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Autore: Horror_Vacui    29/11/2014    1 recensioni
Dalla Caduta il mondo aveva iniziato un lento ed inesorabile processo di cambiamento.
Quel lembo di terra ai confini del Grande Oceano, avvolto da miti e leggende, era finalmente accessibile al resto del mondo. Un agnello circondato da lupi.
A Ovest, sulla sponda opposta dello Stretto di Indrion, sorgeva il Regno di Vronagos. Si diceva possedesse la più grande e micidiale flotta navale del continente, ma poche e aride terre, che l’avevano costretto per secoli a intrattenere una fitta rete di rapporti commerciali.
A Sud, il Regno di Liseria, da anni alla ricerca di uno sbocco, una via inaspettata per sorprendere i nemici.
E, al di là del Deserto della Distruzione, il glorioso impero di Shalira, governato dai potenti Sharalith, figli degli elfi silvani e degli elfi oscuri, esperti di magia elementale e sprezzanti guerrieri.
Quanto tempo sarebbe passato prima che la Penisola divenisse il nuovo campo di battaglia delle potenze oltre la barriera?
Quanto tempo sarebbe bastato a far diventare i trattati di pace carta straccia?
Le monarchie peninsulari cominciavano a mettere da parte le antiche rivalità per creare un nuovo sistema di alleanze, mentre loro erano solo pedine di un disegno più grande.
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amelia, Gourry Gabriev, Lina Inverse, Personaggio originale, Zelgadis Greywords
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'IMPERO DI SHALIRA

LIBRO PRIMO


Capitolo I - Crisi

Era un pomeriggio di marzo, Gourry Gabriev se ne stava steso su di un pregiato drappo di broccato zephiliano, una mano sotto la testa e l'altra ad accarezzare la chioma vermiglia della maga assopita tra le sue braccia. Le fronde della quercia si muovevano lente sopra le loro teste, sospinte appena dalla brezza che portava con sé l'odore dei ciliegi in fiore.

Erano già passati due anni dalla cacciata di Dark Star, più di tre dalla Caduta, ma il ricordo di quei giorni disperati non accennava a sbiadire, era, anzi, così vivido da impedirgli di passare notti tranquille.

Il ragazzo sospirò, stringendo più forte il corpo esile sopra di sé.

Il legame con Lina, già forte ai tempi della guerra, era divenuto ormai indissolubile, non poteva pensare di viverle lontano; ma alto era il prezzo da pagare per poter rimanere al fianco della maga più ricercata del continente: presto sarebbe giunto il momento di saldare il conto e lui era debole, incapace di difendere persino se stesso senza la sua vecchia arma.

Quando si era diffusa la notizia che Lina Inverse e Gourry Gabriev erano i responsabili diretti della dissoluzione della Barriera, loro erano già nei territori di Vrabazard al seguito di Philia, ma non avevano idea di quel che in patria aveva iniziato a muoversi. Di ritorno, infatti, non ci fu nessun comitato di accoglienza per gli eroi vittoriosi, ma una taglia stratosferica sulle loro teste.

Non esisteva posto in cui fosse possibile vivere senza dover combattere: che si trattasse di una banda di criminali o dell'oste, tutti erano disposti ad ucciderli e rivendere i loro corpi alle guardie imperiali di Elmekia.

A salvarli, però, ancora una volta era stata la principessa di Saillune, Amelia, che li aveva invitati a corte come suoi ospiti, rendendo nulla la taglia all'interno della capitale della magia bianca.

Non avevano idea di quanto tempo sarebbe passato prima di poter uscire di nuovo da Saillune senza rischiare di essere attaccati. E così i giorni cominciarono a succedersi, tutti uguali, tra un ricevimento e l'altro, senza preoccupazioni e senza responsabilità.

La loro vita prese a scorrere scandita da piccole abitudini, piccoli rituali giornalieri privi di colore.

Dopo pranzo erano soliti passare il resto del pomeriggio nel parco che circondava il castello, alla ricerca di un posticino in cui riposare, quasi fossero ancora viandanti.

