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Autore: Carlos Olivera    01/12/2014    0 recensioni
Storia partecipante al contest Fantasy a Volontà di _Roxanne
Anno 0
Uno dei "blocchi" contenenti i coloni dell'astronave Chelokev scompare nel nulla durante la fase di atterraggio sul pianeta Celestis assieme ai suoi 12 occupanti.
Anno 9
Un elicottero in volo da Eyban a Caldesia precipita nel cuore dei Monti Volkof, nelle gelide montagne eybaniane. Una squadra speciale al comando del capitano Anya Polikovka viene inviata sul posto per recuperarne il preziosissimo carico, da cui dipende il destino di tutti gli umani di Celestis, e salvare gli eventuali superstiti.
In quell'inospitale angolo di inferno bianco, il Capitano ed i suoi uomini scopriranno un segreto antico come l'universo, liberando dalla sua prigione un potere che travalica i limiti dello spazio e del tempo.
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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2

 

 

Anche se il grosso della tempesta si era placato, le nuvole basse e il nevischio che cadeva senza sosta rendevano il sorvolo della cordigliera del Volkof alquanto problematica, anche se era nulla al pensiero di dover procedere per un tratto a piedi in quell’inferno gelato.

Quel piccolo aereo da esplorazione era stato ricaricato giusto il necessario per arrivare nei pressi del cratere dove doveva essere precipitato l’elicottero, ma per il restante tragitto sarebbe stato necessario che i cinque soldati si affidassero solo alle proprie gambe, senza contare che date le condizioni il lancio coi paracadute avrebbe potuto portarli ovunque.

Ujal, il tiratore scelto della squadra, si trovava a proprio agio in un ambiente simile; era nato e cresciuto in Siberia, al confine con la Mongolia, come testimoniavano il viso rotondo, gli occhi a mandorla e quei baffetti alla cinese, e era capace di rimanere un giorno intero mezzo sommerso nella neve senza battere ciglio. Maria e Nikita, due fratelli, provenivano invece dalla ex repubblica autonoma della Cecenia, e fin dalla nascita non avevano mai conosciuto altro che guerra; lei, amazzone alta e slanciata con capelli rosso fuoco, avrebbe potuto arrivare alle spalle di un presidente e sgozzarlo senza essere vista. Lui, possente di fisico e dal mento squadrato, aveva un passato come pilota di carri, quindi conosceva bene i rischi e le difficoltà dell’operare in prima linea, e trattava fucili d’assalto e altre armi come estensioni del proprio corpo.

Anche Dimitri non se la cavava male con le armi, e lo stesso si poteva dire di Anya, che essendo l’unica maga della squadra aveva come compito principale il provvedere al supporto dei suoi compagni, oltre a dar manforte in caso di necessità con i suoi potenti incantesimi offensivi.

«Allora, che hai per me?» domandò Anya a Nikita, che faceva anche da armiere della squadra.

«Ti presento il nuovo bastone magico RK-159 Lyprof» rispose lui prendendo dalla sua custodia una lunga asta metallica con una punta d’acciaio a una estremità e due denti di uguale grandezza all’altra, che racchiudevano una sfera blu, levigata e luminosa. «Il primo bastone al krylium della storia. Cinquecento rune di puro potere magico; titanio rinforzato e lamina d’argento; pesa un chilo e trecento grammi. Manico allungabile, sincronizzazione di fase, barriera difensiva di emergenza strumento-operatore, autonomia stimata dodici ore, e altre cosette del genere.»

Ad Anya bastò afferrarlo per sentire il proprio core vibrare di energia, mentre la sfera blu scintillava per un attimo con ulteriore forza.

«È magnifico.»

«Dieci minuti all’obiettivo!» avvisò Dimitri affacciandosi dalla cabina. «I signori passeggeri sono pregati di prepararsi.»

Tutti i membri della squadra si alzarono, controllando un’ultima volta i dispositivi di caduta delle loro tute da combattimento, piccoli gioielli leggeri e aderenti ma estremamente resistenti, dotate inoltre di un gran numero di funzioni per ogni possibile evenienza.

