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Anche se il grosso della
tempesta si era placato, le nuvole basse e il nevischio che cadeva senza sosta
rendevano il sorvolo della cordigliera del Volkof
alquanto problematica, anche se era nulla al pensiero di dover procedere per un
tratto a piedi in quell’inferno gelato.
Quel
piccolo aereo da esplorazione era stato ricaricato giusto il necessario per arrivare
nei pressi del cratere dove doveva essere precipitato l’elicottero, ma per il
restante tragitto sarebbe stato necessario che i cinque soldati si affidassero solo
alle proprie gambe, senza contare che date le condizioni il lancio coi
paracadute avrebbe potuto portarli ovunque.
Ujal, il
tiratore scelto della squadra, si trovava a proprio agio in un ambiente simile;
era nato e cresciuto in Siberia, al confine con la Mongolia, come
testimoniavano il viso rotondo, gli occhi a mandorla e quei baffetti alla
cinese, e era capace di rimanere un giorno intero mezzo sommerso nella neve
senza battere ciglio. Maria e Nikita, due fratelli, provenivano invece dalla ex
repubblica autonoma della Cecenia, e fin dalla nascita non avevano mai
conosciuto altro che guerra; lei, amazzone alta e slanciata con capelli rosso
fuoco, avrebbe potuto arrivare alle spalle di un presidente e sgozzarlo senza essere
vista. Lui, possente di fisico e dal mento squadrato, aveva un passato come
pilota di carri, quindi conosceva bene i rischi e le difficoltà dell’operare in
prima linea, e trattava fucili d’assalto e altre armi come estensioni del
proprio corpo.
Anche
Dimitri non se la cavava male con le armi, e lo stesso si poteva dire di Anya, che
essendo l’unica maga della squadra aveva come compito principale il provvedere
al supporto dei suoi compagni, oltre a dar manforte in caso di necessità con i
suoi potenti incantesimi offensivi.
«Allora,
che hai per me?» domandò Anya a Nikita, che faceva anche da armiere della
squadra.
«Ti
presento il nuovo bastone magico RK-159 Lyprof»
rispose lui prendendo dalla sua custodia una lunga asta metallica con una punta
d’acciaio a una estremità e due denti di uguale grandezza all’altra, che
racchiudevano una sfera blu, levigata e luminosa. «Il primo bastone al krylium della storia. Cinquecento rune di puro potere
magico; titanio rinforzato e lamina d’argento; pesa un chilo e trecento grammi.
Manico allungabile, sincronizzazione di fase, barriera difensiva di emergenza strumento-operatore,
autonomia stimata dodici ore, e altre cosette del genere.»
Ad Anya
bastò afferrarlo per sentire il proprio core vibrare di energia, mentre la
sfera blu scintillava per un attimo con ulteriore forza.
«È
magnifico.»
«Dieci
minuti all’obiettivo!» avvisò Dimitri affacciandosi dalla cabina. «I signori
passeggeri sono pregati di prepararsi.»
Tutti i
membri della squadra si alzarono, controllando un’ultima volta i dispositivi di
caduta delle loro tute da combattimento, piccoli gioielli leggeri e aderenti ma
estremamente resistenti, dotate inoltre di un gran numero di funzioni per ogni
possibile evenienza.
Anya
raggiunse il compagno, trovandolo intento a impostare il pilota automatico per
completare l’ultima parte del tragitto.
«Non ho
ancora capito perché dobbiamo lanciarci da così lontano.» mugugnò Dimitri.
«Pare
che un attimo prima di perdere i contatti, l’Hind03 abbia segnalato una qualche
anomalia nella zona in cui poi sarebbe precipitato. Al comando non vogliono
correre rischi. Ci lanceremo a tre miglia dal punto dell’impatto e proseguiremo
a piedi.»
«Tre
miglia di marcia su una montagna con questo schifo di tempo? Hanno davvero
molta fiducia in noi.»
«Non
sarà più difficile di quella volta in Mongolia, dico bene?» gli fece
l’occhiolino lei. «O forse stai diventando vecchio?»