Quel giorno avevano scelto l'albero secolare che si ergeva, solitario, al centro di un'ampia distesa di gramigna.

Erano lontani da cameriere e maggiordomi, da uomini e donne di corte... o così credevano.

Dal boschetto di faggi che circondava quella piccola oasi solitaria, emerse un giovane valletto.

«Lina...» sussurrò Gourry «Lina, arriva qualcuno.»

Stiracchiandosi con fare felino, la maga si limitò ad emettere qualche suono di protesta, senza dar troppo peso all'avvertimento del compagno.

«Non mi interessa, mandalo via!» si lamentò coprendosi la faccia con le mani.

Nel frattempo il valletto, un ragazzo di almeno quindici anni, si era avvicinato a passo svelto.

«Lord Gabriev, Lady Inverse» balbettò sulle spine «ho un messaggio da recapitare»

All'ennesimo strattone dello spadaccino, Lina sollevò la testa e guardò il paggio di traverso.

«Un messaggio?» si esibì in un sonoro sbadiglio.

Il paggio non rispose. Le buone maniere prevedevano che le conversazioni avvenissero faccia a faccia, come segno di rispetto verso il proprio interlocutore. La maga emise un verso di irritazione, ma, in un fruscio di seta verde e taffetà, si mise in piedi aiutata da Gourry.

«Ebbene? Chi ti manda?» lo fronteggiò.

Il ragazzo tirò giù i bordi del farsetto e prese un bel respiro «Sono qui per ricordarvi il vostro quotidiano appuntamento presso il Salotto Blu» finì con un grosso sospiro di sollievo.

«Tutto qui?» lo squadrò con sufficienza.

«Sei libero di andare, ragazzo» la voce calda e rassicurante di Gourry giunse gentile alle orecchie del giovane, che, senza farselo ripetere, fuggì a gambe levate attraverso gli alberi dalle foglie rosse.

Lina si voltò verso il compagno ancora seduto sotto la quercia e lui ricambiò lo sguardo, divertito.

«Ed ecco lo spadaccino dall'armatura scintillante, pronto a soccorrere i deboli e gli oppressi!» sollevò le braccia in aria per rimarcare il concetto. Era ormai abituata allo sdegno della servitù e aveva imparato ad usarlo a suo vantaggio, anzi, terrorizzare paggi e cameriere rientrava tra i suoi passatempi preferiti.

«Era proprio necessario? Credevo che ormai ti fossi annoiata.» le regalò un altro sorriso radioso. Gourry era buono. Non sapeva come altro definirlo! Sempre gentile, pronto ad aiutare il prossimo... a sopportare lei.

«Sì, lo era eccome! E poi, è tutta colpa tua!» disse sedendogli accanto.

«Colpa mia?!» lui si finse offeso, ma nel frattempo l'aveva già attirata a sé.

Una folata di vento più forte delle altre separò le fronde dell'albero e un raggio di sole gli illuminò il viso e i capelli biondo grano. Non ricordava il momento esatto in cui aveva iniziato a guardarlo con occhi diversi, notando particolari insignificanti, come quel piccolo neo appena sotto l'orecchio o le fossette agli angoli della bocca quando rideva. Amava le sfumature dorate dei suoi capelli, la morbidezza di quello sguardo azzurro cielo e quelle labbra dolci come il miele.

Amava stuzzicarlo, vedere fino a che punto avrebbe retto quel guscio di pazienza che lo avvolgeva. Quando si sarebbe stancato di lei e dei suoi capricci?

«Esatto! Avresti potuto salvarlo, lasciandomi riposare in santa pace» gli pizzicò il fianco, ma lui non sembrò curarsene.

«E perdermi tutto il divertimento? Sai che non potrei mai farlo» ammiccò posandole un tenero bacio sulla guancia. Poteva amarla davvero così tanto da sopportare qualsiasi suo gesto?

«Oh, sì certo! La servitù è terrorizzata da me, una tenera e indifesa fanciulla!» assunse il solito tono melodrammatico, portandosi una mano alla fronte con fare svenevole.