Anya raggiunse il compagno, trovandolo intento a impostare il pilota automatico per completare l’ultima parte del tragitto.

«Non ho ancora capito perché dobbiamo lanciarci da così lontano.» mugugnò Dimitri.

«Pare che un attimo prima di perdere i contatti, l’Hind03 abbia segnalato una qualche anomalia nella zona in cui poi sarebbe precipitato. Al comando non vogliono correre rischi. Ci lanceremo a tre miglia dal punto dell’impatto e proseguiremo a piedi.»

«Tre miglia di marcia su una montagna con questo schifo di tempo? Hanno davvero molta fiducia in noi.»

«Non sarà più difficile di quella volta in Mongolia, dico bene?» gli fece l’occhiolino lei. «O forse stai diventando vecchio?»

«Dici così perché sai che non posso ribattere, vero?» rispose lui allo stesso modo. «D’accordo, facciamo questa cosa e andiamocene a folleggiare a Kyrador. Mi serviva proprio qualche giorno di licenza.»

Come entrambi fecero ritorno in coda, Ujal azionò l’apertura d’emergenza e il portello, già sottoposto a una notevole pressione, si spalancò, sbattendo violentemente contro la superficie esterna dell’aereo.

«Bene angioletti, si vola!» dichiarò Dimitri lanciandosi per primo, seguito a ruota da tutti gli altri.

I razzi deceleranti si azionarono subito, contrastando il forte vento che minacciava di scagliare i cinque contro qualche parete rocciosa, e in meno di un minuto Anya e la sua squadra erano già a terra, nel cuore di una stretta vallata incuneata tra le vette.

Il freddo era a dir poco pungente, ma nulla di impossibile per le tute termine ad alto isolamento e i caschi protettivi. Anche le armi erano impostate e pensate per resistere alle basse temperature, anche se in verità nessuno del gruppo riusciva a comprendere bene il motivo per cui era stato necessario portarsi dietro un tale armamento per quella che, teoricamente, doveva essere solo una missione di recupero e salvataggio.

Ma non c’era tempo per farsi domande, né era parte del loro lavoro; erano soldati, e dovevano obbedire.

Dimitri controllò le coordinate sul computer da polso. Il segnale emesso dal contenitore della batteria non era molto affidabile, come precisato dagli alti comandi, e a meno di non essergli molto vicino la lettura poteva risultare molto vaga e approssimativa; diversamente, la radio-boa era progettata per essere assai più precisa.

«Siamo a tre miglia e mezzo dall’obiettivo, direzione sud-est.»

«D’accordo, mettiamoci in movimento» ordinò Anya. «Voglio andarmene da qui prima di notte.»

La neve alta rendeva difficile camminare, ma anche a questo serviva l’addestramento, inoltre le temperature gelide avevano in parte congelato lo strato più esterno.

Alla neve per fortuna si sostituì ben presto la superficie dura di un ghiacciaio, sul quale le suole a presa energetica svolgevano egregiamente il loro dovere; ovunque era un susseguirsi di crepacci, precipizi e falsi sentieri, ma nulla di più proibitivo di quanto i Medvedi, gli Orsi, come amavano soprannominarsi, non avessero già affrontato in altre missioni.

A un tratto la neve smise di cadere, un timido sole provò addirittura a farsi vedere oltre la spessa e bassa coltre di nuvole, rendendo meno difficoltosa la salita.

Poi, d’improvviso, il terreno prese a farsi più ripido, quasi verticale, costringendo i membri della squadra a ricorrere all’equipaggiamento da arrampicata delle tute: chiodi e uncini che spuntando dalle suole delle scarpe e dai palmi dei guanti, garantivano un sicuro appiglio.

Anya e gli altri dovettero scalare per parecchie decine di metri, dal momento che il rilevamento della zona non segnalava valichi o altri punti più facilmente attraversabili, finché raggiunsero la cima di quello che, a dare retta alla mappa, doveva essere l’ultimo ostacolo prima del luogo dello schianto. Nei loro occhi comparve la più assoluta meraviglia: dinnanzi a loro era comparsa un’unica, immensa distesa pianeggiante, cinta su tutti i lati da alte mura di roccia, ripide da una parte e leggermente più dolci dall’altra, e ovunque si volgesse lo sguardo non vi era una sola traccia di avvallamento.