«Dici
così perché sai che non posso ribattere, vero?» rispose lui allo stesso modo.
«D’accordo, facciamo questa cosa e andiamocene a folleggiare a Kyrador. Mi
serviva proprio qualche giorno di licenza.»
Come
entrambi fecero ritorno in coda, Ujal azionò
l’apertura d’emergenza e il portello, già sottoposto a una notevole pressione,
si spalancò, sbattendo violentemente contro la superficie esterna dell’aereo.
«Bene
angioletti, si vola!» dichiarò Dimitri lanciandosi per primo, seguito a ruota
da tutti gli altri.
I razzi
deceleranti si azionarono subito, contrastando il forte vento che minacciava di
scagliare i cinque contro qualche parete rocciosa, e in meno di un minuto Anya
e la sua squadra erano già a terra, nel cuore di una stretta vallata incuneata
tra le vette.
Il
freddo era a dir poco pungente, ma nulla di impossibile per le tute termine ad
alto isolamento e i caschi protettivi. Anche le armi erano impostate e pensate
per resistere alle basse temperature, anche se in verità nessuno del gruppo
riusciva a comprendere bene il motivo per cui era stato necessario portarsi
dietro un tale armamento per quella che, teoricamente, doveva essere solo una
missione di recupero e salvataggio.
Ma non
c’era tempo per farsi domande, né era parte del loro lavoro; erano soldati, e dovevano
obbedire.
Dimitri
controllò le coordinate sul computer da polso. Il segnale emesso dal
contenitore della batteria non era molto affidabile, come precisato dagli alti
comandi, e a meno di non essergli molto vicino la lettura poteva risultare
molto vaga e approssimativa; diversamente, la radio-boa era progettata per
essere assai più precisa.
«Siamo a
tre miglia e mezzo dall’obiettivo, direzione sud-est.»
«D’accordo,
mettiamoci in movimento» ordinò Anya. «Voglio andarmene da qui prima di notte.»
La neve
alta rendeva difficile camminare, ma anche a questo serviva l’addestramento,
inoltre le temperature gelide avevano in parte congelato lo strato più esterno.
Alla
neve per fortuna si sostituì ben presto la superficie dura di un ghiacciaio,
sul quale le suole a presa energetica svolgevano egregiamente il loro dovere;
ovunque era un susseguirsi di crepacci, precipizi e falsi sentieri, ma nulla di
più proibitivo di quanto i Medvedi, gli Orsi,
come amavano soprannominarsi, non avessero già affrontato in altre missioni.
A un
tratto la neve smise di cadere, un timido sole provò addirittura a farsi vedere
oltre la spessa e bassa coltre di nuvole, rendendo meno difficoltosa la salita.
Poi,
d’improvviso, il terreno prese a farsi più ripido, quasi verticale,
costringendo i membri della squadra a ricorrere all’equipaggiamento da
arrampicata delle tute: chiodi e uncini che spuntando dalle suole delle scarpe
e dai palmi dei guanti, garantivano un sicuro appiglio.
Anya e
gli altri dovettero scalare per parecchie decine di metri, dal momento che il
rilevamento della zona non segnalava valichi o altri punti più facilmente
attraversabili, finché raggiunsero la cima di quello che, a dare retta alla
mappa, doveva essere l’ultimo ostacolo prima del luogo dello schianto. Nei loro
occhi comparve la più assoluta meraviglia: dinnanzi a loro era comparsa un’unica,
immensa distesa pianeggiante, cinta su tutti i lati da alte mura di roccia,
ripide da una parte e leggermente più dolci dall’altra, e ovunque si volgesse
lo sguardo non vi era una sola traccia di avvallamento.
Come
aveva detto il generale, si trattava quasi sicuramente di un lago di origine
vulcanica, antico quanto il pianeta stesso, mutatosi ormai in una enorme lastra
di ghiaccio, tanto vecchia che vari strati di neve con il tempo vi avevano
attecchito, creando un candido lenzuolo.