«Ma smettila» le diede un buffetto sul naso «tenera e indifesa? Non puoi credere davvero a ciò che dici» rise di gusto, stendendosi di nuovo, con il viso rivolto verso il tetto di foglie sovrastanti.

Il ragazzo aveva già perso l'aria gioviale in un sospiro e le fu facile percepirne l'inquietudine, la vide attraversargli il petto e giungere fino agli occhi. Gli si stese vicino, adagiando il proprio petto contro il suo, in attesa di sentire l'intreccio ritmico dei loro battiti.

«Qualcosa non va?» chiese la maga un po' preoccupata.

La guardò con la coda dell'occhio «No, è tutto a posto.»

Era così bella in quel momento, con i capelli sciolti sulle spalle e le guance rosse che spiccavano sulla pelle chiara. Sentì il macigno sul petto diventare più pesante, mentre il pensiero di perderla si faceva strada nella sua mente.

«Credo sia ora di andare, lady Inverse» si alzò per non essere bersagliato da domande scomode.

«Credo lei debba liberarsi delle foglie che le invadono la chioma, lord Gabriev»

La vide sorridere, emanava una luce di brillante vitalità , e si sentì di nuovo felice. Era nel posto giusto al momento giusto, in uno stato di grazia e piena soddisfazione.

Non poteva durare per sempre, no?

Il Salotto Blu si trovava all'interno degli appartamenti della principessa ed era usato per ricevere ospiti ed amici intimi, lontano da occhi indiscreti.

Era di medie dimensioni, luminoso grazie alle numerose finestre, di cui quattro decorate con vetri colorati e gemme preziose sui toni del turchese. Le pareti erano coperte da pannelli di legno chiaro, intervallati da lucenti stucchi dorati che si allungavano fin sul soffitto, intrecciandosi in complicati arabeschi attorno agli imponenti lampadari di cristallo e lapislazzuli.

Su di un elegante divano bianco, la principessa Amelia sedeva in modo composto ed aggraziato. Il vestito di pesante taffetà avorio le impediva di muoversi liberamente e, d'altronde, ormai l'abitudine aveva modificato i suoi modi di fare, ingabbiando la sua genuina spontaneità in una prigione di seta e balze. I capelli, neri e lucidi come piume di corvo, erano raccolti in un'acconciatura formata da una serie complicata di trecce e boccoli, riuniti sul capo e tenuti fermi dalla sottile corona tempestata di diamanti e zaffiri. Le spalle, lasciate nude dall'abito, davano mostra di un colorito pallido e di una magrezza che non erano mai appartenuti alla gioiosa principessa.

«Amelia, cerca di capire! Non posso continuare ad assecondare i tuoi capricci!»

Zelgadis Greywords sedeva poco distante, stringendo tra le mani uno dei tanti manoscritti di magia bianca della biblioteca privata della principessa. Non riusciva però a concentrarsi troppo sulla lettura, quando accanto a lui c'era quella piccola meringa dagli occhi blu. La sua piccola meringa. L'amava più di quanto gli fosse consentito, a tal punto da percepire il cambiamento che, lento ed inesorabile, stava scavando a fondo nell'animo della futura regina. Il mondo stava cambiando, come le nuvole a marzo, e loro assieme a lui. La scintilla negli occhi di Amelia si stava spegnendo e lui temeva che presto anche quel lumino avrebbe lasciato posto ad una cupa tristezza.

«Ma padre, perché?!»

«Basta! Non una parola di più. Stiamo chiedendo enormi sacrifici ai nostri sudditi. Molti giovani uomini sono stati chiamati alle armi e rischiano la vita per noi! La principessa darà il buon esempio. Il nostro regno diverrà più forte...»

«Zelgadis...» lo chiamò con indolenza. «Perché sei così lontano?» tese le mani nella sua direzione.

Conosceva bene il significato di quel gesto, era il segno che potevano buttare giù le maschere, distruggersi a vicenda e sentire i cocci cadere a terra, anche se raccoglierli diventava sempre più difficile.

Lui era una chimera, umano solo per un terzo, demone e golem per gli altri due, non apparteneva a nessuna casata di alto lignaggio, mentre lei un giorno avrebbe preso il posto del padre sul trono di Saillune. Non avevano futuro. Non insieme.