Come aveva detto il generale, si trattava quasi sicuramente di un lago di origine vulcanica, antico quanto il pianeta stesso, mutatosi ormai in una enorme lastra di ghiaccio, tanto vecchia che vari strati di neve con il tempo vi avevano attecchito, creando un candido lenzuolo.

Dimitri, constatato che il bersaglio era davanti a loro, fece per muovere un passo e scendere nel cratere, ma Anya lo fermò.

«Aspetta. C’è qualcosa che non va.»

«Per esempio?»

Anya posò il fucile e recuperò il bastone, raccogliendosi come in preghiera e salmodiando a bassa voce alcune frasi che i suoi compagni non riuscirono a capire.

Poi, come riaprì gli occhi, una specie di onda luminosa si levò verso l’alto, svelando al suo passaggio una sorta di invisibile muro iridescente che alzandosi per centinaia di metri sembrava racchiudere l’intero cratere in una gabbia.

«Una barriera magica!?» esclamò Dimitri. «Ma… è artificiale?»

«Non credo» ipotizzò Ujal. «Nessuna tecnologia o incantesimo sarebbe mai capace di generare una barriera di queste dimensioni. Forse è un fenomeno naturale.»

«Di certo ora sappiamo cosa ha fatto precipitare l’elicottero.» disse Nikita.

Un nuovo incantesimo di Anya fece comparire un varco nel muro, cosicché lei ed i suoi compagni furono in grado di attraversare lo scudo senza danneggiare i propri dispositivi magici.

«Vedi l’utilità di avere un mago in squadra?» scherzò Maria.

«Forza, sbrighiamoci.» ordinò il Capitano

Sfortunatamente, una volta chiuso il passaggio, anche il contatto radio con il comando di Volgorad s’interruppe, ma grazie alla trasmissione multifrequenza del segnale emesso dalla boa la squadra fu in grado di non perdere l’orientamento, incamminandosi a passo sicuro in quella desolata pianura di neve e di ghiaccio spazzata dal vento.

Avevano fatto solo pochi chilometri quando, inspiegabilmente, un nuovo segnale comparve sul radar di Dimitri, più vicino rispetto a quelli della radio-boa e del contenitore.

«Sto ricevendo qualcosa. Si direbbe un segnale di soccorso, circa mezzo miglio a sud.»

«Viene da qualche superstite dell’incidente?»

«Non direi. Non sembra generato da un segnalatore portatile.»

Occorse un’analisi più approfondita per poterne interpretare meglio l’origine, ma la risposta finale fu a tal punto sconvolgente che Dimitri dovette deglutire due volte prima di trovare la forza per enunciarla.

«Si direbbe una unità abitativa.»

Tutti si guardarono l’un l’altro, cercando di scorgere i rispettivi occhi oltre le visiere semitrasparenti dei caschi.

In altri tempi Anya non avrebbe esitato un solo istante; da soldato sapeva che gli ordini e la missione venivano prima di tutto. Eppure, non ebbe alcuna esitazione nel prendere la sua decisione.

«Raggiungiamo l’unità.»

L’affermazione provocò un comprensibile stupore tra i membri della squadra, ma nessuno di loro si sarebbe mai sognato di dubitare del giudizio del proprio Caposquadra, soprattutto se la persona in questione era un soldato affidabile come Anya.

«Sissignore.» obbedirono in coro

 

Nessuno nutriva speranze di poter trovare qualcuno ancora vivo.

A prescindere dal fatto che i generatori delle unità abitative avevano energia sufficiente per appena un paio d’anni, in un posto così estremo e inospitale era quasi impossibile che i superstiti dell’atterraggio, semmai ve ne fossero stati, potessero essere sopravvissuti così a lungo.

Le lastre metalliche, piegate e danneggiate dall’urto ma ancora fondamentalmente integre, erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, e lungo uno dei fianchi era ancora parzialmente visibile il numero dell’unità.

