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Autore: Weightlessness    30/11/2014    3 recensioni
In questo breve testo si parla dell'ultima delle "ambages pulcerrimae" di Artù Pendragon: la sua morte. Poiché, secondo la leggenda, il mondo un giorno tornerà ad aver bisogno del suo coraggio e la sua rettitudine, allora il Re si sveglierà dal suo sonno perpetuo per riportare la giustizia laddove ce ne sarà bisogno.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una sottile e raggelante goccia di pioggia gli cadde sulla nuca scoperta facendolo rabbrividire. I capelli, per quanto fossero cresciuti ultimamente, non arrivavano al collo quando teneva la testa china e non proteggevano quella sottile parte di pelle della nuca che l'armatura lasciava indifesa. E quella maliziosa lacrima di nuvola era riuscita a colpirlo proprio nel tenero. Povera ingenua goccia, aveva voluto morire baciando la pelle candida del leggendario Re di Camelot. Ma, disgraziata, non aveva baciato la nuca di un re, aveva baciato un uomo sconfitto, umiliato, straziato. Un bacio di ghiaccio e di angoscia, con la potenza di un urlo e la violenza di uno schiaffo.
Quella innocua goccia gli era sembrata uno spillo perfettamente affilato che era penetrato nella sua carne riuscendo a strappargli un gemito. Digrignò i denti e smise di avanzare sul fogliame umido di rugiada. Una calda lacrima corse sulla guancia.
Quanto si sentiva debole! Una singola goccia di pioggia gli aveva dato il colpo di grazia. Il suo cuore era definitivamente infranto. Poteva sentire le crepe che si allargavano nel suo animo lacerandolo.
Se solo non avesse tenuto lo sguardo basso, se solo avesse tenuto il mento alto come aveva sempre fieramente fatto, il bacio fatale di quella goccia non lo avrebbe colpito ferendo definitivamente e per sempre il suo cuore provato.
Sentiva la debolezza scorrergli nelle vene, la rabbia martellargli le tempie, l'amarezza imbrattargli la lingua. Aveva appena la forza di stare in piedi e di respirare. Improvvisamente si chiese come avesse fatto a camminare fin lì, così lontano da Camelot, così lontano dalla battaglia. Si guardò intorno smarrito. Dove si trovava? Quale ombroso e infido bosco stava attraversando? Poteva solo ipotizzare che si trattasse di un luogo molto distante dal proprio regno e che ci fosse giunto spinto dal delirio e dall'angoscia.
Appoggiò la schiena ad un albero rugoso e chiuse gli occhi per riflettere. Nella sua mente dominava solo un terrificante colore. Strinse le palpebre per cercare di scacciarlo. Vedeva rosso, il rosso del fuoco, il rosso del sangue, il rosso dei mantelli dei cavalieri e il rosso del sole sull'orizzonte. Le immagini si fecero più chiare. E più dolorose. Ma con la poca forza che ancora permaneva nel suo prestante corpo si costrinse a ricordare. Ancora il rosso come unico colore dominante. Ricordava di essersi svegliato e di essersi trovato steso per terra, circondato da cadaveri e da spade abbandonate e insanguinate. Aveva riconosciuto, tra quei corpi senza spirito, i volti immobili dei propri amici; aveva visto i loro occhi rivolti fissi verso di lui in un ultimo disperato e ossequioso saluto, devoti al proprio re caduto al loro fianco, con lo sguardo fiero di uomini coraggiosi e fedeli fino all'ultimo. Cosa avrebbero pensato se avessero saputo che il loro amato Artù non era morto, ma solo ferito?
Non resistette e pianse. Pianse per i suoi cavalieri, per non aver fatto nulla per salvarli, ma soprattutto per non aver compiuto accanto a loro l'ultima grande impresa che è data ad ogni uomo di affrontare, e pianse per il mondo che era stato privato di tali uomini. Si asciugò le lacrime e giurò a sé stesso che quando fosse tornato avrebbe reso loro tutti gli onori che meritavano.
Ricordò poi di aver osservato a lungo le proprie mani coperte da sangue scuro. Ricordò anche che non era stato subito sicuro di sapere a chi appartenesse quel sangue. Poi i suoi occhi dalle iridi color lavanda avevano incontrato gli occhi vitrei del proprio giovane e troppo ambizioso figlio steso a terra morto e aveva provato un misto di terrore e di rimorso. Aveva capito che il sangue che si era trovato sulle proprie forti mani, pur essendo il sangue di Mordred, in realtà era pur sempre il proprio. 
Sospirò pensando a Mordred. Figlio ribelle, sconsiderato e superbo, sembrava avere tutto della madre e niente del padre. Tuttavia condividevano lo stesso sangue e non riusciva ad odiarlo pur avendo subito a causa sua tanti dispiaceri. In fondo si sentiva in colpa nei suoi confronti: Mordred era stato un errore fin da principio, ed era stato un errore in ogni istante della sua breve e sprecata esistenza.