Si limitavano a vivere il presente a denti stretti e pugni serrati, pronti a ricevere il colpo di grazia, pronti ad andare in frantumi per sempre.

Mise da parte il volume polveroso e prese posto accanto a quei grandi occhi blu, pronto a perdersi in un mare di merletti color crema. Lei, però, voleva altro. Si appoggiò delicata sul suo petto di pietra e, puntellandosi con le mani tra i cuscini, si sedette sulle sue gambe abbracciandolo forte.

Preoccupato da quella reazione, le avvolse le braccia intorno alle spalle «Amelia...?»

«Sposerò un principe di sangue di Elmekia. Mio padre abdicherà, io diventerò regina di Saillune e il mio regno stringerà un'alleanza militare con l'impero.» disse secca, mentre a lui le parole morivano in gola.

Sentì l'impatto e poi lo schianto. Poteva un'esplosione fare così poco rumore?

Caddero in un silenzio assordante, in cui i battiti dei loro cuori si mischiavano ai ticchettii degli orologi e all'oscillare del pendolo d'oro.

Il tempo non si era fermato, nonostante tutto.

«Quando?» chiese, liberato da ogni traccia di vitalità.

«Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati della Penisola devono fare causa comune contro le avversità.»

«Presto. Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati della Penisola devono fare causa comune contro le avversità.» ripeté meccanicamente le parole che il padre le aveva rivolto solo poche ore prima.

Sentì il calore abbandonarlo mentre lei si scostava per guardarlo in volto, ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalla finestra di fronte.

«Credevo che l'incontro con tuo padre fosse andato bene...» la rabbia stava per esplodere nell'atto finale di quel triste melodramma.

«Non volevo parlartene di fronte alla corte... ma, ti prego, Zelgadis, guardami!» gli afferrò il viso con entrambe le mani, ma lui scosse la testa, troppo testardo, troppo orgoglioso per mostrarle le proprie macerie.

«Ti prego...» sfiatò in un sibilo come se quello fosse l'ultimo respiro.

Si era spenta.

La fiammella di vita, che fino a poche ore prima animava quegli occhi, era ormai morta, uccisa da lacrime sgorgate con la forza di un fiume in piena: ma la collera non si lasciò impietosire.

Con un colpo di reni, Zelgadis si rimise in piedi. Non era da lui esibirsi in reazioni esagerate e, anche in quel momento, mantenne la stoica calma che lo contraddistingueva.

«E adesso cosa mi resta?» le rivolse un sorriso amaro, sempre con lo sguardo rivolto verso una delle finestre azzurre. «Il mio posto non è più qui...»

«Rimani... Zelgadis, rimani con me» fu la preghiera disperata che gli rivolse tra le lacrime.

Le gote arrossate, le labbra torturate dai morsi del senso di colpa e i capelli che cominciavano a slegarsi. Si sentì un verme viscido, perché vederla in quello stato, per lui e insieme a lui, lo riempì per un attimo di soddisfazione.

«Cosa mi stai chiedendo, principessa?» sputò l'ultima parola come fosse veleno, ma non si lasciò sopraffare dalla rabbia che gli ribolliva dentro.

In un unico slancio Amelia gli avvolse le braccia attorno al collo, mentre la complicata acconciatura cedeva nel tintinnio dei fermagli caduti.

«Ti amo...» ripeté più volte straziata contro la sua spalla, bagnando la stoffa che copriva la pelle di pietra.

Zelgadis non poteva permettersi il lusso di crollare con lei, doveva lasciarla andare e temeva di non avere le forze necessarie. Serrò le mani attorno alle braccia esili della ragazza nel tentativo di spingerla via, ma lei gli rimase avvinghiata come edera al traliccio.

«Amelia, sai bene che non ha importanza, ma non posso che ringraziarti» le mani si mossero a carezzare le ciocche scure, con lentezza, per imprimere nella memoria il ricordo di quei fili di seta.

«Grazie di avermi amato.» le sussurrò posandole un bacio sulla fronte.