«Y-2801.» disse mestamente Maria.

Il portello d’emergenza sul tetto era bloccato e piegato a tal punto che Nikita, una volta salito, dovette metterci non poca forza per riuscire ad aprirlo.

Un forte odore di morte, che il freddo non riusciva malgrado tutto a coprire, giunse dall’interno, e calatosi dentro il giovane soldato si ritrovò di fronte uno scenario terrificante.

Il corpo mummificato dal freddo di una donna giaceva raggomitolato ai piedi di due capsule, una delle quali ribaltata, contenenti i resti anch’essi segnati inesorabilmente dal freddo di due creature, bambini sicuramente; indossavano ancora la tuta spaziale con le insegne russe cucite sul petto, e sulle targhette dei due bambini era ancora possibile leggerne i nomi: Alexei e Ludvika Torkov.

Probabilmente i fermi di sicurezza che sarebbero dovuti saltare via permettendo a quei due poveretti di uscire all’esterno erano rimasti al loro posto, e nel momento in cui il rifornimento di energia ai sistemi di alimentazione era venuto meno quelle che dovevano essere delle culle destinate a dormire il più profondo dei sonni si erano tramutate in bare; difficile dire se avessero avuto o meno il tempo di svegliarsi prima di venire uccisi dalla mancanza di ossigeno, ma le mani orrendamente ferite del corpo che come in un abbraccio sembrava volerli stringere a sé indicavano che quella donna aveva fatto tutto il possibile per tentare, senza riuscirci di liberarli.

Le altre capsule, tutte aperte, erano sparse un po’ dappertutto, scagliate via dai loro alloggiamenti dalla potenza dell’urto che solo in parte i propulsori direzionali d’emergenza erano riusciti ad attutire, e a prima vista non vi era traccia di altri corpi.

«Tre corpi» disse una volta tornato all’esterno. «Una donna e due bambini. Loro sono morti soffocati, la donna probabilmente di freddo.»

«E gli altri corpi?» chiese Dimitri.

«Nessuna traccia. Avranno cercato di mettersi in salvo avventurandosi in questo inferno, e il cielo sa fin dove siano riusciti ad arrivare prima di finire congelati.»

Anya sapeva che nessuno si sarebbe mai scomodato a dare una degna sepoltura a quei poveri sventurati, soprattutto in un luogo remoto e lontano da tutto come quello; pochissimi nuclei tra quelli precipitati e scoperti senza alcun superstite erano stati recuperati, e per come si stavano mettendo le cose sarebbero probabilmente passati degli anni prima che ciò potesse diventare possibile.

Così, con il silenzioso consenso dei suoi compagni, il Capitano volle dare a quei tre sventurati, e con essi anche ai loro compagni che probabilmente giacevano da qualche parte sepolti dai ghiacci eterni, un degno riposo.

La struttura era costruita in materiale ignifugo, quindi Anya, recuperata la targhetta con numero del nucleo dal portello principale, rivolse l’incantesimo di fuoco sul ghiaccio sottostante, e come questo si fu mutato in acqua la struttura iniziò rapidamente ad affondare, scomparendo nel giro di pochi secondi mentre i cinque soldati vi rivolgevano, in silenzio, il saluto.

«Avanti, proseguiamo.» disse con un filo di voce Anya poco dopo che il nucleo si fu completamente inabissato.

 

Mestamente e in silenzio la squadra si rimise in marcia, raggiungendo in poche ore l’Hind precipitato.

Il mezzo era completamente a pezzi, riverso su di un fianco, e quasi tutti i finestrini erano saltati; mancavano anche alcune pale di entrambi i rotori, altre invece erano piegate e accartocciate, segno che l’urto era stato incredibilmente violento, eppure a prima vista non sembrava esservi traccia di danni esterni che non fossero imputabili all’incidente.

Infine, la zona tutto attorno all’elicottero era coperta da una sostanza gelatinosa di colore giallastro, gommosa al contatto e molle nonostante il freddo.

«Gel da impatto.» disse Ujal sfiorandone un grumo.

