Incancellabile,
che ho pubblicato in Febbraio, quindi è passato un po’ di tempo ** Ho colto l’occasione per cercare di scrivere qualcos’altro su di loro due dopo
essermi iscritta al contest “My Fictional Crush” di Chara. Purtroppo, come
sempre, ho superato di tanto i limiti di lunghezza imposti dal contest, così mi
sono dovuta ritirare xD Ma ho deciso di pubblicare
comunque la storia, perché ci tenevo. Perché sono veramente tanto, tanto
affezionata al personaggio di Gale e perché ho amato molto scrivere questo
piccolo viaggio all’interno della sua testolina soldatesca <3 I momenti che ho scelto per approfondire i
vari “addii” che Gale dà a Katniss non sono particolarmente originali di per
sé, ma ammetto che mi sono divertita molto a introdurci dentro qualche personaggio
secondario. Vick è il fratellino Hawthorne meno
calcolato, probabilmente, ma ho scelto di inserirlo perché di norma, nei miei
racconti, viene descritto come quello più sensibile dei quattro ed era
decisamente il più adatto a stare accanto a Gale in un momento simile. Haymitch
era presente quando Katniss si è svegliata dopo essere stata sedata, quindi ho
deciso di inserirlo nella scena del
secondo addio, così ho avuto modo di inserire quel piccolo confronto con Gale.
Infine, Annie. Lei è un personaggio
molto particolare, e ho sempre immaginato che, al di là dei suoi momenti di
instabilità, riuscisse a cogliere nelle persone cose che magari altre persone
più “lucide” non sarebbero state in grado di notare. E poi ci tenevo a inserire
una conversazione fra lei e Gale visto il ruolo significativo che avrà lui
nella vita di suo figlio Sebastian, come si accenna in Footprints in the Sand.
La cornice ambientata nel Distretto Due, l’ho inserita
principalmente perché… Beh, per introdurre il mio adorato Gancio, lo ammetto
** Lui è un mio OC che ho delineato per scrivere una long sul periodo che
Gale trascorre nel Distretto Due e spero tanto di riuscire a trascrivere
qualcosa di quel periodo, prima o poi, perché ormai sono affezionatissima a
tutti i personaggi che fanno da sfondo alla vicenda. E poi, vista l’importanza
che ha il numero 4 nella famiglia Hawthorne, ci
tenevo ad inserire nell’ultima parte un quarto addio un po’ simbolico, quello definitivo
(Joel sr. e Rory sarebbero
molto fieri di me u.u). I riferimenti all’accademia
li ho inseriti perché nel mio head-canon, durante il
periodo nel Distretto Due, Gale frequenta un’accademia di aeronautica militare
per diventare pilota. Quinn è un suo “collega”.
E basta, ho scritto troppo. Grazie infinite a chiunque
abbia avuto il coraggio di leggere questa storia da cima a fondo senza
annoiarsi, vorrei tanto avere il dono della sintesi :/ Gale vi ringrazia e io
vi chiedo di dargli un forte abbraccio, perché ne ha bisogno <3
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] “Gancio” e
il soprannome di Quinn, per via della sua bravura nel pugilato.
[2] Caleb Everdeen è il papà di
Katniss
[3] Riferimento a “Footprints in
the Sand”, dove Finnick continua a chiamare Gale “Capitano”, facendolo irritare
non poco. Capitano è anche il soprannome
di Finnick, ma ho pensato che, prima di partire per Capitol
City avesse potuto accennare alla neo-moglie il fatto che Gale gli ricordasse
un capitano, per quello la menzione.
[4] Questo
è un altro riferimento a “Footprints in The Sand”,
dove Gale e Finnick hanno una conversazione legata alle impronte e a delle
leggende popolari dei loro due Distretti.
[5] Nelle mie storie il numero portafortuna degli Hawthorne è il quattro. Questa era in principio una
tradizione del capofamiglia, Mr. Hawthorne (Joel) il
quale ha infatti avuto quattro figli, tutti con nomi da quattro lettere.
[6] L’accenno
al battito dei cuori riprende un passaggio di Hunger
Games: “Il suo corpo mi è
familiare - il modo in cui si muove, il profumo di fumo di legna che emana, nei
momenti di quiete dalla caccia ho imparato a conoscere persino il battito del
suo cuore”.