Stava lottando contro se stesso per trattenere molte, troppe emozioni. Quando incontrò di nuovo quei grandi occhi blu non riuscì a trattenere l'impulso vitale, quasi quanto l'atto di respirare, e lasciò che scivolasse via dai vincoli che gli aveva imposto.

Non fu un bacio, fu uno scontro di labbra e tormenti, violento come le onde che si abbattono sugli scogli durante una tempesta, il simbolo del loro completo annientamento.

Un gentile bussare alla porta spezzò l'incantesimo ed entrambi si voltarono nella direzione di quel rumore molesto. Amelia provò a ritrovare un po' di contengo, aggiustò le pieghe del vestito, asciugò le lacrime come meglio poteva ma senza allontanarsi da lui, quasi avesse paura che le sfuggisse.

A lei non importava sapere chi ci fosse al di là della soglia, ma voleva che andasse via.

Zelgadis, invece, aveva approfittato di quel momento di distrazione per allontanarla. Le diede un ultimo sguardo, un'ultima carezza sul volto raffreddato dalle lacrime, poi le voltò le spalle diretto verso la porta.

Un urlo prolungato, un suono atavico e disperato, si levò dalla principessa che, caduta sulle ginocchia, stringeva e tirava i capelli fino a strapparli.

Gourry irruppe nella stanza «Zelgadis, che hai combinato?» chiese istintivamente dopo una breve occhiata.

«Un disastro.» fu la laconica risposta.

•••

Le fiamme del caminetto danzavano leggiadre sui ceppi, diffondendo un lieve chiarore nell'oscurità della stanza. Zelgadis sedeva su una poltroncina accanto al fuoco, ma il gelo che gli aveva fermato il cuore era impossibile da sciogliere. Si passò una mano tra le ciocche color malva e sospirò.

La maledizione che gli era stata inflitta non aveva modificato solo il suo aspetto, ma anche la sua essenza. Aveva acquisito strabilianti vantaggi, dalla pelle resistente come roccia alla vista acuta di un falco, ma aveva anche perso molto. Avrebbe voluto versare lacrime vere, ma la verità era che non poteva. Non era disperato, era anestetizzato. Immobile nel suo dolore, incapace di esprimerlo se non in gelide parole prive di profondità.

Sospirò ancora. Meglio così...

Non avrebbe sopportato il peso della vulnerabilità di fronte ad un rifiuto così netto. Non c'erano nervi scoperti da recidere, né compassione che lo rendesse ancora più patetico.

Toc. Toc. Toc.

Tre poderosi colpi alla porta lo avvertirono della presenza di qualcuno. Non si scompose. Se anche fosse entrato un troll brandendo una mazza chiodata lo avrebbe lasciato fare.

«Greywords» una voce rauca, cavernosa, lo chiamò, ma lui non aveva alcuna voglia di rispondere. Chiunque fosse avrebbe dovuto aspettare almeno fino all'alba, lui non aveva intenzione di lasciare il castello quella notte come un criminale o, peggio, come un giocattolo rotto da buttar via prima che la bambina se ne accorga.

La porta, però, nonostante fosse chiusa a chiave, venne scardinata senza troppe cerimonie. L'energumeno al di là di essa la trattenne per la maniglia prima che cadesse, come fosse un foglio di carta, appoggiandola alla parete interna della stanza: si trattava di un compito che richiedeva la massima riservatezza.

Zelgadis, le gambe accavallate e il viso mollemente poggiato sul dorso della mano destra, diede una rapida occhiata all'ospite inatteso con la stessa noncuranza con cui avrebbe osservato uno scarafaggio. L'avrebbe riconosciuto anche in mezzo ad una folla, se non altro per la puzza e il portamento da scimmione: Davin Gulgran, galoppino del Comandante della guardia reale.

Occhi da topo, piccoli e scuri brillavano di luce sinistra, appena coperti da una folta massa di capelli neri e lisci, unti da far ribrezzo, mentre una cicatrice diagonale attraversava il viso, passando per la bocca in una smorfia abominevole.