Dimitri,
constatato che il bersaglio era davanti a loro, fece per muovere un passo e
scendere nel cratere, ma Anya lo fermò.
«Aspetta.
C’è qualcosa che non va.»
«Per
esempio?»
Anya
posò il fucile e recuperò il bastone, raccogliendosi come in preghiera e
salmodiando a bassa voce alcune frasi che i suoi compagni non riuscirono a capire.
Poi,
come riaprì gli occhi, una specie di onda luminosa si levò verso l’alto, svelando
al suo passaggio una sorta di invisibile muro iridescente che alzandosi per
centinaia di metri sembrava racchiudere l’intero cratere in una gabbia.
«Una
barriera magica!?» esclamò Dimitri. «Ma… è artificiale?»
«Non
credo» ipotizzò Ujal. «Nessuna tecnologia o
incantesimo sarebbe mai capace di generare una barriera di queste dimensioni. Forse
è un fenomeno naturale.»
«Di
certo ora sappiamo cosa ha fatto precipitare l’elicottero.» disse Nikita.
Un nuovo
incantesimo di Anya fece comparire un varco nel muro, cosicché lei ed i suoi
compagni furono in grado di attraversare lo scudo senza danneggiare i propri
dispositivi magici.
«Vedi
l’utilità di avere un mago in squadra?» scherzò Maria.
«Forza,
sbrighiamoci.» ordinò il Capitano
Sfortunatamente,
una volta chiuso il passaggio, anche il contatto radio con il comando di Volgorad s’interruppe, ma grazie alla trasmissione
multifrequenza del segnale emesso dalla boa la squadra fu in grado di non
perdere l’orientamento, incamminandosi a passo sicuro in quella desolata
pianura di neve e di ghiaccio spazzata dal vento.
Avevano
fatto solo pochi chilometri quando, inspiegabilmente, un nuovo segnale comparve
sul radar di Dimitri, più vicino rispetto a quelli della radio-boa e del
contenitore.
«Sto
ricevendo qualcosa. Si direbbe un segnale di soccorso, circa mezzo miglio a
sud.»
«Viene
da qualche superstite dell’incidente?»
«Non
direi. Non sembra generato da un segnalatore portatile.»
Occorse
un’analisi più approfondita per poterne interpretare meglio l’origine, ma la
risposta finale fu a tal punto sconvolgente che Dimitri dovette deglutire due
volte prima di trovare la forza per enunciarla.
«Si
direbbe una unità abitativa.»
Tutti si
guardarono l’un l’altro, cercando di scorgere i rispettivi occhi oltre le
visiere semitrasparenti dei caschi.
In altri
tempi Anya non avrebbe esitato un solo istante; da soldato sapeva che gli
ordini e la missione venivano prima di tutto. Eppure, non ebbe alcuna
esitazione nel prendere la sua decisione.
«Raggiungiamo
l’unità.»
L’affermazione
provocò un comprensibile stupore tra i membri della squadra, ma nessuno di loro
si sarebbe mai sognato di dubitare del giudizio del proprio Caposquadra,
soprattutto se la persona in questione era un soldato affidabile come Anya.
«Sissignore.»
obbedirono in coro
Nessuno nutriva speranze di
poter trovare qualcuno ancora vivo.
A
prescindere dal fatto che i generatori delle unità abitative avevano energia
sufficiente per appena un paio d’anni, in un posto così estremo e inospitale
era quasi impossibile che i superstiti dell’atterraggio, semmai ve ne fossero
stati, potessero essere sopravvissuti così a lungo.
Le
lastre metalliche, piegate e danneggiate dall’urto ma ancora fondamentalmente
integre, erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, e lungo uno dei
fianchi era ancora parzialmente visibile il numero dell’unità.
«Y-2801.»
disse mestamente Maria.
Il
portello d’emergenza sul tetto era bloccato e piegato a tal punto che Nikita,
una volta salito, dovette metterci non poca forza per riuscire ad aprirlo.
Un forte
odore di morte, che il freddo non riusciva malgrado tutto a coprire, giunse
dall’interno, e calatosi dentro il giovane soldato si ritrovò di fronte uno
scenario terrificante.