«Almeno i sistemi di sicurezza si sono attivati» disse Maria. «Li ha salvati dallo schianto.»

«Ma non dal freddo.» replicò suo fratello con lo stesso tono.

Infatti, buttato uno sguardo all’interno, apparve subito chiaro che anche in quel caso non vi era nessun superstite; il gel permetteva di sopravvivere anche in caso di incidenti particolarmente gravi, ma c’era comunque un limite ai danni che era capace di assorbire. Molti degli occupati, inclusi i piloti, erano ancora seduti sulle rispettive poltrone, uccisi dalle ferite e probabilmente morti prima ancora di riprendere conoscenza; altri erano raggomitolati a terra in posizione fetale, segno che avevano tentato fino all’ultimo di resistere al freddo.

E come era prevedibile, del contenitore neanche l’ombra.

«Quattro morti da impatto, sei assiderati, quattro dispersi» riferì Maria. «Avranno tentato anche loro la sorte nella tormenta.»

«Quanto dista l’altro segnale?»

«Due miglia e mezzo, direzione sud-est.» rispose Dimitri.

«Sbrighiamoci allora. Il tempo sta peggiorando.»

E infatti, nel giro di pochi minuti, la tormenta tornò ad abbattersi con forza nel cratere, sollevando nuvole (turbini) di neve con raffiche di vento che soffiavano ad almeno ottanta chilometri orari, portando di colpo la temperatura ad una trentina di gradi sotto zero.

Anche per soldati addestrati e ben equipaggiati come loro fu difficile continuare a procedere in un ambiente così proibitivo, ma non c’era assolutamente tempo per riposare o aspettare che la tempesta si placasse; il supporto vitale in grado di assicurare l’incolumità della batteria, ed il relativo segnalatore di emergenza, avrebbero continuato a funzionare al massimo per altre sei ore, passate le quali il freddo avrebbe sicuramente disintegrato i componenti più delicati, rendendo la batteria di fatto inutilizzabile.

A un certo punto la tempesta assunse una forza tale da rendere impossibile riuscire a vedere anche solo a pochi metri di distanza, tramutando quella che doveva essere una semplice operazione di recupero in una vera e propria odissea.

Ujal, che per orientarsi nelle tormente aveva un istinto quasi animale, guidava il gruppo, saggiando il terreno a ogni passo per sincerarsi che non vi fossero pericoli.

«Questa tempesta non vuole saperne di placarsi!» urlò Anya per sovrastare il fischiare del vento. «Quanto manca per raggiungere il segnale?»

«Non riesco a capire!» urlò a sua volta Dimitri. «Dovremmo avercelo proprio davanti!»

«Forse è stato sepolto dalla neve!» ipotizzò Nikita.

Ma anche un soldato ed un esploratore infallibile come Ujal poteva incorrere in degli errori, soprattutto in un ambiente così ostile, e improvvisamente il terreno franò sotto i suoi piedi, tramutandosi in un letale scivolo che scompariva nella tormenta. Sarebbe di sicuro precipitato in qualche crepaccio profondo decine di metri se non avesse piantato con forza i pugni al suolo, arrestando immediatamente la caduta

«Cos’è, ti sei dimenticato come si cammina sulla neve?» domandò ironica Maria.

«Fai meno la spiritosa e aiutami.»

Lei allora gli porse la mano, mentre la tempesta, ancora una volta, pareva acquietarsi, lasciando finalmente spazio ad un vero accenno di sole. Ujal per poco non cadde un’altra volta quando, nell’atto di afferrare la mano di Maria, la vide allontanarsi repentina, alzandosi lentamente in piedi e fissando dinnanzi a sé con aria come inebetita assieme a tutti i suoi compagni.

«Molto divertente,  potevo rimanerci secco!» imprecò il soldato riuscendo finalmente a tornare coi piedi per terra. «Ma si può sapere che vi prende?»

Anche lui, allora, guardò verso il buco da cui era appena uscito, e anche nei suoi occhi, nello spazio di un attimo, apparve la più assoluta meraviglia.

«Oh, mio Dio.»

  
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