L'armatura di ferro e cuoio non scintillava come le altre, era ruvida e opaca, le ammaccature ne testimoniavano l'usura e i numerosi colpi presi; una spada di grandi dimensioni pendeva sul fianco graffiando contro il pavimento, ma lui non sembrava curarsene. Probabilmente non era di una spada affilata che aveva bisogno per portare a termine i suoi incarichi. Sporchi incarichi.

«Gulgran, vorrei dire che è un piacere vederti, ma il tuo aroma floreale è così intenso...» lasciò cadere la frase. L'uomo aggrottò le sopracciglia, disorientato.

«Ah, non ti sforzare.» alzò gli occhi al cielo lasciando andare la testa all'indietro sulla poltrona.

«Greywords» ripeté Gulgran con lo stesso tono da orco «cammina, senza fare storie» si fece da parte indicando con il braccio il vano della porta.

Zelgadis si alzò con gesti misurati, aveva perso la voglia di scherzare e il suo sguardo si fece serio. Avrebbe lasciato davvero Saillune, ma non avrebbe saputo dire se con le proprie gambe.

I corridoi del castello erano ampi e illuminati dalla luna. I pavimenti erano costituiti da lastroni di pietra bianca, intervallati da marmi su cui era inciso lo stemma della casata reale, unito a cerchi anti-demone, che al suo passaggio si illuminavano di una fioca luce azzurrina.

Non sapeva dove stava andando ma, data la presenza di quel malfattore, cominciava ad intuire il perché. Il cortile interno? Il boschetto di faggi? Oppure nei sotterranei? Dove si sarebbero sbarazzati di lui?

Avevano raggiunto un'ala del castello che non aveva mai esplorato. Si accorse del cambiamento perché centinaia di luci si levarono dai lastroni che componevano il pavimento su cui si trovava, rilasciando una scarica che si diffuse violenta dai piedi alla ginocchia. Avrebbe voluto gridare per il dolore, ma perdere anche la dignità era fuori discussione.

Gulgran si voltò indietro a guardarlo, con la torcia ancora in mano a rischiarare la via.

«Incantesimi contro i demoni come te.» ghignò maligno «Ma tu lo sai, vero?»

«Ora basta,» disse «dimmi dove stiamo andando» strinse gli occhi in due fessure.

«Andando? Siamo arrivati. Io ho finito.» fu la risposta seccata, poi girò i tacchi abbandonandolo lì.

Zelgadis rimase immobile, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e l'indice ancora alzato mentre la schiena di Gulgran spariva dietro l'angolo.

Troppo distratto dal dolore agli arti inferiori non si era accorto di trovarsi di fronte ad una massiccia porta di legno scuro, su cui erano dipinti molti altri incantesimi protettivi, che si intrecciavano in linee bianche e dorate coprendola quasi del tutto.

Perfetto. Cosa faccio? Busso rischiando le dita o attendo un segno celeste?

Era sul punto di tornare indietro, ma il peso di una grossa mano sulla spalla lo fece desistere.

Due enormi baffoni scuri fu la prima cosa che vide, mentre un nome si materializzò nella sua mente: Philionel El di Saillune.

Come la figlia, anche il re aveva perso il sorriso genuino, mentre la speranza che un tempo albergava in quegli occhi scuri aveva lasciato il posto ad un'opprimente preoccupazione.

Aprì la porta senza dire una parola e lo spinse dentro gentilmente, richiudendola dietro di sé. La sala, in cui ipotizzava di trovarsi, doveva essere priva di finestre perché il buio non era rischiarato neppure dalla luce lunare, ma non ebbe troppo tempo per chiedersi il perché: Philionel schioccò le dita e due lunghe serie di torce iniziarono ad illuminarsi, veloci, una dietro l'altra, mettendo in mostra quello che sembrava essere l'ennesimo corridoio.

«Vieni con me» disse il re con tono rassicurante, ma a Zelgadis quella situazione piaceva sempre meno. Tuttavia, non si trovava nella posizione di poter rifiutare, perciò seguì Philionel... e capì.

Su entrambe le pareti si susseguivano quadri raffiguranti uomini e donne a grandezza naturale, sotto ad ognuno di essi c'era una targa d'oro incisa a caratteri scuri.