Il corpo
mummificato dal freddo di una donna giaceva raggomitolato ai piedi di due
capsule, una delle quali ribaltata, contenenti i resti anch’essi segnati
inesorabilmente dal freddo di due creature, bambini sicuramente; indossavano
ancora la tuta spaziale con le insegne russe cucite sul petto, e sulle
targhette dei due bambini era ancora possibile leggerne i nomi: Alexei e Ludvika Torkov.
Probabilmente
i fermi di sicurezza che sarebbero dovuti saltare via permettendo a quei due
poveretti di uscire all’esterno erano rimasti al loro posto, e nel momento in
cui il rifornimento di energia ai sistemi di alimentazione era venuto meno quelle
che dovevano essere delle culle destinate a dormire il più profondo dei sonni
si erano tramutate in bare; difficile dire se avessero avuto o meno il tempo di
svegliarsi prima di venire uccisi dalla mancanza di ossigeno, ma le mani
orrendamente ferite del corpo che come in un abbraccio sembrava volerli
stringere a sé indicavano che quella donna aveva fatto tutto il possibile per
tentare, senza riuscirci di liberarli.
Le altre
capsule, tutte aperte, erano sparse un po’ dappertutto, scagliate via dai loro
alloggiamenti dalla potenza dell’urto che solo in parte i propulsori
direzionali d’emergenza erano riusciti ad attutire, e a prima vista non vi era
traccia di altri corpi.
«Tre
corpi» disse una volta tornato all’esterno. «Una donna e due bambini. Loro sono
morti soffocati, la donna probabilmente di freddo.»
«E gli
altri corpi?» chiese Dimitri.
«Nessuna
traccia. Avranno cercato di mettersi in salvo avventurandosi in questo inferno,
e il cielo sa fin dove siano riusciti ad arrivare prima di finire congelati.»
Anya
sapeva che nessuno si sarebbe mai scomodato a dare una degna sepoltura a quei
poveri sventurati, soprattutto in un luogo remoto e lontano da tutto come
quello; pochissimi nuclei tra quelli precipitati e scoperti senza alcun superstite
erano stati recuperati, e per come si stavano mettendo le cose sarebbero
probabilmente passati degli anni prima che ciò potesse diventare possibile.
Così,
con il silenzioso consenso dei suoi compagni, il Capitano volle dare a quei tre
sventurati, e con essi anche ai loro compagni che probabilmente giacevano da
qualche parte sepolti dai ghiacci eterni, un degno riposo.
La
struttura era costruita in materiale ignifugo, quindi Anya, recuperata la
targhetta con numero del nucleo dal portello principale, rivolse l’incantesimo di
fuoco sul ghiaccio sottostante, e come questo si fu mutato in acqua la
struttura iniziò rapidamente ad affondare, scomparendo nel giro di pochi
secondi mentre i cinque soldati vi rivolgevano, in silenzio, il saluto.
«Avanti,
proseguiamo.» disse con un filo di voce Anya poco dopo che il nucleo si fu
completamente inabissato.
Mestamente e in silenzio la
squadra si rimise in marcia, raggiungendo in poche ore l’Hind
precipitato.
Il mezzo
era completamente a pezzi, riverso su di un fianco, e quasi tutti i finestrini
erano saltati; mancavano anche alcune pale di entrambi i rotori, altre invece
erano piegate e accartocciate, segno che l’urto era stato incredibilmente
violento, eppure a prima vista non sembrava esservi traccia di danni esterni
che non fossero imputabili all’incidente.
Infine,
la zona tutto attorno all’elicottero era coperta da una sostanza gelatinosa di
colore giallastro, gommosa al contatto e molle nonostante il freddo.
«Gel da
impatto.» disse Ujal sfiorandone un grumo.
«Almeno
i sistemi di sicurezza si sono attivati» disse Maria. «Li ha salvati dallo
schianto.»
«Ma non
dal freddo.» replicò suo fratello con lo stesso tono.