Si batté un pugno sulla coscia. Mordred era stato il suo peggior fallimento e la sua più grande delusione. Quel ragazzo non aveva mai combinato nulla di buono nella sua vita e non era stato altro che un peso. Fino all'ultimo Mordred aveva lasciato le cose a metà. "Ah, se solo tu mi avessi ucciso, Mordred! Non sei riuscito a completare nemmeno quello!" ringhiò Artù tra i denti. Sarebbe stato meglio essere ucciso invece che ferito soltanto, almeno sarebbe morto gloriosamente insieme ai suoi uomini conservando per sempre i valori di onore e dignità ai quali era tanto attaccato e il suo nome sarebbe risuonato in tutto il regno accompagnato dal rispetto più profondo. Ma cosa avrebbe pensato il popolo quando, durante la raccolta dei corpi dei caduti, il corpo del re non fosse stato ritrovato? Le malelingue avrebbero sicuramente approfittato per gettare fango sul suo nome e spargere la voce che in realtà il re fosse fuggito. Ma l'aspetto peggiore era il fatto che quella fosse la verità.
Ma dopo il ricordo Mordred, per quanto la sua mente si sforzasse, non gli sovvenne più nulla. Il buio più totale, la nebbia più fitta tenevano celati gli avvenimenti che avevano preceduto quella sua folle fuga senza meta.
"Oh Artù Pendragon, quale misero e sciagurato destino è il tuo!", gridò la sua coscienza. Mai avrebbe pensato che un giorno si sarebbe ritrovato a vagare da solo per una collina sconosciuta, privato di tutto ciò per cui aveva sempre lottato: la moglie, il regno, gli amici, la rispettabilità. Infreddolito e con una ferita ancora aperta e sanguinante da cui per giunta non sentiva neppure una fitta di dolore. Forse perché la sofferenza atroce della sua anima sovrastava quella fisica.
Immerse le dita tra i capelli scompigliati e fu orribilmente tentato di strapparsi ogni singolo capello ad uno ad uno.
Improvvisamente udì un frusciare di foglie e il suono rotto e acuto di alcuni rametti spezzati. La sua mano destra abbandonò i capelli e corse all'elsa della spada, senza tuttavia trovar nulla da impugnare. La sua spada! Dov'era Excalibur, la leale compagna di avventure? Non v'era neppure il magico fodero. Anche lei, dunque, l'aveva abbandonato o forse era stato lui ad abbandonare lei. Se solo avesse ricordato!
Sospirò. Non aveva nulla per cui difendersi, nemmeno un briciolo di forza fisica. Nulla, nemmeno per uccidersi nel caso che l'uomo che gli veniva incontro fosse stato un nemico. Sarebbe stata l'umiliazione finale e decisiva essere catturato.
Quanto sarebbe stato meglio morire, quanto lo desiderava! Se si fosse trattato quindi di un bandito malintenzionato, sarebbe stata l'ipotesi migliore.
Attese in silenzio ed immobile chiunque si stesse avvicinando. Le orecchie erano drizzate, pronte a catturare ogni minima vibrazione dell'aria, i suoi occhi scivolavano rapidi nelle orbite ogni qualvolta gli pareva di scorgere del movimento intorno a sé con la coda dell'occhio. Il suo debole cuore era certo di avvertire una presenza, una presenza nota, eppure i suoi sensi non riuscivano a coglierla.
-Merlino?- mormorò in qualche modo speranzoso. Nulla. Tutto quieto e silente.
-Se sei tu, Merlino, ti ordino di palesarti- farfugliò con le labbra tremanti per l'impazienza. Gli suonò strana quella frase, poiché si rese improvvisamente conto che non gli era mai capitato in tutti quegli anni di dare degli ordini a quel buon mago testardo e giudizioso. Merlino era stato più padre di quanto non fosse stato Uther e Artù gli aveva sempre portato rispetto e riguardo filiali, anche quando il vecchio lo rimproverava apertamente come fosse un bambino. Ma in quella condizione, il miraggio che si trattasse di Merlino aveva prevalso e la voce di Artù era risuonata imperiosa nella foschia del bosco, ma la presenza non l'aveva accontentato.
Cominciò a credere che quello fosse uno scherzo della sua fantasia, che d'altronde era sempre stata piuttosto fervida fin dall'infanzia, anche grazie a Merlino.
"Perché mi hai lasciato, Merlino, amico mio? Dove sei ora? Morto, privo di magia, prigioniero o uomo libero, felice, realizzato?". Provò un senso di tremenda desolazione al pensiero di non conoscere la sorte di colui sul quale aveva sempre maggiormente confidato. In verità, pur essendosene andato da molti anni, Artù aveva sempre avuto l'impressione che Merlino gli fosse sempre comunque accanto.