«Zelgadis» richiamò la sua attenzione «sai dove ci troviamo?»

«Credo di sì...» rispose incerto, non riuscendo a staccare gli occhi dalla prima massiccia cornice dorata.

«Questa, figliolo, è la Corte degli Antenati. Un luogo sacro per questo regno, in cui solo i re e le regine che hanno agito nel nome della giustizia e in difesa del proprio popolo hanno il diritto di stare.» spalancò le braccia con il petto gonfio di orgoglio.

«Philionel, ho già parlato con Amelia e...»

«Figliolo, lasciami finire.» lo interruppe con aria grave, tornando a camminare.

«Lui è Bartholomaeus IV» si fermò di fronte ad un ritratto di un uomo dai lunghi capelli scuri. Le spesse sopracciglia coprivano quasi del tutto gli occhi e la lunga barba giungeva fino a metà busto, tenuta insieme da un nastrino dorato che alle luci delle torce sembrò brillare come fosse vero.

«Era re quando Saillune venne distrutta dai demoni, difese fino all'ultimo respiro i suoi sudditi. Suo figlio» indicò il quadro accanto «Re Gerion II, la ricostruì così come oggi noi la vediamo.»

Proseguirono oltre e per molti metri non dissero nulla, finché non giunsero all'ultimo quadro.

La cornice era di foggia meno antica, più sottile, costituita da un unico blocco in cui vi erano intagliate rose e foglioline in modo così minuzioso da sembrare vere.

All'interno vi era raffigurata una donna: una cascata di riccioli castani scendeva su di una spalla, il ricco abito di rosso tessuto traslucido avvolgeva la figura con eleganza. Un sorriso spavaldo le incurvava la bocca, diverso dai volti seriosi che aveva visto fino a quel momento raffigurati, mentre gli occhi, grandi e blu come l'oceano, sfidavano l'osservatore.

«Elismarie III di Remington, duchessa di Kalmaart. Mia moglie.» pronunciò in un soffio angosciato le ultime due parole. «Venne brutalmente uccisa, mentre tentava di salvare la vita alla nostra primogenita, Gracia.»

«Gracia?» la sorpresa aveva colpito Zelgadis in pieno petto con la forza di un calcio «Credevo che Amelia fosse...»

«E lo è, al momento.» il tono triste zittì il ragazzo. «Amelia è l'erede al trono di Saillune e...» riprese poi in tono accorato il re.

«E io sono una chimera.» lo interruppe bruscamente «Lo so, Philionel. E non intendo esservi d'intralcio, quindi se è ciò che vuoi lascerò il regno... ma non subito.» era determinato a far valere almeno le proprie ragioni «Ho bisogno di qualche tempo per organizzare il viaggio, per trovare un obiettivo e una meta. Dopo di che me ne andrò per sempre. Amelia non sentirà più parlare di Zelgadis Greywords, è una promessa.»

Dolore e fatica. Con quelle parole aveva siglato la propria condanna a morte senza battere ciglio, come se la questione non lo riguardasse.

Dolore e angoscia. Il senso di vuoto, da quel momento, come unico compagno di vita.

Il volto del re, nel frattempo, aveva perso l'espressione accigliata, le spalle si erano sollevate e nel complesso sembrava che il grosso peso che gli curvava la schiena fosse scomparso del tutto.

«Ero sicuro che avresti capito.» sorrise, ma stava mentendo a se stesso. «Avrai uno studio tutto per te, tutti i libri del castello a tua disposizione, così come le informazioni provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono certo che troverai la tua strada ragazzo!» gli mise di nuovo la mano sulla spalla stringendo appena, con fare quasi paterno.

Una condanna all'esilio permanente sarebbe stata più giusta e sincera... ma forse Philionel non vuole davvero finire in questa stanza. Si disse Zelgadis, ricambiando il sorriso falso e stucchevole del re.


*Ho creato i personaggi di Davin Gulgran, Bartholomaeus IV, Gerion II, Elismarie III così come la casata Remington. Siete pregati di non prendere nulla senza pemesso
   
 
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