Infatti,
buttato uno sguardo all’interno, apparve subito chiaro che anche in quel caso
non vi era nessun superstite; il gel permetteva di sopravvivere anche in caso
di incidenti particolarmente gravi, ma c’era comunque un limite ai danni che era
capace di assorbire. Molti degli occupati, inclusi i piloti, erano ancora
seduti sulle rispettive poltrone, uccisi dalle ferite e probabilmente morti
prima ancora di riprendere conoscenza; altri erano raggomitolati a terra in posizione
fetale, segno che avevano tentato fino all’ultimo di resistere al freddo.
E come
era prevedibile, del contenitore neanche l’ombra.
«Quattro
morti da impatto, sei assiderati, quattro dispersi» riferì Maria. «Avranno
tentato anche loro la sorte nella tormenta.»
«Quanto
dista l’altro segnale?»
«Due
miglia e mezzo, direzione sud-est.» rispose Dimitri.
«Sbrighiamoci
allora. Il tempo sta peggiorando.»
E
infatti, nel giro di pochi minuti, la tormenta tornò ad abbattersi con forza
nel cratere, sollevando nuvole (turbini) di neve con raffiche di vento che
soffiavano ad almeno ottanta chilometri orari, portando di colpo la temperatura
ad una trentina di gradi sotto zero.
Anche
per soldati addestrati e ben equipaggiati come loro fu difficile continuare a
procedere in un ambiente così proibitivo, ma non c’era assolutamente tempo per
riposare o aspettare che la tempesta si placasse; il supporto vitale in grado
di assicurare l’incolumità della batteria, ed il relativo segnalatore di
emergenza, avrebbero continuato a funzionare al massimo per altre sei ore,
passate le quali il freddo avrebbe sicuramente disintegrato i componenti più
delicati, rendendo la batteria di fatto inutilizzabile.
A un
certo punto la tempesta assunse una forza tale da rendere impossibile riuscire
a vedere anche solo a pochi metri di distanza, tramutando quella che doveva
essere una semplice operazione di recupero in una vera e propria odissea.
Ujal, che per
orientarsi nelle tormente aveva un istinto quasi animale, guidava il gruppo,
saggiando il terreno a ogni passo per sincerarsi che non vi fossero pericoli.
«Questa
tempesta non vuole saperne di placarsi!» urlò Anya per sovrastare il fischiare
del vento. «Quanto manca per raggiungere il segnale?»
«Non
riesco a capire!» urlò a sua volta Dimitri. «Dovremmo avercelo proprio
davanti!»
«Forse è
stato sepolto dalla neve!» ipotizzò Nikita.
Ma anche
un soldato ed un esploratore infallibile come Ujal
poteva incorrere in degli errori, soprattutto in un ambiente così ostile, e
improvvisamente il terreno franò sotto i suoi piedi, tramutandosi in un letale
scivolo che scompariva nella tormenta. Sarebbe di sicuro precipitato in qualche
crepaccio profondo decine di metri se non avesse piantato con forza i pugni al
suolo, arrestando immediatamente la caduta
«Cos’è,
ti sei dimenticato come si cammina sulla neve?» domandò ironica Maria.
«Fai
meno la spiritosa e aiutami.»
Lei
allora gli porse la mano, mentre la tempesta, ancora una volta, pareva
acquietarsi, lasciando finalmente spazio ad un vero accenno di sole. Ujal per poco non cadde un’altra volta quando, nell’atto di
afferrare la mano di Maria, la vide allontanarsi repentina, alzandosi
lentamente in piedi e fissando dinnanzi a sé con aria come inebetita assieme a
tutti i suoi compagni.
«Molto
divertente, potevo rimanerci secco!»
imprecò il soldato riuscendo finalmente a tornare coi piedi per terra. «Ma si può sapere che vi prende?»
Anche
lui, allora, guardò verso il buco da cui era appena uscito, e anche nei suoi
occhi, nello spazio di un attimo, apparve la più assoluta meraviglia.
«Oh, mio
Dio.»