Improvvisamente, quando ormai il re si era abituato al tenebroso silenzio che era tornato a circondarlo, da dietro un albero, calpestando con passo leggero alcuni ramoscelli, apparvero quattro streghe, vestite di nero e interamente coperte da un leggerissimo velo azzurro, in modo da non mostrare chiaramente i tratti del volto. Artù trattenne il respiro e sgranò gli occhi. Per un momento fu tremendamente spaventato -dopotutto era comprensibile che avesse sempre covato una certa diffidenza nei confronti delle entitá magiche sconosciute- ma d'un tratto gli sovvenne uno dei racconti mitologici che Merlino gli leggeva da bambino e si convinse che quelle tre figure non fossero malvagie. Il suo cuore smise gradualmente di pulsare per il timore.
Le tre donne gli si posero davanti, l'una accanto all'altra. Gli occhi gialli brillavano sotto il velo. Ad Artù sembrò che quegli occhi luminosi e senza contorni nitidi stessero scavando nel suo spirito agitato.
-Principe!-
-Comandante!-
-Cavaliere!-
-Re!-
Esordirono in sequenza. La prima gli puntò l'indice contro.
-Smetti di rammaricarti, conosciamo l'agonia che affligge il tuo spirito in questo momento, ma non devi temere.- ad Artù parve di scorgere un sorriso attraverso la stoffa sottile.
-Il tuo destino non è così misero come credi tu.- continuò un'altra.
-Non è qui che finisce il tuo viaggio.-
-Il tuo viaggio sarà eterno.- Mormorarono insieme in una voce sola. 
-Ma per questa vita il tuo intervento è stato sufficiente.-
-Quando Albion avrà bisogno di te, tu dovrai ritornare, ma fino ad allora potrai riposare.-
-Sei il re eterno, il vero Re.-
-Cuore di Orso! Porgi a noi la tua mano e lascia il tuo passato alle spalle.-
-Non preoccuparti per ciò che capiterà al tuo popolo e al tuo regno, grazie a te e al tuo sacrificio prospereranno per molti secoli.-
Una delle streghe gli si fece vicino camminando come se fluttuasse e Artù poté sentire il freddo che emanava il suo corpo. Malgrado la vicinanza, il velo manteneva celati i tratti del viso e Artù riuscì soltanto a notare il biancore marmoreo della pelle. -Smetti di pensare alla vita che hai appena trascorso, agli errori e ai rimpianti. Il tuo cuore dovrà essere puro perché tu possa raggiungere il posto in cui stai per andare. Oh re, sento il tuo tormento: non devi temere per Excalibur, la tua spada l'ha presa Lancillotto.-
Artù emise un ringhio. -Excalibur non gli sarà mai fedele!- Già il suo cuore veniva invaso dall'ira, quando la strega sollevò una mano davanti al suo volto.
-No, certo, grande Re. Gli abbiamo infatti ordinato di buttarla nel lago di Avalon, dove la Dama del Lago la conserverà fino alla tua prossima venuta.-
-Vieni con noi ora, Principe dei principi, è giunto il tempo di andare.-
Artù, rinsavito dalle rassicurazioni di quelle benevole apparizioni e aspirando al promesso riposo, mosse un passo verso di loro. Sentì una strana forza (magia, probabilmente) rinvigorirgli gli arti e tutto ciò che l'aveva tormentato svanì come se si fosse trattato di un sogno. Non si preoccupò più oltre dei cavalieri, della spada, di Camelot e di Merlino. Qualcosa dentro di lui, come una lanterna che disperde il buio, gli assicurava che tutto quello che egli aveva lasciato, sarebbe sopravvissuto. 
Si affidò a quelle donne che lo condussero sulle sponde di un lago.
-Qui si chiude un anello della tua esistenza.- Cantarono le streghe mentre lo facevano salire su una barca. Raggiunta un'isola solitaria nel mezzo del lago, gli ordinarono di scendere e di raggiungere la lapide di marmo posta sotto un albero di melo che recava il suo nome; quindi adagiarsi ai piedi di essa e addormentarsi.
Artù eseguì tali disposizioni senza batter ciglio. Camminò sull'erba umida di pioggia, con gli occhi bassi per guardare le gocce di sangue che dalla ferita cadevano ai suoi piedi. Felice di essere vicino ad un meritato riposo e speranzoso di un prossimo risveglio, il Re si coricò ai piedi della gelida lapide e sotto le braccia robuste del melo. Chiuse gli occhi e subito i demoni della sua vita si dissolsero nel nulla di un sonno profondo e ristoratore.
Un giorno, quando Albione avrà bisogno, Artù ritornerà e riporterà pace e giustizia dove la malvagità e la superbia umana avranno infettato il mondo.
  
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